Criminalistica in antico regime
L’origine della criminalistica, branca della scienza giuridica che si occupa sia della procedura sia del diritto penale sostanziale, può essere collocata tra il 12° e il 13° sec. nella civiltà comunale. Con il Tractatus criminum, redatto da autore ignoto tra il 1155 e il 1164, e poi con il più diffuso Tractatus de maleficiis di Alberto Gandino (1240/50-dopo il 1311), scritto nel 1286 e poi rivisto negli anni seguenti, inizia una ricca produzione di testi dedicati al diritto criminale che descrivono le regole del giudizio, analizzano le norme penali degli statuti cittadini, interpretano e commentano i passi del Corpus iuris civilis e delle fonti canoniche che trattano di reati e pene. Sono opere di taglio prevalentemente pratico, indirizzate ad avvocati, magistrati, consulenti, scritte spesso da giuristi che hanno acquisito una vasta conoscenza nella materia, esercitando la funzione di giudice ai malefici.
Le ragioni per cui nel Duecento matura proprio sul penale questo «maggior ponte gettato tra la prassi statutaria e la scienza» (E. Cortese, Il rinascimento giuridico medievale, 1992, p. 71) vanno ricercate nelle trasformazioni politiche dei Comuni e nella dimensione pubblica assunta dal diritto di punire: il consolidamento costituzionale del centro di potere cittadino si traduce in una volontà di regolare i conflitti all’interno della comunità. Al modello di giustizia penale negoziata, caratterizzato da una serie di pratiche condivise per risarcire le offese e ricomporre l’onore violato che prescindono dal ricorso a un giudice, si sostituisce gradualmente un modello di giustizia egemonica, pubblica, manifestata soprattutto nelle forme del processo e nell’irrogazione della pena, regolata dal giudice quale rappresentante della publica potestas (Sbriccoli 2009, 1° vol., pp. 73 e segg.). Il contributo della dottrina è fondamentale per legittimare questo passaggio, perché elabora gli argomenti per rendere ogni delitto un’offesa non solo alla vittima ma anche all’intera collettività.
Ancora nel 16° sec., la criminalistica ribadisce che, una volta avviato il processo penale, l’eventuale accordo transattivo raggiunto dalle parti e la conseguente rinuncia dell’offeso all’azione non implicano la fine del procedimento perché non è più in questione solo l’interesse della parte lesa al risarcimento ma anche, e soprattutto, l’interesse della respublica alla scoperta della verità, sintetizzato nella ricorrente formula ne delicta remaneant impunita («i delitti non devono restare impuniti»). L’elaborazione di un nuovo linguaggio, di istituti, regole, simboli iconografici capaci di esprimere la dimensione autoritativa e repressiva della giustizia penale, la cui rappresentazione passa dalla funzione distributiva a quella commutativa, impegna la dottrina, in una prima fase, prevalentemente in materia di iudicium.
Il modello per la criminalistica di diritto comune diviene il trattato del magnus practicus Gandino: in un manuale destinato alla pratica, che in usu quotidiano consistit, le questioni discusse seguono le fasi del processo e ripercorrono l’ordo iudiciarius. Dopo le fonti di conoscenza del reato (accusa, denuncia, inquisitio, notorio), l’autore affronta temi strettamente processuali (citazione, istruttoria, mezzi probatori e difesa), alcuni singoli delitti (omicidio, furto e grassazione, ricettazione, falso), poi applicazione della pena, competenza territoriale, aggravanti, diminuenti, diritto statutario e sua applicazione.
I numerosi scritti penalistici che fioriscono tra 14° e 15° sec. riproducono il medesimo schema: sono trattati o practicae criminales che spiegano i tempi e i modi del giudizio o di alcune sue fasi, i ruoli e i diritti delle parti, i limiti e i doveri del giudice, ovvero consilia criminalia dove il giurista offre pareri al giudice, o alla parte, sulla corretta soluzione di un caso (tra i più circolanti quelli del veronese Bartolomeo Cipolla, 1420 ca.-1475 ca.).
Esempi di tale genere letterario, che conobbero notevole fortuna editoriale e acquisirono autorevolezza dottrinale, sono il Tractatus de maleficiis dell'aretino Angelo Gambiglioni (fine 14° sec.-1461), scritto nel 1438 e dato alle stampe nel 1472, e la Practica criminalis [...] dialogice contexta [...] del salernitano Pietro Follerio (1510/20-1590 ca.), edita nel 1554.
Il primo, senza alcuna pretesa né di completezza né di sistematicità, è costruito sull’esempio di un immaginario processo avviato da un atto di inquisizione in cui è inserito il maggior numero possibile di delitti e di complicazioni procedurali che vengono poi analizzate nel dettaglio attraverso glosse, questioni, esempi di casi quotidiani, riferimenti alle opinioni dei dottori; la seconda, strutturata in forma di dialogo tra un accusatore rappresentante del fiscus che agisce per la pubblica utilità, un inquisito che si difende, un giudice che risolve i dubbi, espone la materia processuale.
