Crisi degli Stati, nazionalità ed etnie
Il crollo del sistema sovietico nell’Europa centroorientale fra il 1989 e il 1991 ebbe effetti contraddittori. Il primo, accolto con grande soddisfazione dall’opinione pubblica occidentale, fu quello di ridare sovranità e libertà ad alcune nazioni europee che avevano fatto parte della sfera d’influenza sovietica: Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania, Albania. A molti quell’evento sembrò un ‘ritorno a Versailles’ e ai principi di nazionalità che avevano, almeno formalmente, ispirato i vincitori della Grande guerra quando cercarono di rimettere ordine fra le macerie dei grandi imperi multinazionali travolti dal conflitto. La Seconda guerra mondiale aveva modificato la geografia e la composizione demografica di quegli Stati. Erano pressoché interamente scomparse le grandi comunità ebraiche della Polonia, dell’Ungheria, della Romania e della Cecoslovacchia. Erano stati alterati o restaurati molti confini. Erano stati espulsi parecchi milioni di tedeschi dalla Prussia Orientale, dalla Pomerania, dalla Slesia, dal Sudetenland cecoslovacco. Erano stati espulsi gruppi nazionali meno numerosi, ma pur sempre importanti, di italiani, ungheresi, croati e serbi da terre in cui avevano abitato per molti secoli. Ma il trasferimento forzato di queste popolazioni aveva avuto il paradossale effetto di rendere alcuni di questi Stati molto più ‘nazionali’ di quanto non lo fossero nel momento in cui erano nati o risorti alla fine della Grande guerra. Sembrò quindi che la fine della guerra fredda sancisse la validità dello Stato nazionale, vale a dire del modello politico che aveva dominato sin dagli inizi dell’Ottocento la scena politica europea.
Questa impressione fu rapidamente contraddetta, o almeno mitigata, da altre vicende nell’Europa centro-occidentale, nell’Europa danubiano-balcanica e nell’immenso territorio dell’Unione Sovietica.
Nell’Europa centro-occidentale l’evento più importante fu l’unificazione della Germania. L’avvenimento colse di sorpresa molti osservatori. La Repubblica Democratica Tedesca (RDT) non era soltanto un satellite sovietico. Qui la classe dirigente comunista aveva lavorato alla creazione di una nazione ideologica e vi era riuscita, almeno in parte, utilizzando i pezzi della storia tedesca che più si prestavano all’operazione: il massimalismo socialista, lo spartachismo, i moti rivoluzionari del 1919, la Repubblica bavarese dei consigli, il rigore prussiano, la Riforma protestante, la rivolta dei contadini anabattisti. Questa ‘invenzione della tradizione’ conteneva elementi contraddittori (Lutero fu un riformatore cristiano, e il maggiore nemico degli anabattisti), ma rivendicava alla RDT il ruolo dell’antesignano o del precursore ed ebbe l’effetto di creare un ‘tedesco dell’Est’ diverso dai suoi antichi connazionali dell’Ovest. Come ha osservato Alberto Indelicato, ultimo ambasciatore italiano nella RDT, la Germania comunista fu l’incarnazione statale di un’ideologia, il Paese in cui l’ideologia cercò di creare un popolo. Erich Honecker, segretario del partito e presidente del Consiglio di Stato, fu tra i primi a comprendere che il tentativo riformatore di Michail Gorbačëv avrebbe messo in pericolo la stabilità del regime e fece del suo meglio per impedire che le ‘perniciose’ idee del leader sovietico attraversassero le frontiere del suo Paese. Era una reazione comprensibile. La perestrojka ammetteva la possibilità che l’economia potesse essere organizzata con criteri diversi da quelli che avevano ispirato sino ad allora gli Stati comunisti, mentre la glasnost´ riconosceva implicitamente che il potere era stato esercitato in modo ottuso e opaco. In un Paese che confinava con l’Occidente, ne vedeva i programmi televisivi, ne constatava la prosperità ed era costretto ad accettare le proprie condizioni di vita imposte da una grande muraglia di cemento e filo spinato, queste innovazioni rischiavano di risvegliare desideri che il regime non intendeva e non poteva soddisfare. Fu interessante osservare, per es., che la stampa della RDT dava poco spazio alle dichiarazioni programmatiche di Gorbačëv e le trattava come inutili o poco adatte al sistema tedesco. Questo atteggiamento irritò la dirigenza sovietica e le divergenze vennero alla luce nell’ottobre del 1989, proprio nel quarantesimo anniversario della Repubblica Democratica Tedesca. Gorbačëv approfittò delle cerimonie per pronunciare a Berlino un discorso che conteneva una implicita critica del regime comunista tedesco e autorizzò in tal modo il dissenso a manifestarsi pubblicamente con maggiore vigore. Fu quello il colpo di acceleratore che provocò di lì a poco il crollo del muro di Berlino. Ma è opportuno ricordare che nelle grandi manifestazioni di Dresda, Lipsia e Berlino Est vi erano, fra molte ambiguità, anche coloro che chiedevano riforme simili a quelle promesse da Gorbačëv. Furono il collasso del sistema sovietico e la particolare vulnerabilità della RDT, ancor più delle ambizioni unitarie di Helmut Kohl, che decretarono in ultima analisi la morte dello Stato comunista tedesco. Accadde in Germania nel 1990, per certi aspetti, ciò che era accaduto in Italia nel 1860. L’unificazione fu il risultato di un vuoto politico che colse di sorpresa probabilmente lo stesso unificatore. Il ‘ritorno a Versailles’ in questo caso non piacque ai maggiori Paesi dell’Europa occidentale. Margaret Thatcher, François Mitterrand e Giulio Andreotti temettero che la riapparizione di un grande Stato tedesco, signore della Mitteleuropa, avrebbe incrinato gli equilibri dei decenni precedenti. Mitterrand, in particolare, lanciò l’idea di una Confederazione tedesca in cui la RDT avrebbe potuto conservare la sua identità e la sua autonomia. Kohl scelse risolutamente la strada dell’unità, ma capì anche i timori dei suoi partner e dette una risposta europea alle loro preoccupazioni lanciando pubblicamente una proposta – l’Unione economica e monetaria – a cui il presidente della Commissione Jacques Delors aveva lavorato negli anni precedenti. La Germania diceva in tal modo ai suoi partner che avrebbe annesso la RDT, ma avrebbe contemporaneamente rinunciato al marco, simbolo della potenza economica che il Paese era riuscito a costruire dopo la disfatta della Seconda guerra mondiale. Fra il 1989 e il 1991 si poté assistere così in Europa a due fenomeni potenzialmente contraddittori: la rinascita degli Stati nazionali nell’Europa centro-orientale e il rilancio del processo d’integrazione nell’Europa centro-occidentale.
