Criminalità
(App. V, i, p. 760)
Lo studio del fenomeno della delinquenza, condotto con metodo positivo, e quello del delinquente, condotto con i metodi naturalistici delle scienze comportamentali, sono trattati nell'Enciclopedia Italiana nelle voci sociologia criminale (XXXI, p. 1020) e antropologia: L'antropologia criminale (III, p. 590). Nella voce delinquente (XII, p. 535), sono esposte le distinte posizioni della scuola classica e della scuola positiva sul concetto di delinquente e le classificazioni dei delinquenti nel codice penale italiano. Per l'incidenza del fenomeno in Italia e la sua evoluzione si rinvia alle voci delinquenza (XII, p. 537; App. II, i, p. 765, IV, i, p. 581) e criminalità (App. V, i, p. 760); in quest'ultima si delinea anche lo stato della ricerca criminologica sul fenomeno criminale in generale. Quanto alla c. organizzata (v. oltre), cfr. in partic. la voce mafia (XXII, p. 863; App. V, iii, p. 277); e come "forma criminale assimilabile alla mafia nei metodi e negli interessi", ma con origini diverse, v. anche camorra (VIII, p. 560; App. V, i, p. 68). *
Il fenomeno criminale in generale
di Maria Cristina Giannini
La c. adulta e la delinquenza giovanile, seppure mali di sempre, hanno assunto negli anni Novanta, in forme convenzionali o nuove, un particolare rilievo sociale per la loro accresciuta incidenza e gravità, coinvolgendo settori sempre più numerosi della vita sociale non solo del mondo occidentale e dei paesi a tecnologia avanzata.
Se si fa riferimento alle statistiche ufficiali, in relazione ai reati cosiddetti convenzionali, si nota come nelle principali nazioni europee (Gran Bretagna, Irlanda, Francia, Germania, Svezia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Italia) la tendenza generale ai reati violenti, in specie quelli di omicidio, sia crescente e la stessa situazione, anche se meno regolare, si presenta per tutte le fattispecie criminose denunciate alla polizia, inclusi i reati collegati al traffico (road traffic offences). Quantunque il furto rimanga il reato più diffuso a livello quantitativo, le rapine (semplici e a mano armata) presentano una tendenza ascendente maggiore rispetto agli stessi furti e alle aggressioni (sessuali o fisiche), il cui aumento, in percentuale, è però meno marcato. Questi andamenti evidenziano, da un lato, il cambiamento di qualità della c., dal momento che reati quasi sconosciuti alla precedente generazione (per es., le rapine aggravate) sono oggi parte integrante dell'inevitabile esperienza della vita moderna e, dall'altro, che la fase di relativa stabilità criminale, tipica degli anni Ottanta, è del tutto superata.
La situazione appena prospettata, relativa ai paesi occidentali europei, sembra altrettanto valida per quelli dell'Europa centrale e orientale: infatti, i risultati delle recenti indagini condotte in quei contesti, prima inaccessibili ai ricercatori, hanno palesato un chiaro aumento del tasso degli omicidi, delle lesioni aggravate e delle rapine anche nei nuovi Stati indipendenti europei nati dalla disgregazione dell'URSS (Armenia, Bielorussia, Georgia, Estonia, Lituania, Lettonia, Moldavia, Ucraina, Russia). Altresì in Ungheria e in Polonia la situazione sembra virtualmente la medesima, ma è più stabile specialmente riguardo alle aggressioni aggravate e alle violenze sessuali. Il dato particolarmente allarmante e comune ai contesti dell'Europa centrale e dei nuovi Stati indipendenti europei è rappresentato dal tasso degli omicidi che, per es. in Russia, è addirittura più elevato della pur notoriamente alta percentuale presente negli Stati Uniti. Relativamente alle altre nazioni dell'Europa centrale, è ancora la rapina ad aumentare drammaticamente, mentre gli altri reati non mostrano un andamento crescente altrettanto uniforme e grave. In Albania i crimini denunciati si presentano in numero relativamente stabile e altrettanto avviene nei nuovi Stati indipendenti non-europei già facenti parte dell'Unione Sovietica, che mostrano basse percentuali di aumento. È forse la natura rurale dell'Albania, del Kazakistan, del Kirghizistan, del Tagikistan, del Turkmenistan e dell'Uzbekistan di qualche significato? Oppure è possibile che la vita odierna in quei contesti culturali sia realmente meno convulsa che negli Stati maggiormente 'dinamici' dell'ex Blocco orientale? O, come è più verosimile, specie per quel che concerne l'Albania, che si sia in presenza di un forte divario tra c. reale e c. ufficialmente accertata?
È utile inoltre prospettare la situazione che si presenta nel contesto americano: negli Stati Uniti i reati sono aumentati significativamente dal 1986 al 1994 - il 16% per l'omicidio, il 94% per la rapina e il 9% per il furto con scasso -; nella sola New York gli omicidi sono cresciuti del 18%, le rapine del 95%, e i furti con scasso dell'11%. Nel 1995 si evidenzia, invece, un andamento decrescente rispetto agli omicidi, alle violenze sessuali, ai furti in appartamento e di auto, che invertono la loro tradizionale tendenza in seguito all'adozione di nuove strategie di politica criminale più efficaci a fronteggiare la criminalità. Anche in Canada le percentuali dei reati tradizionali si presentano crescenti, ma in modo più moderato. Le differenze riscontrate in ambito interculturale dimostrano che l'incidenza criminosa non è un fenomeno uniforme a livello internazionale, in quanto è correlata alle specifiche caratteristiche di ciascuna nazione.
A titolo esemplificativo si riporta un raffronto, relativo all'anno 1994, fra le città di New York, Londra, Madrid, Bruxelles e Roma rispetto ad alcune tradizionali tipologie criminose omogenee, dal quale si rileva che il quoziente d'incidenza per 100.000 abitanti per qualsiasi tipo di reati considerati è maggiore per la città americana rispetto alle altre, in alcuni casi addirittura in misura multipla (tab. 1). Il confronto con dati relativi al 1998 forniti dalla stessa fonte mostra come, pur in presenza di un generale aumento dei reati nelle città europee (per es. 3820 rapine a Roma e 26.187 a Madrid), la proporzione resti comunque inalterata.
Accanto alle summenzionate fenomenologie criminali tradizionali, si stanno sviluppando o continuano a gravare pesantemente sul sistema socioeconomico nazionale e internazionale (il più delle volte come forme di c. sommersa) tutte quelle manifestazioni comportamentali, molto spesso a contenuto transnazionale, collegate alla violenza intrafamiliare in tutte le sue estrinsecazioni di aggressione a sfondo fisico, psicologico e sessuale a danno delle donne, dei minori e degli anziani; alla violenza sessuale; alla pedofilia e allo sfruttamento sessuale dei bambini per scopi commerciali; allo sfruttamento del lavoro minorile; alla 'baby violenza' così dilagante, con bambini sempre più piccoli coinvolti e strumentalizzati da organizzazioni criminali, al bullismo scolastico, ai piccoli delinquenti di buona famiglia che distruggono scuole, taglieggiano e violentano coetanei, rubano auto, rapinano banche, uccidono familiari e compagni di scuola, il più delle volte non per bisogno, ma per noia. La recrudescenza e la riattualizzazione del fenomeno delle bande di giovanissimi, tipica espressione della devianza minorile statunitense degli anni Sessanta, oggi diffusissima nel contesto europeo, è sintomo, spesse volte, del 'disagio dell'agio' che si accompagna alla contemporanea ascesa del bullismo femminile in Europa e della c. femminile di banda negli Stati Uniti; ai culti e alle sette religiose che hanno assunto una connotazione sempre più criminale (collegata anche al problema rappresentato dai gruppi di 'rock pesante', accusati di scrivere brani che incitano alla violenza e di diffondere il satanismo); alla c. professionale e alle carriere criminali; alla c. economica (imprese criminali, economie sporche); ai crimini contro l'ambiente; alla c. tecnologica; alla corruzione; all'abuso di potere; al razzismo e ai conflitti etnici; alla c. organizzata (v. oltre) nelle sue molteplici connessioni; al terrorismo.
Alla luce di questa breve disamina fenomenologica è importante rilevare che le suesposte forme di c. non sono esclusive e tipiche del contesto occidentale (europeo e nordamericano), dal momento che si stanno velocemente diffondendo anche nei paesi del postcomunismo.
Il fenomeno criminale e delinquenziale in Italia
L'analisi del fenomeno criminale, nel corso degli anni Novanta, consente di evidenziare tendenze sostanzialmente crescenti a livello quantitativo assoluto per quel che concerne tanto i reati denunciati quanto le persone denunciate, nei cui confronti l'autorità giudiziaria ha iniziato l'azione penale (tab. 2). Lo stesso andamento crescente si riscontra anche rispetto agli autori ignoti, la cui incidenza percentuale è passata dal 69% nel 1989 all'81% nel 1997. Rispetto poi alle specifiche fenomenologie criminali (tabb. 3A e 3B), la c. patrimoniale, che ha sempre costituito la fattispecie quantitativamente maggiore, con una tendenza crescente fino al 1996, palesa, invece, nel 1997 un decremento significativo (−9%), per cui la variazione percentuale negli anni considerati (1990-97) è pari al 29%. Rispetto alle altre tipologie criminali il trend si mantiene sempre crescente e cioè pari al 138% per i reati contro la persona, al 61% per i reati contro la famiglia e il buon costume, all'83% contro l'economia e la fede pubblica, al 208% per i reati contro lo Stato.
È possibile evidenziare l'andamento di alcuni specifici delitti ritenuti più significativi, in quanto rispondono a un maggior allarme sociale, e cioè il furto, la rapina, l'estorsione, il sequestro di persona, la truffa, l'omicidio volontario, le lesioni volontarie e la violenza sessuale (tab. 4): per i primi due anni del periodo 1990-97 i delitti considerati presentano tutti un andamento crescente, quindi una tendenza decrescente, in maniera non uniforme, a eccezione dei reati di truffa con un incremento del 456%, delle lesioni personali con l'86% e della violenza sessuale che dal 1990 al 1995 manifesta un aumento del 35%, per poi impennarsi al 141% nel 1997. È forse a causa della nuova normativa in tema di violenza sessuale, entrata in vigore nel 1996 (l. 15 febbr. 1996 nr. 66) che le denunce sono quasi triplicate? Dato che il detto reato è sicuramente quello a maggiore incidenza di numero oscuro, si potrebbe presumere che l'attuale disciplina, con tutto il suo lunghissimo iter legislativo, abbia finalmente favorito una maggior presa di coscienza da parte delle vittime sulla gravità dell'abuso subito. Gli anni a venire dimostreranno se tale presa di consapevolezza è reale o solo legata al particolare momento storico.
Per evidenziare le tendenze delle principali fattispecie di macro- e microcriminalità, si è preferito ricorrere alle statistiche relative alla delittuosità (cioè i delitti denunciati dalla polizia giudiziaria alla magistratura), in quanto sono le sole a differenziare i diversi fini e le differenti modalità del comportamento criminale (tab. 5). I dati desunti da queste ultime statistiche (delittuosità) non sono comparabili con quelli rilevati dalle statistiche in precedenza utilizzate (criminalità) rispetto alle stesse fattispecie criminali e agli anni esaminati.
