Credito tributario del contribuente esecutato
Nell’affermare la giurisdizione tributaria per l’accertamento del credito d’imposta pignorato, le Sezioni Unite ampliano il novero degli atti impugnabili, ma non chiariscono se avverso la dichiarazione negativa di sussistenza di detto credito debba ricorrersi necessariamente o meno. Proprio il tema dell’impugnazione “facoltativa” si impone all’attenzione dell’interprete per apprezzarne l’impatto sull’assetto del processo tributario, inducendo ad escludere tale possibilità in presenza di atti espressivi di pretese tributarie ancora “in itinere” e lasciando immaginare, al contempo, futuri ampliamenti della giurisdizione delle Commissioni.
Le Sezioni Unite della cassazione, con la sentenza del 18.2.2014, n. 3773, hanno affermato la giurisdizione del giudice tributario in ordine all’accertamento del credito d’imposta del debitore esecutato verso il terzo pignorato, ossia l’Agenzia delle Entrate1.
La premessa di tale statuizione si ravvisa nel convincimento per cui le questioni di giurisdizione sono ammissibili nel giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo, di cui all’art. 548 c.p.c. (nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa).
Infatti, secondo le Sezioni Unite, detto giudizio non ha rilevanza limitata all’azione esecutiva e conduce a una decisione che ha un duplice contenuto di accertamento: il primo, destinato ad acquisire autorità di giudicato fra le parti del rapporto obbligatorio, concernente la sussistenza e l’entità del credito del debitore esecutato (che è, quindi, litisconsorte necessario) nei riguardi del terzo pignorato e il secondo vertente sull’assoggettabilità del credito pignorato all’espropriazione forzata, rilevante nei rapporti tra il creditore procedente ed il terzo pignorato e ai fini del processo esecutivo in corso di svolgimento.
Pertanto, quanto alla prima pronuncia di accertamento, occorre individuare quale sia il giudice fornito di giurisdizione e, come tale, legittimato a rendere una sentenza suscettibile di dare luogo al giudicato sostanziale.
Nel caso, siccome il credito, negato dall’Agenzia delle Entrate con la dichiarazione ex art. 547 c.p.c., era di natura tributaria, la giurisdizione è stata attribuita al giudice tributario, ritenuto competente a decidere della relativa esistenza al cospetto di tutti i soggetti interessati, ossia del creditore procedente, del contribuente (debitore esecutato) e dell’Agenzia (terzo pignorato).
Né, proseguono le Sezioni Unite, può indurre a pervenire ad una diversa conclusione l’art. 19 d.lgs. 31.12.1992, n. 546, il quale agisce su un piano distinto rispetto a quello dell’individuazione dell’oggetto della giurisdizione delle Commissioni tributarie e, precisamente, in punto di proponibilità della domanda, sancendo quali siano gli atti «che possono – e debbono – essere oggetto di impugnazione dinanzi al giudice tributario».
Difatti, la giurisdizione tributaria è «attribuita in via esclusiva e ratione materiae, indipendentemente dal contenuto della domanda e dalla tipologia di atti emessi dall’Amministrazione finanziaria». Essenziale è che alla controversia tributaria «non sia estraneo l’esercizio del potere impositivo sussumibile nello schema potestà – soggezione, proprio del rapporto tributario».Non deve, cioè, trattarsi di una lite esclusivamente fra privati, ossia che si svolga in difetto di «un soggetto investito di potestas impositiva»2.
Quanto poi all’innesco della causa, la mancata indicazione fra gli atti impugnabili, elencati dall’art. 19, della dichiarazione negativa resa dal Fisco, quale terzo pignorato, non può precludere l’accesso alla tutela giurisdizionale. Ad avviso delle Sezioni Unite, detta dichiarazione, poiché espressione del potere impositivo, è idonea a far sorgere l’interesse ad agire, ex art. 100 c.p.c., del relativo destinatario ed è, quindi, riconducibile, in via di interpretazione estensiva, ad uno dei provvedimenti menzionati nell’art. 19.
La sentenza n. 3773/2014 rappresenta un’ulteriore tappa del percorso avviato dalla giurisprudenza di legittimità nel tracciare l’ambito della giurisdizione tributaria e nell’interpretazione della funzione assolta dall’art. 19.