Quando il Trattato per l’Unione economica e monetaria (UEM) fu firmato a Maastricht nel febbraio del 1992, la Comunità europea aveva da poco riconosciuto l’esistenza di due Stati balcanici, la Slovenia e la Croazia. La crisi dello Stato iugoslavo era cominciata nel 1990 quando il governo di Belgrado aveva inviato l’esercito in Kosovo per sopprimere le agitazioni indipendentiste della popolazione albanese ed era bruscamente peggiorata a nord, nella primavera dell’anno seguente, quando le forze armate federali avevano dato inizio a operazioni militari contro i tentativi secessionisti della Croazia e della Slovenia. La guerra fu relativamente breve in Slovenia, dove si concluse di fatto con la vittoria degli sloveni, ma fu più lunga e sanguinosa in Croazia dove conobbe vicende come l’assedio di Vukovar e il bombardamento di Dubrovnik. Il riconoscimento europeo dell’indipendenza delle due repubbliche separatiste fu voluto dalla Repubblica Federale di Germania e fortemente incoraggiato dalla Santa Sede. I tedeschi desideravano riportare nella Mitteleuropa due province slave che avevano lungamente appartenuto all’Austria (la Slovenia) e all’Ungheria (la Croazia). Alla Santa Sede premeva ‘liberare’ due province cattoliche. Apparvero così sulla carta due nuovi ‘Stati nazionali’. Ma il primo (circa due milioni di abitanti) non aveva alcuna tradizione statuale e il secondo aveva conquistato la sua indipendenza, durante la Seconda guerra mondiale, grazie alla spartizione tedesca e italiana del regno iugoslavo. Non basta. Mentre la Slovenia era relativamente omogenea e pressoché interamente cattolica, la Croazia (più di cinque milioni di abitanti) era abitata, soprattutto in Krajina e Slavonia, da forti comunità serbe (circa seicentomila persone), qui giunte con le loro armi quasi tre secoli prima dopo avere fieramente combattuto contro i turchi ottomani e avere abbandonato, sotto la spinta degli invasori, il Kosovo e altre regioni meridionali.
Quando fu evidente che il riconoscimento della Slovenia e della Croazia avrebbe accelerato la sanguinosa disgregazione dell’intero Stato iugoslavo, i tedeschi spiegarono di avere agito nella convinzione che le repubbliche avessero il diritto di separarsi dalla federazione e che la separazione sarebbe avvenuta lungo le loro frontiere ufficiali. Consideravano la Iugoslavia, in altre parole, un puzzle composto da pezzi nazionali nettamente distinti, ciascuno dei quali poteva rivendicare la propria originalità etnico-religiosa. Non avevano tenuto conto del fatto che Tito aveva creato uno Stato federale in cui le nazionalità sarebbero state il residuo di una tradizione destinata a spegnersi e i popoli sarebbero stati uniti soprattutto dalla fede nello stesso ideale: il comunismo. I confini, nella concezione di Tito, erano distinzioni amministrative, prive di rilevanza politica, e vennero fissati con criteri di opportunità e convenienza, indipendentemente dalla omogeneità nazionale del territorio. Sembra, per es., che il maresciallo avesse preso in considerazione, verso la fine della guerra, l’ipotesi di una provincia autonoma (simile a quelle create per il Kosovo e la Vojvodina) in cui sarebbero stati riuniti i distretti serbi della vecchia Croazia austro-ungarica. Ma fu deciso che fosse meglio scoraggiare le identità etniche, soprattutto in una regione in cui serbi e croati, durante la guerra, si erano combattuti e i primi erano stati sopraffatti dalla violenza nazionalistica dei secondi. Erano gli stessi criteri che avevano guidato la mano di Iosif Vissarionovič Stalin quando il leader sovietico aveva disegnato i confini delle repubbliche caucasiche; ed erano criteri ispirati dalla convinzione che l’identità comunista avrebbe ricoperto come una pelle nuova quella vecchia e cadente delle identità nazionali.