Le cause di questa ‘vocazione processuale’ della penalistica sono da ricondurre alla funzione costituzionale che il giudizio criminale svolgeva nei Comuni tra 13° e 15° secolo. Il iudicium era, infatti, il luogo di pubblicizzazione e di risoluzione dei contrasti, il momento di incontro tra interessi privati e bene comune, lo strumento a disposizione dell’autorità politica per sostituirsi alla giustizia privata. Tecniche, regole, facoltà e competenze processuali sono congegni con i quali il giudice – figura che incarna l’interest reipublicae – seleziona priorità da tutelare, indirizza comportamenti, definisce devianze, infligge pene: è, pertanto, su questo profilo centrale della giustizia in azione che si concentra l’attenzione della criminalistica, protagonista del lavoro dottrinale che porta alla costruzione del cosiddetto processo romano-canonico. I giuristi contribuiscono a definire istituti, modus procedendi, categorie che la prassi applica nei tribunali e che loro razionalizzano negli scritti: danno alle stampe testi finalizzati alla formazione di avvocati, magistrati e consulenti, la cui facile fruibilità spiega l’ampia diffusione su scala europea fino a tutto il 16° secolo.
Le opere dei criminalisti, che registrano quanto accade in quella prassi che essi stessi condizionano attraverso interpretazioni e opinioni, danno forma al modello processuale inquisitorio, dominato dalle prerogative del giudice rispetto ai diritti dell’imputato, e al sistema delle prove legali, modello probatorio basato su una rigida e predeterminata gerarchia dei mezzi di prova pensata per limitare la discrezionalità del magistrato (Alessi 1979).
L’inquisitio ex officio, rielaborazione dottrinale del rito canonico pensato per contrastare i fenomeni ereticali, s’impone per consuetudine con l’avallo della scienza giuridica perché è considerata più efficace del metodo accusatorio nel contrasto all’accresciuta criminalità dell’età comunale. L’inquisitio, infatti, offre maggiori certezze di scoprire il colpevole, garantisce al giudice ampie possibilità nella raccolta delle prove, accelera i tempi d’irrogazione della pena comprimendo le garanzie difensive. Esiste un ordo da rispettare anche in questo tipo di azione: la dottrina nelle practicae e nei trattati si sofferma in modo dettagliato su ciò che il giudice può e deve fare, ma sono tante le deroghe ammesse pur di scoprire la verità, al punto che si giunge ad ammettere come nei processi ex officio contro gravi delitti ordo est ordinem non servare («la regola è non rispettare le regole ordinarie [del processo]»).
Il quadro illustrato dai doctores di diritto comune, che commentano norme canoniche, previsioni statutarie, passi delle fonti romane, stili di giudizio della pluralità di corti, testimonia un ricorso sempre più frequente all’eccezione, a pratiche illegali nate per opportunità e radicatesi per convenienza, a usi giurisprudenziali più forti della legge. Il rito inquisitorio è praticato per la persecuzione di ogni reato quasi senza limiti, sempre giustificato dalla ratio di non lasciare impunito il reo, supportato dalla necessità di ricorrere a misure straordinarie per contrastare crimini gravissimi: nam in enormibus, et atrocibus criminibus permittitur iudicibus iura transgredi etiam in procedendo («infatti nei crimini gravi e atroci ai giudici è consentito trasgredire il diritto anche nel processo»; G. Claro, Sententiarum receptarum liber quintus [...], 1568, § Primus, vers. Sunt etiam), fino alla possibilità di torturare l’imputato anche se gli indizi a suo carico non sono sufficienti né confermati da testimonianze degne, senza neppure rendergli noti i capi d’accusa, o alla facoltà di sottoporre a tormenti anche i testimoni (Garlati 1999).
La trattatistica di tipo pratico elabora un diritto penale casistico, disinteressato a schemi astratti, tipi formali, concetti generali, e descrittivo invece di casi specifici, di singoli fatti criminosi: mancano, fino al 16° sec., la ricerca teorica degli elementi costitutivi di una fattispecie, la riflessione sull’animus del reo, la distinzione tra i caratteri essenziali dei vari delitti e gli elementi accessori; spesso le circostanze di fatto, i tempi, i luoghi, le condizioni sociali o familiari dei soggetti diventano fattori di moltiplicazione dei reati. L’ordine espositivo confuso della criminalistica riproduce la frammentata esperienza giuridica bassomedievale, le differenze cetuali che si ripercuotono in privilegi o severità del rito, la pluralità di giurisdizioni e di ordinamenti che rendono incerte e flessibili le figure delittuose, l’assenza di leggi uniformi e complete che rinviano necessariamente alla discrezionalità del giudice per colmare lacune e consentire il fisiologico adattamento del sistema punitivo alle mutevoli esigenze pratiche.
Il disordinato sistema dottrinale delle Practicae è, in realtà, capace di alimentare una coerenza interna alla giustizia penale e di garantirne il funzionamento.