Da quando la giurisdizione tributaria abbraccia le controversie afferenti «i tributi di ogni genere e specie, comunque denominati»3, si è consolidato un orientamento della Cassazione volto a considerare detta giurisdizione come esclusiva ed attribuita ratione materiae, senza che rilevino le situazioni giuridiche soggettive per le quali viene chiesta tutela e il contenuto delle domande rivolte al giudice.
Premesso che il divieto di istituire nuovi giudici speciali, ex art. 102, co. 2, Cost. (secondo la lettura che ne offre la Consulta4), non impedisce l’ampliamento della giurisdizione delle Commissioni purché sia rispettato il limite della materia tributaria, quel che conta, nel delimitare il confine con la giurisdizione del giudice ordinario, è che alla controversia non sia estraneo l’esercizio del potere impositivo.
Restano quindi assegnate al giudice ordinario le liti tra privati, seppur concernenti una prestazione tributaria, poiché appunto difetta la presenza dell’Ente dotato della potestas impositiva. Inoltre, spettano sempre a detto giudice le cause nelle quali tale Ente non sia più in grado di esercitare la rammentata potestas (come nelle azioni di adempimento promosse dal privato dopo che il Fisco abbia riconosciuto il relativo diritto di credito), oltre a quelle (di cui all’art. 2, co. 1, d.lgs. n. 546/9912) riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata successivi alla notifica della cartella di pagamento.
La giurisdizione tributaria si è espansa anche a discapito di quella amministrativa, per cui la Costituzione non contempla alcuna guarentigia, posto che la Cassazione ha ritenuto che alle Commissioni competa la cognizione delle liti sugli atti individuali, assimilabili a quelli impugnabili ex art. 19, lesivi di interessi legittimi5.
Nell’estendere la sfera giurisdizionale tributaria, la giurisprudenza si è peraltro dovuta cimentare con il predetto art. 19.
In questo precetto infatti si coglievano i limiti “interni” della giurisdizione tributaria: si riteneva cioè che, per ravvisare detta giurisdizione, dovessero applicarsi sia l’art. 2 che l’art. 19, ossia che occorresse sì una causa riguardante un tributo, ma pure che essa nascesse dall’impugnazione di uno degli atti enunciati nell’art. 196.
La pronuncia in esame (al pari di altre che l’hanno preceduta7) assegna invece un diverso ruolo all’art. 19. Si assume che esso attenga alla sola “proponibilità” della domanda giudiziale. Siccome l’avvio del processo tributario presenta una «struttura impugnatoria», tale norma, secondo le Sezioni Unite, reca il catalogo degli atti che determinano l’onere di dar corso all’azione. Ossia l’elenco degli atti che, in quanto recano il definitivo ed autoritativo assunto del Fisco circa il rapporto tributario, sono destinati a consolidarsi in difetto di contestazione. L’art. 19 si limita a enumerare quindi gli atti che comportano la «cristallizzazione della pretesa in essi contenuta», se non impugnati.
Muovendo da questo convincimento, è ragionevole che la tassatività dell’elencazione non si riferisca ai singoli atti indicati nell’art. 19, bensì alle “categorie” di provvedimenti che, in ragione degli effetti che ne discendono, può desumersi da tale enumerazione. Di modo che, in ossequio ai precetti costituzionali che assicurano il diritto di difesa del contribuente e l’effettività del prelievo impositivo e postulano che l’azione amministrativa sia corretta ed imparziale, va consentita l’interpretazione estensiva di questa norma, onde poter ricondurre alle “categorie” ivi contemplate gli atti diversi da quelli menzionati ma espressivi della medesima funzione e destinati a produrre gli stessi effetti.
L’esegesi dell’art. 19 testé tratteggiata si rivela inoltre coerente con la ricostruzione dei confini della giurisdizione tributaria, come evidenziano le Sezioni Unite. Ogni volta che un atto rechi, in via ultimativa e imperativa, una pretesa impositiva, non può negarsi la facoltà di rivolgersi al giudice tributario perché tale norma non lo annovera fra quelli impugnabili.
