Credito
Dal punto di vista economico un'operazione di credito si può definire come lo scambio di una prestazione attuale in moneta con la promessa di una prestazione futura: credito è quindi trasferimento di potere d'acquisto con impegno contestuale di restituzione a una scadenza futura. Il credito può anche avere per oggetto beni fisici (credito in natura), ma in un'economia monetaria tanto la prestazione iniziale quanto quella finale riguardano somme in moneta, cioè un indistinto potere d'acquisto. La stessa etimologia del termine credito rimanda al rapporto fiduciario che s'instaura tra i due soggetti dello scambio: il creditore confida nella capacità del debitore di far fronte, alla scadenza, agli impegni assunti. L'interesse è il prezzo corrisposto come contropartita della disponibilità del potere d'acquisto per la durata dell'operazione.Già da questa prima definizione emergono alcuni punti che meritano di essere approfonditi.
1. Il tempo. Ciò che contraddistingue il credito da qualsiasi altro rapporto di scambio è la distanza temporale che separa le due prestazioni. In ogni società in cui l'organizzazione materiale della produzione richiede un intervallo tra l'inizio di un'attività produttiva (acquisizione dei fattori di produzione) e la sua conclusione (vendita dei prodotti sul mercato) si realizzano le condizioni affinché il credito possa svilupparsi in forme sistematiche. La condizione preliminare è che lo scambio sia la forma prevalente di distribuzione del prodotto.
2. Il rischio. Il fatto che il tempo sia l'elemento qualificante del credito comporta che in esso sia insita una componente di rischio, cioè di mancato adempimento da parte del debitore degli impegni assunti (pagamento degli interessi e rimborso del capitale). La valutazione del 'merito di credito', cioè della capacità di rimborso del debitore, è l'elemento che qualifica la decisione di concedere il credito.
3. L'informazione. A sua volta l'accertamento del rischio presuppone la valutazione di una serie di elementi sulle caratteristiche economiche e finanziarie del debitore. La disponibilità di informazioni è quindi un elemento essenziale del rapporto di credito. In generale, l'ampiezza, l'accessibilità e la trasparenza delle informazioni disponibili sono fattori cruciali del funzionamento di un'economia creditizia.
4. Credito e moneta. Come si è detto, nelle economie monetarie, come quelle contemporanee, la moneta è il veicolo universale per il trasferimento del potere d'acquisto. Un'economia creditizia è quindi essenzialmente un'economia monetaria. Questa sostanziale identità non deve far dimenticare, da un lato, che il credito può esistere anche in un'economia non monetaria o di baratto (credito in natura) e, dall'altro, che il funzionamento di un'economia monetaria si basa sullo stretto rapporto fra credito e moneta.
Questo intreccio è dimostrato dal fatto che gran parte dei mezzi di pagamento che attualmente usiamo sono essi stessi il frutto di un'operazione di credito. L'abbandono progressivo di sistemi monetari fondati su particolari merci (oro e argento) in favore di sistemi monetari alla cui base stanno rapporti fiduciari implica un salto di qualità: la creazione dei mezzi di pagamento di un'economia avviene per il tramite di istituzioni creditizie (l'istituto di emissione, o banca centrale, e le banche). La connessione fra moneta e credito e la relazione con le altre variabili economiche è uno dei punti nodali dello sviluppo delle economie capitalistiche.
Da Adam Smith ai giorni nostri è stato spesso riconosciuto che i due fattori che hanno determinato l'affermarsi delle moderne economie sono stati l'ampliamento dei mercati e l'introduzione crescente di metodi di produzione capitalistici. La combinazione di questi processi è all'origine dell'allargamento della sfera dello scambio, tanto in senso sociale che geografico e temporale. Tale ampliamento ha aumentato a sua volta il fabbisogno di mezzi di pagamento e ha reso necessario che una quota crescente di questi derivasse da operazioni creditizie. Per rispondere a queste esigenze si sono sviluppati strumenti e istituti in grado di mobilitare le risorse: la moneta, il credito e la banca rappresentano i risultati fondamentali di questo continuo processo evolutivo.
Lo sviluppo dell'economia creditizia coincide in larga misura con la storia delle istituzioni che hanno accompagnato l'evoluzione delle economie moderne. In Occidente gli inizi possono essere fatti risalire al tramonto dell'economia curtense e alla ripresa delle correnti di traffico commerciale su lunga distanza. Dal XII secolo i mercanti, soprattutto italiani, che intrattenevano rapporti di affari nelle principali piazze commerciali del tempo si videro costretti a sviluppare le operazioni di pagamento e di credito fra una piazza e l'altra e divennero così i primi banchieri in senso moderno. L'opera tradizionale del mercante-banchiere (la negoziazione di cambiali pagabili su altra piazza e quasi sempre espresse in altra moneta) conteneva in sé un chiaro elemento di credito. Nel giro di tre secoli l'organizzazione dell'attività economica conobbe uno sviluppo fino allora sconosciuto, basato su uno stretto intreccio fra le innovazioni nel campo economico e le innovazioni istituzionali e finanziarie. Le origini della cambiale, della contabilità, dei principali contratti societari e di forme sempre più complesse di finanziamento risalgono infatti a tale epoca.Il credito si rivela uno strumento fondamentale dello sviluppo economico di questo periodo, così strettamente associato al fiorire del Rinascimento. Il banchiere-mercante (dai Bardi e Peruzzi ai Medici, per citare i casi più noti) è uno dei protagonisti principali di questo processo.
La banca in questa fase storica è un'istituzione che contribuisce a facilitare gli scambi. In quest'ottica va vista l'originale esperienza dei 'banchi di scritta' veneziani, che svilupparono la cosiddetta partita di banco (il moderno giroconto), ossia il pagamento mediante l'accredito sui libri contabili di un istituto il cui attivo era costituito da moneta metallica. I banchi sostituivano la moneta perché, salvo eccezioni e abusi, non prestavano le somme date in deposito, ma offrivano una copertura metallica integrale ai mezzi di pagamento emessi. Questa estensione è importante perché prelude alla fase storica successiva che vedrà la nascita dell'istituto di emissione.
Nel 1668 in Svezia e nel 1694 in Inghilterra (Bank of England) nascono i primi istituti di emissione. La loro caratteristica è di emettere passività rappresentate da biglietti pagabili a vista al portatore. Il biglietto si rivela subito come lo strumento ideale per aumentare la funzione di credito della banca. Coloro che domandano prestiti (il Tesoro e gli imprenditori privati) devono effettuare dei pagamenti. Per essi la soluzione più pratica è quella di farsi prestare dalla banca dei titoli di credito che, essendo al portatore ed emessi da un istituto che gode della generale fiducia, vengono universalmente accettati come mezzi di pagamento.
L'istituto di emissione concede prestiti a interesse mettendo a disposizione dei debitori mezzi di pagamento rappresentati da propri debiti infruttiferi. Esso cioè attua sistematicamente lo scambio di un credito verso i propri clienti (che non è moneta) con un proprio debito verso terzi, che è accettato come moneta.
A differenza del modello ideale di banco di scritta, la copertura aurea di biglietti non è totale, ma solo frazionaria. Nasce il cosiddetto fractional reserve banking, ossia un sistema basato su un rapporto inferiore all'unità fra la moneta metallica posseduta dalla banca come riserva e la moneta complessivamente emessa da questa sotto forma di biglietti. In questo sistema i limiti all'emissione da parte di una banca sono dati dalla fiducia che i clienti hanno nella convertibilità dei biglietti in oro, limite che si manifesta solo quando viene meno la fiducia nel biglietto medesimo come mezzo di pagamento.