Dall'esame incrociato dei dati numerici e di quelli territoriali si può rilevare come i due fenomeni di macro- e microcriminalità quasi sempre coesistano (anche se, ovviamente, con diversa intensità) e si integrino perfettamente, ponendosi come complementari e funzionali alla stessa realtà criminale: la qual cosa sfata il convincimento secondo cui là dove esiste un 'ordine' mafioso, la 'tranquillità' dei cittadini è maggiormente realizzata. Si assiste così, nel corso degli anni considerati, alla crescita quasi costante di alcuni reati (per es., i sequestri): l'anno 1991 presenta il picco più elevato per le fattispecie sia di macrocriminalità (52.566 delitti) sia di microcriminalità (1.702.074), picco confermato anche dai dati sulla criminalità. Quantunque negli anni successivi le due tendenze siano decrescenti (per poi aumentare nuovamente nel 1996-97), l'allarme sociale e la sempre maggiore sensazione di insicurezza e di preoccupazione non accennano a diminuire. (Per quanto concerne i dati relativi agli stupefacenti, v. tossicodipendenza, in questa Appendice). A livello geografico si può evidenziare come la c. comune sia presente, ad alta incidenza, soprattutto nelle zone del Centro-Nord e dove vi sono livelli di benessere maggiori, mentre il Meridione (in particolare le grandi città) fa registrare la tendenza inversa, e cioè la contemporanea presenza di c. comune o convenzionale e di c. organizzata, ma con un peso quantitativo maggiore della seconda. Va comunque precisato che la c. organizzata è un fenomeno che interessa tutto il contesto nazionale, anche se la distribuzione sul territorio delle organizzazioni criminali (non necessariamente di stampo mafioso) è tutt'altro che omogenea; ne è riprova il prevalere di zone ad alta, media e bassa presenza del crimine associato. Per quanto fortemente radicate nel proprio territorio d'origine, le organizzazioni criminali dimostrano una forte capacità di espansione in ambito nazionale e internazionale; tale diffusione si configura sia come trasferimento di soggetti o gruppi delle organizzazioni meridionali verso aree del Centro-Nord, sia come collegamento con gruppi già esistenti in tali aree (per es., mafia del Brenta, banda della Magliana) o all'estero (per es., organizzazioni criminali russe, albanesi ecc.), sia come esportazione di modelli criminali organizzativi, operativi e rituali (per es., il caso della Sacra corona unita), sia infine come emigrazione di gruppi ancora male organizzati, provenienti dai paesi dell'Est (per es., Albania, ex Iugoslavia, Russia), che vogliono conquistare il controllo delle zone periferiche delle grandi città (per es., Roma): come nel caso specifico della mafia albanese, le cui caratteristiche sono quelle che più si modellano sul tipo italiano (e cioè gruppi che affermano il loro potere attraverso l'intimidazione e l'uso di armi) e che nell'Italia settentrionale già controlla il mercato della prostituzione (dopo avere soppiantato la 'ndrangheta calabrese) e il contrabbando di stupefacenti diretti in Svizzera e Germania. Si può ulteriormente precisare come i succitati fenomeni di espansione incidano di più in determinate aree cosiddette a rischio delle regioni Sicilia, Campania, Calabria, Puglia e Basilicata, dove fattori economici critici, bassi indicatori di qualità della vita, situazioni di disagio sociale e minima acculturazione sono correlati a un'intensa attività delle organizzazioni criminali. Si tratta di aree di tradizionale insediamento di gruppi criminali, oppure in cui tali gruppi si sono insediati più recentemente o addirittura gruppi autoctoni hanno adottato modalità organizzative proprie delle mafie storiche: comunque l'emergenza criminale è talmente rilevante da condizionare lo sviluppo economico. In altre zone delle regioni già citate e nella Sardegna meridionale dominano degrado metropolitano e fenomeni di deindustrializzazione e di disagio sociale susseguenti a forti insediamenti di attività industriali in via di estinzione, a cui si rapporta una seria incidenza di microcriminalità e di delinquenza minorile e, in minor misura, di c. organizzata. Altre zone del Centro-Meridione italiano, per es. Abruzzo e Molise, sono ancora considerate marginali e quasi indenni dal fenomeno della macrocriminalità organizzata.
Un'indagine particolarmente approfondita merita il fenomeno della delinquenza minorile, che si presenta allarmante per la sua continua crescente incidenza (tab. 2), che potrebbe rappresentare il fallimento delle politiche preventive, anche se in Italia, come del resto in tutto il contesto europeo, le pratiche preventive sono scarsamente valutabili in quanto difficilmente distinguibili dall'operato di una serie di servizi pubblici finalizzati al miglioramento delle condizioni sociali della collettività.
Dal confronto del totale della popolazione residente con quello delle classi di età 0-18 anni e 0-14 anni, si nota che a fronte di una popolazione che dal 1981 al 1996 è aumentata di circa 924.500 soggetti, gli infradiciottenni sono nello stesso arco di tempo diminuiti di 4.038.609 unità, tendenza decrescente che si riscontra anche negli infraquattordicenni, diminuiti di 3.610.794 unità. Sono proprio i minorenni i soggetti che presentano un maggior indice delinquenziale: infatti i valori assoluti dei delitti denunciati, per i quali l'autorità giudiziaria ha iniziato l'azione penale, mostrano, negli anni esaminati, un incremento all'incirca del 52%, mentre quelli delle persone denunciate si presentano stabili; all'interno dei soggetti denunciati, tuttavia, la percentuale dei minorenni infradiciottenni, sempre nello stesso periodo considerato, aumenta addirittura del 48,6%; in effetti a causa della diminuzione della popolazione infradiciottenne, l'incremento percentuale è di oltre il 100%; se poi, sempre per gli stessi anni, si prendono in esame i totali relativi ancora agli infradiciottenni denunciati alle procure presso i tribunali dei minori, l'incidenza percentuale effettiva raggiunge il 104%; ma se tale percentuale viene rapportata al decremento della popolazione infradiciottenne, la stessa arriva al 220%. Riguardo poi ai dati concernenti i minori infraquattordicenni non imputabili, la situazione è ancora più allarmante: i valori disponibili per il periodo 1986-96 evidenziano che il numero dei denunciati si triplica (+282%); ma, considerato che il numero degli infraquattordicenni è anch'esso in nettissimo calo, la tendenza delinquenziale è ancora più drammatica (+350%). Per il 1996 i baby criminali italiani denunciati alle procure presso i tribunali dei minori sono 43.975 (di cui 10.452 minori di quattordici anni) e circa 1/4 di essi sono stranieri, in maggioranza dell'ex Iugoslavia, marocchini e albanesi. I minorenni italiani hanno il primato dei reati violenti (omicidi tentati e consumati, rapine, violenze sessuali), mentre i reati a contenuto patrimoniale (furti) vedono protagonisti gli stranieri.
Questo tasso crescente evidenzia una tendenza non più fisiologica lineare, bensì una trasformazione patologica esponenziale della devianza giovanile in Italia; e se anche non deve sottovalutarsi l'incidenza a carico dei minorenni stranieri, la stessa da sola non basta a spiegare l'incremento delinquenziale. Esso è un chiaro sintomo del disagio adolescenziale, non più legato alle cattive condizioni economiche familiari ma, verosimilmente, dipendente piuttosto da fattori immateriali e valoriali, da processi di deprivazione culturale, da una diminuzione del peso educativo dell'istituzione familiare e da nuovi processi di marginalizzazione in atto all'interno di contesti sociali economicamente più evoluti.
Incidenza criminosa e ricerca criminologica
La conoscenza dell'incidenza del fenomeno criminale, sia a livello ufficiale sia ufficioso (nella sua portata quantitativa e qualitativa), e i risultati raggiunti a livello sperimentale hanno consentito (e continuano a consentire) alla ricerca criminologica di formulare ipotesi e teorie relative al problema dell'eziologia e, susseguentemente, di proporre piani di intervento finalizzati al controllo del fenomeno o, perlomeno, alla sua riduzione in termini socialmente accettabili.
Superata la fase in cui la ricerca criminologica suggeriva proposizioni teoretiche unilaterali (o biologiche, o psicologiche, o sociologiche), si possono evidenziare quelle ancora o maggiormente rispondenti al fenomeno oggetto di studio. La prima è rappresentata dall'indirizzo interdisciplinare, caldeggiato da F. Ferracuti e M.E. Wolfgang negli anni Sessanta e tuttora validissimo. La prospettiva interdisciplinare integrata consente infatti di "mettere insieme dati empirici relativi allo stesso fenomeno, raccolti da discipline indipendenti, così che una loro sintesi analitica diviene solo minimamente una combinazione delle parti, mentre è, in gran parte, una nuova prospettiva" (Ferracuti, Wolfgang 1966).
Sempre in una prospettiva teoretica integrata e sulla scorta delle critiche, dei punti deboli e dell'inadeguatezza dei paradigmi unilaterali si fa strada un approccio relativamente nuovo per la ricerca in criminologia, costituito da modelli causali integrati che riuniscono differenti variabili, appartenenti a teorie diverse al fine di meglio spiegare le cause del comportamento criminale.
Per quanto l'origine dell'integrazione risalga al 1940, non è prima degli anni Settanta che tale movimento ha concretamente interessato i teorici criminologi, tanto è vero che il lavoro di R.A. Cloward e L.E. Ohlin (1960) rappresenta giustamente un tentativo anticipato di fondere nella teoria delle opportunità differenziali gli apporti delle tradizionali teorie della tensione e dell'apprendimento sociale.
Nel corso degli anni, i tentativi più comuni di integrare schemi teoretici sociopsicologici competitivi hanno riguardato le teorie del controllo sociale e dell'apprendimento sociale. Meno diffusa è risultata l'integrazione della teoria del controllo sociale con quella della tensione, come il tentativo di combinare i tre principali modelli teoretici; altri tentativi hanno coinvolto le teorie dell'etichettamento, della disorganizzazione sociale, del conflitto e della deterrenza.
Tralasciando il contenuto dell'integrazione, lo schema teorico integrato più comunemente seguito è stato quello di combinare proposizioni teoriche tra loro connesse logicamente, le quali provengono da teorie diverse e, pertanto, utilizzano apporti concettuali in parte differenti. Tali formulazioni teoriche sono disposte secondo un modello sequenziale, cioè secondo un ordine di decrescente generalità esplicativa, di modo che una data prospettiva teoretica risulterà sempre, a livello temporale, più vicina al comportamento criminale di quanto siano le altre incluse nel modello integrato. Vale a dire che detto approccio, il cosiddetto end-to-end model (Hirschi 1979), suggerisce che una delle speculazioni può meglio chiarire le cause iniziali della delinquenza, mentre un'altra potrebbe risultare più vicina ai fattori che 'precipitano' l'inizio del comportamento criminale. Lo schema teoretico unitario (Elliot, Ageton, Canter 1979), trattato nel prosieguo, è esemplificativo dell'end-to-end model (fig. 1), dal momento che le variabili della teoria del controllo sociale aiutano a spiegare i gradi di attaccamento dell'individuo ai soggetti convenzionali (famiglia, ambiente, istituzioni), il suo coinvolgimento in attività socialmente accettabili, il suo vincolo con i valori e con i fini convenzionali della società globale, il suo credere nella validità delle regole morali e sociali; ancora, le variabili proprie della teoria della tensione, interagendo con le precedenti del controllo sociale, rafforzano o indeboliscono gli iniziali legami; infine, l'associazione con soggetti delinquenti o con soggetti convenzionali renderà più o meno probabile il coinvolgimento in comportamenti criminali.
