Abstract
La fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. viene esaminata nell’ambito del reato transnazionale di cui alla l. n. 146/2006, con particolare attenzione ai rapporti tra l’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152/2011 conv. in legge dalla l. n. 203/1991 e quella prevista all’art. 4 l. n. 146/2006, nonché alla correlazione tra la confisca per equivalente di cui all’art. 11 l. n. 146/2006 e le altre ipotesi di confisca obbligatoria.
Nell’ambito dei fenomeni di criminalità organizzata, oltre alle fattispecie incriminatrici direttamente strutturate sul modello associativo, particolare rilievo assumono le forme esteriori di realizzazione dei fatti delittuosi posti in essere dagli associati. Nella generale definizione e qualificazione delle più disparate ipotesi di reato come reati di criminalità organizzata ricadono fatti il cui speciale disvalore discende dall’eventuale impiego di un apparato strumentale prettamente mafioso o dall’essere gli stessi teleologicamente orientati ad agevolare le associazioni mafiose. Il legislatore ha dunque ritenuto di introdurre un trattamento sanzionatorio aggravato quando il singolo fatto delittuoso costituisca espressione di un agire tipicamente mafioso sul piano oggettivo ovvero su quello soggettivo. Alla necessità di introdurre una speciale circostanza aggravante, prevista dall’art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152, conv. in legge dalla l. 12.7.1991, n. 203, si aggiunge l’ulteriore esigenza di connotare i fatti di criminalità organizzata in funzione della loro dimensione nazionale e, soprattutto, transnazionale. Sotto quest’ultimo profilo, la comunità internazionale ha ritenuto di dover individuare una definizione di criminalità organizzata che potesse cogliere gli aspetti particolari delle diverse forme associative, indipendentemente dalla loro area geografica originaria. A tale definizione si perveniva attraverso la Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottata dall’Assemblea generale il 15.11.2000, ove all’art. 2 si rinviene l’individuazione del concetto di gruppo criminale organizzato inteso come «gruppo strutturato, esistente per un periodo di tempo, composto da tre o più persone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi o reati stabiliti dalla presente Convenzione, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale». La definizione in questione, seppur generica, rappresenta il punto di fusione della complessa attività svolta nella fase dei lavori preparatori ove particolare risalto aveva assunto, tra gli altri, il modello associativo mafioso delineato dall’art. 416 bis c.p. italiano. La Convenzione ha mirato a reprimere quella criminalità a fine di lucro estesa al di là dei confini geografici dei singoli Stati, agevolata dall’abbattimento delle frontiere, creando uno spazio giuridico internazionale che impegni tutti gli Stati firmatari a ottemperare gli obblighi convenzionali: di incriminazione (con ciò tentando di armonizzare le legislazioni nazionali su alcune tipologie di reati gravi) e di cooperazione tra Stati per le attività procedimentali, investigative e di prevenzione. La l. di ratifica 16.3.2006, n. 146, all’art. 3 ha mutuato dalla Convenzione una nozione di reato transazionale facendo riferimento, da un lato, a un reato punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni, qualora sia coinvolto un gruppo organizzato, e, dall’altro, a quattro criteri tra loro alternativi che determinano la natura transnazionale e cioè che «il reato a) sia commesso in più di uno Stato; b) ovvero sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo avvenga in un altro Stato; c) ovvero sia commesso in uno Stato ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; d) ovvero sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato». Occorre sottolineare come il criterio della transnazionalità alle lett. a), b) e d) venga individuato attraverso elementi che fanno riferimento alla natura del reato in quanto tale, mentre alla lett. c) tale criterio assume un rilievo peculiare ancorandosi non più al tipo di reato, bensì al raggio di azione del gruppo criminale. È fondamentale sottolineare la rilevanza nella definizione del requisito della struttura del gruppo criminale che, seppur non sembri richiedere ruoli formalmente definiti e prestabiliti tra gli associati, non pare possa prescindere dall’individuazione di un’organizzazione di mezzi e persone; e ciò si evince proprio dal modo di operare del gruppo, che sicuramente dimostra l’esistenza di qualche seppur minima articolazione interna. A tale descrizione si accompagna l’introduzione di un’apposita circostanza aggravante, delineata nell’art. 4 e caratterizzata da un trattamento sanzionatorio aggravato che, come si vedrà in seguito, richiama espressamente la circostanza di cui al citato art. 7 d.l. 152/1991. Di qui l’opportunità di una trattazione congiunta delle circostanze aggravanti che qualificano i diversi fenomeni di criminalità mafiosa e transnazionale.