L'esistenza di un'istituzione del tutto nuova comporta un mutamento strutturale delle funzioni di comportamento dei soggetti economici e, nella fattispecie, delle funzioni di domanda e di offerta di moneta. Questi mutamenti si accompagnano anche a fasi di accentuata instabilità. Le crisi di fiducia nell'Inghilterra della prima rivoluzione industriale e delle guerre napoleoniche assunsero infatti la forma di inflazione dei prezzi monetari con conseguenti squilibri nella bilancia commerciale e nei flussi internazionali di metalli preziosi. Tanto le autorità politiche quanto gli esponenti della neonata scienza economica si trovarono così di fronte a problemi di stabilità macroeconomica determinati dal credito e dall'attività di emissione delle banche.
Dopo un lungo e intenso dibattito economico, con il Bank charter act (Peel act) del 1844 venne sancito il principio del controllo sull'attività di emissione dei biglietti. Questa venne accentrata presso la Banca d'Inghilterra e ancorata alle riserve auree. D'altro canto l'esercizio ordinario del credito veniva lasciato libero da vincoli.La banca di deposito è il perno della nuova fase di sviluppo dell'economia creditizia. Il Peel act, che impose il controllo del solo istituto di emissione, diede infatti grande impulso a un tipo di istituzioni che avevano allora incominciato ad affermarsi: le banche di deposito specializzate nella concessione di crediti (normalmente nella forma di sconto di cambiali) a fronte di una raccolta basata su depositi (conti correnti utilizzabili mediante assegni). I depositi a vista, emessi da istituti considerati solvibili, venivano accettati come mezzi di pagamento.
La banca di deposito sostituisce all'antica facoltà di emettere biglietti quella di far circolare delle proprie passività che, per la fiducia di cui essa gode, divengono dei surrogati dei biglietti. Da allora le esigenze di un'economia monetaria sono fondamentalmente soddisfatte da istituzioni creditizie le cui passività a vista (i depositi) sono accettate come mezzo di pagamento. I biglietti dell'istituto di emissione rappresentano la copertura frazionaria delle passività della banca di deposito così come, per l'istituto di emissione, le riserve auree rappresentano la copertura frazionaria dei biglietti. In generale la circolazione fiduciaria, tanto dei biglietti quanto dei depositi, è riconducibile all'innesto che le banche operano di moneta di loro produzione su una base di moneta esterna, non producibile da loro, avente caratteristiche monetarie superiori. La banca, con le sue operazioni di credito, assicura la liquidità all'intera economia e rappresenta il perno del sistema creditizio nel suo complesso.
Dopo questo passaggio storico cruciale inizia una nuova fase di sviluppo delle istituzioni creditizie. In particolare, vanno segnalati due processi fondamentali. Da un lato ebbe inizio un processo di 'sofisticazione' delle strutture creditizie, caratterizzato da una progressiva diversificazione e articolazione sia degli operatori, sia degli strumenti per l'impiego del risparmio e per l'ottenimento di prestiti. Dall'altro si sviluppò il mercato finanziario, su cui le imprese potevano ottenere fondi a titolo di debito (obbligazioni) o a titolo di capitale di rischio (azioni). Questo mercato rappresenta lo sbocco naturale di una struttura capitalistica in cui l'impresa ha come modello organizzativo fondamentale la società per azioni. L'elemento comune dello sviluppo dei sistemi creditizi nei vari paesi rimane, fino ai giorni nostri, l'esistenza di un nucleo centrale, quello delle banche variamente denominate (banche di deposito, banche commerciali, aziende di credito), che sole hanno la facoltà di emettere passività a vista accettate come mezzo di pagamento.
I paesi dell'Europa continentale dovettero affrontare difficoltà più gravi di quelle dell'Inghilterra nel processo di accumulazione e finanziamento. Un sistema di banche caratterizzato da una politica di impieghi particolarmente prudente e/o concentrata sulle scadenze brevi non avrebbe infatti potuto dare una risposta adeguata: il problema fondamentale era quello del rapporto tra istituzioni creditizie e mercati dei capitali che avrebbero dovuto finanziare gli investimenti a lungo termine. Una soluzione fu la banca d'affari o istituto di credito mobiliare, ossia un'istituzione che prestava assistenza alle imprese e allo Stato in fase di collocamento dei titoli, spesso immobilizzando larga parte del proprio attivo in poche operazioni.
In Germania prima e in Italia in seguito si svilupparono le cosiddette banche miste, che alle operazioni tipiche delle banche commerciali associavano quelle delle banche d'affari fino ad assumere rilevanti partecipazioni nelle imprese. Queste istituzioni si rivelarono quasi sempre intrinsecamente instabili per l'intreccio di interessi che si creava tra finanziatori e finanziati.Le violente crisi che scossero molti sistemi finanziari nel cinquantennio che va dal 1880 al 1930 riproposero il controllo dell'attività creditizia come problema di primaria importanza. Le legislazioni di numerosi paesi industriali accolsero il principio che l'erogazione del credito era un bene da salvaguardare per la stabilità reale e monetaria: pertanto furono create apposite istituzioni preposte al controllo del funzionamento del sistema finanziario.Anche se il grado con cui sono stati applicati questi indirizzi, molto generali, varia da paese a paese, si può affermare che l'economia creditizia è un settore regolato, in cui le libere forze di mercato sono state vincolate in precise cornici istituzionali.
Le prime riflessioni in materia di credito furono originate, sul finire del XVII secolo, da un problema di ordine pratico: come far fronte alle crescenti esigenze di mezzi di circolazione richiesti dall'espansione del commercio, a fronte di un'offerta di metalli preziosi inelastica. L'aspetto propositivo si innestò sugli interrogativi suscitati dagli istituti di emissione in merito alla loro liquidità e alla loro solvibilità, nonché dalle ripercussioni sulla stabilità del sistema dei pagamenti nel suo complesso.
I pericoli erano identificati nel regime frazionario in cui operavano le banche: esse, a fronte di un deposito aureo, concedevano prestiti fruttiferi di valore multiplo emettendo biglietti. L'eventualità di dover fronteggiare una richiesta di conversione di biglietti in oro per un importo superiore alle riserve era un pericolo intrinseco a questo modo di operare. D'altra parte, era anche evidente l'impossibilità di soddisfare le esigenze del commercio unicamente con moneta metallica. Solo con operazioni creditizie si poteva 'creare' il potere d'acquisto necessario alla crescita degli scambi e dell'economia.
Fin dall'inizio risultò pure evidente che il credito generato dall'istituto di emissione poneva problemi delicati, poiché i biglietti bancari avevano una circolazione limitata al commercio interno, mentre l'oro e l'argento regolavano il commercio internazionale. L'espansione del credito aveva due effetti, l'uno di segno positivo, l'altro potenzialmente destabilizzante. Il primo consisteva nella funzione di stimolo alla crescita e all'intrapresa di progetti che sarebbero rimasti altrimenti inattivi. Il secondo, quello negativo, si ricollegava alle conseguenze di una concessione di credito eccessiva: deflusso dei metalli verso l'estero e inflazione dei prezzi, crisi di fiducia nei confronti degli istituti di emissione fino al loro dissesto.