In altre parole, ove l’interesse ad agire sia integrato dalla notificazione al privato di un atto lesivo della sua sfera patrimoniale e del suo diritto a subire il corretto prelievo fiscale, a costui va riconosciuto il diritto di azione presso le Commissioni. E, per farlo, deve ricorrersi all’interpretazione estensiva dell’art. 19, la quale evita che si verifichi una lacuna di tutela giurisdizionale. Lacuna che si riscontrerebbe qualora il giudice ordinario declinasse la propria giurisdizione in favore di quello tributario perché la lite attiene ad un rapporto d’imposta e il giudice tributario negasse la proponibilità dell’azione in quanto l’atto opposto non è menzionato nell’art. 19.
Coerentemente con l’evidenziata latitudine della giurisdizione tributaria e la lettura offerta dall’art. 19, le Sezioni Unite non ravvisano «ragioni idonee ad impedire il riconoscimento alla dichiarazione negativa» della sussistenza del credito pignorato, resa dal Fisco, «della natura di atto costituente espressione del potere impositivo ad essa spettante». E, sebbene la sentenza non lo precisi, è agevole ricondurre la dichiarazione negativa al rifiuto espresso del rimborso di un tributo, di cui all’art. 19, lett. g): difatti, pure detta dichiarazione presenta analoghi presupposto e portata del rifiuto espresso, consistenti, segnatamente, nell’affermazione dell’insussistenza di una ragione di credito del contribuente e, per l’effetto, nel diniego di ottenere il pagamento invocato (per il rigetto dell’istanza di rimborso) e di soddisfare il creditore esecutante (per la dichiarazione negativa).
In sintesi, l’interpretazione estensiva dell’art. 19, ribadita ora dalla sentenza n. 3773, persegue lo scopo di cogliere le ulteriori fattispecie che postulano il ricorso alla giurisdizione tributaria, stante l’esistenza di atti aventi funzione ed effetti analoghi a quelli dei provvedimenti considerati da tale norma.
E ciò si impone per evitare, prima di ogni altra conseguenza, un’inaccettabile compressione del diritto di difesa del privato.
Almeno tre sono i profili problematici che la sentenza delle Sezioni Unite invita ad approfondire.
Il primo, di portata generale, riguarda il tema della cd. “facoltatività” dell’azione giurisdizionale in materia tributaria.
Il secondo concerne il riflesso della tesi della “facoltatività” dell’impugnazione nella vicenda concreta affrontata da tale pronuncia: ossia la dichiarazione negativa del credito tributario pignorato è atto da impugnarsi “necessariamente” o “facoltativamente”?
Infine, bisogna verificare se la recente riforma dell’espropriazione presso terzi, ad opera della l. 24.12.2012, n. 228, sovverta o meno l’indirizzo enunciato dalle Sezioni Unite.
Il primo aspetto non è nuovo per la giurisprudenza di legittimità.
Di recente, invero, la Cassazione ha sostenuto che è possibile una tutela “anticipata” in materia tributaria.
Per l’esattezza, sarebbe dato ricorrere contro tutti gli atti che palesino una «ben individuata pretesa tributaria», esplicitandone le ragioni di fatto e giuridiche, «senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è naturaliter preordinata, si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal d.lgs. n. 546/1992, art. 19»8.
Gli atti che esprimono tale «ben individuata pretesa tributaria» farebbero sorgere, in capo al privato, l’interesse ad agire, onde conseguire un giudicato che faccia chiarezza sulla sua posizione rispetto alla pretesa medesima. Trattandosi però di una «mera facoltà d’impugnazione», il relativo mancato esercizio «non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la pretesa tributaria in un secondo momento»9.
In sostanza, secondo questo indirizzo ermeneutico (cui la sentenza n. 3773 presta adesione), esistono atti impositivi opponibili “necessariamente”, la cui omessa contestazione comporta l’irretrattabilità della pretesa in essi recata, ed atti per i quali la proposizione del ricorso viene rimessa alla determinazione discrezionale dei relativi destinatari, di modo che la mancata impugnazione dei medesimi non fa sorgere alcuna preclusione a carico dei contribuenti, che potranno poi far valere le proprie ragioni allorché saranno raggiunti dalla notifica degli atti “obbligatoriamente” impugnabili.