L’art. 7 d.l. n. 152/1991 introduceva, nell’ambito di un significativo intervento legislativo in tema di lotta alla criminalità organizzata, una circostanza aggravante a effetto speciale, destinata a trovare applicazione in relazione ai delitti commessi dal soggetto agente con le modalità tipiche di cui all’art. 416 bis c.p., ovvero con il fine specifico di agevolare le associazioni di tipo mafioso. Tale circostanza aggravante risulta astrattamente configurabile con riferimento ai delitti-fine, commessi nel quadro del programma associativo attuativo degli scopi del sodalizio, che risultino punibili con la pena della reclusione o della multa, con esclusione dei delitti punibili con la pena dell’ergastolo. L’applicazione della circostanza in questione importa un aumento da un terzo alla metà della pena «per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo». Va evidenziato come, agli effetti della determinazione del trattamento sanzionatorio, l’aumento di pena stabilito dall’art. 7 d.l. n. 152/1991, risulti sottratto, per espressa previsione normativa, al bilanciamento tra circostanze previsto dall’art. 69 c.p. Ciò premesso, deve osservarsi che il citato art. 7 ha introdotto due diverse figure suscettibili di riflettersi sul trattamento sanzionatorio, l’una avente carattere oggettivo (aggravante del metodo mafioso), l’altra avente natura propriamente soggettiva (aggravante della finalità agevolativa mafiosa). La prima delle due figure, e cioè l’aggravante nella sua forma oggettiva, vale a caratterizzare il delitto-fine in funzione delle sue particolari modalità attuative, incentrate sul fatto di «avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva» (art. 416 bis c.p.). La seconda, ossia la circostanza avente natura soggettiva, si presenta caratterizzata dal dolo specifico che deve accompagnare la realizzazione del delitto-fine, dovendo questo risultare commesso al fine ulteriore di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso. Si tratta, in altri termini, di una circostanza che orienta in senso sostanzialmente teleologico lo scopo perseguito mediante la commissione del singolo delitto. In relazione alle particolari caratteristiche delle circostanze delineate dall’art. 7 d.l. n. 152/1991, si è discusso lungamente in dottrina e in giurisprudenza circa la possibilità di ritenerle configurabili in relazione a tutti i delitti commessi dagli associati ovvero anche in relazione a delitti non realizzati da questi ultimi. Sull’argomento, a dirimere i dubbi e i diversi indirizzi interpretativi è intervenuto il massimo organo nomofilattico (Cass. pen., S.U., 27.4.2001, Cinalli, in CED Cass., n. 218377), ponendo in rilievo le differenze ontologiche esistenti tra il metodo mafioso delineato dall’art. 416 bis, co. 3, c.p. e il metodo mafioso, inteso come circostanza aggravante ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152/1991. Il metodo mafioso, nel primo caso, costituisce, secondo il Supremo Collegio, un connotato intrinseco del fenomeno associativo e in quanto tale un elemento che, al pari del vincolo, permane indipendentemente dalla commissione dei vari reati. Nell’accezione circostanziale, invece, il metodo mafioso rappresenta una caratteristica eventuale di un concreto episodio delittuoso, apparendo plausibile che un associato ponga in essere una condotta criminosa che, pur costituente un delitto-fine, sia stata attuata senza che questi si