La Ricchezza delle nazioni di Adam Smith anche in questo caso rappresenta il crocevia di teorie, riflessioni, opinioni e suggerimenti di regole politiche. Smith riteneva che il fondamento della circolazione della carta moneta risiedesse nella sua convertibilità. Non a caso la nascita dell'economia politica classica si collega con lo studio dei fenomeni creditizi, intrecciando strettamente l'analisi di tre livelli di equilibrio. A livello aziendale si tratta di stabilire quali siano le condizioni in cui la banca è sempre in grado di far fronte alle richieste di rimborso di biglietti; data la sua struttura di bilancio, si tratta perciò di stabilire fino a che punto essa può spingere la sua attività di concessione di credito e che tipo di prestiti deve concedere. L'equilibrio microeconomico della banca è a sua volta lo specchio di condizioni di equilibrio macroeconomico. Sul piano interno devono essere indagati i nessi tra la quantità di moneta che trae origine dalle operazioni di credito e il livello del reddito. Nasce cioè l'esigenza di articolare una teoria del credito che, superando le concezioni metalliste prevalenti, evidenzi i collegamenti tra credito, prezzi e crescita. Infine, il terzo livello di equilibrio riguarda i flussi commerciali internazionali e i movimenti dei capitali. La regola ottimale di gestione della banca è individuata da Smith nell'emissione di biglietti limitatamente al finanziamento del credito concesso attraverso lo sconto di effetti commerciali a breve. Questa regola pratica, detta delle cambiali reali (real bills), che per Smith ha una valenza normativa, sarà poi riformulata in termini di analisi positiva per escludere che le banche possano essere indotte a forzare la circolazione dei biglietti per finanziare attività speculative e quindi che il credito da esse concesso, in assenza di regolamentazioni, possa generare fenomeni d'instabilità.
Allo stesso tempo Smith analizza gli effetti dell'estensione dell'uso di carta moneta sul livello della produzione e quindi sulla 'ricchezza' di una nazione. La sua idea-guida nello studio dei fenomeni monetari, largamente condivisa a quel tempo, è che le esigenze del commercio in un dato periodo richiedano un ammontare determinato di mezzi di circolazione. La loro ripartizione tra moneta metallica e moneta che trae origine dal credito concesso dalle banche dipende da fattori di lungo periodo, quali lo stato di sviluppo della nazione, le abitudini di pagamento e così via. Un mutamento in tale composizione non può essere forzato dalle banche, come si è visto, ma solo assecondato. Qualora ciò si verifichi e le necessità di metalli in rapporto alla moneta fiduciaria diminuiscano, la nazione si trova ad avere un eccesso di mezzi di pagamento, che 'traboccano' nel deflusso dei metalli verso l'estero.
La scarsa fiducia nutrita da Smith nei confronti di una circolazione fondata su biglietti inconvertibili fu messa alla prova durante le guerre napoleoniche, quando la sterlina fu dichiarata inconvertibile. Il dibattito sulle cause dell'inflazione che ne seguì vide contrapposte due scuole di pensiero divenute note come la bullionista e l'antibullionista. Il più insigne rappresentante della prima fu D. Ricardo, il quale argomentò che le cause della perdita di valore della sterlina erano da ricercare nell'inconvertibilità che a sua volta derivava da un'eccessiva concessione di credito (cioè emissione di banconote) da parte degli istituti di emissione. Ciò provava che anche in regime di convertibilità l'attività di emissione doveva essere limitata per evitare squilibri esterni.
Il bullionismo risultò in parte vincente anche se la disputa si ripresentò nel mondo anglosassone nella veste di conflitto tra scuola metallica e scuola bancaria e caratterizzò gran parte delle teorizzazioni bancarie e monetarie di tutto l'Ottocento. L'analisi teorica del credito diviene così il nucleo centrale dell'analisi dell'equilibrio economico. Un'opera in particolare, quella di H. Thornton, mise in luce come "un'economia intrinsecamente esposta all'inflazione e alla disoccupazione richiedesse a un tempo vincoli di natura monetaria e gradi di libertà di natura creditizia, entrambi da rendere operanti con pragmatica fermezza" (v. Ciocca, 1983, p. 16). Le sue riflessioni rappresentano - come vedremo - oltre che le basi teoriche dell'attività delle banche centrali, uno dei contributi più significativi all'analisi degli effetti macroeconomici del credito.
Su un altro versante W. Bagehot, oltre che ribadire l'instabilità di un sistema creditizio fondato sulla minimizzazione delle riserve a fronte di debiti anche a vista, sottolineò il contributo di un sistema creditizio avanzato allo sviluppo di lungo periodo del sistema economico; in particolare egli pose in evidenza come il sistema creditizio inglese fornisse un enorme vantaggio all'industria inglese rispetto alla concorrenza: "Questa organizzazione efficiente e prontissima ci dà enorme vantaggio nella concorrenza con paesi meno progrediti, s'intende meno progrediti sotto lo speciale punto di vista del credito" (v. Bagehot, 1873).
Con la rivoluzione marginalista s'impose una visione che radicalizzava la dicotomia fra economia reale e fenomeni finanziari. La moneta e il credito furono rappresentati come fenomeni di attrito in un sistema di forze che trovano naturalmente il loro equilibrio. Sia la teoria walrasiana che quella mengeriana si articolano su uno schema di un'economia di baratto e la determinazione dei valori relativi, il loro scopo precipuo, avviene come se la moneta e il credito non esistessero.
K. Wicksell concentrò la sua attenzione sul funzionamento delle banche e della borsa, ponendo per primo l'accento sul fatto che compito di entrambe le istituzioni è quello di conciliare le necessità di finanziamento a lunga scadenza degli investitori con le esigenze di liquidità dei risparmiatori. La trattazione wickselliana dei problemi del credito è strettamente funzionale all'analisi della velocità di circolazione della moneta. L'obiettivo era quello di affrontare uno dei punti chiave della teoria quantitativa: il meccanismo di trasmissione che da un aumento della quantità di moneta porta a un aumento dei prezzi. La teoria wickselliana delle fluttuazioni economiche si fonda sugli effetti di una divergenza tra il tasso sui prestiti bancari e il tasso di interesse naturale, concetto questo riconducibile al prodotto marginale del capitale fisico. Un incremento della quantità di moneta aurea nel sistema determina una maggiore disponibilità di credito per le banche che operano in un sistema a riserva frazionaria. Per allocare tale credito addizionale le banche riducono il tasso di interesse monetario, che - se la situazione fosse di equilibrio - coinciderebbe con il tasso naturale. Le imprese reagiscono aumentando la domanda di beni di investimento e in un secondo tempo l'accresciuta domanda si trasmette al settore dei beni di consumo. L'eccesso generalizzato di domanda comporta, in un'economia chiusa, l'incremento generalizzato dei prezzi. Il rientro dall'inflazione è garantito dall'impossibilità delle banche di finanziarla, in quanto la riserva frazionaria agisce da tetto all'espansione del credito. Il sentiero dinamico su cui si colloca l'economia reale durante un simile ciclo dei prezzi può avere carattere sussultorio.
La teoria della crescita ciclica del capitalismo di J. A. Schumpeter, che, come è noto, ha come perno l'ipotesi di ondate di innovazioni che investono un sistema in stato di riproduzione circolare, assegna un posto di grande rilievo al credito. L'imprenditore-innovatore, che per realizzare i suoi piani necessita di potere d'acquisto per distogliere risorse dagli impieghi tradizionali, trova nella creazione di liquidità attuata dalle banche la condizione essenziale per attivare gli investimenti richiesti dall'innovazione.
Sul rapporto tra credito e sviluppo sono stati condotti importanti studi anche nella tradizione marxista. Sebbene Marx non si discosti per molti versi dalle teorie inglesi classiche in materia di moneta e credito, la sua visione dinamica del capitalismo gli permette di cogliere due importanti aspetti delle potenzialità del credito. Il primo è l'effetto di sostegno temporaneo alla domanda che esso può offrire nelle crisi di realizzo, il secondo è la separazione tra proprietà dei capitali e attività capitalistica che tanto le banche quanto i mercati azionari rendono possibile. Queste idee furono sviluppate, a partire dall'esperienza dell'industrializzazione tedesca, da R. Hilferding, il quale identificò due tendenze evolutive del capitalismo avanzato: la progressiva trasformazione del credito da finanziamento del capitale circolante a finanziamento consolidato di lungo periodo e il conseguente ruolo di controllo delle banche sulle imprese industriali. Il capitalismo si sviluppa, secondo Hilferding, con la costituzione di conglomerati monopolistici controllati dal 'capitale finanziario'.