La morte del comunismo ebbe l’effetto di rendere visibile e vitale ciò che era stato nascosto. Non è facile stabilire se la pelle vecchia fosse davvero migliore e più tenace della pelle nuova, o se la resurrezione non fosse piuttosto opera di ambiziose nomenklature, decise a esasperare, per meglio sfruttarle, le differenze nazionali e le reciproche diffidenze di popoli che in altri tempi avevano lungamente convissuto all’interno di uno stesso territorio. Non sarebbe giusto dimenticare inoltre che nei quasi cinquant’anni della Iugoslavia di Tito si era formata, come nella Repubblica Democratica Tedesca, una nuova nazionalità, e che molti, dopo la disintegrazione dello Stato federale, continuarono a considerarsi ‘iugoslavi’. A posteriori queste riflessioni non hanno purtroppo alcuna importanza. Conta solo il fatto che la secessione slovena e quella croata, avallate dall’Europa, suscitarono il desiderio d’indipendenza di altre repubbliche e che ciascuna di esse dimostrò di avere all’interno del proprio territorio le stesse contraddizioni etniche e religiose della Repubblica croata. I casi peggiori furono quelli della Bosnia e del Kosovo. E i rimedi si rivelarono spesso peggiori del male. Dopo i bombardamenti della NATO nel 1995, la cacciata dei serbi dalla Krajina e dalla Slavonia, gli accordi di Dayton, la guerra del Kosovo del 1999, la secessione montenegrina del giugno 2006 e la proclamazione dell’indipendenza kosovara agli inizi del 2008, esistono oggi, al posto della vecchia Iugoslavia, sei Stati unitari (Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, Macedonia, Kosovo) e uno Stato di tipo nuovo, composto dalla federazione fra una piccola repubblica serba e una confederazione croato-musulmana, la Bosnia ed Erzegovina. Ma la parola sovranità, nel suo significato tradizionale, si adatta male alla loro condizione. Due di essi (Slovenia e Croazia) fanno parte dell’Unione Europea (UE), a cui hanno ceduto una parte considerevole dei poteri statuali. Altri due (Bosnia ed Erzegovina e Kosovo) sono, per certi aspetti, protettorati europei. Piuttosto che di un ‘ritorno a Versailles’ converrebbe parlare in questo caso del ritorno a epoche in cui la carta europea, non ancora dominata da grandi Stati, era un mosaico di baronie, principati e granducati, caratterizzati da quote diverse di sovranità.
Un’altra scissione, in questo caso consensuale, aveva avuto luogo nel frattempo in un altro Stato di Versailles. Negli anni che precedettero la Grande guerra, il padre della Cecoslovacchia, Jan Masaryk, non progettava la nascita di uno Stato indipendente, ma la creazione di una regione boemo-morava, dotata di grande autonomia, nell’ambito di una federazione asburgica dell’Europa centrale: un disegno non troppo diverso da quello che Carlo Cattaneo aveva concepito per il Lombardo-Veneto prima del 1848. Il progetto fu modificato dagli eventi. Quando la durata del conflitto inasprì le posizioni degli Alleati contro gli Imperi centrali e soprattutto quando il presidente statunitense Woodrow Wilson volle che la guerra disegnasse una nuova Europa, organizzata secondo il principio di nazionalità, fu deciso che i fratelli separati si sarebbero ricongiunti all’interno di nuovi Stati nazionali. Ma il rapporto fra cechi e slovacchi era simile, per qualche aspetto, a quello fra serbi e croati. Erano uniti da una stessa confessione religiosa (il cristianesimo latino) e da una lunga lealtà asburgica, ma erano appartenuti a due Stati diversi: la Boemia e la Moravia all’Austria, la Slovacchia all’Ungheria. Parlavano lingue simili, ma il compromesso del 1867, con cui l’Ungheria era divenuta partner dell’Austria in un condominio retto dallo stesso sovrano, aveva allontanato i cechi dagli slovacchi creando per ciascuno dei due popoli diversi percorsi politici, amministrativi e culturali. La Cecoslovacchia fu quindi, per molti aspetti, una creazione pseudonazionale composta da boemi, moravi, slovacchi, zingari e da tre milioni di tedeschi concentrati nella regione dei Sudeti. Fu questa la ragione per cui l’ala più radicale del nazionalismo slovacco, incoraggiata dalla Germania, approfittò dell’occupazione tedesca di Praga per creare un piccolo Stato apparentemente sovrano, ma in realtà satellite del Reich nazista. Il ricongiungimento avvenne grazie alla sconfitta tedesca del 1945 e soprattutto, come nel caso della Iugoslavia, all’insegna di una ideologia, il comunismo, che avrebbe dovuto ridurre le identità nazionali a reperto museale e folcloristico. Ma anche nel caso della Cecoslovacchia la dissoluzione della Iugoslavia ridette vita al nazionalismo slovacco o, piuttosto, alle ambizioni dei suoi gruppi dirigenti. Il divorzio, in questo caso dolce e incruento, avvenne il 1°gennaio 1993. A partire da quel giorno apparvero sulla carta d’Europa due nuovi Stati molto più ‘nazionali’ di quanto non fosse stata nei decenni precedenti la loro casa comune, la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Ma la loro sovranità (più fortemente proclamata a Praga, più moderatamente praticata a Bratislava dopo la fase autoritaria e controversa di Vladimir Mečiar) si dimostrò ben presto solo parzialmente maggiore di quella di cui avevano goduto quando erano province dell’impero asburgico o di quello sovietico. In poco più di un decennio la Repubblica Ceca e la Slovacchia entrarono in due organizzazioni, la NATO e l’Unione Europea, cui cedettero una buona parte della loro sovranità politica, economica e finanziaria.
Il presidente russo Vladimir Putin non aveva torto quando disse, qualche anno fa, che la disintegrazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) fu una catastrofe geopolitica. L’Unione Sovietica fu uno Stato multinazionale, non troppo diverso, alla fine della Seconda guerra mondiale, dall’impero zarista. La Pace di Brest-Litovsk, nel marzo del 1918, e il Trattato di Riga con la Polonia nel 1921 l’avevano privata delle repubbliche baltiche, dell’Ucraina occidentale, di una parte della Bielorussia e della Bessarabia romena. Ma il patto con Adolf Hitler dell’agosto del 1939 e la vittoria del maggio 1945 le avevano restituito quasi tutte le province perdute con il sovrappiù di qualche sostanziosa aggiunta territoriale come l’enclave di Königsberg in Prussia orientale. Alla fine della Seconda guerra mondiale, quindi, l’URSS era più grande di quanto non fosse stato l’impero dello zar nel momento della sua massima espansione. Ma se un osservatore straniero avesse ricordato che l’impero era stato definito da Vladimir Il´ič Lenin una «prigione dei popoli», un esponente del regime sovietico avrebbe replicato che l’URSS era, grazie alla Costituzione del 1924, uno Stato federale.