sia avvalso della forza di intimidazione che caratterizza l’agire dell’associazione di tipo mafioso. Tali considerazioni hanno indotto le Sezioni Unite a ritenere possibile che «un associato attui una condotta penalmente rilevante, e pur costituente reato fine, senza avvalersi del potere intimidatorio del clan. Del resto, anche dal punto di vista soggettivo, va tenuto presente che diversa è la volontà di impiego di un certo mezzo in un programma indeterminato rispetto a quella che sorregge il ricorso allo stesso in un caso specifico. Pertanto, il fatto che ad un partecipe sia addebitato ai sensi della norma codicistica il metodo mafioso quale patrimonio sociale e caratteristica dell’azione del gruppo, non preclude la possibilità di contestargli il suddetto metodo, quale da lui effettivamente utilizzato in determinate occasioni delittuose; se questa evenienza invece non si verificasse, il precetto circostanziale non opererebbe, ma non già per incompatibilità, bensì per assenza del comportamento in esso sussumibile». Avuto riguardo alla circostanza aggravante nella sua accezione tipicamente soggettiva, con la medesima decisione la Suprema Corte perveniva a conclusioni identiche, osservando come l’associato potesse rispondere di un contributo permanente all’attuazione degli scopi sociali, ma anche porre in essere singoli delitti sorretti dal dolo specifico di agevolare le attività del sodalizio di tipo mafioso. Sulla scorta di tali premesse la Cassazione ha concluso nel senso che la circostanza, in entrambe le sue forme, possa risultare ascrivibile tanto a soggetti non appartenenti all’associazione di tipo mafioso, quanto agli affiliati alla stessa. Parte della dottrina (cfr. Turone, G., Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2008, 191) ha espresso significativi dubbi in ordine alla soluzione interpretativa proposta dalla richiamata sentenza Cinalli, con particolare riferimento alla forma oggettiva della circostanza aggravante in esame. In estrema sintesi, sarebbe difficilmente comprensibile come l’attuazione di delitti-fine ricadenti nel programma o tra gli scopi del sodalizio possa avvenire prescindendo dall’utilizzo dell’apparato strumentale tipico rappresentato, come più volte detto, dal metodo mafioso. Secondo tale indirizzo dottrinale, l’espressione adoperata nel testo dell’art. 7 d.l. n. 152/1991relativa all’avvalersi del metodo mafiosocostituisce l’essenza e la struttura stessa su cui è imperniato il modello associativo mafioso, e non la sola forma di esteriorizzazione di atti specifici, isolati dal complesso dell’apparato strutturale-strumentale mafioso. Quest’ultimo, caratterizzando tutte le espressioni associative, dovrebbe invariabilmente qualificare anche le modalità di attuazione dei singoli delitti costituenti realizzazione degli scopi tipicamente perseguiti dall’organizzazione criminosa. Ad analoghe conclusioni dovrebbe pervenirsi anche in relazione alla direzione finalistica dei delitti-fine, i quali difficilmente potrebbero risultare commessi per scopi diversi da quelli attuativi degli obiettivi del sodalizio. Tuttavia, le pur pregevoli obiezioni dottrinarie non trovano riscontro nell’interpretazione che la giurisprudenza ha ritenuto, conformemente alla sentenza Cinalli, di offrire nell’applicazione concreta della circostanza aggravante in esame (cfr. Cass. pen., sez. VI, 22.1.2009, n. 19802; Cass. pen., sez. II, 18.9.2007, n. 9167).