Le vicende monetarie successive alla prima guerra mondiale e ancor più la grande crisi del 1929 riportarono in auge considerazioni di carattere istituzionale. J. M. Keynes e la scuola di Cambridge in Inghilterra, I. Fisher negli Stati Uniti, E. R. Lindahl e la scuola di Stoccolma in Svezia (in Italia la voce quasi isolata di P. Sraffa) manifestarono seri dubbi sulla tendenza naturale all'equilibrio di piena occupazione e misero in evidenza che per studiare il ciclo economico occorreva affrontare l'analisi delle caratteristiche e del comportamento delle istituzioni creditizie. Il credito, in quanto fonte di liquidità del sistema, era nella visione che si andava consolidando una variabile strategica di controllo anticiclico dell'economia. I meccanismi di trasmissione delle perturbazioni dalla moneta al credito, e quindi ai prezzi, fino alla pubblicazione della General theory di J. M. Keynes, nel 1936, vennero filtrati attraverso la teoria quantitativa, seppure con molta enfasi sui processi dinamici di aggiustamento.
Con la General theory tale schema venne abbandonato, come pure l'idea che le forze di mercato spingano inevitabilmente verso un equilibrio di piena occupazione. Nel nuovo schema teorico, o almeno nella versione di esso che finì per affermarsi fino a diventare l'ortodossia macroeconomica, il tasso di interesse è una variabile determinata sul mercato monetario dall'offerta di moneta e dalla preferenza per la liquidità (domanda di moneta), quindi sensibile ai comportamenti speculativi degli operatori. L'offerta di moneta influenza il livello dei prezzi e dell'attività economica solo attraverso gli effetti che le variazioni del tasso d'interesse esercitano sul rendimento prospettico degli investimenti.
La teoria economica del credito, per altri aspetti, tra gli anni venti e gli anni trenta ebbe importanti sviluppi. Un articolo di W. F. Crick (v., 1927) mise fine a una lunga controversia tra banchieri ed economisti sulla relazione fra credito e depositi. A partire da alcuni parametri di comportamento del pubblico (rapporto fra riserve di moneta della banca centrale e depositi), si dimostra che il sistema bancario 'crea' moneta e quindi credito sulla base della moneta emessa dalla banca centrale. J. Hicks (v., 1935) in un famoso articolo propose di riformulare la teoria della domanda di moneta secondo lo schema della teoria neoclassica della domanda di un qualsiasi bene. Nel medesimo lavoro sono contenute numerose anticipazioni della teoria delle scelte di portafoglio (v. Tobin, 1958; v. Markovitz, 1959) elaborata poi nel dopoguerra.
Il concetto chiave di questa teoria è che gli agenti economici formulano le loro decisioni d'investimento finanziario su una gamma di attività caratterizzate da diverso rendimento, crescente con il rischio. Ogni operatore massimizza il rendimento atteso a partire dalle sue preferenze che comprendono la propensione al rischio. Con l'approccio di Tobin la teoria delle scelte di portafoglio viene incorporata nell'analisi economica generale e nello studio dei problemi creditizi in particolare.La teoria delle scelte di portafoglio non è solo una tecnica per realizzare la combinazione ottimale rischio/rendimento di un insieme di attività finanziarie, ma uno strumento analitico per analizzare il comportamento degli operatori economici. Il comportamento del pubblico e delle banche è riconducibile alla redistribuzione della ricchezza fra le varie attività finanziarie.In particolare, l'introduzione di rapporti di sostituibilità imperfetta assunta da Tobin conferisce un notevole rilievo agli intermediari creditizi e impedisce di vedere nel processo di moltiplicazione del credito un processo meccanico a coefficienti fissi. Il comportamento del pubblico e quello di banche e intermediari creditizi divengono quindi fondamentali nel determinare la quantità di moneta.Ipotesi opposte si formulano invece nell'approccio monetarista di M. Friedman, che attribuisce pertanto un ruolo relativamente secondario al funzionamento degli intermediari creditizi.
Se la teoria delle scelte di portafoglio costituisce il corrispettivo della teoria del consumatore o dell'impresa nell'analisi di equilibrio parziale, le teorie dei mercati finanziari sono il corrispettivo della teoria dell'equilibrio economico generale. La rete dei rapporti creditizi su cui si basano le moderne economie viene ricondotta, dal punto di vista analitico, a una serie di rapporti omogenei. Come si afferma nell'opera fondamentale di Gurley e Shaw (v., 1960), il modo logico di studiare i rapporti creditizi per un economista consiste nel considerarli come un problema di mercato. In particolare, "egli dovrebbe poter precisare i fattori che determinano la domanda di ciascun mezzo finanziario e i fattori che determinano l'offerta di esso". Nei modelli di equilibrio dei mercati finanziari i tassi d'interesse sono determinati dalle funzioni di domanda e offerta di attività da parte di un numero estremamente elevato di operatori che si comportano come price takers. A livello aggregato, le grandezze degli stocks di attività che si ottengono come soluzioni delle equazioni di un modello sono funzioni dell'intero spettro dei saggi di interesse.
Sul versante della storia istituzionale occorre segnalare l'approccio comparativo e di lungo periodo (v. Goldsmith, 1969). Le ricerche che si collegano a questo filone hanno messo in luce alcuni fatti tipici dell'evoluzione dei sistemi creditizi nel corso dello sviluppo del capitalismo. Lo schema di Goldsmith è uno schema interpretativo-contabile che riduce a un numero ristretto di variabili le più importanti caratteristiche della struttura creditizia di un paese. In particolare le ricerche empiriche svolte hanno evidenziato: a) una tendenza alla crescita del rapporto tra attività finanziarie e reddito; b) una crescita proporzionalmente maggiore delle attività emesse dagli intermediari finanziari rispetto a quelle emesse dal sistema bancario; c) una progressiva estensione della gamma di strumenti finanziari e di intermediari creditizi.Alcuni di questi fenomeni possono inquadrarsi teoricamente nello schema appena ricordato di Tobin e di Gurley e Shaw. Il peso delle banche commerciali è ridotto dalla concorrenza di nuovi intermediari che inducono gli operatori a sostituire nel proprio portafoglio depositi bancari e altre attività. La banca è vista come un intermediario tra i tanti, pur conservando l'unicità della funzione monetaria e quindi il suo ruolo peculiare di fonte di liquidità per il sistema.L'approccio statistico-quantitativo di Goldsmith è stato applicato nello studio di numerose realtà nazionali, fra le quali anche l'Italia (v. Biscaini e Ciocca, 1979; v. Della Torre, 1984).
In una linea di indagine diversa si collocano gli studi di lungo periodo sui sistemi creditizi incentrati sulla relazione causale tra sviluppo delle istituzioni creditizie e sviluppo economico. Un importante filone riguarda il processo di prima industrializzazione nei principali paesi fra l'Ottocento e i primi del Novecento (v. Cameron, 1975; v. Gerschenkron, 1962). Pur non essendo stato identificato un nesso causale ben definito, il decollo economico dei paesi a più tarda industrializzazione, come l'Italia, è stato caratterizzato dalla presenza di istituti con un ampio raggio d'azione sia nel finanziamento di breve che in quello di medio-lungo periodo, come la banca mista. Infine occorre ricordare la vasta letteratura sulla storia delle crisi finanziarie e quindi sull'instabilità connessa ai fenomeni speculativi. In questo ambito le ricostruzioni storiche (v. Kindleberger, 1978) trovano un naturale correlato teorico nelle analisi basate su modelli di tipo keynesiano (v. Minsky, 1982).