Il federalismo, naturalmente, fu soltanto una finzione. I bolscevichi non cercarono di sopprimere le identità nazionali, ma le ridussero a una sorta di reperto archeologico, da conservare ed esibire per meglio valorizzare il mutamento culturale e antropologico che il regime comunista avrebbe realizzato. Le repubbliche ebbero i loro organi istituzionali (in alcuni casi persino un ministro degli Esteri) e Stalin, per disporre di un maggior numero di voti all’ONU, volle che due di esse (Ucraina e Bielorussia) avessero un seggio nel Palazzo di vetro. Ma vi fu un solo Partito comunista dell’Unione Sovietica, fermamente diretto al centro dal suo segretario generale, vero capo dello Stato e del governo. Non basta. Quando Stalin nel 1941 dovette appellarsi al patriottismo dei suoi concittadini, l’URSS divenne nuovamente la ‘grande Russia’, vale a dire un enorme Stato nazionale disposto ad assorbire e assimilare le proprie minoranze purché fossero a loro volta pronte ad abbracciare l’ideologia dominante del ‘padrone di casa’: l’ortodossia all’epoca dello zar, il comunismo dopo la Rivoluzione d’ottobre.
Le nazionalità si dimostrarono più tenaci di quanto gli ideologi dell’Unione Sovietica avessero previsto e la loro rilevanza, nell’ambito dello Stato pseudofederale, fu inversamente proporzionale alla credibilità delle promesse che il comunismo aveva fatto ai suoi fedeli. Quando il regime, dopo il fallimento delle riforme di Nikita Sergeevič Chruščëv, divenne una gigantesca macchina burocratica in cui la retorica comunista nascondeva inefficienza e spreco, i leader comunisti delle singole repubbliche divennero per molti aspetti grandi notabili, pronti a mercanteggiare la loro lealtà contro la concessione di favori per le loro baronie repubblicane. È la situazione descritta da una studiosa francese, Hélène Carrère d’Encausse, in un libro del 1978, L’empire éclaté, che ebbe un meritato successo negli anni Ottanta. Più che di uno Stato totalitario, fermamente governato dal successore di Stalin, converrebbe parlare, da questo momento, di una piramide oligarchica in cui il segretario generale doveva tenere conto dei grandi notabili delle repubbliche federate.
Le riforme di Gorbačëv ebbero l’effetto di accentuare questa tendenza e di intaccare così l’autorità del centro sulla periferia. Le prime a muoversi furono le Repubbliche del Baltico. Estonia, Lettonia e Lituania avevano conservato la loro identità durante l’impero zarista, avevano conquistato l’indipendenza dopo la Rivoluzione bolscevica e la fine della Grande guerra, l’avevano perduta a seguito del Patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939, erano state ‘liberate’ dai tedeschi dopo l’inizio dell’operazione Barbarossa nel giugno del 1941 e punite dai sovietici dopo la sconfitta della Germania. La punizione, come al solito, era stata demografica. Una parte della popolazione era stata espulsa dal territorio e sostituita con una forte immigrazione russa. Alla fine degli anni Ottanta, quindi, le tre Repubbliche del Baltico erano molto meno omogenee di quanto fossero state nel corso della loro storia. Ma questo non impedì che approfittassero delle riforme di Gorbačëv per rivendicare una maggiore libertà. Se perestrojka e glasnost´ promettevano l’autonomia delle aziende e maggiore trasparenza nei rapporti pubblici, i baltici erano, fra i popoli dell’Unione, quelli più pronti, per la loro cultura politica ed economica, a trarre vantaggio dalle riforme. Una situazione analoga si verificò nel Caucaso dove tre Repubbliche (Georgia, Armenia e Azerbaigian) avevano avuto una breve indipendenza dopo la Rivoluzione d’ottobre e due di esse (Georgia e Armenia) potevano rivendicare una lunga esistenza storica. Anziché creare uno Stato nuovo, la riforma costituzionale voluta da Gorbačëv aggravò la crisi dello Stato vecchio. L’elezione del Congresso nel marzo 1989 portò nell’assemblea un numero considerevole di deputati autonomisti che costituirono un gruppo parlamentare e decisero di battersi insieme per i diritti delle loro repubbliche. Accadde così, per la prima volta nella storia dell’URSS, che un’assemblea parlamentare assumesse una connotazione federale. Gli effetti cominciarono a vedersi nel marzo del 1990 quando la Georgia denunciò il trattato dell’Unione, stipulato nel 1922, e la Lituania proclamò la propria indipendenza. Fra il marzo e il luglio tutte le Repubbliche sovietiche manifestarono in una forma o nell’altra la loro volontà di autonomia. La decisione più gravida di conseguenze, naturalmente, fu quella della Russia. Quando Boris El´cin, eletto alla presidenza del Soviet supremo della Repubblica russa, proclamò la sovranità della ‘sua’ repubblica, fu chiaro che l’URSS, nella forma voluta da Stalin all’inizio degli anni Venti, aveva cessato di esistere. E quando lo stesso El´cin, dopo avere modificato la Costituzione della repubblica, chiese ai suoi connazionali un mandato diretto e personale, la sua trionfale elezione oscurò l’autorità di un leader, Gorbačëv, che era stato scelto dal Comitato centrale, non dal popolo.