Molteplici fattori hanno favorito lo sviluppo di quest'approccio integrato: in primo luogo, il perfezionamento raggiunto dai metodi di autodenuncia ha consentito al ricercatore di ottenere dati sempre più raffinati direttamente dai potenziali criminali, principalmente sui diretti legami tra caratteristiche della persona e comportamento; in secondo luogo, l'accresciuta sofisticazione dei metodi statistici ha permesso di considerare simultaneamente gli effetti delle molteplici variabili sul comportamento, così che il ricercatore ha potuto rilevare non solo le correlazioni ma, addirittura, le cause del comportamento stesso; infine, lo sviluppo dell'approccio è dovuto non solo all'inadeguatezza propria di ciascuna prospettiva dominante di risolvere in modo significativo il problema rappresentato dalle variazioni nelle percentuali dei reati, ma anche alla continua competizione tra le diverse teorie, volta a provare come l'una fosse migliore dell'altra.
L'integrazione di contributi teoretici differenti potrebbe consentire al criminologo di raggiungere una più completa comprensione del processo che conduce al comportamento criminale.
Tra i modelli teoretici integrati meritano di essere ricordati i seguenti: il primo incorpora, come precedentemente accennato, aspetti delle teorie del controllo sociale, della tensione e dell'apprendimento sociale in un singolo paradigma esplicativo (Elliot, Ageton, Canter 1979) e successivamente applicato in tema di delinquenza minorile e uso di sostanze stupefacenti (Elliot, Huizinga, Ageton 1985; fig. 2). Il secondo modello (Colvin, Pauly 1983) amplia la visione microsociologica esplicativa avvalendosi della teoria strutturale-marxista che integra le componenti principali delle teorie del controllo sociale, delle opportunità differenziate e dell'apprendimento sociale (fig. 3). Infine la terza prospettiva causale integrata (Huizinga, Esbensen, Elliot 1988) utilizza variabili macrosociologiche (per es., la struttura sociale comunitaria) e le usuali componenti sociopsicologiche, tenendo anche in debita considerazione lo stato di sviluppo raggiunto dall'individuo. In particolare, tale modello di sviluppo generale cerca di combinare aspetti della teoria dell'ecologia sociale con quelli delle teorie del controllo sociale, dell'apprendimento sociale, della tensione, dell'approccio biologico, della deterrenza e della scelta razionale. Il diagramma di flusso riportato nella fig. 4 illustra il complesso e articolato modello integrato, modello che è anche l'unico ad abbracciare nella sua visione globale la componente della scelta razionale che, invece, costituisce un unico filone teoretico autonomo attuale.
La prospettiva teoretica della scelta razionale del comportamento criminale s'inserisce nella teoria del cosiddetto approccio economico al diritto, sviluppatosi negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta intorno alla tesi centrale secondo la quale molte delle dottrine e delle istituzioni del sistema giuridico sono meglio comprensibili se considerate come sforzi per favorire l'efficiente allocazione delle risorse, fino ad arrivare all'interpretazione più radicale dell'applicazione dei principi dell'economia del benessere al diritto, alle decisioni del legislatore o del giudice. Accanto al settore più tradizionale che collega il diritto all'economia, il metodo di analisi suddetto si rivolge anche alla spiegazione del comportamento criminale nel quadro del complessivo sistema del crime control.
In tal modo, nel campo penale criminologico, i modelli economici applicati alla chiarificazione del comportamento criminale prevedono che gli individui, inclusi i potenziali criminali, si comportino 'razionalmente', nel senso che agiscano in modo calcolato a massimizzare il loro benessere economico. In altri termini, una persona commette un reato quando l'utilità che si aspetta di conseguire con la sua azione criminosa supera quella che potrebbe ricavare allocando in altre attività tempo e risorse. Tutto questo sta a significare che l'individuo sceglie di diventare un criminale quando l'utilità attesa dalla propria attività è maggiore di quella derivante da un'attività lecita, dedotti i costi sostenuti per intraprenderla, e cioè la probabilità di essere arrestato e di essere condannato, la severità della pena e altre variabili, quali i profitti provenienti da attività legali e illegali, variabili ambientali e componenti legate all'inclinazione a compiere azioni criminali.
Partendo da questo modello di attività criminale concepito da Becker (1968; 1976) a livello piuttosto embrionale, o dalla sua riformulazione, o dalle sue varianti, la teoria economica implicante un'analisi e una valutazione ponderate, soprattutto da parte dei potenziali criminali, del modulo costi-benefici, evidenzia e sottolinea l'utilità di strumenti di controllo efficaci, in modo che il costo eccessivo dell'azione e del rischio connesso possa scoraggiare l'attuazione di comportamenti criminali. Conseguentemente i modelli matematici, propri delle indagini econometriche, sono stati utilizzati per valutare non solo le scelte criminali e i tipi di reato in generale, ma anche quelli a contenuto patrimoniale, la c. organizzata e quella economica, l'utenza e lo spaccio di sostanze stupefacenti e l'uso di alcool, i conflitti interpersonali e l'omicidio, la violenza sessuale, la violenza in famiglia, l'evasione fiscale, la corruzione e i reati senza vittima.
Benché il paradigma della scelta razionale abbia trovato, sin dagli anni Ottanta, fondamentale e primaria applicazione anche nel campo della prevenzione situazionale della c., finalizzata a bloccare le opportunità criminali per mezzo di cambiamenti ambientali, non bisogna dimenticare che anche un certo numero di approcci sviluppatisi indipendentemente - come la prevenzione del reato attraverso l'architettura ambientale, lo spazio difendibile, l'analisi strategica, la routine activity, la politica problem oriented, la criminologia ambientale con le sue variazioni spaziali e temporali nei modelli criminali e gli studi sui diversi stili di vita e i relativi differenti rischi di vittimizzazione - hanno dedicato una considerevole attenzione alla prevenzione situazionale, senza comunque arrivare a una formulazione teoretica. Gli attuali rappresentanti del rational choice non solo hanno ravvisato nella suddetta prospettiva criminologica una delle ultime teorie del 20° sec., tentando di identificarne le premesse teoriche essenziali, il significato filosofico e, in alcuni casi, le relative implicazioni politiche o morali (Rational choice and situational crime prevention, 1997), ma hanno anche tentato di integrare le variabili situazionali con quelle delle teorie criminologiche tradizionali, focalizzandosi sul concetto di 'struttura delle opportunità criminali' in base alla compatibilità dei rispettivi presupposti fondamentali. In tal modo si salvaguarda ancora una volta lo schema teorico unitario, realizzando non solo un'integrazione tra la scelta razionale del comportamento criminale e le variabili delle teorie del controllo sociale, dell'apprendimento sociale, della sottocultura, con particolare riferimento al sequestro, ma permettendo addirittura di raggiungere, partendo dall'integrazione delle prospettive della scelta razionale e delle opportunità, un'integrazione delle teorie criminologiche con quelle vittimologiche.
Tutto questo complesso e problematico panorama teoretico unitario, che costituisce l'aspetto più attuale della ricerca criminologica in tema di causalità del comportamento criminale, come sostenuto anche da Henry e Milovanovic (1996), causalità che rimane pur sempre il fulcro centrale di qualsiasi impresa criminologica moderna, risulterebbe del tutto sterile e inutile se non se ne ricavasse un insegnamento da tenere costantemente a mente, e cioè che lo scopo ultimo della ricerca criminologica sulla causalità non è costituito da un comprendere in astratto, ma piuttosto da un comprendere che possa aiutare a 'controllare' una varietà di comportamenti profondamente lesivi della società e, nello stesso tempo, degli stessi perpetratori.
Incidenza criminosa, ricerca criminologica e strategie di politica criminale
La criminologia, dai primi approcci teorico-empirici della Scuola positiva, ai successivi apporti del pragmatismo anglosassone, fino agli attuali orientamenti interdisciplinari, ha sempre prospettato tendenze di politica criminale dirette al controllo della delinquenza giovanile, della c. adulta e del recidivismo (o delle carriere criminali). Tali suggerimenti o tendenze, che conseguono appunto a una ricerca scientifica straordinariamente fertile in modo particolare nei contesti inglese e statunitense, hanno risposto e rispondono a strategie di tipo o preventivo, o riabilitativo-modificativo, o incapacitativo, o deterrente, cosicché, in quest'ottica, i risultati degli studi criminologici non possono che rivelarsi di estrema utilità nell'individuazione dell'intervento più idoneo all'esigenza evidenziata dal dato sperimentale e nella relativa scelta decisionale. Sarà poi la valutazione, secondo i parametri della cost-benefit analysis, degli esiti ottenuti con l'adozione di quella particolare scelta decisionale a dimostrare la bontà o meno della politica criminale perseguita. Questo spiega come diversi siano stati gli indirizzi selezionati e prescelti che si sono succeduti nel corso degli anni, a volte anche sovrapponendosi, diretti ovviamente al contenimento della delinquenza e della c. primaria e del recidivismo (dal momento che è illusoria l'eliminazione del fenomeno) e che in ogni caso dovrebbero cercare di contemperare le due esigenze rappresentate dalla filosofia penale (che trova espressione nella previsione normativa) e dall'analisi economica dei risultati.
Entrando nel merito delle singole strategie di controllo della delinquenza e della c. (primaria e recidiva), si rileva che quella preventiva, finalizzata a evitare che potenziali criminali si trasformino in criminali reali, ha adottato due forme di conoscenza: gli indicatori (individuali, demografici e sociali) di sottogruppi di popolazione con alti tassi di partecipazione criminale e gli interventi identificati come idonei a ridurre la partecipazione in sottogruppi specifici di popolazione. In generale, l'analisi diretta a verificare la validità dei programmi incentrati sui minori a rischio, sulle famiglie, sulla scuola, sulla comunità, se è risultata incoraggiante, non ha però dimostrato una riduzione effettiva della successiva partecipazione criminale, oppure ha rilevato un'efficacia solo temporanea.
A differenza delle attività tese a prevenire che i soggetti non criminali comincino a delinquere, le strategie di modificazione del comportamento criminale recidivante o delle carriere criminali, ovvero le strategie riabilitative, sono indirizzate a quei soggetti già noti come criminali; esse hanno cercato di ridurre la frequenza, la gravità o la durata del periodo dei loro successivi reati; di solito hanno tentato di incoraggiare la fine delle carriere, suscitando timori su possibili punizioni o prospettando misure affidate alla comunità in luogo di quelle detentive, oppure modificando i valori dei criminali o ampliando le opportunità di alternative legali all'attività criminale. Le tecniche di modificazione, come il counseling o le terapie verbali e comportamentali (tese a inibire gli atteggiamenti aggressivi e antisociali), intervengono direttamente sulla vita del delinquente per cambiarne il corso comportamentale, e alcune di queste potrebbero efficacemente inibire anche la futura partecipazione dei soggetti non ancora criminali.