In quanto trasferimento di potere d'acquisto, il credito consente a ciascun individuo di rendere indipendente la propria spesa dal reddito corrente. In un intervallo di tempo scelto come unità, le risorse di cui un soggetto dispone sono date dalle entrate correnti (prescindendo, in prima approssimazione, dalla possibilità di vendere attività - reali o finanziarie - accumulate e dal rimborso di debiti). La differenza fra le entrate correnti e la spesa corrente è il risparmio (nel senso macroeconomico), cioè il saldo del conto che registra le operazioni di 'competenza' di ciascun periodo (che corrisponde al conto economico della contabilità aziendale). Questo saldo, per il principio della partita doppia, affluisce a un conto in cui vengono registrate le attività e le passività in essere. Al risparmio (aumento del patrimonio dell'operatore) si contrappongono gli investimenti dello stesso periodo (aumento delle attività reali, cioè del capitale fisico). Ne segue che ciascun operatore può avere uno sbilancio fra il proprio risparmio e il proprio investimento. Questo sbilancio viene definito come saldo finanziario.
Si definiscono come operatori in surplus quelli che hanno un saldo finanziario positivo (risparmio superiore all'investimento) e operatori in deficit quelli che si trovano nella condizione opposta. Poiché ogni bilancio è per definizione in pareggio, i surplus e i deficit avranno come contropartita variazioni delle attività e passività finanziarie. Gli operatori in surplus accumulano attività finanziarie, e sono quindi definiti come prestatori finali di fondi. Gli operatori in deficit emettono passività finanziarie e sono definiti come debitori finali.
In questa visione, che è alla base della contabilità finanziaria e del suo collegamento con la contabilità reale, risulta evidente come le operazioni di credito consentano di saldare il circuito di distribuzione del reddito e di spesa, mediante la creazione di attività e passività finanziarie. A livello macroeconomico si realizza il collegamento fra risparmio e investimenti. Il concetto di saldo finanziario rende immediatamente evidente l'interdipendenza fra accumulazione reale e accumulazione finanziaria. Se il risparmio supera gli investimenti, per ciascun operatore le attività finanziarie acquisite superano le passività finanziarie. Ciò sta a significare che una parte del risparmio ha preferito forme finanziarie che escludono la sua trasformazione in capitale reale. Un saldo negativo indica invece che gli investimenti vengono effettuati anche se la fonte di finanziamento interna (il risparmio) non è sufficiente a tale scopo.
Naturalmente il saldo finanziario deve essere letto come dato ex post, risultante da identità contabili. Ad esempio, un saldo finanziario positivo non deve essere interpretato univocamente, nel senso che abbia reso 'disponibili' i finanziamenti agli altri settori. Esso è semplicemente la contropartita contabile di quei finanziamenti. Sono le decisioni di spesa del singolo individuo che, interagendo con le decisioni di indebitamento degli altri operatori, determinano il segno e la misura del saldo finanziario positivo.
Nella contabilità finanziaria gli operatori vengono raggruppati per comportamenti omogenei dal punto di vista finanziario. L'uso del concetto di 'settore istituzionale' ci consente di dare un'immagine complessiva del comportamento dei vari operatori per quanto concerne le variabili creditizie. Questo consente di rilevare quali sono i settori tradizionalmente in surplus (normalmente le famiglie) e quali sono i settori in deficit (tipicamente le imprese e il settore pubblico). Il saldo finanziario dell'estero corrisponde al saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti.In definitiva, la contabilità finanziaria permette di rilevare i nessi strutturali di un sistema finanziario e mette in evidenza il ruolo dei vari intermediari creditizi nel trasferire le risorse dai creditori finali ai debitori finali. Ciò significa che è possibile valutare l'attività degli intermediari sia da un punto di vista quantitativo (cioè riferendosi al volume di risorse finanziarie 'trasferite' da un settore all'altro), sia da un punto di vista qualitativo. In questo senso ci si riferisce al lavoro svolto dagli intermediari per conciliare le preferenze nella composizione delle attività manifestate dagli operatori in surplus con le esigenze di finanziamento degli utilizzatori.
Il collegamento fra operatori in surplus e operatori in deficit può avvenire in due modi. Da un lato, direttamente tramite rapporti creditizi (primary securities, come sono definiti da Gurley e Shaw), ad esempio con il collocamento presso le famiglie di azioni e obbligazioni emesse da imprese o di titoli emessi dallo Stato; dall'altro, per il tramite di operatori specializzati che si interpongono tra i prestatori finali e i debitori finali: gli intermediari finanziari. A questa distinzione se ne accompagna un'altra che riguarda più propriamente i mercati. Si definiscono mercati diretti (negotiated loan markets) quelli in cui le condizioni del prestito sono negoziate direttamente tra i due operatori, e mercati aperti quelli in cui vengono scambiati, secondo regole prefissate, titoli standardizzati in grandi quantità, dando luogo a quotazioni ufficiali. Anche se la corrispondenza non è precisa, si può affermare che gran parte dei rapporti creditizi primari sono regolati su mercati aperti, mentre una parte rilevante dei fondi intermediati da specifici istituti, in particolare dalle banche, segue la via del rapporto negoziale.
Compito degli intermediari finanziari è di conciliare le preferenze di composizione del portafoglio delle unità in surplus con le scelte di indebitamento delle unità in disavanzo. Come si è visto, la quota di finanziamento intermediata dalle istituzioni creditizie cresce, nel suo complesso, con lo sviluppo economico e, contemporaneamente, si assiste a un ampliamento delle tipologie degli operatori esistenti. Vi sono almeno tre motivi che contribuiscono a spiegare l'esistenza degli intermediari e la loro preminenza rispetto ai rapporti diretti fra creditori e debitori finali. Il primo riguarda il rischio del credito, che in ultima analisi è identificabile con il rischio fondamentale dell'attività economica, vale a dire la possibilità di inadempienza o d'insolvenza del debitore. La capacità di valutare correttamente i flussi di reddito futuri di un operatore in disavanzo richiede informazioni e competenze disponibili molto più facilmente a chi concede credito in modo continuativo e professionale. In secondo luogo gli intermediari operano su una 'scala di produzione' che consente di superare la soglia minima, spesso inaccessibile per le singole unità in surplus, oltre la quale è possibile minimizzare i rischi mediante una diversificazione del portafoglio. Questo comporta che attività di investimento più rischiose, e quindi potenzialmente più innovative, possano trovare finanziamento a un costo minore in un sistema con un'articolata struttura di intermediari, piuttosto che in uno con prevalenza di titoli primari. È ovvio che questo tipo di considerazioni rinvia implicitamente all'ipotesi che le informazioni non siano distribuite in modo uniforme all'interno dei mercati e che quindi manchino le condizioni per mercati efficienti e perfettamente concorrenziali.
Il terzo fattore riguarda le diverse esigenze quantitative e qualitative delle unità in surplus e delle unità in deficit, soprattutto per quanto riguarda la scadenza e le dimensioni delle singole operazioni. Le unità in avanzo sono tendenzialmente disposte a impegnare i loro saldi finanziari in attività a breve termine considerate meno rischiose, mentre le imprese richiedono un indebitamento a lungo termine per far fronte agli investimenti. Gli intermediari operano una trasformazione delle scadenze per conciliare queste diverse necessità e allo stesso tempo permettono agli operatori una più ampia facoltà di scelta rispetto alle dimensioni delle singole operazioni di finanziamento.