Di fronte ai notevoli tentennamenti del segretario-presidente un gruppo di ‘legittimisti sovietici’ decise di riconquistare le redini del potere perduto. Ma il putsch fallì ed El´cin seppe sfruttare immediatamente lo scacco dei suoi avversari per sospendere le attività del Partito comunista e costringere Gorbačëv a dimettersi dalla carica di segretario generale. In un sistema politico in cui il partito esercitava contemporaneamente i tre poteri fondamentali (esecutivo, giudiziario e legislativo), la sua morte segnò la fine dello Stato. Per uno straordinario ricorso storico lo Stato sovietico morì nello stesso modo in cui era nato. Come Lenin aveva disperso l’Assemblea costituente nel gennaio 1918, così El´cin ‘disperse’ il partito nell’agosto 1991. L’atto di morte ufficiale sopraggiunse il 12 dicembre 1991 quando il Parlamento russo approvò la creazione di una Comunità slava, decisa a Minsk con i leader di Ucraina e Bielorussia, e dichiarò decaduto il trattato del 30 dicembre 1922 con cui quattro Repubbliche – Russia, Ucraina, Bielorussia e Transcaucasia – avevano costituito l’URSS. Nove giorni dopo, il 21 dicembre, i tre membri della Comunità slava crearono insieme ad altre otto Repubbliche (mancavano all’appello soltanto Estonia, Lettonia e Lituania) la Comunità degli Stati indipendenti: una sorta di Commonwealth in cui il presidente russo ebbe da allora poteri simili a quelli del primo ministro del governo di Londra nell’organizzazione degli Stati che avevano fatto parte dell’impero britannico. La morte del partito e la dissoluzione dello Stato furono salutati come il trionfo delle nazionalità sulla ideologia. Riapparvero all’onore della storia gli estoni, i lettoni, i lituani, gli ucraini, i bielorussi, i georgiani, gli armeni, gli azeri. Ma apparvero altresì, contemporaneamente, nazionalità che non avevano mai avuto una configurazione statale, se non in qualche remota cronaca dell’Alto Medioevo, e che dovevano le loro istituzioni repubblicane, nell’ambito dell’URSS, all’ingegneria costituzionale di Stalin: i kazaki, i tagichi, gli uzbeki, i kirghizi, i turkmeni. Questa nuova ‘primavera dei popoli’, tuttavia, creava nuovi problemi. Se tagichi e turkmeni avevano diritto all’indipendenza perché negare lo stesso diritto ai ceceni, alla popolazione del Dagestan, agli abcasi, agli osseti, ai tatari, ai calmucchi, ai baschiri, ai buriati, agli jacuti? A questi popoli, nel grande Stato sovietico, erano state elargite repubbliche autonome e oblast´. Ma esisteva forse un protocollo internazionale delle nazionalità da cui potesse desumersi quali fossero di primo, secondo o terzo rango? Fu subito evidente, inoltre, che i confini repubblicani erano stati decisi a Mosca con criteri di opportunità politica per meglio diluire la nazionalità dominante in uno spazio politico occupato da consistenti minoranze o dare qualche soddisfazione politica a un potente interlocutore. Il Nagorno-Karabah (un territorio abitato prevalentemente da armeni) era stato assegnato da Stalin all’Azerbaigian per compiacere la Turchia. La Crimea era stata donata da Chruščëv all’Ucraina per celebrare il trecentesimo anniversario dell’unione fra Mosca e Kiev. La Bessarabia romena era stata arrotondata con terre abitate prevalentemente da ucraini e russi al di là del fiume Dnestr. Quando il comunismo cessò di essere la religione comune di quei popoli e ogni repubblica federata ebbe diritto alla sua indipendenza fu chiaro che molte frontiere erano storicamente e politicamente contestabili. Il risultato fu una lunga serie di guerre civili e tentativi secessionisti di cui l’Europa, affaccendata in altre questioni, ebbe nozioni vaghe e confuse. Fra le guerre scoppiate in quegli anni la più lunga e cruenta fu quella cecena.
Il modo in cui la Cecenia si staccò dallo Stato sovietico nell’estate del 1991 ha il valore di un paradigma. L’uomo (Djokhar Dudaev) che entrò con un drappello di soldati nel Soviet supremo di Groznyj, capitale della Repubblica autonoma di Cecenia-Inguscezia, e si proclamò presidente, non era un rivoluzionario, un dissidente, un esule tornato in patria dopo il fallimento delle riforme di Gorbačëv. Era un generale dell’aeronautica dell’Armata rossa e veniva dall’Estonia dove aveva comandato una unità missilistica. Nulla, nel suo passato, aveva lasciato trapelare sentimenti antisovietici. Era certamente ambizioso ma convinto che le sue ambizioni potessero trovare soddisfazione all’interno dell’URSS. Il crollo del sistema creato da Stalin e dai suoi successori cambiò le regole del gioco e aprì voragini che qualcuno, prima o dopo, avrebbe cercato di colmare. Nel caso della Cecenia, poi, esisteva una sorta di legge a cui era difficile sfuggire. Definitivamente soggiogata all’epoca delle guerre caucasiche, verso la metà dell’Ottocento, la provincia era sempre stata fiera e ribelle. Se lo storico collocasse su un grafico i rapporti tra la Russia e la sua provincia, constaterebbe che le impennate autonomiste o indipendentiste cecene corrispondono puntualmente alle crisi dello Stato russo. Così accadde dopo la Rivoluzione bolscevica. Così accadde quando le forze armate tedesche, durante la Seconda guerra mondiale, si spinsero sino al Caucaso settentrionale. E così accadde ancora una volta quando Mosca cominciò a perdere il controllo del grande spazio sovietico.