In altra occasione10, abbiamo criticato tale impostazione, auspicandone l’abbandono da parte della giurisprudenza di legittimità.
Tuttavia, l’espressa condivisione che ne hanno fatto adesso le Sezioni Unite impone di misurarsi con questa interpretazione, anche al fine di prospettarne una lettura che si riveli coerente con l’assetto del giudizio tributario.
In particolare, la principale perplessità che tale orientamento suscita consiste nell’ammettere l’esperibilità di un’azione di accertamento negativo preventivo, la quale, per un verso, è estranea alle caratteristiche del processo regolato dal d.lgs. n. 546/1992 e, per l’altro, può ledere le legittime prerogative degli Enti impositori, intralciando la sollecita ed efficiente enunciazione e realizzazione delle pretese impositive.
Questa obiezione mantiene integra la propria portata ogni volta che si ammetta la “facoltà” di impugnare atti che non esprimono ancora il definitivo convincimento dell’Ente impositore sul rapporto tributario e non ne prefigurano una cogente presa di posizione.
Ogni volta, insomma, che ci si trovi in presenza di atti espressivi di pretese tributarie, per così dire, “in itinere”.
È il caso, in specie, della risposta negativa all’istanza di interpello disapplicativo, ex art. 37 bis, co. 8, d.P.R. 29.9.1973, n. 600, al quale è stata applicata la tesi sopra illustrata. Ossia di un atto che serve solo ad orientare la condotta del privato ed è privo di ogni efficacia imperativa. Di modo che la relativa impugnazione introduce senz’altro la menzionata azione di accertamento negativo preventivo.
Viceversa, laddove l’atto amministrativo esprima già un’irreversibile determinazione, seppur non «si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal d.lgs. n. 546/1992, art. 19»11, la “facoltà” dell’impugnazione può meglio conciliarsi con la struttura del processo tributario delineata dal d.lgs. n. 546/1992.
In tal caso, infatti, non si darebbe avvio ad un’azione di accertamento negativo preventivo perché la pretesa impositiva risulterebbe comunque (sebbene non formalmente) sostanzialmente enunciata.
Non si correrebbe, quindi, il rischio di intralciare o ritardare l’operato dell’Ente impositore. Si verrebbe così a configurare in termini nuovi l’interesse ad agire del privato dinanzi alle Commissioni, consistente, non più nell’eliminazione dell’atto impositivo suscettibile di divenire irretrattabile se non impugnato, bensì nell’impedire l’adozione di un provvedimento siffatto, che imporrebbe il ricorso all’Autorità giurisdizionale siccome riconducibile all’elenco dell’art. 19. L’utilità dell’azione per il contribuente consisterebbe, dunque, nell’evitargli la formalizzazione di una pretesa impositiva già compiutamente delineata.
Inoltre, tale apprezzamento dell’impostazione giurisprudenziale potrebbe giovarsi anche di un significativo riscontro di diritto positivo: l’art. 19, co. 3, allorché stabilisce che «La mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo», chiarisce come sia “facoltativa” l’impugnazione di un atto elencato nel precedente co. 1, qualora ne sia stata omessa la notificazione.
È indubbio che quello qui esposto è solo un tentativo di “armonizzare” l’indirizzo giurisprudenziale sulla “facoltatività” dell’azione con il vigente sistema processuale tributario,ma sarebbe vano – soprattutto a seguito della sentenza n. 3773 – limitarsi a rigettare in toto ciò che ormai rappresenta il “diritto vivente” in tema di regole di accesso alla tutela giurisdizionale tributaria.
Si aggiunga, in chiave prospettica, che al definitivo affermarsi della “facoltà” di avvio della lite tributaria potrebbero accompagnarsi ulteriori ampliamenti dell’ambito della giurisdizione tributaria con riguardo essenzialmente alle pretese risarcitorie direttamente connesse ad attività istruttorie illegittime, all’enunciazione di pretestuose pretese impositive, all’applicazione di indebite misure cautelari od al mancato tempestivo esercizio dell’autotutela12.