Coerentemente con l’esigenza, avvertita a livello internazionale, di elaborare una definizione comune di criminalità organizzata, il legislatore nazionale, recependo il contenuto dell’art. 3, par. 2, della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, all’art. 3 della l. n. 146/2006, con cui veniva ratificata la Convenzione citata, introduceva la categoria del reato transazionale. Dopo averne tracciato la definizione, all’art. 4 della medesima legge di ratifica è stata prevista una particolare circostanza aggravante a effetto speciale direttamente ricollegata alla natura transnazionale riconoscibile in alcuni sodalizi criminosi. La disposizione in esame stabilisce che si applichi, ai reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, un aumento di pena da un terzo alla metà per i reati «nella commissione dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato». Tale aumento di pena risulta sottratto, come nel caso della circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991 – del resto espressamente richiamato a tal fine dall’art. 4 l. n. 146/2006 – al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti. Occorre osservare, ai fini che qui interessano, come la nuova circostanza aggravante della transnazionalità, abbia posto una serie di questioni interpretative sin dal momento della sua entrata in vigore. In primo luogo, si è posto il quesito circa la possibile compatibilità della circostanza aggravante con il delitto associativo (ancorché considerato nella sua accezione comune di cui all’art. 416 c.p.). La questione è stata recentemente risolta dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione le quali, pur ritenendo astrattamente compatibile la circostanza aggravante in questione con il delitto associativo comune, hanno doverosamente precisato che «occorre dunque verificare se ed in che limiti il contributo di un gruppo organizzato transnazionale, che in sé potrebbe già presentare, in ipotesi, tutti i connotati per realizzare la fattispecie di una associazione finalizzata alla commissione di determinati delitti – divenendo per ciò perseguibile in base al quadro normativo vigente – possa rappresentare, a sua volta, quella condotta autonoma aggravatrice rispetto alla stessa fattispecie associativa. Ebbene, poiché quel contributo – ancorché realizzato in forma associativa – deve ontologicamente rappresentare una condotta materialmente scissa da quella che è necessaria per realizzare la fattispecie base, se ne può dedurre che l’aggravante in questione non risulta compatibile con la figura della associazione per delinquere in tutti i casi in cui le due condotte associative coincidano sul piano strutturale e funzionale, dando luogo ad un’unica associazione transazionale. Ove, invece, l’associazione per delinquere “basti a se stessa”, nel senso che i relativi associati o parte di essi ed il programma criminoso posto a fulcro del sodalizio realizzino il fatto-reato a prescindere da qualsiasi tipo di contributo esterno, può ben immaginarsi che, a tale condotta, altra (e autonoma) se ne possa affiancare, al fine di estendere le potenzialità e l’agere del sodalizio in campo internazionale; con la conseguenza che ove un siffatto contributo sia fornito da persone che in modo organizzato sono chiamate a prestare tale collaborazione, non potrà negarsi che il reato base assuma dei connotati di intrinseca maggiore pericolosità, tale da giustificare l’applicazione della aggravante in questione. Il tutto ovviamente a prescindere dalla circostanza che il contributo offerto dal “gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato” renda poi quello stesso gruppo partecipe o concorrente nel reato associativo “comune”, posto che è proprio quel contributo a rappresentare il quid pluris che giustifica la ratio aggravatrice, che non può certo ritenersi assorbita dalle regole ordinarie sul concorso di reati» (così, Cass. pen., S.U., 31.1.2013, n. 18374). In sintesi, le Sezioni Unite, dopo aver chiarito il concetto di reato transazionale, averne delimitato la distinzione con quello di contributo rilevante ai sensi dell’art. 4 l. n. 146/2006 ed aver tracciato anche i limiti della figura di associazione per delinquere