Un'ampia gamma di strategie riabilitative è stata esaminata principalmente da D. Lipton, R. Martinson e J. Wilks (1975) e, successivamente, dal Panel on research on rehabilitative techniques (1979), senza però che sia stato possibile dimostrare una seria ed efficace riduzione della recidiva in generale, se non limitatamente a certi gruppi di criminali; situazione ulteriormente confermata anche dal Panel on criminal careers (1986). L'ideologia riabilitativa, che aveva trovato nella sanzione indeterminata il suo epicentro, esce sempre più compromessa, in particolare, dal sistema correzionale statunitense, a partire dalla metà degli anni Settanta, dopo la pubblicazione di un lavoro di R. Martinson (1974). Questi, infatti, aveva denunciato l'inefficacia totale dei programmi riabilitativi in quanto inidonei a ridurre i tassi di recidivismo, dal momento che il notevole incremento della c. era dovuto, soprattutto, a soggetti precedentemente condannati e già sottoposti a programmi riabilitativi. Le tecniche modificative sono state, conseguentemente, prontamente sostituite da sanzioni indeterminate e anche dalla pena di morte, più rispondenti al sistema del justice model e al principio del just desert, con la conseguenza che la retribuzione, l'incapacitazione e la deterrenza diventavano i temi dominanti della ricerca criminologica nel settore correzionale, con i significativi contributi di A. Blumstein, J. Cohen, D. Nagin (1978) e di P.W. Greenwood e A. Abrahamse (1982).
Ma i fautori dell'indirizzo riabilitativo, mediante ricerche condotte direttamente, o attraverso un esame ben più approfondito dei lavori esistenti, o attraverso l'utilizzazione della tecnica della meta-analisi - idonea a comparare statisticamente e, in un certo modo, a combinare gli studi relativi a interventi correzionali individuali - sono riusciti negli anni Novanta a capovolgere la situazione: essi, infatti, hanno riattualizzato la validità degli interventi riabilitativi attraverso programmi che, avvalendosi di una combinazione di trattamento e di controllo esterno, risultano idonei a modificare il comportamento e i valori dei soggetti criminali. Tra gli interventi presi in considerazione, in quanto promettenti al punto da meritare indagini valutative ulteriori, emergono il sentencing (sia nella modalità detentiva, sia in quella alternativa), gli interventi familiari e comunitari, la formazione professionale, le opportunità lavorative, tutte tecniche rivolte a sostituire i valori e i fini 'convenzionali' alle interazioni e alle relazioni antisociali. Rispetto alla politica del sentencing, si assiste all'adozione e alla sperimentazione in molti Stati americani delle cosiddette sanzioni intermedie, che si pongono come alternative sia delle misure detentive, sia del routinario probation, e rispondono contemporaneamente a criteri limitativi e non limitativi della libertà, in un momento di grande sovraffollamento della popolazione penitenziaria. Gli scopi dichiarati o pubblici delle misure intermedie - come arresti domiciliari e monitoraggio elettronico, probation con controllo intensivo, shock da detenzione in istituti modellati secondo schemi militari (boot camp prison), sanzioni pecuniarie, diversion (programma riabilitativo affidato alla comunità, consistente nel controllo del criminale nel suo ambito domestico ovvero affidato a centri di accoglienza, come nel caso dei day reporting centers o delle halfway houses, oppure a famiglie adottive), prestazioni lavorative gratuite a favore della comunità (labor community service) e risarcimento alle vittime del reato - si possono riscontrare nel risparmio economico, nella funzione deterrente specifica nei riguardi dei soggetti già criminali e in quella generica nei confronti della popolazione, nella protezione della comunità attraverso un maggior controllo del comportamento criminale rispetto a quello realizzato dal tradizionale probation e, non ultimo, nella riabilitazione dei criminali utilizzando i classici requisiti del trattamento obbligatorio.
Per quanto concerne la politica criminale perseguita negli Stati europei negli anni Novanta, a fronte di un fenomeno criminale e recidivante preoccupante, indubbiamente si assiste, al fine di individuare il tipo di risposta penale maggiormente rispondente al controllo di detto fenomeno, a un'ampia diffusione di misure alternative o sostitutive (le community sanctions and measures), cioè a un potenziamento dei programmi di trattamento da svolgersi in comunità, la cui adozione è stata vivamente raccomandata dal Committee of Ministers del Consiglio d'Europa (1994), al fine di rafforzare la cooperazione internazionale nel campo del diritto penale; questi programmi, forse, vengono preferiti anche a causa del loro minor costo e del ridotto carattere restrittivo, ma possono, nel contempo, risultare non graditi in tutte le comunità. In Inghilterra, per es., vengono sempre più riaffermate specifiche priorità, finalizzate alla prevenzione o al ridimensionamento della recidiva e al reinserimento dei criminali in ambito comunitario servendosi proprio di misure non detentive, in particolare rispetto ai criminali giovani adulti (appartenenti alla fascia d'età 17-20 anni ) ad alto rischio di una tradizionale condanna detentiva, a causa dei loro livelli di offensività. Le proposte presentate nel 1988 dal Green paper on punishment, custody and community auspicano la possibilità di ottenere, anche rispetto a questa categoria di criminali, gli stessi risultati perseguiti con un più intensivo e controllato programma di probation (secondo le nuove direttive intraprese negli Stati Uniti) nei confronti dei delinquenti minorenni. Tali suggerimenti, vagliati a livello governativo, hanno dato luogo a criteri guida nel sentencing, che sono stati formulati nel White paper on crime, justice and protecting (1989); essi enfatizzano le sentenze di condanna da scontare fuori dell'istituzione correzionale, come community service orders, probation orders e curfew orders con o senza monitoraggio elettronico, diversion e labor community service, da applicarsi nei riguardi degli autori dei reati non violenti e di minore gravità. Al contempo, è stato sottolineato che i reati gravi (come l'omicidio, la violenza sessuale e i delitti consumati con violenza) necessitano di una sanzione detentiva spesso di lunga durata. Tutto il sistema organizzativo delle sanzioni detentive e del controllo dei criminali affidati alla comunità è stato ulteriormente sviluppato in un successivo Green paper (1990). Infine il Criminal justice act del 1991 ha sancito normativamente tali direttive, consentendo di evidenziare un contenuto nettamente retributivo nella sanzione detentiva (applicata in rapporto alla gravità del fatto commesso) e potenzialmente riabilitativo nei programmi comunitari, orientamento, questo, che trova un'ulteriore conferma nel Criminal justice and public order act del 1994. In effetti anche le misure alternative previste dall'ordinamento penitenziario italiano del 1975, anche se più limitate nel numero e nel tipo delle scelte, sono rispondenti a finalità eminentemente riabilitative e ancora, per quel che concerne l'inserimento del labor community service nell'ordinamento italiano, la previsione di detta sanzione ha assunto il carattere di pena da conversione, come misura sostitutiva di pena pecuniaria, secondo l'art. 102 1° e 2° co. della l. 24 nov. 1981 nr. 689, in tema di misure sostitutive delle pene detentive brevi.
Come in parte è avvenuto in merito agli interventi preventivi, i risultati delle ricerche di validazione delle strategie di modificazione dei comportamenti e delle carriere criminali possono apparire scoraggianti, a causa della mancanza di continuità e di accumulo dei dati: ciò è dovuto al fatto che l'approccio valutativo ha stimato ciascuna ricerca come un'entità separata piuttosto che come parte di un'indagine complessiva. Inoltre, molti degli studi che non hanno rivelato effetti positivi soffrono di una scadente progettazione della ricerca (campioni piccoli, assenza di casualità, periodi di osservazione brevi), cosicché la mancanza di efficacia potrebbe non essere necessariamente dovuta agli interventi stessi. Tuttavia, anche i risultati positivi devono essere ulteriormente verificati nella pratica, in quanto le strategie che sembrano proficue in esperimenti a breve termine possono non avere alcun effetto una volta che il programma venga completato su vasta scala o nel contesto più generale del sistema della giustizia penale. D'altra parte, la stessa valutazione degli effetti conseguiti con l'applicazione delle cosiddette sanzioni intermedie è del tutto prematura.
I risultati delle ricerche condotte in tema di c. primaria e recidiva sono stati utilizzati, oltre che per validare l'efficacia della riabilitazione, anche per individuare l'entità dei reati evitabili con l'allontanamento dalla società dei loro autori nel corso della carriera criminale; finalità che corrisponde a quella perseguita dal tipo di politica criminale incentrato sull'incapacitazione dei criminali attivi determinata dalla loro stessa istituzionalizzazione. Mentre l'esecuzione della pena detentiva come mezzo d'incapacitazione potrebbe anche produrre effetti modificativi della carriera criminale correggendo il comportamento del detenuto, il vero 'effetto incapacitativo' si riferisce solo all'ammontare di futuri reati materialmente evitati dall'interruzione della carriera criminale dei loro potenziali autori, durante il periodo di detenzione susseguente a una condanna per un reato precedentemente consumato e accertato giudizialmente. I fautori della strategia incapacitativa convergono sul sistema della giustizia penale, la cui efficienza dovrebbe essere tale da consentire l'identificazione, la condanna e l'istituzionalizzazione dei criminali, in particolare di quelli ad alto tasso sia di c., sia di recidivismo. L'effetto incapacitativo sarebbe, infatti, ridotto se i criminali non fossero arrestati, se i criminali arrestati non venissero condannati, se i criminali condannati non fossero istituzionalizzati, se le sentenze di condanna fossero di breve durata e, ancora, se le sanzioni detentive da scontarsi in parte in libertà favorissero eccessivamente e anticipatamente la fase non custodiale. Detto effetto sarebbe ulteriormente ridimensionato se il detenuto continuasse la sua carriera criminale anche all'interno dell'istituto penitenziario o, in una situazione di c. complessiva, se gli stessi reati che il soggetto detenuto avrebbe potuto commettere qualora allo stato libero venissero realizzati da nuove reclute (basti pensare al settore della c. organizzata).
Gli effetti incapacitativi possono essere prodotti sia che la politica criminale scelga la forma della 'incapacitazione collettiva', rivolta alla generalità dei criminali autori di reati violenti e consistente nell'applicazione della sanzione detentiva con l'ovvia lievitazione del totale della popolazione penitenziaria, sia che la politica criminale preferisca la modalità della 'incapacitazione selettiva', diretta soltanto a determinati criminali selezionati perché rappresentano il rischio maggiore di recidiva. L'utilizzazione della pena detentiva in entrambe le forme incapacitative non ha scopo retributivo, né preventivo, ma risponde semplicemente al bisogno di sicurezza da parte della collettività in risposta all'allarme sociale provocato dal notevole incremento della c. accompagnato, conseguentemente, da una considerevole sfiducia nella finalità di riabilitazione e di reinserimento sociale del criminale. Tale esigenza protettiva è diretta a impedire che il delinquente commetta nuovi reati, prolungando la detenzione quando i delitti previsti sono molti e gravi e limitandola, invece, quando viene ipotizzata una recidiva minima o, addirittura, nulla. Mentre l'incapacitazione collettiva è rivolta al reato, quella selettiva è incentrata tanto sul reato quanto sul suo autore e il grado di efficacia che quest'ultima può raggiungere dipende dall'abilità di distinguere i criminali a basso rischio da quelli ad alto rischio di recidiva (cioè quei soggetti che rappresentano il rischio maggiore di un futuro comportamento criminoso in termini di frequenza, gravità o durata della carriera criminale).