La posizione degli intermediari finanziari nel collegamento tra le scelte degli operatori perde molto della sua nitidezza qualora si considerino le forme di mercato. Da un punto di vista microeconomico un intermediario è un operatore che agisce su più mercati, trasformando scadenze e rischi con l'obiettivo di massimizzare la redditività. I mercati creditizi diretti, basati sul contatto diretto tra richiedente e offerente, sono per loro stessa natura segmentati, per ragioni di mobilità interna e per l'esistenza di barriere all'entrata di varia natura, dal lato della domanda e dell'offerta; come conseguenza, la quantità e la qualità del credito risultano influenzate dai comportamenti degli intermediari e quindi dalle loro politiche di mercato. Dalla teoria della concorrenza monopolistica è possibile dedurre alcune tendenze comportamentali di fondo. La segmentazione dipende dalla percezione del grado di 'differenziazione' del prodotto da parte degli utenti, dall'esistenza di prodotti succedanei e dalla mobilità della domanda e dell'offerta. La segmentazione pone l'intermediario nella condizione di oligopolista nella maggior parte dei mercati diretti su cui opera e gli consente di adottare processi di discriminazione dei prezzi fra i mercati in funzione del suo obiettivo di massimizzazione del profitto.Il mercato creditizio può essere cioè definito come l'insieme degli operatori economici (tutti i compratori e i venditori) che influiscono sulle condizioni della funzione di domanda e di offerta determinando il prezzo, la qualità e la quantità del credito scambiato. La struttura del mercato (definita dal numero di offerenti e dal loro grado di concentrazione) determina il grado di concorrenza, che per le ipotesi fatte sulla segmentazione non è mai perfetta.La struttura del mercato assume, secondo importanti approcci analitici (v. Gilbert, 1984), un peso rilevante nel determinare le condizioni operative dei singoli intermediari e in particolare le condizioni di efficienza tecnico-operativa e allocativa. L'ipotesi di fondo è che l'aumento del grado di concorrenza conduca gli intermediari e il sistema nel suo complesso a un livello più alto di efficienza.
Nell'economia degli intermediari finanziari l'elemento cruciale è costituito dalla loro funzione di assicurazione e redistribuzione dei rischi. Il rischio fondamentale è quello di credito, collegato cioè alla capacità del debitore di pagare gli interessi e di rimborsare il capitale. A questo rischio se ne aggiungono altri, tutti idealmente riconducibili all'attività di intermediazione. Il bilancio degli intermediari è per sua natura asimmetrico in termini finanziari, con una scadenza media delle attività superiore alla scadenza media delle passività. Ciò determina un rischio derivante dalla possibilità di perdite dovute agli sfasamenti nelle scadenze tra attività e passività e di liquidazione di attività o trasferimento di passività in condizioni di mercato avverso per far fronte a un urgente fabbisogno di liquidità.
Un ulteriore tipo di rischio sopportato dagli intermediari finanziari è riconducibile alla peculiarità delle voci attive e passive dei loro bilanci: esse sono sensibili in diversa misura alle variazioni di valore della moneta e del tasso di interesse corrente. Il rischio monetario concerne le variazioni di valore delle poste di bilancio derivanti dall'inflazione. Il secondo tipo di rischio concerne la probabilità che variazioni nei tassi d'interesse influenzino il valore di mercato delle attività. A differenza del rischio di credito, il rischio 'di interesse' dipende dalla variabilità dei tassi e non dalle caratteristiche dei debitori o del contratto creditizio.
Analogamente le banche, poiché possono realizzare una trasformazione per valute (avere cioè una posizione netta in valute estere positiva o negativa), sono esposte al rischio di cambio.Per quanto riguarda l'attività internazionale, si aggiunge il 'rischio-paese', che a sua volta può assumere due aspetti diversi. L'uno è il rischio di credito tradizionale, l'altro si collega all'evenienza di difficoltà valutarie, ossia ai problemi che i debitori di un dato paese, di per sé solvibili, incontrano nell'acquisire le divise necessarie per regolare i loro impegni alla scadenza stabilita. Nel corso degli anni ottanta, per alcune grandi banche, questi tipi di rischio si sono manifestati su larga scala a fronte di massicci prestiti forniti in precedenza a numerosi paesi in via di sviluppo.
Un altro insieme di rischi investe quei rapporti che non implicano un impegno diretto dell'intermediario quando vengono posti in essere, ma solo in seguito. Si tratta dei cosiddetti rischi di 'chiamata' per impegni relativi, ad esempio, ai crediti di firma e alle operazioni sui cambi. L'importanza di questa categoria di rischi si è accresciuta progressivamente con l'evoluzione degli ultimi anni, che ha portato gli intermediari a fornire una gamma articolata di facilitazioni che vanno oltre la semplice erogazione del credito. Infine vi sono i rischi inerenti alle innovazioni finanziarie. La creazione a ritmi crescenti di nuovi strumenti creditizi può comportare un ritardo da parte del mercato nel valutare l'insieme di rischi nuovi e vecchi a essi connessi, e quindi nel riflettere nel prezzo tali caratteristiche (v. Bank for International Settlements, 1986).
I brevi richiami storici precedenti hanno messo in evidenza una prima distinzione fondamentale fra la banca centrale, le banche commerciali o di deposito (le cui passività sono accettate come mezzo di pagamento) e gli altri intermediari. L'evoluzione economica ha portato a un aumento delle esigenze finanziarie complessive e a una crescente differenziazione delle esigenze delle unità in surplus da un lato e di quelle in deficit dall'altro. Ciò ha esteso la gamma degli strumenti finanziari disponibili e quindi degli intermediari esistenti.Gli intermediari bancari sono una categoria molto ampia, all'interno della quale si possono individuare diverse tipologie.
1. Intermediari per la raccolta capillare di risparmio: in Italia questa funzione è svolta direttamente dalle aziende di credito - e in particolare da alcune di esse - mentre in altri paesi, e in particolare in quelli anglosassoni, è svolta da istituzioni diverse dalle banche, dette thrift institutions, che si dedicano fondamentalmente alla concessione di prestiti all'edilizia o al settore famiglie.
2. Intermediari di tipo creditizio, vale a dire intermediari che non svolgono un'attività di raccolta presso il pubblico, ma si dedicano a forme specializzate di finanziamento come leasing, factoring, ecc., utilizzando fondi ottenuti da banche o sul mercato monetario.
3. Intermediari a medio termine, specializzati nella raccolta del risparmio a non breve scadenza e nella concessione di finanziamenti a lungo termine alle imprese, all'edilizia, ecc. Tale specializzazione, come nel caso italiano degli istituti di credito speciale, deriva normalmente dall'ordinamento creditizio.
4. Investitori istituzionali, vale a dire operatori (fondi comuni di investimento, fondi pensione, società di assicurazione) che raccolgono risparmio dal pubblico in varie forme tecniche, per impiegarlo essenzialmente sul mercato mobiliare.
5. Operatori che consentono le negoziazioni sui mercati finanziari. In molti casi questi operatori non svolgono una vera e propria funzione di intermediazione e agiscono da puro trait d'union fra domanda e offerta (brokers e agenti di cambio dell'ordinamento italiano), ma in altri casi essi assumono una posizione in proprio e quindi si pongono come veri intermediari del mercato (è il caso anglosassone del dealer).
6. Operatori che offrono servizi di consulenza finanziaria. I mercati finanziari potenzialmente sono stati creati per mettere direttamente a contatto la domanda e l'offerta di titoli. Perché questo avvenga, occorre però che esista anche un'ampia gamma di intermediari e di operatori specializzati. Gli istituti come le merchant banks inglesi o le investment banks statunitensi offrono alle imprese assistenza nel collocamento dei titoli, nelle operazioni di acquisizione e fusione, nella quotazione in borsa e nell'assunzione temporanea di capitale di partecipazione in attesa di successivi collocamenti; essi offrono infine consulenza agli investitori istituzionali e agli altri operatori di gestione fiduciaria dei portafogli.