Ma ogni volta che il potere, a San Pietroburgo o a Mosca, riusciva ad affermare nuovamente i diritti dello Stato, la Cecenia diventava nuovamente provincia dell’impero. Situata alle porte del Caucaso e sulla via del petrolio, la regione è troppo strategicamente importante perché la Russia possa permettersi di abbandonarla alla sua sorte. Nel 1994, quando ebbe finalmente regolato i conti con i suoi oppositori e dato alla Russia una nuova Costituzione, El´cin decise che era giunto il momento di riconquistare la Cecenia. Ma l’operazione fallì per due ragioni. In primo luogo i ceceni erano decisi a difendere il loro Paese. In secondo luogo l’operazione fu condotta da un esercito demoralizzato e male attrezzato per la guerra di guerriglia, un’Armata rossa che aveva perduto il sentimento della sua identità sovietica e non ancora ritrovato quello dalla tradizione nazionale. La prima guerra cecena fu tuttavia una paradossale prova di democrazia, sia pure incompiuta e caotica. Il mondo se ne accorse quando assistette allo spettacolo delle madri russe che scendevano a Groznyj per riportare a casa i loro ragazzi: un evento che sarebbe stato, in epoca sovietica, difficilmente immaginabile. Interrotta nel 1996, quando la maggiore preoccupazione di El´cin fu quella di vincere le elezioni presidenziali per il rinnovo del mandato, la partita venne ricominciata verso la fine degli anni Novanta, all’inizio dell’era di Vladimir Putin. La Russia aveva due buone ragioni, dal proprio punto di vista, per riprendere le ostilità. Anzitutto non poteva tollerare l’esistenza ai suoi confini meridionali di una repubblica in cui le principali risorse erano il contrabbando, i sequestri di persona e altri traffici illeciti. In secondo luogo voleva impedire che il successo dei ceceni ispirasse altri movimenti indipendentisti nell’immenso territorio della Federazione Russa. Non era interamente vero, dunque, che il principale erede dell’Unione Sovietica fosse uno Stato nazionale e che la morte del comunismo avesse avuto per effetto il trionfo delle nazionalità. La Russia rinata dalle ceneri dell’URSS era uno Stato nazionale sui generis, una creazione della storia in cui il popolo russo aveva lungamente vissuto a fianco dei popoli soggiogati ed era stato, a seconda delle circostanze, il loro protettore, amico o padrone. Per ragioni diverse era altrettanto difficile sostenere che il movimento ceceno fosse ‘nazionale’. In breve tempo, per dare maggiore seguito e lustro a sé stesso, un leader ceceno, Šamil Basaev, abbandonò la motivazione nazionale per puntare, come era accaduto dopo la Rivoluzione d’ottobre, sulla creazione di un fronte islamico del Caucaso settentrionale. Non è facile accertare se la motivazione religiosa fosse effettivamente più forte della motivazione politico-nazionale. È probabile che il progetto per la creazione di un grande Stato islamico a nord del Caucaso sotto la bandiera verde del Profeta fosse per Basaev quello più utile ad affermare la propria autorità e, soprattutto, quello che gli avrebbe meglio garantito gli aiuti del regime ṭālibān, installato a Kābul dal 1994. Non è facile utilizzare la categoria ‘nazione’ là dove i gruppi etnici hanno soprattutto una identità tribale e religiosa. Ancora una volta, come in Iugoslavia, la morte del comunismo aveva scoperchiato il formicaio della Russia meridionale e riacceso tutti i vecchi conflitti o dissapori delle regione: tatari contro russi e ucraini, russi contro ucraini, osseti e abcasi contro georgiani, armeni contro azeri, russi contro ceceni. La guerra di Putin contro la Cecenia durò alcuni anni, segnati da una drammatica sequenza di spregiudicate azioni militari, operazioni di guerriglia, rappresaglie e attentati terroristici. I russi vinsero alla fine perché riuscirono a creare un partito di collaborazionisti ceceni a cui fu affidato il compito di governare la provincia per conto di Mosca. Fu una soluzione coloniale ma favorita dalle fazioni tribali di un popolo che sapeva combattere meglio di quanto non sapesse governarsi.
Occorre ora riprendere il filo del discorso sugli Stati nazionali dell’Europa centrale che erano ‘tornati a Versailles’ dopo il crollo del sistema sovietico. Nel gruppo vi erano i vincitori del 1919 (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania) e gli sconfitti (Ungheria e Bulgaria). La cacciata dei tedeschi e la strage degli ebrei li ha resi più omogenei, ma alcuni di essi hanno ancora, all’interno dei loro confini, consistenti gruppi stranieri. I russi del Baltico sono il 28% della popolazione estone, il 30% della popolazione lettone, il 9% della popolazione lituana. In Polonia, nonostante la drastica pulizia etnica della Seconda guerra mondiale, vivono ancora piccoli gruppi di tedeschi e ucraini. In Slovacchia gli ungheresi e i rom sono, rispettivamente, l’11 e il 2% della popolazione. In Romania gli ungheresi, i rom e i tedeschi sono il 10%. In Ungheria i rom sono il 4%, i tedeschi il 3%, i serbi il 2%. In Bulgaria i turchi sono il 10% e i rom il 5%. Per ciascuno di questi Paesi, anche se in misura diversa, il ‘ritorno a Versailles’ fu anche un ritorno alla cultura nazionalista del periodo fra le due guerre. In epoca comunista il nazionalismo era stato condannato e punito come un vizio borghese o una manifestazione di pregiudizi razziali. Nell’Europa centrale postcomunista invece divenne nuovamente un utile programma politico, capace di suscitare consensi in una parte della società. Nacquero partiti che rivendicavano territori perduti, consideravano le comunità straniere come quinte colonne di un potenziale nemico o volevano regolare i conti con i collaboratori del regime comunista. Vi furono momenti, durante i quali il partito al potere sembrò deciso a ‘purgare’ il Paese di tutte le sue impurità. Accadde in Romania quando un partito nazionalista avanzò proposte che avrebbero privato della loro autonomia linguistica e culturale gli ungheresi della Transilvania. Accadde in particolare in Polonia quando i gemelli Kaczyński (Lech, presidente della Repubblica; Jaroslaw, presidente del Consiglio) fecero adottare dal Parlamento un programma che fu definito lustracja, parola dotta del linguaggio liturgico che significa «lavacro», «purificazione», «epurazione» e anche, per usare un termine del linguaggio stalinista, «purghe». La legge prevedeva che i membri di alcune categorie professionali (insegnanti, avvocati, presidi, funzionari pubblici, giornalisti, dirigenti delle case editrici e proprietari di reti televisive e giornali, nati prima dell’agosto 1971) facessero una pubblica dichiarazione sui loro rapporti con il passato regime e, in particolare, con i suoi servizi segreti. Ogni dichiarazione sarebbe stata verificata dall’Istituto della memoria nazionale (dove sono depositati gli archivi dei Servizi polacchi) e ogni omissione o menzogna sarebbe stata punita con la sospensione dalla professione per dieci anni. Il governo, in altre parole, chiedeva una pubblica ‘confessione’ che avrebbe coinvolto circa 700.000 persone, molte delle quali furono effettivamente costrette, prima di un viaggio all’estero, a firmare una lettera con cui prendevano impegni generici che non ebbero nella maggior parte dei casi, grazie alla caduta del governo, alcun seguito.