L’intervento del giurista ha dunque almeno due valenze. Per un verso, razionalizza, governa, assesta, motiva e rende conformi a principi giuridici le pratiche di giustizia degli apparati, con ciò svolgendo una funzione di consolidamento, che è insieme opera di controllo e all’occorrenza di moderazione; per l’altro viene costruendo dall’interno delle Practicae […] un diritto penale sostanziale che mostri la regula recti a un potere di punire naturalmente tentato all’abuso (Sbriccoli 2009, 1° vol., p. 15).
Nell’assenza di riferimenti normativi certi, il lavoro interpretativo dei doctores utilizza il rinvio all’arbitrium iudicis come un elemento regolatore che, senza negare la tenuta del sistema ordinario, ne colma per via straordinaria le lacune, ne consente una progressiva evoluzione: per la dottrina il giudice può in modo arbitrario ed extra ordinem infliggere pene diverse da quelle previste nelle disposizioni del corpo giustinianeo o negli statuti in considerazione delle condizioni del soggetto e delle circostanze del fatto, può valutare le prove al di là della rigida aritmetica delle prove legali per decidere se sottoporre un imputato alla tortura o se infliggergli una pena minore a fronte di una prova semipiena, può stabilire di caso in caso se un comportamento che non corrisponde a un reato tipico sia o no punibile perché commesso con dolo.
Il diritto penale arbitrario, costruito dalla dottrina partendo dalla pratica, consente di sviluppare
un’attività repressiva intelligente, strategica, capace di calibrare la sua azione e di programmare e articolare diffusamente la propria attività in relazione a scelte di politica criminale (Meccarelli 1998, p. 237).
Secondo i consueti canoni dell’interpretatio, la criminalistica dell’età intermedia tesse una fitta tela di opinioni, distinzioni, limitazioni, che rendono ordinarie le eccezioni, elaborando soluzioni di compromesso in grado di non rompere con la tradizione testuale e con le regole dell’ordo iudiciarius, ma idonee, tuttavia, ad adeguare la giustizia penale alle crescenti esigenze statali di esemplarità della pena e di repressione dei reati più pericolosi per l’ordine pubblico.
L’origine e lo sviluppo del diritto penale tra Medioevo e antico regime sono strettamente legati all’attività della scienza giuridica e al ruolo centrale giocato dai criminalisti nella costruzione, prima, dei poteri pubblici comunali e nel rafforzamento, poi, del potere principesco e della sovranità statuale. Come, infatti, è evidente la strumentalità del diritto punitivo per il rafforzamento del potere politico, il controllo della società e il mantenimento dell’ordine, altrettanto è indispensabile il contributo teorico dei giuristi per l’elaborazione degli istituti e la legittimazione delle procedure attraverso cui il detentore della potestà pubblica può operare.
Soprattutto a partire dal Cinquecento, secolo di formazione degli Stati moderni e dei poteri centralizzati, i giuristi esperti di ius criminale, oltre a una lucrosa carriera forense, ricoprono anche rilevanti incarichi pubblici e diventano pedine fondamentali per l’attuazione delle politiche egemoniche dei sovrani. I criminalisti sono consiglieri dei principi, alti funzionari di corte, giudici dei malefici, magistrati nei grandi tribunali centrali, docenti nelle università; agiscono come mediatori tra potere centrale e periferia, tra diritto comune e legge del principe, tra volontà uniformatrice del sovrano e difese corporative dei vari titolari di iurisdictiones. Il 16° sec. è considerato dalla storiografia il secolo del penale, periodo chiave nel quale la criminalistica porta un contributo determinante in ambito sia legislativo sia dottrinale.
Sul piano delle fonti, il Cinquecento, nei grandi Stati europei soprattutto, ma in misura rilevante anche nelle frammentate realtà politiche italiane, è caratterizzato dall’emanazione da parte dei sovrani di corposi provvedimenti normativi, dedicati in modo particolare al processo criminale e finalizzati sia a imporre un progressivo accentramento dei poteri giurisdizionali nelle mani delle corti regie a scapito della pluralità di giurisdizioni inferiori, sia a favorire una graduale omogenea applicazione del diritto penale entro il territorio dello Stato.
La sottoposizione della materia penale all’esclusiva competenza del principe, con la monopolizzazione delle fonti di produzione del diritto, la centralizzazione degli apparati e la gerarchizzazione della giurisdizione, è un processo che si realizza in modo graduale e faticoso, vincendo le opposizioni e le resistenze di tutti quei corpi intermedi che traevano dall’amministrazione della giustizia penale vantaggi economici, prestigio sociale, forza politica. Nel percorso verso la realizzazione di questo progetto egemonico, che parte dalla scelta di imporre per legge il rito inquisitorio, il principe ricorre al supporto teorico dei giuristi che
hanno prima preso atto dei nuovi indirizzi affermatesi nella prassi, e hanno poi contribuito efficacemente, partendo dalle basi romano-canoniche, alla definizione concettuale di tali indirizzi mediante lo sviluppo dei necessari supporti teorici (E. Dezza, «Pour pourvoir au bien de notre justice». Legislazioni statali, processo penale e modulo inquisitorio nell’Europa del XVI secolo, «Acta Histriae», 2002, 10, p. 9).