transnazionale, qualificata in termini di fattispecie complessa ex art. 84, co. 1, c.p., e comunque ricadente nell’ipotesi di cui all’art. 416 c.p., sono pervenute alla doverosa conclusione per cui, ai fini della sussistenza della circostanza aggravante di cui al citato art. 4, non è sufficiente la sola esistenza di un’associazione per delinquere comune o addirittura transazionale, occorrendo un quid pluris rappresentato dall’essersi l’associazione avvalsa della prestazione di un contributo materialmente scisso da quello prettamente associativo. Il principio di diritto espresso dal massimo organo di legittimità, negli stessi limiti in cui è affermato in relazione al delitto di associazione per delinquere semplice, sembra applicabile anche all’associazione di tipo mafioso quando quest’ultima svolga un proprio contributo «in attività criminali in più di uno Stato». Non va peraltro trascurato come, indipendentemente dal fatto che le attività criminali possano essere realizzate in più di uno Stato, le condotte poste in essere da appartenenti a una associazione di tipo mafioso possano apparire a loro volta aggravate a norma dell’art. 7 d.l. n. 152/1991. Si pone, allora, ulteriore questione interpretativa in relazione alla configurabilità di un concorso, in relazione ai reati-fine del sodalizio mafioso che in ipotesi agisca in più di uno Stato, tra la circostanza aggravante di cui all’art. 4 l. n. 146/2006 e quella di cui al menzionato art. 7 d.l. n. 152/1991. Sull’argomento si è espressa parte della dottrina (cfr. G. De Amicis, G.-Villoni, O., La ratifica della convenzione ONU sulla criminalità organizzata transnazionale e dei suoi protocolli addizionali, in Giur. mer., 2006, 1626 ss.), sostenendo che la circostanza di cui all’art. 4 l. n. 146/2006 potrebbe ritenersi assorbita dall’aggravante del metodo mafioso. Invero, entrambe le circostanze potrebbero apparire applicabili in presenza di un reato rientrante nel programma delinquenziale dell’associazione di tipo mafioso, avente una dimensione transazionale, per essere il contributo prestato dagli associati idoneo a realizzarsi, mediante lo sfruttamento dell’apparato strutturale-strumentale dell’organizzazione, anche in più di uno Stato. Andrebbe rilevato allora, per sostenere un assorbimento dell’aggravante della transnazionalità in quella del metodo mafioso, che il carattere della transnazionalità può risultare riconoscibile rispetto a un’ampia gamma di delitti, non risolvendosi mai in un elemento costitutivo di alcuno di essi. In altri termini, dovrebbe ritenersi che la natura transnazionale, spesso comune alle associazioni mafiose, non risultando tra gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., né figurando quale specifica circostanza aggravante legata alla fattispecie incriminatrice de qua, non consenta di identificare un possibile rapporto di specialità (reciproca) con la circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991. Pertanto, essa resterebbe assorbita nell’aggravante del metodo mafioso. Ulteriore argomento addotto a sostegno della tesi dell’assorbimento è rappresentato dal rilievo che, includendo l’art. 4 l. n. 146/2006, un esplicito richiamo all’art. 7 d.l. n. 152/1991, con riferimento al divieto di bilanciamento ex art. 69 c.p., tale richiamo non potrebbe valere a implicare l’applicazione cumulativa di due aggravanti sostanzialmente identiche per uno stesso fatto di reato. Al contrario, tale richiamo avrebbe la finalità di rendere applicabile, ai delitti che si presentino caratterizzati dall’elemento della transnazionalità, il regime sanzionatorio speciale previsto in relazione ai delitti di mafia. Altra parte della dottrina risulta, tuttavia, di opposto avviso (cfr. ad esempio, Centonze, A., Criminalità Organizzata e reati transnazionali, Milano, 2008, 271). In particolare, secondo l’interpretazione da essa proposta non sussisterebbe alcun limite, se non quello di cui all’art. 66 c.p., nell’applicazione congiunta di entrambe le circostanze, dovendosi sostenere che il disvalore attribuito a un fatto delittuoso in considerazione della sua transnazionalità non equivalga, per ciò solo, a ritenere che esso sia anche necessariamente commesso con modalità mafiose e viceversa.
