CRESCENZIO Nomentano
Nacque presumibilmente a Roma intorno alla metà del sec. X da Crescenzio de Theodora, che aveva guidato nel 974 la rivolta contro il papa Benedetto VI, e dalla moglie di questo, Sergia. Sposò Teodora e da lei ebbe due figli, Giovanni, che fu patrizio e dominatore della città dal 1002 al 1012, e Rogata, sposata al conte di Sabina, Ottaviano.
Sulla figura del C., sebbene si tratti di un protagonista di primissimo piano per la storia del periodo e della città, si sono addensate nel corso dei secoli una serie di leggende e di equivoci che hanno dato luogo a numerose confusioni ed errori.
Bonizone, a un secolo dalla tragica morte di C., gli impose quell'appellativo di Nomentano con il quale sarebbe stato in seguito ricordato. Inoltre un passo non del tutto chiaro del cronista veneto Giovanni Diacono (Chron. ven., p. 31) diede origine alla confusione fra i due figli di Crescenzio de Theodora, il patrizio Giovanni e, appunto, C., ricordato dalle fonti con il titolo di senatore, errore nel quale caddero diversi studiosi, non ultimo il Gregorovius. Anche Giovanni fu un personaggio politico notevole a Roma, raccolse dalle mani del padre il comando della fazione dopo che questi si era ritirato dalla scena politica, ed era stato fra gli artefici nel 985 dell'elezione del papa Giovanni XV. Era stato quindi patrizio, cioè rappresentante laico del potere papale. Di lui e del fratello minore C. si fece dunque un solo personaggio, prima patrizio poi senatore e dominatore incontrastato della città, infine massacrato dai soldati di Ottone III nella primavera del 998, sebbene le fonti non parlino mai di un Giovanni Crescenzio bensì di Giovanni di Crescenzio, patrizio appunto nel 985, e del senatore C., conte di Terracina. La stessa Cronica ... Sancti Bartholomei in Insula, parlando di C., sottolinea "Crescentio eiusdem patrici germano". I due fratelli vengono poi ricordati insieme in un documento dell'ottobre 989 (Vat. lat. 8043, cc. 36r-39r), nel quale sono citati anche i genitori, entrambi già morti. Un documento del Regesto Sublacense (n. 144, p. 195), inoltre, potrebbe essere fatto risalire ad essi. Infatti sebbene gli editori lo avessero fatto risalire al maggio dell'896, sotto il pontificato dell'antipapa Bonifacio VI, il Kehr (p. 45) lo data al 984, nel secondo breve periodo di dominio romano dell'antipapa Bonifacio VII, tornato nei primissimi mesi di quell'anno da Bisanzio dove si era rifugiato dopo il fallimento della rivolta del 974. Nel documento in questione compaiono come autori di una donazione alla chiesa di S. Benedetto in Osa i fratelli Giovanni e Crescenzio "pro anime nostre seu Crescentii atque Sergiae". Tale donazione sarebbe poi stata riconfermata proprio da Bonifacio VII il 31 dic. 984 (Regesto Sublacense, n. 202, pp. 244 s.). Se, come sembra, si tratta effettivamente dei due figli di Crescenzio de Theodora, il documento sottolineerebbe come il ritorno di Bonifacio VII - "sparsa per urbe pecunia", come ci tiene a precisare ancora il cronista di San Bartolorneo, e la pecunia era bizantina - aveva quantomeno il favore se non l'appoggio diretto della fazione dei Crescenzi. Bonifacio moriva il 20 ag. 985, ma tale favore nei confronti di colui che, occorre ricordare, aveva fatto uccidere ben due papi, alla lunga era venuto meno. La morte dell'antipapa liberava, dunque, Roma da una presenza divenuta ormai scomoda per tutti ed infatti Giovanni, il figlio maggiore di Crescenzio de Theodora che, come si è detto, dopo il ritiro del padre nel convento di S. Alessio all'Aventino, aveva preso in mano il comando della fazione, appoggiò l'elezione di un papa, Giovanni XV, ben visto anche da parte imperiale.