Gli effetti dell'incapacitazione collettiva sono stati oggetto di approfondita indagine, a cominciare dal Panel on research on deterrent and incapacitative effects (1978), costituito al fine di razionalizzare e ottimizzare il sistema della giustizia. Infatti, la politica dell'incapacitazione collettiva, perseguita più specificamente negli Stati Uniti a partire dagli anni Settanta (e solo successivamente in Europa), ha determinato in quel periodo un forte calo nelle rapine e nei furti aggravati e un'incidenza decrescente, ancora più accentuata, nel decennio successivo, accompagnata però da una popolazione detenuta quasi raddoppiata. Peraltro, rispetto a tale spropositato aumento (dovuto a un'utilizzazione maggiore della sanzione detentiva), non si è verificata una corrispondente riduzione dei tassi di criminalità.
A questi modesti risultati ottenuti nel controllo della c. e agli elevati costi da sopportare per l'esecuzione delle sanzioni detentive, si è venuto a contrapporre un interesse sempre più incisivo riguardo all'incapacitazione selettiva incentrata sui soli criminali più attivi, e quindi più pericolosi, nei cui confronti dovevano essere adottate pene detentive di maggiore durata, mentre i criminali a minor rischio di recidiva dovevano essere puniti con sanzioni detentive di minor durata o da scontarsi in libertà. In questa ottica è diventato preminente studiare le caratteristiche delle diverse categorie di criminali, al fine di isolare soltanto quelli con un alto rischio di recidiva che, conseguentemente, dovrebbero essere a lungo istituzionalizzati. Di significativo interesse è il 'modello' del reato e del sistema della giustizia penale sviluppato da Greenwood e Abrahamse (1982), i quali hanno tentato di comprendere e valutare gli effetti prodotti dal cambiamento di certi profili della giustizia penale (come, per es., la durata della detenzione in rapporto alle diverse categorie di criminali), utilizzando modelli matematici di reati e di risposte penali, tipici del ben noto approccio econometrico applicato al settore della giustizia penale. Il modello matematico dei suddetti autori, includente valutazioni differenziate tanto dei tassi di c. concernenti criminali a bassa, media ed elevata frequenza criminosa, quanto le differenti probabilità di essere arrestati, condannati e incarcerati proprie delle tre menzionate categorie criminali, risultava costituito dal prodotto dei tre parametri fondamentali, cioè: la probabilità di arresto e di condanna (q) per ciascun reato commesso dal soggetto; la probabilità di incarcerazione dopo la condanna (j), che rappresenta anche gli effetti complessivi perseguiti dal criminal justice system; la durata media della sentenza di condanna (s). L'assegnazione della pena secondo la politica incapacitativa selettiva dovrebbe, conseguentemente, corrispondere al prodotto di q j s tenendo comunque presente che ogni soggetto delinque secondo una propria frequenza annuale (λ). In tal modo Greenwood e Abrahamse hanno sintetizzato un modello di incapacitazione basato sul calcolo delle probabilità che il criminale ha di venire arrestato, condannato e messo per un certo periodo di tempo in condizione di non commettere più reati, modello rappresentato dalla seguente equazione:
Le conclusioni raggiunte da Greenwood e Abrahamse evidenziano come una significativa riduzione della c. potrebbe essere raggiunta con la tecnica di incapacitare lungamente i criminali fortemente attivi o cronici e di utilizzare sanzioni di durata più limitata, o misure alternative, nei confronti dei criminali a bassa incidenza criminosa; tale politica, al contempo, non dovrebbe provocare un eccessivo aumento della popolazione penitenziaria. Una valutazione similare dei potenziali effetti raggiungibili da questo tipo di politica criminale (decremento della c. patrimoniale del 15% circa contro un incremento del 10% della popolazione penitenziaria) è stata successivamente riconfermata dal riesame effettuato da C.A. Visher (1986), che ha utilizzato modelli probabilistici maggiormente sofisticati.
Numerose sono state le critiche formulate nei confronti del modello predittivo, principalmente in relazione ai 'falsi positivi' (tipici delle tecniche predittive), ad alcuni aspetti metodologici, alla sostanziale discriminazione nei confronti dei gruppi maggiormente sfavoriti. Diverse sono anche state le osservazioni di natura giuridica ed etica avanzate su questa politica, che introduce elementi innovativi fortemente contrastanti con le garanzie giurisdizionali presenti nei sistemi penali occidentali: la quantificazione della pena sulla base della previsione delle attività criminali future e non del reato effettivamente commesso è stata fortemente avversata, in quanto lesiva dei principi costituzionali che regolano quasi ovunque la materia penale, quali quello del diritto al processo e quello della proporzionalità fra delitto e pena. Inoltre è ampiamente discutibile se l'impiego di un modello di incapacitazione selettiva contrasti o meno con la non tramontata finalità riabilitativa attribuita all'esecuzione della pena. Nonostante le molteplici perplessità, bisogna riconoscere alla politica selettiva la capacità di ridurre i tassi di recidivismo (anche se limitatamente al periodo di detenzione), a condizione che si tratti di comportamenti persistenti e violenti stabili, in quanto è proprio il presupposto della 'stabilità' comportamentale dei criminali ad alti tassi di reato a rafforzare la strategia selettiva da attuarsi nei loro confronti. Se la stabilità comportamentale criminale è, infatti, utilizzabile per analizzare sia gli effetti sia i benefici che una pratica fattuale politica incapacitativa consente di raggiungere, non si deve però sottacere che tale metodo selettivo è portato a considerare l'uomo quasi come un oggetto immutabile nel tempo, condizionato non solo dal suo passato, ma anche da eventi o realtà (come, per es., il fatto di essere disoccupato o di appartenere a una minoranza razziale) sui quali le possibilità di controllo da parte dell'individuo sono scarse o inesistenti. Dal momento che i dati finora disponibili per avvalorare il presupposto della stabilità sono scarsi e discutibili e, per non cadere in un 'determinismo rivisitato', sono necessari ulteriori approfondimenti dei modelli comportamentali criminali nel corso del tempo e della loro tendenza alla stabilità; altrimenti, una legislazione basata sulla sola incapacitazione selettiva sarebbe da considerarsi difficilmente accettabile da un punto di vista etico e sociale e molto poco consona ai valori fondamentali della società. I risultati finora ottenuti dalla ricerca criminologica sul tema in questione suggeriscono che il comportamento criminale non può essere semplicemente considerato come manifestazione di immutabili differenze individuali, che il recidivismo, come qualsiasi altro comportamento umano, soggiace anche all'influenza situazionale e che, pertanto, il presupposto della stabilità, e conseguentemente della perfetta predicibilità, abbisogna di ulteriori verifiche: in tal modo è salva la libertà dell'uomo, anche quella del criminale.
Un'altra modalità di controllo della c. perseguita dal sistema della giustizia penale è affidata alla deterrenza, che storicamente risale alle filosofie utilitaristiche, sviluppatesi in Europa nel Settecento intorno alla funzione della pena. Più specificamente, si parla di 'deterrenza generale' (secondo i principi anglosassoni) o di 'prevenzione generale' (secondo la dottrina continentale) quando si prende in considerazione l'effetto che l'applicazione della legge penale produce sulla generalità dei cittadini. In quest'ottica l'erogazione delle pene riduce 'l'appetibilità' dei reati attraverso la prospettazione di una sanzione punitiva per un determinato comportamento che si desidera evitare nella collettività. Si definisce, invece, 'deterrenza' o 'prevenzione speciale' l'effetto che l'applicazione delle norme penali produce sul singolo autore di reato, nel senso di una diminuzione della sua propensione a commettere nuovi delitti.
La giustificazione della funzione preventiva ha subito nel corso degli anni alterne vicende; ma interessa sottolineare che la ricerca criminologica ha tentato di verificare empiricamente l'assunto basilare delle teorie penalistiche fondate sulla deterrenza, e cioè la possibilità di influenzare, mediante la minaccia della sanzione, il comportamento dei consociati, ritenuto il prodotto della scelta libera e razionale.
Verso la fine degli anni Sessanta, con la comparsa dei primi segni di sfiducia nei confronti della strategia riabilitativa e con il suo successivo presunto crollo, l'interesse dei criminologi americani si è sempre più focalizzato sulla possibilità di fornire una verifica empirica dell'effetto deterrente delle sanzioni penali, in precedenza oggetto quasi esclusivo di mere speculazioni di ordine filosofico e giuridico. La maggior parte degli studi empirici (che fino a quel momento si erano limitati quasi esclusivamente al problema della pena di morte) si è avvalsa, anche in questo caso, dei contributi della teoria economica applicata al settore della giustizia penale e ha cercato di valutare l'efficacia della pena, cioè di verificare se la minaccia o la concreta applicazione della pena servano a dissuadere i consociati dal commettere reati e, più specificamente, se la severità e la certezza della punizione (intese sia in senso oggettivo sia in senso soggettivo) siano in grado di incidere significativamente sul numero dei reati.
Dal punto di vista metodologico, le ricerche svolte sono molto differenti fra loro e possono essere raggruppate in quattro principali filoni: a) studi trasversali o cross-sezionali; b) studi longitudinali; c) studi soggettivi sulla certezza e sulla severità della sanzione penale; d) studi sperimentali. Il filone conduttore è, comunque, sempre quello di stimare l'effetto prodotto dai cambiamenti intercorsi nell'ambito del sistema penale rispetto al quoziente di criminalità. Tali indagini, nel complesso, non hanno ancora fornito un'adeguata valutazione della portata e della validità dell'effetto deterrente finalizzato al controllo della c. e, in particolare, quale ruolo rivesta la cost-benefit-analysis rispetto a soggetti viventi in condizioni sociali, economiche e culturali diverse. Infine, per poter determinare fino a che punto gli effetti deterrenti delle sanzioni penali siano efficaci a inibire l'inizio di una serie comportamentale recidivante (carriera criminale), a farne diminuire la frequenza individuale o a incoraggiare la fine della carriera criminale stessa, sarebbe auspicabile che la ricerca si indirizzasse più specificamente anche sugli effetti che le misure affidate alla comunità possono conseguire circa la partecipazione e le carriere dei criminali fortemente attivi.
Le ricerche condotte sulla delinquenza, sulla c. e sulle carriere criminali hanno, comunque, offerto la possibilità di migliorare la comprensione del fenomeno e di affinarne le tecniche di controllo. Da un lato, hanno rappresentato un utile tentativo di approfondire la complessità del comportamento criminale, attraverso l'introduzione di nuovi parametri di analisi; dall'altro, hanno costituito un'esemplificazione eccessivamente pragmatica, finalizzata a un miglior uso del sistema di controllo, secondo parametri acritici e anche superficiali. Invero, con un oculato ridimensionamento dei dati e con una maggiore razionalizzazione delle misure da adottare, la ricerca futura potrà sicuramente raggiungere risultati più adeguati, specialmente se il riemergere della riabilitazione, così rivitalizzata nel corso degli anni Novanta, non annienterà le altre ideologie, ma realisticamente coesisterà con le ideologie preventiva, retributiva, incapacitativa e con i programmi orientati alla deterrenza, tipici degli anni Ottanta.
D'altra parte non si può nascondere il fatto che il delinquente, il criminale, il recidivo rappresentano il fallimento del sistema sociale e di quello della giustizia e sono, al contempo, misura dell'insuccesso anche della ricerca criminologica. Il criminale, in particolare quello di carriera, è un 'caso cronico' e il suo costo, in termini morali ed economici, è enorme ma rimane pur sempre il principale obiettivo degli sforzi dello studioso.