Nell’adeguamento dell’ordinamento interno agli standard normativi dei più evoluti ordinamenti occidentali, in correlazione con gli interventi in tema di criminalità organizzata transnazionale e mafiosa, assume indubbio rilievo la disciplina introdotta dal d.lgs. 8.6.2001, n. 231, attributiva agli enti di una responsabilità cd. amministrativa dipendente da reato. Con riferimento agli effetti delle interferenze tra responsabilità amministrativa degli enti e il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., occorre evidenziare come, nel novero dei delitti costituenti «reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti», figuri – dapprima in virtù del disposto dell’art. 3 l. n. 146/2006, e definitivamente in forza dell’art. 2, co. 29, l. 15.7.2009, n. 94 – quello di «associazione per delinquere di stampo mafioso anche straniera», oltre che i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni ivi parimenti previste (art. 24 ter d.lgs. n. 231/2001). In un primo momento, dunque, l’inserimento del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. nell’elenco dei reati presupposto era subordinato alla condizione che l’associazione criminale presentasse il carattere della transnazionalità. Tuttavia, in esito alla novella legislativa del 2009, il delitto di associazione costituisce a tutti gli effetti, e senza condizioni particolari, fattispecie cui si ricollega la responsabilità amministrativa degli enti. L’intervento normativo pare di significativo interesse ove si consideri la rilevanza che lo strumento imprenditoriale assume nell’ambito delle finalità e degli scopi tipici perseguiti dalle associazioni mafiose. La novella del 2009, dunque, introducendo in relazione a tali categorie di delitti la possibile sussistenza della responsabilità amministrativa dell’ente, ha previsto l’applicazione degli strumenti sanzionatori di cui all’art. 9, co. 2, d.lgs. n. 231/2001, sub specie di misura interdittiva per una durata non inferiore a un anno, nonché l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività di cui all’art. 16, co. 3, del medesimo d.lgs., quando l’ente o la sua unità sia utilizzato all’unico o prevalente scopo di commettere i delitti di cui trattasi. Secondo autorevole dottrina (cfr. Barillaro, M., Il reato di associazione mafiosa, Milano, 2011, 122 e ss.) l’intervento normativo «allarga anche la piattaforma da quegli enti che agivano secondo un protocollo direttamente lecito, anche agli enti che possono definirsi “sostanzialmente” illeciti: la c.d. “impresa criminale”» (per approfondimenti, cfr. Piergallini, C., I reati presupposto della responsabilità dell’ente e l’apparato sanzionatorio, in Reati e responsabilità degli enti. Guida al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, a cura di G. Lattanzi, Milano, 2010, 211 ss.). La distinzione operata in relazione alle diverse forme dell’agire dell’impresa criminale appare ben aderente al volto imprenditoriale che il fenomeno mafioso ha da sempre sfruttato nel perseguimento di buona parte dei suoi scopi tipici. Nell’agire del sodalizio di tipo mafioso, come si è ripetutamente avuto modo di osservare, vi è in particolar modo l’interesse verso l’acquisizione di attività economiche e il loro controllo, di guisa che lo schermo rappresentato dall’ente costituisce, soprattutto nell’evoluzione continua e più moderna del fenomeno mafioso, uno strumento insostituibile nel perseguimento e nell’attuazione dei suoi scopi di carattere imprenditoriale. La responsabilità amministrativa dell’ente, derivante dalla sua coincidenza con la realtà associativa ovvero dalle cointeressenze con la stessa, offre, dunque, ulteriori mezzi – rispetto ai diversi rimedi di natura reale, previsti dal codice penale, dalle leggi speciali e dal nuovo codice antimafia in materia di misure di prevenzione – suscettibili di reprimere efficacemente l’ormai imponente infiltrazione delle associazioni di tipo mafioso nei più disparati settori dell’economia.