Infatti, una volta che si riconosca che l’interesse ad agire non è integrato solo dalla notifica degli atti di cui all’art. 19 e vista la tendenza “espansiva” della giurisdizione tributaria registratasi recentemente, non sorprenderebbe più di tanto l’estensione della cognizione del giudice tributario ai temi indicati, purché essi presentino uno stretto ed immediato nesso causale – in termini di accessorietà (in senso lato) e/o diretta consequenzialità – rispetto ai rapporti già devoluti alle Commissioni.
Allo stesso modo, potrebbero venire attratte alla giurisdizione tributaria le azioni, pure di natura cautelare, volte a contrastare iniziative istruttorie reputate illegittime dal contribuente: ad esse, per riprendere la sentenza n. 3773, non è «estraneo l’esercizio del potere impositivo sussumibile nello schema potestà - soggezione, proprio del rapporto tributario» poiché gli atti istruttori sono finalizzati al dispiegarsi di tale potestà. E anche qui potrebbe ravvisarsi l’evidenziato diretto nesso causale con i rapporti rimessi all’esame del giudice tributario, in quanto la soluzione di dette cause avrebbe un immediato e ineludibile riflesso sull’esercizio della potestà impositiva13.
Tali eventuali sviluppi potrebbero pure superare indenni il vaglio di costituzionalità dell’art. 102, co. 2, da cui si desume il divieto di attribuzione al giudice speciale tributario delle competenze di quello ordinario.
Ciò in virtù dello stretto nesso causale con il rapporto già rimesso all’esame del giudice tributario.
Non solo, la liceità di questi possibili ampliamenti della sfera giurisdizionale tributaria potrebbe apprezzarsi in ragione del principio costituzionale di ragionevole durata del processo, poiché al giudice della lite “principale” si attribuirebbe la cognizione della connessa causa “consequenziale” od “accessoria”, che dir si voglia, afferente le ricordate pretese risarcitorie e della parimenti connessa controversia, per dir così, “prodromica”, sugli atti istruttori illegittimi.
Non solo, la realizzazione di tale ipotetico scenario potrebbe forse rappresentare l’occasione perché il legislatore, intervenendo – come altre volte occorso – per recepire e sistematizzare le innovazioni ed integrazioni del dato normativo prodotte dalla giurisprudenza, si risolva ad un’organica revisione del processo tributario, che non potrebbe tralasciare l’ormai annosa questione della creazione di un corpo di giudici tributari “togati”, selezionati mediante pubblici concorsi e chiamati a svolgere in via esclusiva la funzione giurisdizionale in materia tributaria14.
Tanto precisato, v’è a questo punto da domandarsi se la dichiarazione negativa di sussistenza del credito erariale pignorato sia da impugnarsi “facoltativamente” o meno.
La questione merita di essere affrontata unitamente alla considerazione che merita la recente riforma dell’espropriazione presso terzi.
Non è azzardato ritenere che, prima dell’entrata in vigore del nuovo regime introdotto dalla l. n. 228/2012, la dichiarazione negativa fosse un atto “necessariamente” impugnabile dal relativo destinatario, ossia dal creditore procedente, qualora costui avesse inteso contestarla.
Inducono in tal senso le seguenti considerazioni:
a) la dichiarazione negativa non poteva che avere valenza definitiva e impegnativa per il Fisco ed era perciò espressione della relativa potestà nell’attuazione dei rapporti d’imposta, di modo che essa risultava vincolante per il soggetto cui era indirizzata;
b) ne era prospettabile, come osservato, l’assimilazione al rigetto espresso di una domanda di rimborso, atto per cui l’impugnazione è “necessaria”;
c) come riconoscono le Sezioni Unite, la controversia originante dalla sua impugnazione doveva svolgersi nel litisconsorzio necessario del creditore procedente e del debitore esecutato, oltre che del terzo pignorato, per condurre a un giudicato che accertasse l’esistenza del credito tributario, e ciò rafforza l’idea che si trattasse di un atto che “doveva” essere censurato, pena altrimenti la sua definitività.
Questo, peraltro, valeva soltanto per il creditore procedente, ossia per il destinatario della dichiarazione negativa. Infatti, l’art. 547, co. 1, c.p.c. dispone che, per i crediti diversi da quelli traenti spunto da rapporti di lavoro subordinato, la dichiarazione del terzo venga inviata al solo creditore procedente.