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Criminalità organizzata
di Letizia Paoli
Definizione e tipologia
Nel contesto italiano l'espressione criminalità organizzata viene solitamente utilizzata per designare stabili raggruppamenti di individui dediti prevalentemente a compiere attività illecite e in grado di utilizzare in modo sistematico la violenza per il conseguimento dei propri scopi: le organizzazioni mafiose 'tradizionali', radicate in diverse regioni dell'Italia meridionale, così come le formazioni criminali, più recenti e meno coese, sorte in numerosi centri urbani dell'intera penisola, nonché le associazioni analoghe di ogni parte del mondo.
Benché la galassia internazionale del crimine organizzato sia caratterizzata da un alto grado di eterogeneità e differenziazione interna, le sue multiformi manifestazioni, italiane e straniere, possono essere ricondotte a tre categorie idealtipiche: a) organizzazioni assimilabili alla mafia italiana; b) raggruppamenti di gangsterismo urbano o gangsteristico-mafiosi; c) bande di giovani delinquenti.
a) Le consorterie di tipo mafioso si caratterizzano per una notevole continuità temporale, l'ampio uso di rituali e simbologie al fine di costituire relazioni di parentela rituale tra i membri, un'elaborata divisione interna del lavoro e un'organizzazione tendenzialmente segmentaria, un corpus di norme, un grado elevato di polivalenza e, infine, un reticolo internazionale di comunicazione e di scambi.
Le due principali organizzazioni mafiose del Mezzogiorno - cioè l'associazione criminale siciliana denominata Cosa Nostra e il sodalizio calabrese detto 'ndrangheta - costituiscono la manifestazione paradigmatica di questa categoria. Si tratta, in entrambi i casi, di confederazioni di circa 85÷90 famiglie mafiose, della cui esistenza vi è traccia fin dalla seconda metà dell'Ottocento. Oltre a Cosa Nostra e alla 'ndrangheta, appartengono alla prima categoria idealtipica le triadi cinesi, la yakuza giapponese, la Cosa Nostra americana e i 'cartelli' colombiani della droga.
Un tratto comune a tutti questi raggruppamenti è l'elevata longevità. La setta Tiandihui, da cui le moderne triadi cinesi derivano, venne fondata attorno al 1760. Anche gli oltre 3000 gruppi criminali associati alla yakuza hanno una storia plurisecolare e, benché si siano rapidamente adattati al processo di modernizzazione subito dal Giappone negli ultimi cinquant'anni, conservano ancora numerosi valori e costumi della società feudale giapponese.
Con l'eccezione dei raggruppamenti colombiani, tutti i sodalizi citati fanno ampio uso di rituali e simbologie: nelle triadi, per es., la cerimonia di iniziazione prevede ancora oggi numerose prove di coraggio e ben 36 giuramenti allo scopo di ispirare nel nuovo affiliato un profondo senso di segretezza e un alto grado di fedeltà verso i confratelli. Grazie a simili riti, si istituiscono relazioni di parentela rituale tra gli aderenti al gruppo: gli appartenenti a Cosa Nostra o alla 'ndrangheta, per es., sono tenuti a considerarsi come fratelli, parti di un'unica entità collettiva. Con l'affiliazione a una cosca, il nuovo 'uomo d'onore' entra in una comunione quasi religiosa con tutti gli altri membri della comunità mafiosa e si sottopone interamente alle norme e agli interessi dell'associazione. Parimenti, l'unità primaria di ogni gruppo associato alla yakuza è l'ikka, la famiglia in senso metaforico; il capo della ikka o gumi è noto come oyabun (colui che ha lo status di padre), mentre i membri sono detti kobun (letteralmente, coloro che hanno uno status filiale). La relazione tra l'oyabun e il kobun è il principio organizzativo centrale dei gruppi della c. organizzata giapponese: l'oyabun si assume la responsabilità del benessere del proprio 'figlio', mentre il kobun promette assoluta obbedienza all'autorità suprema dell'oyabun, acquisendo in tal modo il diritto di utilizzare 'la faccia', cioè il prestigio della famiglia, nei propri affari personali.
Tutti i sodalizi appartenenti alla prima categoria idealtipica si caratterizzano, poi, per un'elevata divisione interna del lavoro. Ciascuna famiglia appartenente alle due principali consorterie mafiose dell'Italia meridionale ha un proprio apparato di governo, le cui posizioni sono formalmente elettive anche se di solito vengono detenute, per periodi spesso molto lunghi, dagli affiliati più potenti. Nel caso della 'ndrangheta, alla differenziazione funzionale si sovrappone una sofisticata stratificazione per ranghi, cosicché soltanto gli affiliati che hanno raggiunto un determinato grado gerarchico possono assumere i principali ruoli di comando. Differenziazione funzionale e stratificazione sono assai sviluppate anche nelle triadi cinesi, sebbene la loro struttura odierna sia una versione semplificata di quella vigente due secoli fa: almeno cinque gradi e sei ruoli di comando esistono all'interno di ogni unità. Ancora più complessa e stratificata è la struttura delle organizzazioni dei narcotrafficanti colombiani che, a differenza di quella degli altri consorzi criminali, è fortemente orientata al mercato.
Sebbene vengano di solito descritte come organizzazioni fortemente centralizzate, le associazioni di tipo mafioso si fondano sul principio della differenziazione segmentaria: si tratta cioè di sistemi sociali costituiti da entità indipendenti, la cui unità è data dalla replica di strutture organizzative, rituali e procedure, e dalla condivisione di un'unica identità collettiva. Soltanto negli ultimi cinquant'anni alcune di queste consorterie hanno istituito organi sovraordinati di coordinamento al fine di minimizzare la propria visibilità e meglio sottrarsi all'azione pubblica di contrasto, nonché gestire nel modo più efficace traffici illeciti di dimensioni internazionali. Sin dalla fine degli anni Cinquanta, per es., le famiglie mafiose della provincia di Palermo hanno dato vita alla cosiddetta commissione provinciale, cui si è affiancato, attorno alla metà degli anni Settanta, un collegio regionale, composto dai capi delle principali cosche dell'isola. Anche in Giappone il processo di centralizzazione organizzativa e di coordinamento dei gruppi che fanno parte della yakuza procede a ritmi serrati: il 'sindacato' dello Yamaguchi-gumi è arrivato a includere nel 1992, secondo le accurate valutazioni della polizia nipponica, quasi il 40% dei 56.000 affiliati alla yakuza, contro l'11% del 1980.
Tutte le associazioni criminali assimilabili alla mafia italiana possiedono, inoltre, un codice normativo che è alquanto elaborato, anche se, nella maggior parte dei casi, non è mai stato scritto: oltre alle norme che regolano l'organizzazione interna e il rigoroso reclutamento degli affiliati, esiste un corpus di prescrizioni e divieti che ciascun membro è tenuto a rispettare, pena la sospensione, l'espulsione dal gruppo o, nel caso di infrazioni più severe, la morte. Due sono le norme chiave di tali ordinamenti: il mantenimento del segreto attorno all'associazione mafiosa e la difesa di se stessi e dei propri possedimenti senza il ricorso all'amministrazione dello Stato (cioè omertà e onore, nel linguaggio dei sodalizi mafiosi del Mezzogiorno).
Benché non manchino eccezioni, le formazioni di tipo mafioso frequentemente detengono posizioni oligopolistiche e, talvolta, perfino di virtuale monopolio su uno o più mercati illeciti. I 'cartelli della droga' di Medellìn e Cali, per es., sono arrivati a controllare, alla fine degli anni Ottanta, oltre l'80% dell'offerta mondiale di cocaina. I gruppi della 'mafia internazionale', inoltre, sono in grado di operare simultaneamente nei segmenti più lucrativi dei principali mercati illeciti scambiando beni e servizi di diverso genere e provenienza, e intrecciando relazioni di mercato con una pluralità di altri soggetti criminali. Essi godono, infine, di un'ampia ramificazione internazionale, che consente loro di trasferire merci illecite da un angolo all'altro del mondo e di nascondere i proventi del crimine nei più remoti e sicuri paradisi fiscali.
L'influenza delle formazioni di tipo mafioso si estende inoltre alla sfera legale dell'economia. Secondo una stima elaborata dalla polizia nel 1989, circa il 20% del fatturato annuo dei gruppi appartenenti alla yakuza, reputato pari a 1301,9 miliardi di yen (18.220 miliardi di lire, 1998) proviene da attività lecite. In Colombia si stima che i proventi derivanti dagli investimenti 'puliti' compiuti dai narcotrafficanti nel corso degli ultimi vent'anni siano almeno pari agli introiti annui del traffico di narcotici. I proventi di attività illecite sono solo una delle risorse utilizzate dai gruppi mafiosi per acquisire posizioni di dominio all'interno di contesti economici locali. Benché la rilevanza di questa risorsa sia fortemente cresciuta nel corso degli ultimi trent'anni in seguito alla grande espansione dei traffici criminali, sovente i leader dei sodalizi di tipo mafioso impiegano strategie di penetrazione nell'economia pulita che prevedono, accanto all'utilizzo di denaro sporco, l'intimidazione e la violenza nonché la corruzione di rappresentanti dello Stato.
Rispetto agli altri protagonisti dell'arena criminale, le consorterie di tipo mafioso hanno anche una maggiore capacità di infiltrazione e manipolazione delle istituzioni ufficiali a scopo di protezione dei propri interessi dall'azione delle forze dell'ordine e della magistratura. La continuità temporale, il radicamento nel territorio e le ingenti risorse a loro disposizione consentono alle famiglie-imprese mafiose di condizionare l'azione pubblica di contrasto in una pluralità di modi diversi, che vanno dall'assunzione diretta, da parte degli affiliati, di posizioni di potere nelle assemblee elettive e negli apparati della pubblica amministrazione, ai legami di sangue, d'amicizia e d'affari con pubblici funzionari, uomini politici e magistrati; dall'appartenenza a gruppi di pressione leciti o 'coperti', fino alla corruzione, l'intimidazione e, in casi estremi, l'eliminazione fisica di oppositori particolarmente tenaci e pericolosi.
È proprio per l'impiego regolare della violenza nella conduzione di affari leciti e illeciti e nella soppressione di avversari e oppositori che è riduttivo considerare le formazioni di tipo mafioso esclusivamente come soggetti economici ed etichettarle come mere imprese illecite, così come proposto dalla maggior parte degli studiosi americani e nordeuropei. Accanto alla dimensione economica, c'è una dimensione politica dell'agire mafioso che occorre riconoscere e analizzare. Essa trova la sua più evidente manifestazione nell'esercizio di funzioni tipiche dell'organizzazione statale - il controllo del territorio, l'imposizione di un proprio ordinamento normativo e il sanzionamento delle sue violazioni, la riscossione periodica di tributi, la mediazione delle controversie - da parte di ciascun gruppo mafioso all'interno della propria area di influenza.