Nell’ambito della legge di ratifica della Convenzione sul crimine organizzato transnazionale, è stata introdotta una particolare ipotesi di confisca destinata ad essere applicata in presenza di un fatto rientrante nella definizione di cui all’art. 3, e cioè di crimine transnazionale. La nuova fattispecie ablativa ha natura di confisca per equivalente, disciplinata con modalità applicative particolarmente estese dall’art. 11 l. n. 146/2006. In linea generale, essa risulta suscettibile di utilizzazione relativamente alle associazioni mafiose aventi una dimensione transnazionale, quando non sia possibile procedere in via diretta all’apprensione del prezzo, prodotto o profitto del reato (art. 416 bis, co. 7, c.p.), con riferimento a denaro, beni o altre utilità di cui il reo abbia la disponibilità, anche per interposta persona fisica o giuridica, per un valore corrispondente a quello del prezzo, del prodotto o del profitto del reato. Occorre premettere che sul piano legislativo ci si è soffermati sullo strumento giuridico della confisca, utilizzandola e mutandone la funzione per combattere soprattutto attività di criminalità economica. Sono state quindi introdotte ipotesi di confisca obbligatoria che conseguono automaticamente alla commissione di delitti di criminalità organizzata; è stata ampliata, rispetto alla generale disposizione di cui all’art. 240 c.p., la gamma dei beni che può essere sottoposta a confisca obbligatoria; inoltre, a fronte di una “economia criminale senza memoria storica”, risultando spesso impossibile ricostruire le trasformazioni del patrimonio criminale mafioso, si è introdotto l’art. 12 sexies d.l. 8.6.1992, n. 306 conv. in legge dalla l. 8.6.1992, n. 356, che obbliga alla confisca di tutti i beni posseduti direttamente o indirettamente da soggetti condannati per criminalità organizzata, che risultino sproporzionati al reddito dichiarato e alle attività economiche lecitamente svolte. Ne deriva che la confisca per equivalente svolge una funzione residuale, dovendo il giudice, a fronte di un crimine organizzato transnazionale, confiscare, prima di tutto, i proventi del reato associativo a norma dell’art. 416 bis comma 7 c.p. e, successivamente, il patrimonio sproporzionato al reddito dichiarato o lecitamente acquisito; solo in ultimo, ove residui una parte di patrimonio, potrà effettuare la confisca per equivalente fino al raggiungimento del prodotto, profitto o prezzo del reato (cfr. Laudati, A., Nasce la confisca per equivalente, in Guida dir., 2006, fasc. 17, 70). Occorre ricordare che, mentre la confisca tradizionale – misura di sicurezza (art. 240 c.p.) – presuppone l’individuazione di un rapporto di pertinenzialità tra il reato e il bene oggetto di apprensione, nell’evoluzione dell’istituto della confisca tale rapporto è venuto meno, tanto che essa assume sempre di più la funzione di pena accessoria nei confronti di soggetti condannati per attività delinquenziali di criminalità organizzata (nel senso che il giudice non debba ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscati e il reato per cui ha pronunciato condanna, cfr. Cass. pen., S.U. 19.1.2004, n. 920). Nel caso della confisca per equivalente introdotta nell’ambito dei reati transnazionali è possibile l’apprensione di beni-utilità che, seppure privi di qualsiasi connessione naturalisticamente apprezzabile con il fatto di reato, presentino comunque il connotato dell’equivalenza rispetto al bene pertinenziale di cui non sia possibile la confisca. Quindi, la figura della confisca per equivalente, svincolata dalla sussistenza di un nesso di pertinenzialità rispetto al fatto di reato per cui si procede, non rappresenta una novità assoluta nell’ordinamento interno, che già si avvale di diversi strumenti di repressione patrimoniale basati su presupposti applicativi distinti da quello della derivazione o strumentalità rispetto al reato (artt. 600 septies, 644, ult. co., 322 ter, 640 quater, c.p., e art. 12 sexies d.l. 306/1992; ai quali si aggiunge la confisca introdotta all’art. 648 quater c.p. dal d.lgs. 21.11.2007, n. 231 e dalla l. 15.12.2014, n. 186, che ha esteso la confisca per equivalente alla nuova