Crimen laesae maiestatis
La storiografia sulla legislazione normanna del Regnum, volta a ricostruire i tratti fisionomici del crimen laesae maiestatis, ha messo in luce sia come, già nel testo delle Assise di Ariano (1140; v.), quel delitto venisse assimilato al sacrilegio, sia l'apporto determinante del diritto romano giustinianeo anche nella costruzione di quella figura di reato (Dilcher, 1966, pp. 466 ss.; Schminck, 1970, pp. 33 ss.). Con specifico riferimento a quest'ultimo punto è stato peraltro osservato che "la ricezione della normativa romana sul crimen maiestatis costituisce forse il dato politicamente più rilevante nella legislazione rogeriana sia per ciò che significa dal punto di vista teorico della concezione maiestatica e sia per le conseguenze pratiche nel rapporto del monarca con i sudditi" (Zecchino, 1984, p. 137).
Un ruolo non secondario, nella formulazione dell'assisa II, De sacrilegiis, così come dell'assisa XVIII, 1, 2, 3, 4, De crimine maiestatis, dovette giocare la concezione della potestas regia, esemplata sul modello imperiale d'Oriente, "che contempla un'auctoritas derivante al re direttamente da Dio" (Romano, 1994, p. 189), espressa da Ruggero nel proemio del corpus di Ariano e rappresentata nel mosaico della chiesa della Martorana a Palermo (Marongiu, 1953-1954, p. 131). Configurato come par sacrilegii, il delitto di lesa maestà prevedeva la damnatio memoriae del reo e ne colpiva, con la confisca dei beni, anche i figli ai quali, peraltro, era negata ogni possibilità di ricevere benefici dal sovrano.
In particolare, l'assisa XVIII, 4 offre un puntuale elenco dei comportamenti ascrivibili al crimenlaesae, destinato a rappresentarne, a partire da Matteo d'Afflitto, il nucleo di una più articolata declinazione giuridica (Sbriccoli, 1974, pp. 266-267).
A una più complessa elaborazione del crimen laesae maiestatis si giunge in età sveva, anche se va rilevato che nel Liber Constitutionum (1231; v.) non se ne definiscono i contenuti.
Colpisce, ad esempio, la circostanza che "le Costituzioni di Melfi non abbiano recepito Ass. Vat. 18, 1, de crimine laesae maiestatis" (Schminck, 1970, pp. 80-81), laddove invece veniva recepita l'assisa De sacrilegiis (Const. I, 4 e 5), articolata in due distinte norme dal titolo, rispettivamente, Ut nullus se intromittat de factis et consiliis regis e De arbitrio iudicis. Una scelta apparentemente poco giustificabile, che risulta coerente solo se valutata all'interno dell'impianto complessivo del Liber Constitutionum. La norma rogeriana, infatti, va letta in stretta connessione con il disposto della cost. De hereticis et Patarenis (Const. I, 1), laddove si afferma che l'eresia deve considerarsi "tra i crimini pubblici, secondo quanto si desume dalle antiche leggi; ed anzi che si debba giudicare da tutti più orribile del crimine della nostra lesa maestà ciò che è riconosciuto come intenzione di offendere la maestà divina, sebbene per l'autorevolezza del giudizio l'una non superi l'altra" (Friderici II. Liber Augustalis, 2001, p. XI). Per tale motivo, al pari del delitto di alto tradimento, il delitto di eresia "colpisce le persone e i beni dei condannati e condanna perfino dopo la morte la memoria dei defunti" (ibid.). A questo proposito è stato osservato che, "collocando le costituzioni contro gli eretici ad apertura della propria raccolta, Federico non pagava un tributo alla Chiesa e non imitava il modello giustinianeo, tutelando la 'religione di Stato', ma affermava il principio che non v'era differenza tra la divina maiestas offesa dall'eretico e l'imperialis maiestas lesa da chi violava la legge" (Martino, 1988, p. 12).
Probabilmente era proprio tale circostanza, oltre al fatto che "in Federico si fondevano in uno la potestas regia e quella imperialis" (Romano, 1992, p. XVIII), a determinare una simile, vistosa esclusione.
Ribaditi con forza tali principi, nonché la previsione della pena di morte per coloro che si fossero macchiati dell'horribilis delictum, il Liber Constitutionum non sembra preoccuparsi di definire il contenuto del crimenlaesae, quanto piuttosto di individuare, all'interno del sistema giudiziario del Regno, specifiche competenze in capo a determinati magistrati, circostanza che avrebbe permesso di perseguire con certezza e con rigore i colpevoli.