Vi fu quindi il rischio che il ritorno allo spirito nazionale turbasse ancora una volta i rapporti fra i Paesi dell’Europa centrale. Ma l’esperienza dei decenni precedenti, quando gli Stati di Versailles erano passati dalla dominazione tedesca alla dominazione sovietica, ebbe fortunatamente un’influenza salutare sulla loro politica. I governi capirono che lo Stato nazionale non avrebbe potuto garantire né lo sviluppo economico né la sicurezza del territorio. La loro prima preoccupazione, dopo la riconquista della libertà, fu quindi la partecipazione a una organizzazione o alleanza capace di assicurare la sopravvivenza politica e il progresso civile. La soluzione dei loro problemi parve subito la Comunità europea che i Paesi dell’Europa occidentale avevano progressivamente costruito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. I sei Paesi della CECA (Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio) e del Mercato comune avevano avviato un processo che avrebbe integrato le loro economie, unificato il mercato agricolo, adottato una stessa politica commerciale, coordinato le politiche estere. Persino la Gran Bretagna, dopo avere sorriso delle loro ‘velleità’ unitarie, aveva chiesto di entrare nel club e ne aveva aperto le porte in tal modo ad altri Paesi: la Danimarca e l’Irlanda insieme alla Gran Bretagna nel 1973, la Grecia nel 1981, il Portogallo e la Spagna nel 1986, l’Austria, la Svezia e la Finlandia nel 1995.
Alla metà degli anni Novanta esisteva ormai nel continente europeo un’entità di tipo nuovo, meno unita di una federazione, ma più solidamente integrata di una semplice confederazione. I suoi membri avevano conservato tutti i caratteri formali dello Stato nazionale, tuttavia avevano progressivamente delegato alle istituzioni comunitarie quote crescenti della loro sovranità e avevano anche autorizzato una burocrazia supernazionale – la Commissione di Bruxelles – ad amministrare le loro politiche comuni. Questa Comunità era sostenuta da una filosofia che si era dimostrata adatta a superare crisi e a creare prosperità. Aveva una economia sociale di mercato, vale a dire una combinazione di principi liberali e di attenzione per i ceti sociali meno favoriti. Aveva ambizioni unitarie, ma lasciava larghi spazi di autonomia ai suoi membri e alle loro regioni. Era alleata degli Stati Uniti, ma non nascondeva il suo desiderio di accrescere la propria influenza nella comunità internazionale. L’ammissione al club divenne quindi, sin dalla fine della guerra fredda, il principale obiettivo politico degli Stati di Versailles. Esistevano tuttavia almeno due ostacoli che occorreva anzitutto rimuovere. In primo luogo i candidati erano stati comunisti per mezzo secolo e avevano subito una profonda trasformazione anticapitalista. La proprietà privata era stata soppressa o ridotta a dimensioni insignificanti e oberata di vincoli. I loro codici e i loro statuti ignoravano gli istituti e le norme dell’economia di mercato. La loro economia era stata inserita nei programmi egemonici dell’Unione Sovietica. Il sistema politico, l’apparato industriale, gli strumenti finanziari, l’economia agricola e le infrastrutture avevano bisogno di una energica cura ricostituente. Nessuno di essi poteva entrare nella Comunità europea prima di avere riparato i danni dell’era comunista. Il secondo ostacolo era rappresentato dai programmi della Comunità all’inizio degli anni Novanta. Si sa che il cancelliere tedesco aveva sacrificato il marco per tranquillizzare i suoi partner europei e aperto la strada in tal modo all’unificazione monetaria dell’Europa. E si sa che questa lungimirante iniziativa politica aveva schiuso le porte di un rapido negoziato sulla creazione di una moneta comune e di un mercato unico da cui sarebbero progressivamente scomparsi tutti i protezionismi occulti del Mercato comune. Non era possibile allargare l’Unione Europea, come cominciò a chiamarsi in quegli anni, e accogliere contemporaneamente dieci orfanelli dell’Europa centrorientale a cui si sarebbero aggiunte, lungo la strada, due isole mediterranee, Cipro e Malta. Bisognava quindi che l’operazione venisse fatta in due tempi. I membri dell’UE avrebbero dapprima firmato il Trattato di Maastricht per l’Unione economico-monetaria e successivamente cominciato a negoziare il Trattato di adesione dei nuovi candidati. La durata del percorso fu di dodici anni per i Paesi della Mitteleuropa e le isole mediterranee, di quattordici anni per Bulgaria e Romania.