Tra i provvedimenti più importanti in area europea vi sono, per es., per la Francia, l’ordonnance di Blois promulgata nel 1498 da Luigi XII e quella di Villers-Cotterêts emanata da Francesco I nel 1539, che anticipano molti dei contenuti della ordonnance criminelle del 1670; in area tedesca l’ordinanza criminale di Bamberga del 1507 e quella del Brandeburgo del 1516, emanate dai principi territoriali, ma elaborate dal giurista funzionario Johann von Schwarzenberg, e la più importante Constitutio criminalis Carolina promulgata nel 1532 dall’imperatore Carlo V; in Spagna la Nueva recopilación de las leyes emanata da Filippo II nel 1567; nei Paesi Bassi la cosiddetta Style criminele, voluta nel 1570 dal duca d’Alba Fernando Álvarez de Toledo, e opera del giurista Wigle van Aytta (Viglius ab Aytta).
Nella penisola italiana, interventi legislativi dello stesso tenore, ma con minore latitudine di vigenza, sono, per es., il Ritus magnae regiae Curiae di Alfonso il Magnanimo del 1446 per la Sicilia, le Nuove costituzioni dello Stato di Milano promulgate da Carlo V nel 1541, il Libro quarto dei Novi ordini promulgato dal duca Emanuele Filiberto per la Savoia nel 1565, la legge con la quale nell’ottobre del 1682 il Consiglio dei Dieci manifesta la volontà di Venezia di esercitare uno stretto controllo sulle giurisdizioni della Terraferma.
Tali provvedimenti, che formalizzano in leggi del sovrano il modello processuale inquisitorio elaborato dalla criminalistica di diritto comune, presentano caratteri simili: limitati spazi alla difesa e alle garanzie dell’imputato, segretezza del processo informativo, scrittura degli atti, ossessiva ricerca della verità, ampi poteri concessi alla pubblica accusa nella raccolta delle prove, possibilità per il giudice di sostituirsi alla parte offesa nel promuovere e condurre l’azione penale, limitazione della discrezionalità dei giudici.
Sul piano teorico, una prima novità è rappresentata dall’istituzione, nel corso del 16° sec., di cattedre di diritto criminale in molte università italiane: a Bologna nel 1509, Padova nel 1540, Pisa nel 1544, Ferrara nel 1554, Pavia nel 1565, Roma nel 1572, Torino nel 1568, Perugia nel 1600.
Le lecturae penalistiche sono un segno della maturità scientifica e dell’autonomia didattica raggiunte dalla materia, dotata ormai di un apparato di termini, regole e istituti distinto dal diritto civile, maturato nella prassi, rielaborato dai giuristi nelle loro opere e ora sufficientemente strutturato per poter essere insegnato separatamente. I corsi, nei quali si trattano unitariamente diritto e procedura penale, sono in genere commenti alle leggi penali romanistiche (Ippolito Marsili, per es., tra il 1510 e il 1513 legge la lex de raptu virginum, la Cornelia de sicariis, la Pompeia de paricidiis e la Cornelia de falsis), arricchiti però dalle opinioni dei dottori, dalle consuetudini di giudizio nelle varie corti, dai riferimenti alle leggi nuove dei principi, attingendo a piene mani dalla dottrina della criminalistica medievale e dalle practicae. Essi rispondono all’esigenza degli studenti di acquisire adeguate competenze su una disciplina molto lucrosa, fino allora trascurata nelle università e la cui conoscenza dipende solo in minima parte dallo studio del corpo giustinianeo.
Vi sono, tuttavia, anche ragioni politiche, altrettanto importanti: nelle università, sempre più controllate dai sovrani che le finanziano, scelgono i docenti e interferiscono sulla didattica, si formano i pubblici funzionari, i giudici, gli ambasciatori, i consiglieri del principe; il diritto penale è diventato un indispensabile strumento di governo e occorrono persone competenti in grado di maneggiarlo. Spesso chi è chiamato a insegnare criminale è un giurista che, come assessore o vicario del podestà, ha maturato una diretta conoscenza del penale in atto e ha poi trasfuso questa sua esperienza nelle practicae o nei trattati (così, per es., Marsili a Bologna, Marco Antonio Bianchi a Padova, Bartolomeo Bertazzoli a Ferrara), a conferma della necessaria osmosi tra teoria e pratica che richiede la materia. Marsili esorta i lettori a studiare con grande attenzione, fino a imparare a memoria, la sua pratica criminale, in modo da acquisire le competenze necessarie a ricoprire incarichi pubblici e contribuire così al governo della respublica: la conoscenza del diritto penale è un requisito fondamentale per chi voglia seguire il cursus honorum nei pubblici apparati e le lecturae criminalium sono il luogo di formazione e trasmissione di questo sapere.