Le consorterie criminali assimilabili alla mafia italiana si caratterizzano, infatti, per una doppia identità culturale: pur avendo assunto una proiezione internazionale e una fisionomia modernizzata, che consentono loro di muoversi tra diversi ambienti, esse non hanno abbandonato valori e territori tipici dei loro contesti di origine. I principali gruppi mafiosi, sia italiani sia stranieri, si fondano frequentemente su una comune origine di tipo familiare, etnico o regionale, e continuano a mantenere legami molto stretti con un particolare territorio - un quartiere, una città, una strada, una regione - su cui pretendono di esercitare una signoria di tipo politico. A Palermo come a Reggio di Calabria, a Hong Kong come nelle Chinatown di San Francisco o Singapore, inoltre, la maggior parte dei commercianti paga regolarmente una tassa di protezione ai referenti delle locali cosche. Chiunque si rifiuti di riconoscere la signoria mafiosa, respingendo le richieste di denaro, viene minacciato, subisce danneggiamenti e, talora, finisce con l'essere ucciso dai propri estorsori. Sorte analoga subisce chi osi fornire alle autorità di contrasto elementi utili all'incriminazione degli affiliati alle organizzazioni mafiose, squarciando così il manto di segretezza che solitamente protegge queste ultime. Sia pur in misura minore che in passato, la rivendicazione di funzioni politiche trova espressione anche nella disponibilità dei capi delle unità componenti le grandi confederazioni mafiose a mediare conflitti tra privati, proteggere i diritti di proprietà e reprimere comportamenti contrari alla subcultura locale.
Le organizzazioni di tipo mafioso sono, dunque, entità polimorfiche e polivalenti. Costrette a rifugiarsi nella clandestinità per sfuggire alla repressione statale, esse hanno partecipato solo in minima parte al processo di differenziazione funzionale che ha investito la società moderna: come molte istituzioni delle comunità tradizionali, le consorterie assimilabili alla mafia italiana sono così rimaste funzionalmente diffuse, in grado di svolgere contemporaneamente compiti e funzioni assai diverse, di tipo politico, economico e sociale.
b) La seconda categoria, i raggruppamenti di stampo gangsteristico, fa riferimento a formazioni criminali che operano in prevalenza nei centri metropolitani ma che sono presenti anche nei centri urbani minori o in regioni e subregioni sotto il nome di delinquenza di professione, criminalità paramafiosa ecc. Fenomeni di questo tipo proliferano ovunque non vengano schiacciati dalla superiorità delle formazioni di stampo mafioso: i gruppi criminali che dominano le principali città dell'ex impero sovietico e un'intera componente della c. organizzata campana e pugliese odierna ne costituiscono esempi significativi.
Sono tre gli elementi principali di differenziazione dei gruppi gangsteristici rispetto a quelli mafiosi: l'età più giovane dei gangster; la maggiore eterogeneità socioculturale (e conseguente minore coesione interna) derivante dalla labilità dei criteri di selezione dei gruppi rispetto alle cosche mafiose; la bassa capacità di infiltrazione e manipolazione delle istituzioni detenuta dalle prime rispetto alle seconde.
I gruppi gangsteristici sono aggregati molto meno solidi e totalizzanti delle cosche mafiose. Anche se possono espandersi molto rapidamente dal punto di vista numerico, fino a raggiungere i 200÷300 membri, essi tendono col tempo a frammentarsi e a essere scompaginati dall'attività di polizia e dagli scontri intercriminali. A meno che non vengano incorporate entro una cosca mafiosa molto potente, inoltre, queste stesse gangs non sono in grado di assicurare ai propri membri un'ampia immunità dalle indagini penali. I rapporti dei loro capi con apparati e autorità legali sono episodici e insicuri. La minore disponibilità di risorse economiche e di contatti politici da parte dei gangster fa sì che l'infiltrazione nell'economia legale sia relativamente sporadica. E anche se le bande talora tentano di estorcere tangenti da imprenditori 'puliti', la loro capacità di 'farsi Stato' è assai limitata.
Emblematico è il percorso della Nuova camorra organizzata, un raggruppamento gangsteristico sorto attorno alla figura carismatica di R. Cutolo, che nel corso degli anni Settanta riuscì ad aggregare un gran numero di giovani delinquenti provenienti dai quartieri più degradati e dalle carceri di Napoli, tanto da essere considerato per alcuni anni la più grande e potente organizzazione criminale cittadina. Benché Cutolo fosse riuscito a stringere relazioni altolocate con diversi rappresentanti del potere statale, la Nuova camorra organizzata si disintegrò in breve tempo nella prima metà degli anni Ottanta, a causa della sua disomogeneità e fragilità organizzativa, quando gli organi di contrasto statali e sodalizi locali di tipo mafioso, associati a Cosa Nostra siciliana e noti sotto il nome di Nuova famiglia, le dichiararono congiuntamente guerra.
Le formazioni gangsteristico-mafiose si collocano in una posizione di passaggio tra i gruppi di gangsterismo urbano e le cosche mafiose vere e proprie. Assomigliano ai primi per via dell'età giovane e dell'attitudine predatoria dei loro membri, nonché per la natura composita e per le dimensioni numeriche elevate. Ma sono vicine alle cosche mafiose per la presenza di un'intelaiatura organizzativa, di 'codici' interni e di sigle, nonché per la costituzione di un'embrionale rete di protezione dalle indagini penali e per un nascente rapporto di simbiosi con i pubblici poteri.
Un tipico esempio di questo sottoinsieme è rappresentato dalla Sacra corona unita (SCU) pugliese: fondata nel 1983, essa imita nel suo assetto organizzativo e nei rituali la 'ndrangheta calabrese e costituisce a tutt'oggi la più stabile e potente confederazione criminale della regione, articolandosi in circa 6÷7 unità dislocate prevalentemente nelle province di Brindisi e Lecce (cui si aggiungono consistenti sodalizi criminali di stampo gangsteristico). Parimenti sono da ritenersi organizzazioni di tipo gangsteristico-mafioso alcune delle formazioni criminali sorte in seguito al collasso dell'impero sovietico e, in particolare, i gruppi appartenenti alla cosiddetta mafia cecena e caucasica. Sfruttando la debolezza delle istituzioni statali e la propria esperienza nella fiorente economia informale dell'era sovietica tali gruppi sono riusciti, nel corso degli anni Novanta, ad acquisire il controllo di importanti mercati illeciti locali, soprattutto a Mosca, e a sviluppare un vasto reticolo di cointeressenze e complicità con esponenti delle istituzioni statali, consolidando allo stesso tempo la propria struttura organizzativa.
c) Le bande della delinquenza giovanile costituiscono la terza figura idealtipica: si tratta di gruppi di giovani delinquenti presenti su base temporanea e fluttuante in varie situazioni di disorganizzazione spaziale e sociale. Molte di queste bande finiscono, a un certo punto della loro storia criminale, per essere incorporate entro formazioni gangsteristiche o per scomparire a causa dell'incarcerazione o dell'uccisione dei loro aderenti. Un esempio di questo tipo-ideale è costituito dai gruppi di giovani delinquenti che imperversano nei centri urbani meridionali come Bari e Catania, e dalle gangs che spadroneggiano in numerosi centri metropolitani degli Stati Uniti.
Le gangs si formano di solito attorno a un capo carismatico e sono caratterizzate da un'alta variabilità nel numero dei propri membri e da un livello molto basso di fedeltà al gruppo. Si contraddistinguono, inoltre, per un'elevata aggressività che si esprime in frequenti atti di predazione ai danni dei membri delle proprie comunità (furti di autoveicoli, rapine in appartamenti e grassazioni ai danni di imprese commerciali). Nei contesti dove sono contemporaneamente presenti formazioni criminali più strutturate, le gangs giovanili vendono spesso a queste i propri servizi illeciti, riscuotendo per loro conto un tributo mensile dai commercianti, spacciando droga o sigarette di contrabbando, nonché eseguendo omicidi su commissione. In cambio esse ottengono l'accesso alle risorse delle formazioni più strutturate (per es., l'assistenza legale) e, pertanto, una protezione, almeno parziale, dall'azione di repressione statale.
Un quarto tipo-ideale che è opportuno delineare, anche se la sua collocazione all'interno del concetto di c. organizzata è contestata nel dibattito italiano, è quello del network criminale: si tratta di reticoli di individui, che non dispongono di una precisa identità collettiva, né di criteri o meccanismi rigorosi di reclutamento capaci di differenziarli nettamente dall'ambiente esterno, ma che tuttavia sono spesso responsabili della movimentazione e distribuzione di beni illeciti - e in primis narcotici, armi ed esseri umani - su vasta scala. Esempi di questi 'quasi-gruppi' sono le reti di trafficanti curdi e turchi che riforniscono i principali mercati dell'Europa occidentale con eroina prodotta in Afghānistān, Pakistan e Iran, nonché i network di immigranti cinesi che gestiscono il trasferimento di grandi quantità della medesima sostanza dal Sud-Est asiatico agli Stati Uniti.
È importante infine ricordare che numerosi studiosi, soprattutto di origine americana e nordeuropea, definiscono il concetto di c. organizzata - o meglio quello di organized crime - in maniera alquanto generica, così da comprendere ogni attività illecita che richieda un sia pur minimo grado di organizzazione (rapine, sequestri, truffe, smercio di sostanze stupefacenti), anche quando la compagine sia assai precaria e si sciolga una volta raggiunto lo scopo prefisso. Soprattutto negli Stati Uniti l'enfasi viene posta - quasi esclusivamente - sulla produzione e commercializzazione di beni e servizi illeciti al fine di massimizzare il tasso di profitto, tanto che l'espressione 'imprese illecite' viene spesso usata come sinonimo o in sostituzione di c. organizzata.
Evoluzione ed espansione della criminalità organizzata
Come si è visto in precedenza, le multiformi manifestazioni della c. organizzata italiana e straniera hanno origine, durata e scopi assai diversi le une dalle altre. Le principali organizzazioni di tipo mafioso sono emerse in contemporanea al processo di state-building, in quelle nicchie geografiche e/o etniche in cui lo Stato nascente non è riuscito a imporre e legittimare pienamente il proprio monopolio della violenza e ha dovuto, o trovato conveniente, condividere il proprio potere e le proprie funzioni con istituzioni 'rivali' di tipo mafioso. Di conseguenza, queste ultime hanno solitamente una storia pluridecennale, nel corso della quale la loro struttura di potere è stata utilizzata per il conseguimento di una molteplicità di fini diversi.
Le formazioni appartenenti alle altre categorie idealtipiche si caratterizzano, invece, per un'origine recente, una limitata longevità temporale e (a eccezione delle bande giovanili) un minor grado di polivalenza. La maggior parte dei raggruppamenti di tipo gangsteristico e dei network illegali si costituiscono, utilitaristicamente, per l'esecuzione di una determinata attività criminale o per la gestione di un traffico illecito: sono cioè istituzioni prevalentemente monofunzionali, in cui la dimensione economica è dominante. Soltanto un numero assai esiguo di raggruppamenti gangsteristici, sfruttando condizioni sociopolitiche eccezionali e assai propizie (quali, per es., il collasso dell'impero sovietico e la perdurante debolezza degli Stati eredi), riesce ad assumere funzioni di tipo politico, acquisendo progressivamente i tratti tipici delle organizzazioni di tipo mafioso.
Così come le organizzazioni di tipo mafioso, le gangs giovanili non nascono al mero scopo di operare sui mercati illeciti, anche se a differenza delle prime si contraddistinguono per un alto grado di labilità temporale e organizzativa. Le ragioni della loro formazione sono solitamente insite nei processi di deculturazione conseguenti alla scarsa o mancata integrazione dei giovani - e in particolare dei nuovi immigrati - nella società e nella cultura dominante. Per i propri affiliati, le gangs svolgono importanti funzioni sostitutive di socializzazione e di integrazione e, in molti casi, le attività illecite mantengono una rilevanza marginale e, lungi dall'essere razionalmente pianificate in vista della massimizzazione dei profitti, sono subordinate alla ricerca del divertimento e all'affermazione dell'identità collettiva del gruppo.