Ne discende che, qualora il creditore non l’avesse contestata, la dichiarazione sarebbe divenuta per costui irretrattabile,ma nessuna preclusione poteva sorgere a carico del debitore esecutato poiché costui non ne era (e non è tuttora) reso formalmente edotto.
Non poteva, quindi, ravvisarsi alcun atto “obbligatoriamente” impugnabile per il suddetto debitore, parte del rapporto tributario investito dalla dichiarazione.
A costui, piuttosto, avrebbe potuto riconoscersi la “facoltà” di impugnare la dichiarazione negativa, qualora non l’avesse fatto il creditore e ne avesse comunque avuto cognizione. Come evidenziato, è un atto che esprime il definitivo convincimento del Fisco (anche perché enunciato nel contesto del processo esecutivo), ma che non rientra fra quelli che il contribuente (nel caso, debitore esecutato) è obbligato ad opporre poiché, appunto, non ne è il destinatario e non gli viene notificato.
Oggi, il quadro è mutato.
Se sulla dichiarazione del terzo sorgono «contestazioni», l’art. 549 c.p.c. prescrive che esse siano risolte dal giudice dell’esecuzione, «compiuti i necessari accertamenti », con ordinanza, che «produce effetti ai fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione ed è impugnabile nelle forme e nei termini di cui all’articolo 617».
Pertanto, il giudizio di accertamento dell’esistenza e dell’ammontare del credito pignorato avviene in via incidentale e non conduce più a una statuizione destinata a fare stato fra le parti del rapporto15. La determinazione dell’obbligo del terzo è sottratta al giudice della cognizione ed è risolta nel processo esecutivo. Per accelerare tale ultimo giudizio, l’accertamento del giudice dell’esecuzione ha rilevanza solo endoprocedimentale.
Pur non essendo questa la sede per esporle, non poche sono le perplessità che la riforma suscita.
Si potrà anzitutto assistere ad un conflitto di pronunce fra il giudice dell’esecuzione e quello della cognizione. Si consideri altresì, nel caso nostro, che il giudice dell’esecuzione potrebbe riconoscere la spettanza del credito d’imposta negato dal Fisco; quest’ultimo dovrebbe poi agire nei riguardi del debitore esecutato per pretenderne la restituzione, con il rischio che ne consegue di veder trasformato un “credito insussistente” del contribuente in un “credito irrealizzabile” per l’Agenzia delle Entrate.
Per farla breve, sono sì comprensibili le esigenze di ridurre i tempi del processo esecutivo,ma avrebbe meritato maggiore ponderazione una scelta che presenta controindicazioni del genere di quelle testé enunciate.
Ad ogni modo, tralasciando queste considerazioni, è innegabile che, non essendo l’ordinanza ex art. 549 destinata a dar luogo al giudicato, nel processo esecutivo non può più porsi una questione di giurisdizione16, com’è avvenuto nella vicenda che ha condotto alla sentenza n. 3773.
Posto che la contestazione circa questa dichiarazione è risolta in via incidentale nel processo esecutivo, viene oggi meno l’interesse del creditore procedente ad impugnarla in sede tributaria. Sarà il giudice dell’esecuzione, con pronuncia efficace nel solo processo esecutivo, a stabilire se e in quale misura il credito pignorato sussiste. Non v’è motivo dunque perché il creditore procedente possa e debba invocare la tutela giurisdizionale offerta dalle Commissioni, come invece accadeva in passato.
Non muta, viceversa, la conclusione per il contribuente, ossia per il debitore esecutato. Per le ragioni poc’anzi esposte, costui, in difetto di notifica della dichiarazione negativa, avrà solo la “facoltà” di adire la Commissione tributaria.
In definitiva, la riforma dell’art. 549 non mette in discussione che la dichiarazione negativa rivesta «natura di atto costituente espressione del potere impositivo», come affermano le Sezioni Unite.
Viene però meno l’onere del creditore procedente di impugnarla contro l’Agenzia delle Entrate, nel necessario litisconsorzio con il debitore esecutato, innanzi al giudice tributario. A costui basterà avvalersi della tutela offerta dal giudice dell’esecuzione.