Nel corso del 16° sec. l’immagine del penale accentrato nelle mani del principe, tradotto in leggi, strumento di controllo dell’ordine e punizione del trasgressore, deve essere veicolata da una scienza penale che offra al sovrano gli argomenti legittimanti del potere punitivo, razionalizzi le regole del rito, costruisca il sistema dei delitti con le relative pene, riorganizzi il caotico e alluvionale diritto comune. I giuristi, sia quelli con vocazione più pragmatica sia quelli dalla più spiccata capacità speculativa, lavorano per rendere il sistema criminale più ordinato, chiaro, manovrabile dal vertice.
Per la criminalistica, l’interessamento più accentuato che il potere politico rivolge all’ambito penale come momento privilegiato di affermazione della publica potestas, apre nuove prospettive d’impegno nella didattica, nella dogmatica, nelle cariche istituzionali. Nelle lezioni sulla lex Cornelia de falsis, Marsili teorizza come il favor reipublicae, una sorta di privilegio statale per la persecuzione dei reati, debba orientare tanto la dottrina quanto la prassi con una forza tale da derogare a ogni precedente disposizione: così, per es., la regola secondo cui la legge o lo statuto penale odioso non devono mai essere interpretati in senso estensivo, può, tuttavia, essere elusa ubi extensio tendit ad favorem rei publice («qualora la interpretazione estensiva tenda alla pubblica utilità»; Brassea, 1517, Ad legem Corneliam de falsis, § Accusatio, vers. Moveor, f. 37v), come nel caso del prolungamento del termine di decadenza per l’esercizio dell’accusa in caso di reati gravi.
Altri giuristi testimoniano la torsione autoritativa del penale entro coordinate più pragmatiche. Egidio Bossi (1488-1546), lontano da compiti accademici ma titolare di officia prestigiosi per il ducato milanese, è podestà ad Alessandria e Novara, avvocato fiscale, senatore dal 1528, commissario ducale a Pavia, membro del Consiglio dei Sessanta decurioni di Milano, compilatore delle Nuove costituzioni del 1541: nei Tractatus varii, editi postumi nel 1562, mette a frutto la vasta esperienza maturata raccogliendo in centodiciassette titoli le questioni più controverse e rilevanti della materia penale, che tuttavia, nonostante lo sforzo ordinatorio, sono disposte ancora secondo lo schema del processo.
Altro criminalista lombardo, allievo di Andrea Alciato a Pavia, che unisce l’esperienza di alto funzionario di governo alla solida formazione giuridica arricchita da un’incredibile conoscenza della giurisprudenza, è Giulio Claro (1525-1575): membro del Senato milanese dal 1556, poi pretore a Cremona, presidente del magistrato straordinario delle Entrate e, infine, reggente del Consiglio d’Italia nel 1565, Claro è
interprete rappresentativo di quel ceto forense che incomincia a profilarsi nelle società europee coordinando la propria forza e la propria capacità d'indirizzo intorno ai tribunali supremi – organismi giudiziari e politici insieme – dei vari stati; che incomincia a porsi come spina dorsale dei regimi accentrati, come punto di raccordo tra i gruppi sociali e come strumento indispensabile per organizzare il potere e la società (A. Mazzacane, Claro Giulio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 6° vol., Roma 1964, p. 145).
Il Sententiarum receptarum liber quintus [...], edito nel 1568 e diffuso in tutta Europa fino al riformismo del Settecento, rappresenta uno dei prodotti più maturi della criminalistica italiana cinquecentesca: dopo un breve paragrafo introduttivo con alcune nozioni generali, il testo tratta in ordine alfabetico venti reati e poi, nell’ultima, corposa parte (intitolata § Finalis. Practica criminalis), i più rilevanti argomenti di diritto sostanziale e procedurale, ricorrendo alle opiniones comuni dei dottori, ai riferimenti normativi romani, statutari, canonistici ma soprattutto alle consuetudini di giudizio dei tribunali (Massetto 1994).
Per nulla interessato a definizioni astratte o a inutili discussioni teoriche, Claro certifica come in pieno 16° sec. la consuetudine, le prassi locali, l’arbitrio delle grandi corti abbiano una validità di gran lunga superiore alle regole della tradizione romano-canonica interpretate dai dottori. Il riordino e la semplificazione del sistema punitivo non sono prodotti solo dalla scienza speculativa ma anche dalla prassi, dal quotidiano lavorio dei giudici che attuano la volontà del principe. Rispetto a ciò che prevede il diritto comune, per es., sull’impossibilità di procedere per inquisizione contro l’imputato assente o sulla necessità che il giudice citi in giudizio l’accusato prima di assumere prove a suo carico, contrarium servatur de consuetudine («per consuetudine si osserva il contrario»); sulla communis opinio dei dottori, secondo la quale, per es., prima di procedere contro chi ha prestato aiuto all’autore principale del reato occorre che la responsabilità di questo sia accertata non in contumacia, prevale la contraria consuetudo huius provinciae («consuetudine di questa provincia»), secondo la quale si può procedere sempre contra auxiliatores, scelta considerata dall’autore un’optima practica.