Benché i diversi tipi di c. organizzata si differenzino gli uni dagli altri per la rilevanza assegnata alla dimensione economica della propria azione, la configurazione e le attività odierne di tutti i casi empirici fin qui menzionati sarebbero inconcepibili senza la grande espansione, avvenuta nel corso del 20° sec., dei mercati illeciti domestici e internazionali. Questi ultimi non costituiscono una novità assoluta del nostro tempo, poiché già da secoli si erano sviluppati - in ogni angolo d'Europa e del mondo - mercati locali 'paralleli', accanto a quelli ufficiali, per i beni soggetti a maggiori restrizioni e dazi, con una miriade di operatori indipendenti e, talvolta, di complesse strutture organizzate. Soltanto dalla fine del 19° sec., tuttavia, la commercializzazione di alcune merci - cioè gli esseri umani, l'oppio e la cocaina - venne vietata dalla maggior parte dei paesi e a livello internazionale: ciò ha comportato l'emersione, stante la persistenza della domanda per questi 'prodotti', di mercati interamente ed esclusivamente illeciti, mentre l'accresciuta regolazione statale della vita economica ha indotto la formazione di nuovi canali clandestini per il commercio contra legem di beni fortemente regolamentati.
L'espansione dei mercati illegali è stata, inoltre, favorita dalla grande crescita dell'economia lecita nel corso del cinquantennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale. Anche se il principale mercato illegale - quello dei narcotici - mostra sin dalla metà degli anni Ottanta segni di saturazione, lo sviluppo complessivo degli scambi clandestini non ha conosciuto soste: nonostante le sempre più agguerrite iniziative degli organi statali di contrasto, droghe, armi, merci contraffatte o di contrabbando, esseri umani ridotti in schiavitù e informazioni circolano oggi da un capo all'altro del mondo come mai prima. L'inarrestabile globalizzazione dell'economia lecita e la graduale perdita di significato delle frontiere nazionali e delle barriere alla circolazione degli uomini e delle merci portano con sé, infatti, come esito indesiderato, una crescente unificazione e interdipendenza delle economie e dei soggetti criminali. E, grazie alle innumerevoli possibilità offerte dal moderno sistema delle telecomunicazioni, diventa sempre più facile far perdere le tracce dei proventi dei traffici illeciti, trasferendoli elettronicamente attraverso decine di conti in una delle numerose piazze finanziarie che ancora oggi garantiscono il segreto bancario: si stima che ogni giorno circa un miliardo di dollari in profitti criminali venga riciclato attraverso il sistema finanziario internazionale.
La produzione e il commercio clandestino di beni e servizi tout- court proibiti o fortemente regolamentati garantiscono profitti assai elevati - superiori a quelli derivanti da qualsiasi intrapresa legale - a chi sia disposto ad affrontare i rischi di intercettazione e di carcerazione da parte degli apparati repressivi statali. Per operare sui mercati illegali è necessario, poi, porsi al di fuori del sistema di protezione dei contratti e degli scambi solitamente fornito dalle autorità statali ed essere, pertanto, in grado di difendere - se necessario con la violenza - la propria posizione di mercato e imporre alle controparti il rispetto dei termini delle transazioni. È proprio per la mancanza di un potere pubblico sovrano che le organizzazioni di tipo mafioso si trovano in posizione di grande vantaggio rispetto a operatori illeciti meno strutturati: grazie al proprio apparato militare e alla consuetudine ad adoperare la violenza, le consorterie assimilabili alla mafia italiana sono più volte riuscite ad acquisire e a detenere per lunghi periodi il monopolio di uno o più mercati illegali su base locale o quantomeno a imporre rigidi racket di protezione a tutte le imprese indipendenti, assumendosi, in cambio, la responsabilità del mantenimento dell'ordine e della risoluzione delle controversie tra i diversi soggetti dell'arena illegale.
È indubbio che le transazioni in beni e servizi illeciti rappresentano oggi una parte rilevante degli scambi internazionali; a causa della natura clandestina di tali commerci, tuttavia, non sono disponibili stime attendibili del loro fatturato globale. Secondo una recente valutazione delle Nazioni Unite, il giro d'affari del traffico di narcotici è di circa 400 miliardi di dollari all'anno, pari all'8% del commercio internazionale. Sebbene gli altri mercati registrino singolarmente fatturati inferiori, il loro turnover complessivo è da ritenersi superiore a quello del traffico mondiale di stupefacenti.
Le strategie di contrasto
Fino alla metà degli anni Ottanta la c. organizzata è stata considerata un tipico problema di ordine pubblico nazionale e, in quanto tale, combattuta soprattutto da quei paesi che - come l'Italia, gli Stati Uniti e Hong Kong - ne ospitavano le manifestazioni più radicate e pericolose.
I tre paesi citati sono stati spesso all'avanguardia nell'elaborazione di strumenti normativi e operativi atti a rendere più efficace l'azione di contrasto nei confronti delle formazioni e dei traffici illegali. Già nel 1970, per es., il legislatore americano introdusse, con l'Organized crime and control act, speciali disposizioni sostantive e processuali contro il crimine organizzato e delineò la figura delle Racketeers Influenced and Corrupt Organizations (RICO) al fine di contrastare l'infiltrazione nell'economia legale di soggetti e metodi di gestione criminali. Pochi anni più tardi, nel 1974, il governo di Hong Kong istituì la Independent Commission Against Corruption, affidandole poteri draconiani nella lotta alla corruzione e alla manipolazione dei processi decisionali pubblici da parte di affiliati ai raggruppamenti criminali locali.
Il principale contributo sul piano legislativo del nostro paese alla lotta alla c. organizzata è rappresentato dalla l. 13 sett. 1982 nr. 646 (nota come legge Rognoni-La Torre), che venne adottata dopo l'assassinio mafioso del prefetto di Palermo, generale C.A. Dalla Chiesa, sulla base di una proposta di legge presentata da P. La Torre, parlamentare comunista, ucciso anch'egli da Cosa Nostra nei mesi precedenti. Con tale legge è stato introdotto nel codice penale (art. 416 bis) il delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso, in seguito costantemente contestato nei procedimenti giudiziari contro i membri delle consorterie criminali del Mezzogiorno, e sono stati previsti il sequestro e la confisca dei beni di origine illecita nei confronti dei soggetti indiziati di appartenenza a siffatte associazioni.
È stata la grande diffusione del consumo e del traffico di droghe pesanti e leggere a sensibilizzare - nella prima metà degli anni Ottanta - l'opinione pubblica e le istituzioni statali dei paesi esenti da forme tradizionali di c. organizzata alle problematiche dei mercati illegali e a introdurre l'adozione di misure volte a contrastare il commercio di narcotici e il reinvestimento degli introiti derivanti da tale attività nell'economia legale. La determinazione dell'intera comunità internazionale nella lotta al narcotraffico e al riciclaggio dei suoi proventi ha trovato espressione nella 'Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope', che è stata approvata nel 1988 a Vienna e successivamente sottoscritta da oltre 135 paesi. Nel 1991, inoltre, l'Assemblea generale ha dato vita all'United Nations Drug Control Program, cui è stato assegnato il coordinamento di tutte le iniziative delle Nazioni Unite concernenti il controllo delle sostanze stupefacenti, mentre i sette paesi più industrializzati del mondo (il cosiddetto Gruppo dei Sette) hanno istituito nel 1989 la Financial Action Task Force (FATF) per l'individuazione di provvedimenti legislativi e amministrativi atti a limitare l'utilizzazione delle istituzioni finanziarie domestiche e internazionali a scopo di riciclaggio: dopo tre anni di lavoro, la FATF ha emanato 40 raccomandazioni, che sono oggi seguite da un largo numero di paesi.
Numerose iniziative contro il traffico delle droghe e il riciclaggio del denaro sporco sono state prese, nei primi anni Novanta, anche a livello europeo. In data 8 nov. 1990, a Strasburgo, nell'ambito del Consiglio d'Europa è stata stipulata una Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, ratificata in Italia con la l. 9 sett. 1993 nr. 328. Nel 1991 una direttiva sul medesimo tema è stata licenziata dal Consiglio dei ministri dell'Unione Europea e nel 1994 è stato istituito un Centro europeo per il monitoraggio delle droghe e della tossicodipendenza, con sede a Lisbona. Sempre nel 1994, ha iniziato a operare anche la Europol Drugs Unit, primo nucleo specializzato nella lotta al narcotraffico dell'Europol, un'organizzazione non esecutiva per lo scambio di informazioni tra le diverse polizie europee, che diventerà operativa non appena la relativa Convenzione sarà ratificata da tutti i paesi membri dell'Unione Europea.
Le molteplici iniziative degli organismi internazionali - oltre alla proliferazione e internazionalizzazione dei commerci e dei soggetti criminali e a una copiosa e spesso allarmistica pubblicistica sull'argomento - hanno stimolato la produzione legislativa dei singoli paesi, soprattutto in Europa occidentale. Sin dalla fine degli anni Ottanta sono stati così approvati numerosi provvedimenti normativi che definiscono nuove figure di reato - in particolare, quello di riciclaggio e di appartenenza a un'organizzazione criminale -, introducono strumenti di repressione (per es., il sequestro e la confisca di beni di origine illecita) e riformano i tradizionali organi di contrasto o ne introducono di nuovi al fine di rendere più efficace la lotta contro la c. organizzata e di favorire la cooperazione internazionale in questo settore.
Dai primi anni Novanta anche la c. organizzata in sé, soprattutto nelle sue ramificazioni internazionali, è divenuta un tema autonomo di grande rilevanza nella riflessione e nell'operato degli organismi internazionali, come testimoniato dalla Conferenza mondiale sul crimine organizzato transnazionale, convocata dalle Nazioni Unite a Napoli nel novembre 1994. La Dichiarazione politica finale e l'annesso Piano di azione globale, approvati al termine dei lavori, sono dettati dalla consapevolezza che soltanto una strategia multinazionale di prevenzione e repressione possa efficacemente contrastare il processo di unificazione in atto dei soggetti e dei mercati illeciti.
Numerose sono state nella seconda metà degli anni Novanta le iniziative ispirate da tale consapevolezza. Dalla fine del 1996 un gruppo di esperti sta negoziando una Convenzione contro il crimine organizzato transnazionale da sottoporre all'approvazione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nell'aprile 1997 il Consiglio dell'Unione Europea ha adottato un piano d'azione contro la c. organizzata, da cui sono scaturite, nel corso dei mesi successivi, importanti azioni comuni, quali il programma Falcone per la promozione della formazione e della cooperazione tra gli operatori responsabili della lotta al crimine organizzato e l'iniziativa volta a rendere punibile in tutti gli Stati membri la partecipazione a un'organizzazione criminale.
Nonostante i progressi compiuti in seguito alle iniziative citate, la disomogeneità tra le varie legislazioni nazionali resta assai ampia e ciò inficia fortemente la cooperazione internazionale. Un numero considerevole di paesi - in particolare, quelli che ospitano i cosiddetti paradisi fiscali - sono ancora oggi assai restii a fornire informazioni e collaborazione agli apparati anti-crimine di altre nazioni. Anche in ambiti regionali, come quello dell'Unione Europea, l'elaborazione di strategie e organi comuni per il contrasto alla grande c. internazionale procede a rilento, poiché si scontra con concezioni tradizionali che considerano l'esercizio dell'azione penale un attributo primario e ineludibile dello Stato-nazione.
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