crescita endogena
Teoria della crescita (➔) economica basata sulla dinamica del progresso tecnologico inteso come processo endogeno che porta nel tempo allo sviluppo della produttività e quindi della produzione all’interno di un Paese. In ciò essa si differenzia dalle teorie esogene della c., che invece considerano l’evoluzione della tecnologia come una variabile esogena, non spiegata dal modello. Alcuni modelli di c. e. sono volti a spiegare anche le cause dell’aumento della popolazione, un altro fattore che determina l’incremento della produzione di una nazione.
Nei modelli di c. esogena, data l’ipotesi di rendimenti decrescenti del capitale, l’aumento della produzione pro capite deve necessariamente interrompersi in assenza di miglioramenti della tecnologia. È un risultato che riecheggia le teorie di T.R. Malthus e D. Ricardo, ma che appare poco compatibile con l’osservazione empirica, nelle economie avanzate, di tassi di c. positivi lungo più di un secolo, senza una tendenza visibile al rallentamento. Si crea così il paradosso di una teoria della c. che spiega l’evolversi di tutte le variabili macroeconomiche, a eccezione proprio dello sviluppo di lungo periodo, per il quale si rende necessaria una variabile, il tasso di progresso tecnologico, del tutto fuori del modello. Già negli anni 1960, K. Arrow e E. Sheshinski hanno elaborato alcune analisi in cui nuove idee sono generate dai processi di produzione o di investimento, secondo un meccanismo detto di learning by doing (➔ apprendimento), e questi avanzamenti tecnologici sono immediatamente diffusi all’intera economia, attraverso un processo di spillover (➔). Tali intuizioni furono introdotte nella teoria della c. solo dopo la metà degli anni 1980, da P. Romer e da R. Lucas, dando vita alla teoria della c. endogena. In questi primi modelli si introduce una classe di beni capitali più ampia, inclusiva del capitale umano, in modo tale che il complesso dei fattori di produzione esibisca rendimenti di scala crescenti, a garanzia di un tasso di crescita positivo a tempo indefinito. Tuttavia essi non forniscono una teoria dei processi economici che generano il cambiamento tecnologico.
L’introduzione di una teoria del cambiamento tecnologico all’interno del modello di crescita neoclassico è complicata dall’impossibilità di mantenere l’assunzione standard di concorrenza perfetta. Il progresso tecnologico è connesso alla nascita di nuove idee, che sono, almeno parzialmente, non rivali e quindi hanno caratteristiche di beni pubblici. Tuttavia, le imprese non hanno alcun incentivo a investire risorse per sviluppare una nuova tecnologia appropriabile senza costi dalle concorrenti. Al contrario, se questa è un bene escludibile, tutte le aziende hanno un enorme interesse a investire in essa, acquisire la totalità dei fattori di produzione e quindi operare in condizione di monopolio. Ma anche in tale caso, se le imprese agiscono nello stesso modo, le forze concorrenziali implicano che tutte vadano in perdita. Quindi non si ha un equilibrio né con né senza progresso tecnologico. Queste difficoltà concettuali hanno spinto i ricercatori a introdurre alcuni aspetti di concorrenza imperfetta (➔) per costruire modelli in cui il livello della tecnologia può essere incrementato volontariamente, per es. tramite spese di ricerca e sviluppo, sfuggendo quindi alla legge dei rendimenti di scala decrescenti a livello aggregato. Modelli di tale genere sono stati introdotti, a partire dal 1990, da Romer, P. Aghion e P. Howitt, G.M. Grossman ed E. Helpman. In essi, l’attività di ricerca e sviluppo (➔), dedicata ad avanzamenti della tecnologia, è premiata ex post da una forma di potere di monopolio. In generale, l’attività di ricerca e quindi il tasso di c. non sono ottimali nel senso di Pareto, perché la creazione di nuovi beni o metodi di produzione genera distorsioni. Si crea così un importante ruolo per l’autorità pubblica, che può influenzare il trend di c. di lungo periodo attraverso una serie di azioni, come l’imposizione fiscale, il mantenimento dello stato di diritto, la costruzione di infrastrutture, la protezione della proprietà intellettuale, la regolamentazione del commercio estero e dei mercati finanziari e così via.
Le teorie della c. e. si sono successivamente sviluppate lungo varie direzioni. I modelli di diffusione della tecnologia, per es., studiano i processi di apprendimento da parte dei Paesi follower (➔) tramite imitazione delle nuove tecnologie sviluppate dalle economie leader (➔ leadership). Poiché l’imitazione è meno costosa dell’innovazione, questi modelli prevedono una forma di convergenza condizionale simile a quella dei modelli neoclassici di c. esogena. Altre ricerche rendono endogena anche la c. della popolazione, secondo un approccio che risale a Malthus, sulla base dei comportamenti riproduttivi individuali, per spiegare, per es., perché il tasso di fecondità tende ad aumentate insieme al prodotto pro capite nei Paesi più poveri e, al contrario, a diminuire in tutti gli altri. Alcuni lavori, infine, rendono endogena anche l’offerta di lavoro, in relazione a fenomeni migratori o alle scelte individuali di partecipazione al mercato del lavoro.