Nei primi anni del pontificato di Giovanni XV, nel periodo quindi in cui era patrizio il fratello, C. ottenne dal papa la contea di Terracina. Una donazione del 7 genn. 991, riportata dal Contatore, ricorda come il feudo gli fosse stato appunto concesso da tale pontefice. Inoltre, un documento del 988 (cfr. G. Falco, L'amministrazione papale, p. 698) lo indica come "omnium romanorum senator atque gloriosus comes" appunto di Terracina. Dunque il papa eletto con l'appoggio della fazione capeggiata dal fratello lo aveva infeudato di un possedimento di estrema importanza. Fra il 985 ed il 991 C. era, pertanto, già senatore nonché potente signore del contado, fratello del patrizio della città di Roma. e intratteneva buoni rapporti sia con il Papato che con l'Impero.
Il 15 giugno del 991 moriva Teofane, vedova di Ottone II e madre dell'undicenne Ottone III. La tregua che una serie di fattori contingenti aveva creato intorno alla figura di questa principessa bizantina, sposata a un imperatore sassone, e a quella del piccolo erede sembrò venir meno. I rapporti fra Teofane ed i Romani erano stati buoni. Anch'essa aveva visto con favore l'elezione di Giovanni XV e, inoltre, in occasione del suo soggiorno a Roma dal 989 al 990, i cittadini le avevano prestato obbedienza. A ciò si aggiunge che nello stesso periodo della sua morte, a Roma doveva essere venuto meno anche il patrizio Giovanni, ed il fatto che ciò non sia stato riportato dai cronisti ha avuto non poca parte all'origine della confusione fra i due fratelli. Gli successe C., che, abbandonati gli interessi del feudo, si stabilì a Roma e prese saldamente in mano le redini della città. Conservò il titolo di senatore e il suo governo, forse anche per le condizioni che si erano create in Germania con la morte di Teofane, si fece più duro.
Ai primi del 995 egli era divenuto per i vescovi riuniti in concilio a Reims "diaboli membrum" (Acta Concilii Causeiensis, p. 691), e la definizione era di Gerberto d'Aurillac, il futuro Silvestro II. I vescovi si lamentavano inoltre davanti all'abate Leone, legato del papa, di come la loro rappresentanza non fosse stata neppure ricevuta a Roma da C., forse perché - dicevano ancora i vescovi - non era stato pagato al signore il tributo dovuto. Nella città, comunque, i rapporti fra C. e Giovanni XV si erano ormai definitivamente guastati. Il pontefice che "multas persecutiones substinuit a Crescentio", come afferma la Cronica Sancti Bartholomei in Insula, abbandonò o venne costretto ad abbandonare Roma. Si rifugiò a Sutri da dove chiese aiuto ad Ottone III che in quell'anno compiva la maggiore età. L'imperatore si preparò a passare le Alpi per muovere alla volta di Roma ma C., avutone sentore, si affrettò a riconciliarsi con il pontefice. Nell'aprile del 996 Giovanni XV moriva: Ottone ne apprese la notizia a Ravenna da alcuni messi di C., i quali lo invitarono ad entrare in Roma ed a far conoscere le sue intenzioni per la successione. L'imperatore indicò il giovane cugino Bruno di Carinzia, figlio del duca di Franconia e marchese di Verona, certo dietro consiglio dell'arcivescovo di Magonza Wiligiso. Bruno, scortato a Roma dove ricevette buona accoglienza dai cittadini, veniva formalmente incoronato il 3 maggio del 996 con il nome di Gregorio V. Dopo pochi giorni giunse in città anche il giovanissimo Ottone che il 21 maggio, con una cerimonia solenne, ricevette la corona imperiale dalle mani del nuovo papa. Il 26 maggio, in S. Pietro, Ottone III e Gregorio V tennero un sinodo alla presenza della corte imperiale e di un gran numero di vescovi in cui venne giudicata la condotta di C. nei confronti del papa defunto. La sentenza condannò C. all'esilio, ma l'intercessione di Gregorio V fece sì che la pena venisse condonata.