Il sistema creditizio è definito da un lato dal volume e dalla composizione degli strumenti finanziari, dall'altro dai modi di funzionamento dei mercati e, in particolare, dal bilanciamento fra mercati diretti e intermediari finanziari.Si è già detto dei contributi teorici in materia di analisi dei nessi fra la struttura creditizia e quella reale, fra finanza e sviluppo. In particolare, occorre identificare quali siano i connotati di una struttura creditizia ottimale e quindi quali siano i criteri in base ai quali definire l'efficienza di un sistema finanziario.La teoria economica ci porta a individuare almeno tre definizioni di efficienza (v. Tobin, 1984).
1. Efficienza informativa: in base a questo approccio, sviluppato soprattutto con riferimento ai mercati dei capitali (v. Fama, 1976), un mercato si dice efficiente nel determinare i prezzi se questi riflettono pienamente tutte le informazioni disponibili. In un mercato efficiente, secondo questo significato, è impossibile ottenere profitti dall'attività di acquisto e di vendita di titoli sulla base dell'informazione disponibile.
2. Efficienza valutativa: il mercato si dice efficiente se i prezzi rispecchiano i valori economici fondamentali, in particolare il prezzo di un titolo deve eguagliare il valore attuale di tutti gli incassi futuri previsti per quel titolo.
3. Efficienza tecnico-operativa: con questo concetto si fa riferimento alla capacità dei singoli intermediari di realizzare un rapporto ottimale fra costi unitari e livelli di produzione. In particolare, l'efficienza tecnico-operativa va intesa come la capacità dell'intermediario di scegliere la migliore combinazione di fattori produttivi per raggiungere un determinato obiettivo in termini di volume di attività, o di massimizzare quest'ultima variabile per un insieme dato di fattori.Applicate all'intero sistema finanziario, queste nozioni di efficienza nel loro insieme determinano il grado di efficienza allocativa, ossia della capacità di destinare i flussi di risparmio ai progetti d'investimento più redditizi per la collettività.
Una valutazione complessiva e comparata, in termini di efficienza, di un sistema a prevalenza di finanziamento attraverso il mercato e uno a prevalenza di finanziamento attraverso intermediari non porta, né in sede storica, né in sede teorica, a conclusioni definitive. In quest'ultimo ambito si contrappongono due visioni. La prima, di stampo neoclassico, tende ad assimilare i mercati finanziari a quelli ideali della concorrenza perfetta, in cui i prezzi sono i migliori allocatori delle risorse. L'altra, keynesiana, riconduce proprio alle caratteristiche assunte dai mercati più sviluppati e 'perfetti' l'impossibilità di svolgere la funzione allocatrice, enfatizzandone l'intrinseca natura speculativa (v. Nardozzi, 1986).
Per gli intermediari, oltre ai problemi legati alla struttura concorrenziale in cui operano, l'efficienza allocativa può essere garantita dalla loro neutralità ex ante rispetto ai creditori e quindi a tutti i possibili progetti d'investimento. Questo equivale a riaffermare il principio della 'separatezza' tra finanziatore e finanziato, cioè in definitiva tra banca e impresa. Per usare le parole del governatore Ciampi, "nell'economia moderna [...] alla realizzazione degli investimenti concorrono due volontà distinte: una, di natura produttiva, di compiere la spesa, l'altra, di natura finanziaria, di fornire i mezzi necessari. L'autonomia dei due momenti è salvaguardia dell'uso efficiente delle risorse" (v. Banca d'Italia, 1979).
Le moderne banche centrali si sono formate sul ceppo degli antichi istituti di emissione e hanno aggiunto gradualmente alla loro originaria natura bancaria quella di autorità monetaria, cioè di istituzione che concorre a realizzare il governo della moneta, del credito e quindi dell'economia. Le operazioni che vengono svolte da queste istituzioni hanno come contropartita tre categorie di operatori (essendo venute a cadere le operazioni con la clientela privata), che corrispondono ad altrettante funzioni specifiche: banca delle banche, banca del Tesoro e organo di accentramento e gestione delle riserve valutarie. A queste funzioni corrispondono anche le principali voci che compongono il bilancio della banca centrale; al passivo: biglietti in circolazione, debiti verso banche (liberi e per riserva obbligatoria) e patrimonio; all'attivo: crediti verso il Tesoro, riserve ufficiali e finanziamenti a banche. Poiché le passività del bilancio identificano i canali di creazione della base monetaria, risulta evidente il collegamento con le finalità di politica monetaria che, come si è detto, la banca centrale ha finito ovunque per acquisire. Alla politica monetaria corrispondono gli obiettivi tradizionali delle politiche di stabilizzazione, e cioè il pieno impiego dei fattori produttivi, la crescita del capitale reale, il contenimento della dinamica dei prezzi e l'equilibrio della bilancia dei pagamenti. La regolazione della quantità di moneta e dei tassi d'interesse e provvedimenti di natura amministrativa, quali le variazioni del coefficiente di riserva obbligatoria o l'imposizione di vincoli su determinate operazioni creditizie, sono gli strumenti di cui la banca centrale si avvale per perseguire questi scopi.
Il primo riconoscimento dell'importanza della funzione della banca di emissione come centro della politica monetaria è dovuto al banchiere ed economista inglese H. Thornton, che agli inizi del XIX secolo, in una pagina definita da Schumpeter la magna charta del central banking, delineò i compiti della Bank of England quale regolatore della liquidità delle altre banche e per questa via della liquidità del sistema. Nonostante Thornton fosse uno dei principali estensori del Bullion report, il testo fondamentale della scuola bullionistica e della scuola metallica, attribuì grande rilievo all'attività discrezionale della banca centrale, la quale doveva calibrare le proprie operazioni in funzione degli equilibri di breve e lungo periodo dell'economia. Gran parte del dibattito sulla natura della politica monetaria si è poi sviluppata su questo specifico punto. Da un lato, monetarismi vecchi e nuovi propongono modelli di intervento della banca centrale secondo schemi di natura meccanicistica improntati a regole fisse, nella convinzione che il mercato sia in grado di autoregolarsi una volta che possa prevedere accuratamente la liquidità cui ha accesso. Dall'altro, importanti filoni di pensiero, non sempre omogenei, sottolineano gli elementi istituzionali del governo della moneta e le difficoltà conseguenti all'impiego di schemi analitici in cui le variabili finanziarie siano in rapporti stabili con le variabili reali. Sono proprio i comportamenti degli operatori, e in particolare degli intermediari creditizi, a rendere la quantità di moneta endogena. Il moltiplicatore è l'espressione di delicate funzioni comportamentali e non un processo stabile a coefficienti fissi. In questa seconda visione il ruolo della banca centrale, in termini di poteri discrezionali e di responsabilità, risulta molto più valorizzato che non nella prima. "Le regole sono antinomiche al central banking. Una banca centrale è necessaria solo se la società considera opportuno il ricorso a criteri discrezionali" (v. Sayers, 1960).
La stessa difformità di impostazione è riscontrabile riguardo ai compiti di vigilanza affidati alle banche centrali. La necessità di sottoporre il sistema finanziario, e quello bancario in particolare, a misure di controllo è sorta, storicamente, a partire da due ordini di inefficienze delle libere forze del mercato.Il primo ordine concerne la violenza distruttrice delle crisi finanziarie. I rapporti creditizi sono essenzialmente rapporti fiduciari mediati da istituzioni che operano in regime di riserva frazionaria. Fenomeni di crisi possono insorgere sia per carenze di liquidità dovute allo squilibrio delle scadenze tra passività e attività di un intermediario, sia per insolvibilità vera e propria. In entrambi i casi un episodio d'instabilità locale può propagarsi all'intero sistema per effetto delle connessioni che intercorrono tra i bilanci degli operatori, a una velocità amplificata dal diffondersi della sfiducia verso la solvibilità di tutti gli intermediari, travolgendo anche quelli che in condizioni normali risultano essere solidi. Nelle parole di Bagehot, "durante i periodi selvaggi di allarme, un fallimento solo ne genera molti e il miglior modo di prevenire i fallimenti è quello di impedire il fallimento originario che ne è la ragione".