In tale prospettiva si rileva che la normativa federiciana fa espresso riferimento al crimen laesae maiestatis nella novella 38.2 e nelle cost. 43, 44, 53.2, 57.1 del libro I, laddove si definiscono le competenze del maestro giustiziere e dei giustizieri regionali, nonché, ancora, nella cost. 22.2 del libro I e nelle cost. 10, 21, 22, 23, 39 del libro II, laddove, invece, la gravità del crimenlaesae è sottolineata dal ricorso a numerose eccezioni rispetto alla normativa riguardante le altre azioni delittuose.
Il Liber Constitutionum attribuisce al maestro giustiziere, posto al vertice dell'apparato giudiziario del Regnum, rappresentandone "il grande fondamento ‒ dopo il re" (Colliva, 1964, p. 107), la competenza a decidere di quei comportamenti ascrivibili al crimine di lesa maestà. La ragione dell'attribuzione al giustiziere della competenza su cause così delicate, come su tutte quelle che comportavano la pena capitale, trova giustificazione nelle stesse parole che aprono il testo della cost. De officio iustitiariatus (Const. I, 44): "Diritto e giustizia hanno dato nome e norma ai giustizieri, ai quali quanto più sono vicini nel nome, tanto più debbono esserne veri e solleciti cultori. Per questa ragione sono riservate soprattutto ai loro giudizi le cause capitali" (Friderici II. Liber Augustalis, 2001, p. XLV). La novella 38.2 consentiva tuttavia che quel crimine potesse essere giudicato, su proposta dell'accusatore, dai giustizieri regionali: "Vogliamo, inoltre, che le cause concernenti il delitto di lesa maestà nostra vengano sentite e decise davanti ai giustizieri regionali, se questa sarà la scelta dell'accusatore" (ibid., p. XXXIX).
A tali disposizioni si collegano le cost. 21, De procedendo in utroque iudicio e 22, De prerogativa maioris audientie del libro II, nelle quali si ribadisce la condanna a morte e la confisca dei beni per i colpevoli di lesa maestà, seppure non manchi la previsione di meccanismi di tutela e di garanzia per scoraggiare il facile ricorso all'accusa di crimenlaesae. "Se l'attore di una causa civile è accusato penalmente dall'avversario o se in un processo penale l'accusatore parimenti è accusato dall'avversario per un crimine più grave, non vogliamo" ‒ dispone Federico ‒ "che […] si impedisca la discussione della causa o il corso del giudizio, ma riteniamo che senza alcun pregiudizio si debba procedere ugualmente in entrambe le cause, quand'anche si presenti l'eccezione del crimine di lesa maestà, e in entrambi i giudizi si proceda secondo quanto richiesto dal diritto e dalla qualità delle cause. Appare infatti evidente la malizia dell'accusatore e l'inganno manifesto, perché non ha voluto accusare prima il suo avversario né citarlo per un crimine più grave, né acceso dallo zelo della fedeltà ha voluto denunciare il crimine di lesa maestà nostra, prima di essere stato costretto da chi in giudizio chiede giustizia per i suoi diritti o i suoi danni" (ibid., pp. CXXV-CXXVII).
La cost. Ne fiulius pro patre vel e converso conveniatur vel frater pro fratre (Const. I, 57.1) esprime con chiarezza come, all'interno del corpus federiciano, pur in assenza di una specifica norma dedicata al crimenlaesae, l'horribilis delictum sia giudicato di tale gravità al punto che il principio della responsabilità personale, per il quale "i padri non paghino per i figli e viceversa […] né i fratelli per i fratelli", viene meno ("eccettuato il caso del delitto di lesa maestà"; Friderici II. Liber Augustalis, 2001, p. LVII). Peraltro, chi si macchia di tale delitto o si ritrova anche soltanto sospettato di esso, non può indicare un fideiussore (De hiis qui fideiussores dare possunt ne incarcerentur, in Const. II, 10).
Un'altra eccezione è prevista dalla cost. De officio capitaneorum et magistri iustitiarii (Const. I, 43), laddove si dispone che, con esplicito riferimento al crimenlaesae o comunque a un delitto che comporti mutilazione o confisca dei beni, nel caso di appello presentato al sovrano extra Regnum, non sia il maestro giustiziere a decidere ma viene lasciata all'appellante la possibilità di rivolgersi direttamente al re. Similmente, la cost. De inquisitionibus faciendis (Const. I, 53.2) prevede che "nelle cause speciali e per delazioni di singoli fatte contro private persone, non si proceda all'istruzione di un'inchiesta criminale, tranne che per il crimine di lesa maestà contro la nostra persona o dei nostri parenti" (Friderici II. Liber Augustalis, 2001, p. LIII). In questo caso, peraltro, vengono anche meno "tutte le formalità previste dalle antiche leggi e nelle nostre costituzioni a proposito di delazioni e delatori".