Ottone III tornò in Germania e venne meno, con le truppe di Ottone, uno dei principali fattori di sostegno del papa sassone. Il 29 settembre di quello stesso 996, infatti, scoppiò a Roma una rivolta capeggiata da C. che costrinse Gregorio V a rifugiarsi a Pavia. In questa città egli convocò un sinodo che si tenne agli inizi del 997 nel quale lanciò la scomunica contro colui che lo aveva scacciato. L'atteggiamento del papa esule appariva dunque sicuro, per nulla sconvolto dagli avvenimenti, certo fidando sullo scontato intervento di Ottone. Ma di tale intervento, che questa volta gli sarebbe stato di certo fatale, era cosciente anche lo stesso C. che infatti inviò a Bisanzio il figlio Giovanni, il futuro patrizio, per ottenere l'appoggio dell'imperatore orientale (Giovanni Diacono, p. 60). Il giovane venne accolto con molti onori ma l'attenzione di Basilio II in quel periodo era rivolta alla guerra contro i Bulgari. La condotta di Bisanzio era ovviamente di fondamentale importanza sia per C., al quale era necessario l'appoggio politico e militare nonché l'oro bizantino, sia per Ottone stesso, per il quale la neutralità dei Greci scongiurava il pericolo di un possibile scontro diretto.
Forse per ingraziarsi il favore di Bisanzio, forse invece a testimonianza che questo favore era già stato accordato, C. fece comunque una scelta significativa nella persona di colui che avrebbe dovuto opporsi come antipapa a quel Gregorio V che lo aveva scomunicato. Ad antagonista del papa sassone C. elesse infatti nel maggio del 997 un greco, Giovanni Filagato, vescovo di Piacenza. Questi, che in passato aveva goduto dei favori della madre di Ottone, era stato in precedenza inviato a Bisanzio allo scopo di trattare il matrimonio fra il giovane imperatore ed una principessa bizantina, così come era avvenuto in precedenza per il padre. La trattativa era fallita e Giovanni Filagato di ritorno da Bisanzio si fermò a Roma, dove C. lo incoronò appunto pontefice con il nome di Giovanni XVI.
Alla fine del 997 Ottone passava le Alpi e celebrava il natale a Pavia, dove aveva incontrato Gregorio V. Da qui si mosse alla volta di Roma, dove giunse nel febbraio del 998. I soldati sassoni si trovarono nella città deserta perché C. ed i suoi si erano arroccati in Castel Sant'Angelo, la domus Theodorici, mentre Giovanni XVI si era dato alla fuga. Difficile non credere che fino all'ultimo non si fosse sperato nell'intervento bizantino, forse promesso ma certo improbabile. L'antipapa venne raggiunto nella Campagna, presso Torre Astura, mentre cercava di imbarcarsi alla volta di Bisanzio. Venne accecato, mutilato della lingua, del naso e delle orecchie, condotto per la città esposto alla vista di tutti ed infine rinchiuso in carcere. Intanto le truppe di Ottone avevano posto d'assedio la rocca in cui erano rinchiusi i Romani che riuscirono però a respingerne i ripetuti assalti.
Dopo quasi due mesi di assedio, alle prime luci della domenica in albis del 998, Eccheardo, margravio di Misnia, diede l'assalto alla fortezza con enormi macchine belliche. L'assedio e la morte di C., più per la loro drammaticità che per la reale incidenza politica, lasciarono tracce profonde nel ricordo dei cronisti, anche se le versioni variano, falsate da voci e leggende. Thietmaro, allora poco più che ventenne e certo il più vicino per età agli avvenimenti, dà un secco resoconto dei fatti. Grazie alle potenti macchine d'assedio, egli racconta, la rocca cadde dopo un'ultima disperata resistenza durata otto giorni. C. venne decapitato sugli spalti e il cadavere sospeso per i piedi dietro ordine di Ottone. Thietmaro ricorda ancora che al momento della sospensione, un timore indicibile si impadronì di tutti i presenti. Era il 28 apr. 998 ed un diploma di Ottone III, emesso quello stesso giorno, nel datare aggiunge "quando Crescentius decollatus suspensus fuit" (MonumentaGermaniae Historica, Diplomata, II, p. 710).