Nulla cambia, invece, per il debitore esecutato. Costui sarà “obbligato” a proporre ricorso solamente se la dichiarazione dovesse essergli ritualmente notificata dall’Amministrazione finanziaria, in quanto essa sarebbe assimilabile agli atti impugnabili “obbligatoriamente” ex art. 19. Altrimenti, in difetto di detta notifica, gli andrebbe riconosciuta lamera “facoltà” di rivolgersi al giudice tributario, qualora avesse cognizione di tale atto.
1 Per il commento a questa pronuncia, v. Tabet, G., La lunga metamorfosi della giurisdizione tributaria, in Riv. giur. trib., 2014, 465 ss. Per un’analoga presa di posizione delle Sezioni Unite, v. Cass., S.U., 29.8.1990, n. 8979.
2 L’indirizzo giurisprudenziale è unanime. Fra le pronunce più recenti, v. Cass., 11.5.2012, n. 7344.
3 V. art. 2, co. 1, d.lgs. n. 546/1992.
4 V., ad esempio, C. cost., 23.4.1998, n. 144.
5 Al giudice amministrativo restano da decidere le sole controversie sui regolamenti e sugli atti generali in materia tributaria: v. Cass., S.U., 21.3.2006, n. 6224. Inoltre, sono rimesse alla giurisdizione amministrativa le liti sugli atti individuali non riconducibili a quelli di cui all’art. 19.
6 V.Miccinesi,M., Commento all’art. 2, d.lgs. n. 546/1992, in Il nuovo processo tributario. Commentario, Baglione, T.-Menchini, S.-Miccinesi,M., a cura di,Milano, 2004, 14 ss. e Russo, P.,Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2013, 18.
7 V. Cass., S.U., 27.3.2007, n. 7388.
8 In questi termini, v. Cass., 5.10.2012, n. 17010, richiamata dalla sentenza n. 3773.
9 V., ancora, Cass., n. 17010/2012.
10 V. Pistolesi, F., L’impugnazione “facoltativa” del diniego di interpello “disapplicativo”, in Riv. trim. dir. trib., 2013, 457 ss.
11 V., nuovamente, Cass., n. 17010/2012.
12 In tal senso, v. Tabet,G., La lunga metamorfosi, cit., 468. Uno spunto nei termini indicati nel testo si coglie in Cass., S.U., 3.6.2013, n. 13899, per cui il giudice tributario può «liquidare in favore del contribuente vittorioso una somma, in via equitativa, a titolo di risarcimento dei danni patiti a causa di una pretesa impositiva “temeraria”, cioè derivante da mala fede o colpa grave».
13 Ipotizza l’assegnazione al giudice tributario delle liti indicate nel testo Marcheselli, A., Accessi, verifiche fiscali e giusto processo: una importante sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. giur. trib., 2008, 749, pur paventando la contrarietà di tale soluzione con l’art. 102, co. 2, Cost.. Pure Muleo, S., L’applicazione dell’art. 6 Cedu anche all’istruttoria tributaria a seguito della sentenza del 21 febbraio 2008 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Ravon e altri c. Francia e le ricadute sullo schema processuale vigente, in Riv. dir. trib., 2008, II, 217-218, prospetta un intervento normativo per attribuire alle Commissioni queste cause. Ove, invece, l’atto istruttorio illegittimo abbia come destinatario un terzo, va esclusa – pure nell’ipotetica prospettiva esposta nel testo – la giurisdizione tributaria: saranno competenti il giudice amministrativo o quello ordinario in ragione della situazione giuridica soggettiva (interesse legittimo o diritto soggettivo) di cui è lamentata la lesione. Conformemente, su quest’aspetto, v. Tesauro, F.,Manuale del processo tributario, Torino, 2014, 95.
14 Questo auspicio è condiviso da larga parte della dottrina: per tutti, v. Russo, P.,Manuale, cit., 15; Tabet, G., La lunga metamorfosi, cit., 467; Tesauro, F., Manuale, cit., 8-9; Giovannini, A., Giustizia civile e giustizia tributaria: gli archetipi e la riforma, in Rass. trib., 2014, 15 ss.
15 In tal senso, v. Saletti, A., Le novità dell’espropriazione presso terzi, in Judicium, 2013, 12.
16 Egualmente, v. ancora Saletti,A., Le novità, cit., 12, nt. 22.