Il quadro che emerge dalla lettura del Liber quintus mostra un penale nel quale le esigenze repressive dei sovrani, le opportunità di procedure più rapide con garanzie ridotte, il fine simbolico di non lasciare impunito il reo (o il sospettato), hanno scavalcato la rete di cautele e limiti tessuta dalla criminalistica medievale. Il netto prevalere della pratica e degli stili di giudizio imposti dai tribunali centrali impone anche ai criminalisti di assumere un ruolo diverso: organici al potere, certificano e consolidano con le loro opere la preminenza della consuetudo, rivedono dispute dottrinali alla luce della prassi, legittimano la logica punitiva degli Stati.
Un altro importante cambiamento nella criminalistica cinquecentesca è dato dall’influenza metodologica dell’umanesimo giuridico. È in particolare la ricerca di un ordine nuovo nello studio e nell’insegnamento del diritto, orientato a un’esposizione sistematica delle materie che parta da definizioni e principi generali per poi discendere deduttivamente ai casi particolari, a favorire un approccio non più solamente procedurale al diritto penale.
Oltre al profilo pratico, la scienza giuridica avvia una riflessione teorica sulle regole fondamentali del diritto di punire, sugli elementi sostanziali del delitto, sui caratteri di alcuni istituti come la responsabilità penale, il concorso di persone, il tentativo, il mandato a delinquere: non più solo appiattita sulle fasi del giudizio, né meramente descrittiva della pluralità di casi punibili, la dottrina riordina l’apparato di interpretazioni, di consuetudini consolidate, di regole generalmente accettate, secondo uno schema considerato più razionale. L’astrazione dalla casistica e la sintesi di molteplici concrete fattispecie entro categorie dogmatiche più comprensive, favoriscono la riflessione sul reato, sulla classificazione dei suoi gradi in ragione dell’intensità dell’animus, sulle sue forme di manifestazione.
Nelle lecturae penalistiche Marsili riprende posizioni ormai comuni e approfondisce il significato della regola per cui voluntas et propositum distinguunt maleficia («la volontà e il proposito caratterizzano il reato»; Brassea, cit., Ad legem Corneliam de sicariis, § Divus Adrianus, vers. Nota primo, f. 9r), elevando la colpevolezza a requisito fondamentale del comportamento penalmente rilevante e a misura della sanzione: reinterpreta passi romanistici in modo da dimostrare come nei delitti non rilevi l’effectus, bensì l’animus e il propositum siano i soli elementi costitutivi dell’illecito, e argomenta il principio per cui il delitto commesso senza dolo non deve essere punito. Riprendendo un’opinione già sostenuta da Baldo degli Ubaldi e Paolo di Castro, il giurista bolognese critica i giudici ignoranti i quali, applicando alla lettera le norme statutarie che puniscono l’omicidio con la pena capitale, irrogano indistintamente l’estremo supplizio senza distinguere tra chi ha ucciso con dolo e chi con colpa, preterintenzione o per mera casualità. Se, infatti, la pena ordinaria deve essere applicata solo per i delitti dolosi e se lo statuto che commina una pena corporale per un certo reato implica necessariamente il dolus, qualora questo animus occidendi manchi o sia espressione di una volontà meno malvagia, allora anche la sanzione deve essere proporzionalmente ridotta (nel caso, per es., di crimine commesso in stato di diminuita capacità di volere, come per l’ebbro, il dormiente, il minore, il furioso).
L’affinamento delle categorie dogmatiche generali offre alla dottrina gli argomenti per contrastare lo strapotere giudiziale, per ricondurre l’arbitrio entro limiti più circoscritti, per orientare le condanne verso scelte che proporzionino la pena inflitta ai diversi gradi di colpevolezza: il De poenis temperandis del francese André Tiraqueau (Andrea Tiraquello; 1480-1558), edito postumo nel 1559, richiama i giudici a non derogare dalle pene previste dagli statuti o dalle consuetudini e a tener conto delle varie cause che, alterando la capacità volitiva del reo, ne diminuiscono l’imputabilità e dunque giustificano un’attenuazione della pena. L’impegno teorico della penalistica porta, dunque, a una graduale affrancazione dal ripetitivo schema del processo, dominato dalla discrezionalità dei magistrati, a favore di una maggiore valorizzazione di istituti di diritto sostanziale idonei a razionalizzare la casistica e a ordinare attorno ad alcuni nuclei tematici l’apparato giurisprudenziale e sapienziale disordinatamente accumulatosi nelle practicae.
I diversi effetti e le possibili forme dell’animus nella commissione dei reati si impongono come uno degli argomenti centrali nella riflessione scientifica: il ventaglio d’interpretazioni offerto dalle leggi antiche, analizzate con cura nelle lecturae criminalium e messe a confronto con il diritto comune, rivela la necessità di un ripensamento chiarificatore della materia e apre lo spazio a una riflessione sui profili ontologici, gli elementi costitutivi e le qualità accidentali del delitto in genere. L’elemento psicologico, requisito imprescindibile di ogni reato, viene definito dalla criminalistica in modo da distinguerlo dal vizio della volontà nei contratti, graduato nelle forme a seconda dell’intensità e in funzione di una proporzionale scala sanzionatoria.