La leggenda, come si è detto, si impadronì del tragico epilogo, provocando diverse versioni dell'accaduto. Occorre considerare però come sia presente in pressoché tutte le recensioni l'idea del tradimento. Se per Rodolfo Glabro il traditore sarebbe stato C. stesso, uscito nottetempo dalla rocca per invocare pietà ma da Ottone ricacciatovi dentro a forza, per gli altri fu proprio C. a rimanere vittima di tradimento. Così Ademaro racconta di come a tradirlo fosse stata la moglie, sulla cui figura sorsero altre svariate leggende (al riguardo Gregorovius, p. 99), mentre Pier Damiani parla invece di un certo Tamno, spergiuro per conto di Ottone, il quale avrebbe promesso salva la vita agli assediati in caso di resa, e al quale poi il beato Romualdo ordinò di farsi monaco per espiare la colpa. Anche sul luogo dove il cadavere di C. venne sospeso vi sono incertezze: le fonti sono divise fra lo stesso Castel Sant'Angelo e Monte Mario. La tradizione dà maggior credito a questa seconda ipotesi, e probabilmente non senza fondamento. Il Monte Mario, subito dietro il colle Vaticano, veniva chiamato mons Gaudius perché segnava la fine della via franchigena e ai pellegrini giunti alla sua sommità appariva finalmente l'intera Roma. Si vuole che il toponimo di mons Malus, anch'esso medievale, avesse avuto origine fra i Romani proprio dalla vicenda che vide protagonista C., anche se ciò appare discutibile in quanto è presente anche in documenti anteriori al 998. Il cadavere del senatore romano venne comunque sospeso in un luogo, sia esso stato effettivamente il Monte Mario o invece gli spalti di Castel Sant'Angelo, dal quale era ben visibile da ogni parte di Roma ad esempio e monito per i cittadini. Il corpo venne poi sepolto "clandestino funere", secondo il Baronio, nella chiesa di S. Pancrazio sulla via Aurelia. Ritorna ancora ricorrente il tema del tradimento in quanto la chiesa era consacrata dalla tradizione altomedievale, sin dai tempi di Gregorio di Tours, alle vittime di tradimento e di spergiuro.
La fine di C., tragica e sconvolgente, lasciò dunque non pochi segni nel ricordo e nella fantasia dei cronisti e degli stessi Romani. Non a caso la rocca che era stata teatro della vicenda prese comunemente il nome del suo difensore. Certo è comunque, che la sua figura, e forse soprattutto la sua morte, lasciarono tracce profonde nella città. Lungi dall'essere domati, i Romani si rivoltarono nuovamente nel 1001 scacciando Ottone III che sarebbe poi morto l'anno successivo, a tre anni dalla morte dell'altro antagonista di C., Gregorio V. Diventava patrizio e signore di Roma il figlio di C., Giovanni, e certo non poco pesò su di lui il ricordo dei tragici avvenimenti che avevano avuto come protagonista il padre, alla cui morte, occorre ricordare, secondo quanto afferma Ademaro di Chabannes, fonte non certo di parte, "pro co magnus planctus factus est".
L'epigrafe posta nella basilica di S. Pancrazio con le parole "qui tenuit totam feliciter ordine Romam" ricorda come fosse bello nell'aspetto e di nobile origine, infine come la fortuna, dopo aver permesso che la sua vita trascorresse in un felice volgere di anni, gli impose in ultimo una fine tremenda. I versi, splendidi di umanità e del senso di pochezza di fronte alla morte ed alla tragedia, vennero trascritti dal Baronio che li lesse nel pavimento della chiesa e quindi ripresi dal Gregorovius. Risalgono con ogni probabilità al lungo periodo, circa dieci anni, in cui il figlio di C. Giovanni resse con il titolo di patrizio, e certo con miglior fortuna del padre, il governo della città.
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