Esisteva poi un altro ostacolo, intangibile e più difficilmente superabile. Con l’arrivo dei nuovi membri aumentava considerevolmente il numero dei Paesi che non avevano partecipato al grande dibattito europeista dell’immediato dopoguerra, quando le parole ‘Stati Uniti d’Europa’ suscitavano entusiasmo e attese soprattutto in Francia, in Italia, in Germania e nei tre Paesi del Benelux. La Gran Bretagna aveva vinto la guerra ed era convinta di potere ancora essere, a fianco degli Stati Uniti, una potenza con interessi e ambizioni mondiali. I Paesi che non erano stati coinvolti nel conflitto non potevano avere sentimenti o reazioni simili a quelli dei Paesi che erano stati sconfitti o occupati. I Paesi che avevano scelto la neutralità speravano che questa condizione rappresentasse una garanzia di sovranità e di libertà. E alcuni fra i Paesi ex comunisti, infine, non temevano il loro grande vicino tedesco meno di quanto avessero temuto l’Unione Sovietica. Se l’UE fosse stata in condizione di garantire la sicurezza di questi ultimi arrivati, la piega degli eventi sarebbe stata forse diversa. Ma la strada verso l’unione politica e militare si rivelava molto più ardua di quella verso l’unione economica e monetaria. Fu questo il momento in cui gli Stati Uniti approfittarono dello stallo politico dell’UE per ribadire la loro leadership militare del continente e garantire ai nuovi arrivati la sicurezza che non potevano ricevere da Bruxelles. Negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti avevano creduto nell’utilità dell’Unione Europea. Ora, dopo la fine della guerra fredda, non avevano alcun interesse a permettere che l’Europa si rafforzasse sino ad appropriarsi, almeno in parte, del ruolo conquistato da Washington nei decenni precedenti. Attratti dalle lusinghe americane, alcuni dei Paesi ex comunisti cominciarono a considerare il rapporto con gli Stati Uniti più importante, sul piano della sicurezza, di quello con le istituzioni europee. L’avvenimento che maggiormente contribuì a fare emergere questa contraddizione fu la guerra statunitense contro l’Irāq, quando alcuni Paesi decisero di stare a fianco degli Stati Uniti. E fra quei Paesi vi fu malauguratamente anche l’Italia, vale a dire uno dei membri fondatori della Comunità europea per il carbone e l’acciaio, prima tappa verso l’unità del continente.
Ma l’Unione Europea, nel frattempo, continuava a crescere e a restringere, sia pure con maggiore lentezza, le singole sovranità nazionali. Esisteva ormai un volano spinto dalla logica del processo d’integrazione. L’Unione economica e monetaria rispondeva alle esigenze dei Paesi europei in una economia mondiale sempre più globalizzata. La politica agricola comune, sia pure in una logica protezionista, corrispondeva agli interessi della maggior parte dei suoi soci. La politica commerciale comune difendeva i Paesi membri nei loro rapporti con i grandi attori dell’economia mondiale, dagli Stati Uniti alla Cina. La moneta unica univa i Paesi di ‘Eurolandia’ in un patto di stabilità finanziaria che soltanto il ritorno alle monete nazionali avrebbe permesso di ignorare. Il coordinamento delle politiche estere non era ancora la politica estera comune, auspicata dai ‘federalisti’, ma era pur sempre preferibile alla totale autonomia delle singole diplomazie. Il Parlamento europeo di Strasburgo aveva progressivamente acquisito maggiori competenze e la logica dell’assemblea aveva costretto i partiti politici delle singole nazioni a unirsi in gruppi parlamentari europei relativamente omogenei. Esisteva ormai in Europa, uno spazio politico comune in cui le vicende politiche di un Paese avevano immediate influenze sugli altri. Fu evidente che questa creazione nuova, difficilmente comparabile ad altre federazioni o confederazioni, aveva bisogno di una Costituzione. Il compito fu affidato a un’assemblea, presieduta dall’ex presidente francese Valéry Giscard d’Estaing, che volle chiamarsi, con un evidente riferimento alla storia degli Stati Uniti, Convenzione. Modificato e approvato dai governi, il progetto a cui l’assemblea lavorò per diciassette mesi, dal febbraio 2002 al luglio 2003, fu respinto, nel corso di due referendum, dalla Francia e dai Paesi Bassi. Ma un nuovo trattato costituzionale venne firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007 dai 27 membri dell’Unione.
Questo lento progresso dell’integrazione europea ha coinciso tuttavia, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del 21° sec., con una sorta di riflusso antieuropeista, con manifestazione di nazionalismo ed euroscetticismo. Ma si tratta di un nazionalismo alquanto diverso da quello che ha caratterizzato la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Anziché essere aggressivo ed espansivo, è generalmente regressivo, difensivo, fondato sulla convinzione che occorra proteggere la comunità dalle importazioni, soprattutto cinesi, dall’immigrazione, soprattutto islamica, e dalle multinazionali, quale che sia la bandiera che sventola sul loro quartier generale. Piuttosto che di nazionalismo converrebbe parlare di comunitarismo o localismo. Il nemico non è soltanto l’Europa di Bruxelles. In alcuni casi è addirittura lo Stato nazionale contro il quale scendono in campo i risentimenti delle ‘piccole patrie’: i catalani e i baschi contro Madrid, gli scozzesi contro Londra, i corsi contro Parigi, i fiamminghi contro Bruxelles, i sudtirolesi e i lombardi contro Roma. Anziché contrastare questi sentimenti accidiosi in nome dell’unità europea, le classi politiche hanno adottato un atteggiamento contraddittorio: europeo a Bruxelles, quando occorre prendere le decisioni che il volano rende necessarie, nazionale e localista in patria quando occorre ottenere voti e consensi.
Questa ondata di euroscetticismo ha dimostrato che la democrazia europea ha ancora una dimensione nazionale a cui i politici, quando chiedono legittimità, non possono essere indifferenti. Eppure questi stessi uomini politici non possono ignorare che la dimensione nazionale, soprattutto in Europa, non permette di garantire progresso economico e civile in un mondo ormai unificato dalle tecnologie e dagli imperativi dello sviluppo. Gli storici sanno che ogni tendenza è reversibile e che anche il processo di globalizzazione, minacciato dalle spinte nazionaliste, localiste e protezioniste dei primi anni del 21° sec., potrebbe subire una brusca inversione di marcia. Ma è lecito chiedersi quali sarebbero le conseguenze di un tale ritorno al passato e se gli Stati nazionali, non soltanto europei, siano in grado di affrontarle.
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