Per via dottrinale matura il concetto di dolo in criminalibus, espressione, in termini generali e astratti, della necessità della partecipazione psichica e volitiva all’evento perché si realizzi una fattispecie punibile: dolo assunto come volontà cosciente e libera di commettere un atto contrario al diritto, come animum intellectu constantem, certum, ac sibi optime conscium, ad nocendum paratum («animo deciso nella facoltà intellettiva, certo, perfettamente consapevole, intenzionato a nuocere»; P. Farinaccio, Praxis et theorica criminalis, 1595, § 87, p. 129), modulato poi nelle forme del dolo vero e presunto per misurare la pena in funzione del livello di colpevolezza e per disciplinarne la prova in giudizio.
La riflessione scientifica sul profilo soggettivo del reato diviene un luogo argomentativo nel quale acquistano importanza autonoma altri istituti fondamentali di carattere generale, prima confusi nel vortice delle distinzioni, limitazioni, eccezioni delle practicae e ora valorizzati da uno schema espositivo che tenta di collocare la descrizione della prassi entro coordinate teoriche razionalizzanti.
Un tentativo importante di revisione e originalità metodica, anche se solo parzialmente compiuto, è rapprsentato dai Tractatus varii [...] (1564) di Bartolomeo Taegio (1520-1573). Il giurista milanese dispone la materia secondo uno schema che non fa riferimento né al processo, né a una trattazione analitica dei singoli reati, ma è costruito attorno alla nozione di crimine: cosa sia, quali siano le sue parti, in che modo venga posto in essere, quale pena meritino gli autori accessori. La scansione segue le forme di responsabilità del reo (cogitatio, actio, perfectio, tentativo, errore, mandato, consiglio, aiuto materiale) e i sette accidenti romanistici del reato indicati da Venuleio Saturnino (causa, persona, luogo, tempo, qualità, quantità ed evento).
Taegio sembra più raccogliere opinioni consolidate che proporre nuove interpretazioni, più comporre una sintesi riepilogativa di alcuni loci communes che tentare una costruzione creativa: tuttavia i suoi Tractatus sono il segnale di una trasformazione in atto nella criminalistica, portato di un’attenzione nuova rivolta agli istituti di diritto penale sostanziale come conseguenza anche del metodo sistematico proposto dagli umanisti. Più che nella Praxis et theoricae criminalis (1595) di Prospero Farinaccio, monumentale raccolta di quaestiones penalistiche che ambisce a esaurire tutta la materia, l’espressione più compiuta delle trasformazioni metodologiche e contenutistiche di fine 16° sec. è il Tractatus criminalis (1590) di Tiberio Deciani, opera originale e destinata, proprio per questo, a un modesto successo nella letteratura coeva e a una riscoperta in epoca successiva.
Tra il 17° e il 18° sec., fino ai grandi progetti di riforma illuministici, si accentua negli Stati territoriali italiani il carattere egemonico e verticistico dell’amministrazione della giustizia penale: a seconda dei contesti politico-istituzionali, il fine dell’accentramento delle leve giurisdizionali e dell’uniformazione del diritto penale si persegue con l’istituzione dei grandi tribunali (per es., il Senato di Milano o il Sacro regio consiglio del Regno di Napoli), con l’estensione dei poteri delegati dal centro alle magistrature periferiche (nel caso del Consiglio dei Dieci veneziano per il controllo della Terraferma), con l’avocazione di cause da parte di tribunali centrali sottoposti a un rigoroso controllo del Principe (nel caso degli Otto di Guardia nel Granducato di Toscana).
La criminalistica svolge un ruolo fondamentale nella stabilizzazione delle nuove procedure e nella definizione teorica degli strumenti utilizzati in giudizio, nel segno di una circolarità ancora più marcata tra teoria e prassi, tra cultura giuridica e diritto praticato. Con un ritorno alla pubblicistica delle origini, dominata dalla dimensione procedurale, il terreno d’elezione dei giuristi è ancora quello delle Pratiche criminali, delle Istruzioni criminali o dei Ristretti che espongono il rito.
Scritte ora anche in lingua volgare, queste opere offrono una fedele rappresentazione del processo criminale d’antico regime pur nella varietà dei caratteri: alcune sono ricche di riferimenti dottrinali, come la Pratica [...] (1665) di Marc’Antonio Savelli, auditore della Rota criminale di Firenze; altre sono quasi del tutto prive di espliciti rinvii alla scienza giuridica, come la Pratica criminale [...] (1622) del cancelliere veneziano Lorenzo Priori, ampiamente (ma celatamente) tributaria del testo di Claro adattato all’esperienza veneta con continui richiami alle leggi e alla giurisprudenza sia della capitale sia del Dominio; altre ancora spiegano la procedura e descrivono le fattispecie in una semplice forma dialogica tra maestro e discepolo «per una più chiara intelligenza de’ Novizii», come la Nuova succinta pratica civile e criminale (2 voll., 1757-1765) di Arcangelo Bonifazi.