fattispecie di autoriciclaggio). La confisca per equivalente, dunque, pur consentendo di disporre lo spostamento della misura reale dal bene che costituisce il provento pertinenziale del reato per cui si procede ad altro che pur sempre ricada nella disponibilità dell’indagato o imputato, richiede un preliminare ed essenziale accertamento circa l’esistenza del bene che costituisca il provento originario del reato, la cui confisca sia impedita da un fatto sopravvenuto che ne abbia determinato il trasferimento o la perdita. Il reperimento dei beni costituenti il provento pertinenziale del reato può rivelarsi impossibile anche solo transitoriamente o reversibilmente, purché esso sia tale al momento dell’adozione del provvedimento reale; a tale fine è stata ritenuta irrilevante la ragione per la quale sia intervenuta l’impossibilità di apprendere la res direttamente o indirettamente derivante dal reato (Cass. pen., 24.7.2009, n. 30930, Pierro). Circa il presupposto applicativo della confisca in discussione, che ne costituisce requisito operativo indefettibile, è evidente come debba ritenersi gravare sul giudice che la dispone un onere di motivazione adeguato e sufficiente, secondo i principi generali in tema di motivazione dei provvedimento dell’autorità giudiziaria. L’effettiva consistenza dell’onere argomentativo in tema di condizioni per l’adozione della confisca per equivalente è tuttavia modellato dalla giurisprudenza prevalente in termini di forte elasticità e flessibilità, ritenendosi sufficiente il riferimento alla pur momentanea indisponibilità del bene, senza che il giudice debba dare conto delle attività volte alla ricerca dell’originario provento del reato (Cass. pen., 21.5.2007, n. 19662, in CED Cass., n. 236592). Sul piano applicativo, la confisca per equivalente introdotta in tema di reati transnazionali presenta non poche difficoltà in funzione della concreta operazione di quantificazione dei proventi del gruppo criminale organizzato demandata al giudice di merito, e in relazione alla quale egli è gravato da ulteriore onere argomentativo. Discussa è, infine, la natura della confisca per equivalente, e in particolare, per quanto qui rileva, quella prevista dall’art. 11 l. n. 146/2006. Invero è principio indiscusso quello per cui la confisca di cui all’art. 240 c.p. è una misura di sicurezza, la cui efficacia nel tempo è disciplinata dall’art. 200, co. 1, c.p.; quanto invece alla confisca per equivalente si è sostenuto che questa assuma carattere eminentemente sanzionatorio, poiché assolve una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione, che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza. Proprio dalla ritenuta natura sanzionatoria della confisca per equivalente deriva la conclusione che essa non risulti suscettibile di applicazione retroattiva rispetto a fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 146/2006 (cfr. Cass. pen., 24.9.2008, n. 39172).
Art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152, conv. in legge dalla l. 12.7.1991, n. 203; artt. 3-4, 10-12 l. 16.3.2006, n. 146; art. 2, co. 29, l. 15.7.2009, n. 94; artt. 9, co. 2, 16, co. 3, 24 ter d.lgs. 8.6.2001, n. 231; art. 3 l. 15.12.2014, n. 186.
Barillaro, M., Il reato di associazione mafiosa, Milano, 2011; Centonze, A., Criminalità organizzata e reati transnazionali, Milano, 2008; De Amicis, G.–Villoni, O., La ratifica della convenzione ONU sulla criminalità organizzata transnazionale e dei suoi protocolli addizionali, in Giur. mer., 2006, 1626 ss.; Laudati, A., Nasce la confisca per equivalente, in Guida dir., 2006, fasc. 17, 70; Piergallini, C., I reati presupposto della responsabilità dell’ente e l’apparato sanzionatorio, in Reati e responsabilità degli enti. Guida al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, a cura di G. Lattanzi, Milano, 2010, 211 ss.; Piergallini, C., Paradigmatica dell’autocontrollo penale dalla funzione alla struttura del “modello organizzativo” ex d.lgs. 231/2001, in Studi in onore di Mario Romano, III, 2049 ss.; Turone, G., Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2008; Tartaglia, R., Codice delle confische e dei sequestri, Lecce, 2012.