Le banche centrali assolvono il compito di prevenire 'il fallimento originario' sia in qualità di mutuanti di ultima istanza, ossia prestando le proprie passività che sono liquidità primaria per il sistema, sia attraverso controlli sulle condizioni operative dei mercati e delle istituzioni finanziarie. L'esistenza di un prestatore di ultima istanza costituisce un argine al diffondersi delle crisi, mentre i controlli tendono a prevenirle e quindi a evitarne i costi per la collettività.
La seconda categoria di inefficienze riguarda "l'insufficienza delle forze di mercato a determinare da sole l'emergere, tra i diversi assetti possibili del sistema finanziario, di quello, in qualche senso, 'migliore' o 'ottimale"' (v. Ciocca, 1982, p. 34). Con i termini 'migliore' e 'ottimale' si deve intendere una misura dell'adeguatezza dei sistemi finanziari ad assolvere i compiti d'intermediazione richiesti dallo sviluppo delle economie reali, in primo luogo nell'allocazione delle risorse.Mentre il primo insieme di ragioni in favore della vigilanza è stato generalmente riconosciuto, sul secondo le posizioni sono alquanto differenti. La già menzionata scuola monetarista traspone l'istanza di comportamenti di governo ispirati a regole fisse dall'ambito della politica economica a quello della vigilanza. Le banche sono considerate nel loro complesso una pura - e sostanzialmente passiva - scatola di trasmissione della politica monetaria, e i loro comportamenti non sono considerati rilevanti dal punto di vista dell'equilibrio complessivo. La vigilanza, in quanto attenta per definizione ai comportamenti aziendali, finisce per essere considerata come qualcosa d'altro e di diverso rispetto al raggio d'azione fondamentale della banca centrale. La proposta conseguente consiste nell'attribuzione di questo compito, limitatamente alla vigilanza sulla stabilità e in forma ridotta a pochi strumenti, a istituzioni indipendenti dall'istituto di emissione.
Il controllo della stabilità nel suo obiettivo di tutela della liquidità e della stabilità delle banche si vale di strumenti che possono essere di tipo preventivo oppure di tipo correttivo. Tra i primi sono da annoverare i controlli sulla rischiosità degli attivi delle aziende di credito, i controlli sui margini di profitto, le norme sulla concentrazione dei rischi, le norme sul rapporto tra capitale proprio e fondi intermediati e, infine, il mantenimento di ordinate condizioni di funzionamento sui mercati finanziari e obbligazionari al fine di ammortizzare spinte destabilizzanti.
Gli obiettivi di adeguatezza del sistema finanziario, in termini di efficienza, possono essere identificati nella minimizzazione del costo complessivo dell'intermediazione, nella riduzione delle inefficienze allocative e nel miglioramento dell'assetto istituzionale bancario. Gli strumenti principali a disposizione, per questo tipo di regolazione, sono le norme sulle condizioni di struttura-concorrenza che si formano all'interno dei mercati (controlli all'entrata e simili), i controlli sulla distribuzione dei flussi globali di finanziamento e gli interventi di stimolo per favorire l'innovazione finanziaria.
Tra i suddetti obiettivi possono insorgere tanto delle complementarità quanto dei conflitti. Tra questi ultimi di particolare rilevanza si è mostrato il trade off tra stabilità, competitività ed efficienza. Un sistema finanziario aperto a una concorrenza indiscriminata diventa estremamente vulnerabile per effetto dei rischi crescenti che gli intermediari sono disposti ad assumere pur di rimanere in mercato. Al contrario, un sistema con elevate barriere all'entrata può comportare pesanti inefficienze sia di tipo gestionale (maggiori costi d'intermediazione) che allocative. Il delicato compito delle banche centrali, nel disegnare il profilo di un sistema finanziario, consiste nel raggiungere il miglior compromesso tra questi obiettivi contrastanti in relazione allo sviluppo economico complessivo.
A partire dagli inizi degli anni settanta e con intensità crescente negli anni ottanta, nei principali sistemi finanziari si sono prodotti fenomeni innovativi che in qualche misura hanno ridisegnato le linee portanti delle strutture creditizie nazionali e internazionali. Le caratteristiche principali di questa fase di evoluzione sono sintetizzate da alcuni termini tecnici entrati ormai nell'uso corrente.Internazionalizzazione: a partire dalla metà degli anni settanta è aumentato enormemente il volume degli scambi internazionali, a motivo dei crescenti squilibri presenti in vari paesi. Sono quindi aumentati i flussi internazionali di credito e la relativa attività delle banche. Lo sviluppo tecnologico ha consentito in pochi anni di collegare in tempo reale le principali piazze internazionali. Si parla quindi di 'globalizzazione' per indicare la crescente interdipendenza dei mercati finanziari, derivante dalla tendenza all'integrazione degli scambi e soprattutto dalla possibilità di realizzare operazioni finanziarie durante tutte le 24 ore della giornata, consentita dai diversi orari di apertura dei mercati di Tokyo, Londra e New York. Le principali conseguenze si riflettono nell'incremento del volume degli scambi e nella sofisticazione delle tecniche operative degli intermediari.
Deregulation, cioè la rapida trasformazione delle legislazioni bancarie e l'eliminazione delle norme più restrittive.Innovazione finanziaria, ossia l'insieme degli elementi che hanno rapidamente mutato il quadro della finanza. Essi comprendono nuovi strumenti di finanziamento e d'impiego, nuovi processi di trasmissione e di elaborazione delle informazioni (evidentemente cruciali per un'attività come quella finanziaria) e nuove tecniche operative (soprattutto quelle che comportano condizioni e alee per una o più delle parti in causa, come opzioni, swaps, ecc.).Securitisation, vale a dire un crescente ricorso a operazioni in titoli in luogo di quelle bancarie tradizionali. Le banche vengono cioè spiazzate dai mercati finanziari e dagli operatori specializzati e sono portate a reagire entrando nei tradizionali campi di attività di questi ultimi. Vengono così meno i criteri di divisione del lavoro che per decenni hanno governato l'operare dei mercati finanziari dei principali paesi, i quali, oltre alla distinzione tra banca e impresa, prevedevano una separazione tra chi concede prestiti e chi opera in titoli e, tra questi ultimi, tra coloro che curano l'emissione e coloro che assicurano il collocamento finale.
Le linee di tendenza indicano un processo di unificazione dei mercati, sia in senso geografico, sia in relazione alle specializzazioni tradizionali, e la continua ricerca di nuovi strumenti per frazionare e trasferire le varie tipologie di rischio, in un contesto di concorrenzialità crescente. Se da un lato questi fenomeni contribuiscono ad accrescere l'efficienza tecnica del sistema, dall'altro sembrano anche aumentarne l'instabilità potenziale, poiché i metodi e gli strumenti tradizionali della vigilanza appaiono inadeguati alla nuova realtà. Il compito fondamentale che si trovano ad affrontare gli organi di controllo consiste nell'incanalare e contenere i processi innovativi senza inibire gli impulsi provenienti dai mercati. (V. anche Banca e sistema bancario; Finanziari, intermediari; Finanziari, mercati; Investimenti; Risparmio).
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