Tali opere di razionalizzazione e consolidamento della prassi, aggiornata in funzione delle nuove direttive statali, creano un ponte tra esperienza e dottrina,
per quel loro saper forgiare la prassi e al tempo stesso esserne forgiate, in un circuito che si alimenta reciprocamente, mirabile impasto di principi teorici e distillato di esperienza forense quotidiana, ma soprattutto precisa documentazione del carattere 'giurisprudenziale' (o dottrinale) del sistema giuridico d'ancien régime, in grado di evolversi grazie soprattutto all'apporto interpretativo dei doctores» (L. Garlati, Il 'grande assurdo': la tortura del testimone nelle pratiche d’età moderna, «Acta Histriae», 2011, 19, p. 84).
La pubblicistica a carattere pratico produce una sorta di manualistica di riferimento, una fonte di cognizione per gli stessi operatori del diritto che vi ritrovano la precisione delle formule, la formalizzazione delle regole, il linguaggio tecnico di cui sono sprovvisti. Al rigido formalismo imposto per via legislativa e finalizzato a un’omologazione della prassi giudiziale che connota in modo sempre più marcato il processo criminale, si affianca, tramite le pratiche dei doctores, un recupero della dottrina di diritto comune, non nella forma di una recezione del diritto sapienziale ma come un «graduale rimodellamento del modus procedendi alla luce dei risultati raggiunti dalla grande stagione della scienza criminalistica» (Edigati 2009, p. 354) di età moderna.
In questa continua comunicazione tra elaborazione teorica e diritto vivente, la scienza giuridica contribuisce a definire i profili del giudizio criminale, legittimando lo stile inquisitorio basato su scrittura e segretezza degli atti e sulla rilevanza delle prove indiziarie, ma avanza anche alcune critiche agli abusi procedurali (per es. contro gli errori giudiziari nella necessaria fase preliminare dell’acquisizione del corpo del reato; contro l’uso improprio della tortura e la sua inattendibilità probatoria; contro l’equivalenza tra contumacia e condanna; contro la minor attendibilità dei testi pro reo) e approfondisce istituti di diritto sostanziale (come la nozione stessa di corpus delicti, distinto a seconda che il reato sia di fatto permanente o transeunte e che comprenda oltre all’elemento materiale anche i profili della colpevolezza e dell’antigiuridicità) che anticipano la grande stagione del riformismo illuministico.
A. Gambiglioni, Tractatus de maleficiis, Mantua 1472.
B. Cipolla, Consilia criminalia, Venetiis 1504.
I. Marsili, Brassea. Commentaria super titulis ff. ad legem Corneliam de sicariis, ad legem Pompeiam de paricidiis et ad legem Corneliam de falsis [...], Bononiae 1517.
P. Follerio, Practica criminalis [...] dialogice contexta [...], Neapolis 1554.
E. Bossi, Tractatus varii qui omnem fere criminalem materiam excellenti doctrina complectuntur [...], Venetiis 1562.
B. Taegio, Tractatus varii ad criminales causas pertinentes, Mediolani 1564.
G. Claro, Sententiarum receptarum liber quintus […], Venetiis 1568.
I. Marsili, Practica criminalis, Averolda Nuncupata [...], Venetiis 1583.
T. Deciani, Tractatus criminalis [...], Venetiis 1590.
P. Farinaccio, Praxis et theorica criminalis, Venetiis 1595.
M.A. Savelli, Pratica del modo di fabbricare, e risolvere li processi criminali nelli stati del Serenissimo Gran Duca di Toscana, prefazione a Id., Pratica universale, Firenze 1665.
L. Priori, Pratica criminale secondo il rito delle leggi della Serenissima Repubblica di Venezia, Venezia 1622.
A. Bonifazi, Nuova succinta pratica civile, e criminale [...], 2 voll., Jesi 1757-1765.
P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, 2 voll., Milano 1953-1954.
A. Laingui, La responsabilité pénale dans l’ancien droit (XVIe-XVIIIe siècle), Paris 1970.
M. Sbriccoli, 'Crimen laesae maiestatis'. Il problema del reato politico alle soglie della scienza penalistica moderna, Milano 1974.
G. Alessi, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno, Napoli 1979.
G.P. Massetto, Saggi di storia del diritto penale lombardo. Secc. XVI-XVIII, Milano 1994.
M. Meccarelli, 'Arbitrium'. Un aspetto sistematico degli ordinamenti giuridici in età di diritto comune, Milano 1998
L. Garlati, Inseguendo la verità. Processo penale e giustizia nel Ristretto della Prattica criminale per lo Stato di Milano, Milano 1999.
G. Minnucci, Diritto e processo penale nella prima trattatistica del XII secolo: qualche riflessione, in Il secolo XII: la 'Renovatio' dell'Europa cristiana, Actes de la 43e semaine d'études organisé par le Centro per gli studi italo-germanici in Trento, Trente 11-15 septembre 2000, a cura di G. Constable, G. Cracco, H. Keller, D. Quaglioni, Bologna 2003, pp. 289-327.
L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia (secoli XVI-XVIII), a cura di G. Chiodi, C. Povolo, Verona 2004.
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