Anche la disciplina del duello subisce vistose eccezioni. La cost. 22.2 del libro I, De violentis aliis mulieribus illatis, ribadisce infatti che seppure, con "santa preveggenza", Federico avesse abolito il ricorso al duello, ammesso dai re normanni in occasione di "violenza inferta a qualsiasi donna", tale divieto non riguarda il "caso di lesa maestà e di assassinio occulto" (ibid., p. XXVII). A tale norma si ricollegano le cost. 33, Quod in defectu alterius probationis duellum in quibusdam casibus sit reservatum e 39, De fraude et dolo campionum del libro II, nelle quali si conferma l'eccezionalità del ricorso al duello per il delitto di lesa maestà e si prevede la condanna a morte del campione che si batte in nome dell'accusato, "se soccombe nel combattimento", ma anche dell'accusatore "che soccomba nella lotta, come pure [del] reo qualora avesse ceduto nel duello" (ibid., p. CXXXIX).
Si tratta, nel complesso, di costituzioni che palesano come nel pensiero federiciano il concetto di crimenlaesae fosse strettamente connesso a quello di bonum commune, dato assunto a giustificazione del potere del principe. Come si legge nel proemio, la potestas regia è, per volontà divina, funzionale alla tutela di quanti sono sottoposti alla auctoritas del principe e dunque presuppone uno sforzo costante del sovrano ad assicurare all'interno del Regnum la giustizia e a mantenere la pace, "le quali si stringono in abbraccio come due sorelle" (ibid., p. IX). Non stupisce, pertanto, che, nel commentare la cost. De guerra non movenda (Const. I, 9), che puniva con la confisca dei beni e la pena capitale "il conte, il barone, il cavaliere o chiunque altro avrà mosso apertamente guerra nel Regno" (Friderici II. Liber Augustalis, 2001, p. XVII), Andrea d'Isernia osservasse che la violazione della pace sociale "crimine majestatis tenetur, quasi majestatem publicam laeserit" (Lectura peregrina, in Constitutionum, 1773, p. 23a).
L'attività esegetica sul Liber Constitutionum evidenzia, sul delicatissimo tema, la palese preoccupazione, in specie dei giuristi di età angioina, di dimostrare che il crimenlaesae riguardava non solo l'imperatore, ma qualunque rex.
Una problematica affrontata sia da Marino da Caramanico che da Andrea d'Isernia con una soluzione che appare univoca. D'altra parte, la configurabilità del crimenlaesae nei confronti di un qualunque monarca, e nello specifico del rex Siciliae, risultava inevitabilmente connessa alla formula "rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator".
In particolare, il Caramanico non esita a dare risposta affermativa alla questione "se il crimen lesae maiestatis possa riconoscersi anche per il Re di Sicilia, e non soltanto per l'Imperatore, e quindi se sia applicabile la legge ult. del Dig., ad legem Iuliam maiestatis (D. 48, 4, 11)" (Calasso, 1940, p. 66).
E sulla via tracciata da Marino da Caramanico, che si era spinto fino a "rievocare la maiestas praetoris accanto a quella imperiale e regia" (Sbriccoli, 1974, pp. 208-209), Andrea d'Isernia, nella Lectura ai Libri feudorum, precisava che, nonostante "voluerunt autem dicere moderni crimen laesae maiestatis tantum in rege romanorum imperatore cadere, non in alio rege […] ista positivo non subsistit iure, licet etiam de facto reges persequantur in personis et rebus proditores, eo quod plus iuris habet rex in regno quam imperator imperio […] et liberi reges habent illud ius quod romanus princeps" (In usus feudorum, Quae sint regalia, § et bona committentium crim. Laes. Maiest. n. 77). Una posizione alla quale si sarebbe richiamato, più tardi, ancora Matteo d'Afflitto, nell'affrontare in termini più maturi e complessi le tematiche connesse al crimenlaesae.
fonti e bibliografia
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F. Calasso, La Const. "Puritatem" del Liber Augustalis e il diritto comune nel Regnum Siciliae, "Rivista di Storia del Diritto Italiano", 13, 1940, pp. 53-115.
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