Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’andamento economico dell’Europa del Seicento ha due volti. Da una parte una crisi complessiva che ha le sue radici in una eccessiva pressione della popolazione sulle risorse, nelle rigidità delle strutture sociali e forse in un prolungato peggioramento delle condizioni climatiche. A farne le spese sono soprattutto i tradizionali centri mercantili e manifatturieri dell’Europa meridionale e in particolare dell’Italia. Dall’altro vi è però il dinamismo dei Paesi emergenti, come l’Inghilterra e l’Olanda, che pone le basi per la rivoluzione economica che trasformerà l’Europa e il mondo a partire dalla seconda metà del secolo successivo.
La crisi del Seicento: la popolazione
Gli storici fanno spesso un uso piuttosto disinvolto dell’espressione “crisi”, un termine che diventa una sorta di passepartout tanto più utile, almeno apparentemente, quanto meno viene definito rigorosamente, col risultato di perdere gran parte del suo valore conoscitivo. Questa considerazione è forse particolarmente pertinente nel caso della nozione di “crisi del Seicento”. La moltiplicazione delle diverse dimensioni – economiche, politiche, spirituali , culturali – della crisi e la sua dilatazione geografica, fino a includere tutto il Vecchio Mondo, ha reso questa nozione sempre più ingombrante. È quindi opportuno prendere come punto di partenza un’accezione più limitata, meno ambiziosa, ma più maneggevole e “falsificabile”, del concetto di crisi: quella proposta dal linguaggio economico. Per gli economisti e gli storici economici una crisi indica una diminuzione prolungata nel tempo del reddito pro capite, e quindi della ricchezza e del tenore di vita di una popolazione. Si può dire, in questo senso, che il Seicento sia stato un secolo di crisi? Una risposta adeguata richiede la conoscenza dell’andamento della popolazione e dell’attività economica.
Per quanto riguarda la prima, disponiamo di dati incompleti ma tutto sommato significativi. Nel corso del XVII secolo la popolazione europea aumenta di circa il 10 percento: da poco più di 110 milioni a 125 milioni. Durante il secolo precedente l’aumento era stato del 30 percento. Dunque non un vero e proprio crollo drammatico com’era successo nel Trecento, ma una sorta di rallentamento non uniforme nel tempo e nello spazio. Il calo demografico è infatti concentrato nei decenni centrali del secolo, dopodiché si intravede una certa ripresa. Soprattutto l’andamento demografico mostra una grande variabilità geografica. Per l’Europa mediterranea – Italia, Portogallo, Spagna – siamo di fronte a una sostanziale stagnazione, sebbene con forti oscillazioni. L’Italia, ad esempio, passa da circa 13 milioni di abitanti nel 1600 a 11 nel 1660 per poi risalire al livello iniziale a fine secolo. Questa stagnazione interessa anche l’Europa centrale, e in particolare l’Impero, ma in questo caso le perdite della prima metà del secolo sono catastrofiche. Durante la guerra dei Trent’anni, la popolazione della Germania scende da 15-16 a 10-12 milioni di abitanti, per poi riprendersi gradualmente. Al contrario l’Europa settentrionale atlantica prosegue e forse accelera la crescita cinquecentesca. L’Inghilterra passa da 4 a 5 milioni di abitanti. Analogo l’incremento dei Paesi Bassi, da 1,5 milioni nel 1600 a circa 2 nel 1700. Meno brillante ma comunque positivo il bilancio della Francia: da circa 18-20 milioni a circa 22.
L’andamento della produzione e degli scambi
Molto più complesso è trarre conclusioni sull’andamento dei diversi settori economici. Abbiamo una quantità di informazioni parziali su attività agricole, manifatturiere e commerciali in determinate aree e momenti, ma queste rimangono insufficienti per ricavare delle stime sull’attività economica complessiva delle varie regioni. Tanto più che si tratta di dati contradditori.
In alcune fasi, alcune regioni e alcuni settori, assistiamo effettivamente a contrazioni anche molto consistenti. Nella prima metà del Seicento, ad esempio, la produzione di panni di lanala-STORIA
na in tutte le grandi città italiane, tra i più importanti centri manifatturieri dell’epoca, si riduce drasticamente, soprattutto a partire dal terzo decennio fino quasi a scomparire. Anche le rese del grano, l’alimento più importante, diminuiscono. Pure in Spagna, e particolarmente in Castiglia, i sintomi della crisi sono evidenti, e il tema della declinación (decadenza) della monarchia, diventa un luogo comune dei cosiddetti arbitristas, gli autori di trattati politici ed economici che intendono proporre rimedi ai problemi del regno. Negativo naturalmente anche il quadro della Germania, devastata dalla guerra dei Trent’anni e la cui economia, nella parte meridionale, è strettamente legata a quella italiana. Altrove, invece, gli indicatori volgono al bello. In Inghilterra e soprattutto in Olanda, ma anche in gran parte della Francia, assistiamo a un progresso generalizzato. La produzione agricola e manifatturiera cresce, così come l’attività commerciale. Le navi inglesi e olandesi dilagano nei mari europei e mondiali trasportando i prodotti dei rispettivi Paesi ma anche le merci riesportate da località più o meno remote.
Si può dunque trarre una duplice conclusione: da una lato sembra che effettivamente, durante il Seicento, ci sia un rallentamento della crescita economica e demografica dell’Europa nel suo complesso, dopo i progressi spettacolari del Cinquecento. D’altra parte l’aspetto più interessante è costituito proprio dalle profonde differenze nelle traiettorie demografiche ed economiche delle diverse aree del continente. A differenza di quanto era accaduto nel Trecento, quando la contrazione era stata più o meno generale, in tutto il continente ci troviamo di fronte a un quadro contrastato. Vi sono malinconici declini ma anche successi spettacolari, vincitori e vinti. La crisi è un fatto reale ma ciò che più conta è la diversa capacità di adattamento e risposta dei vari tessuti sociali ed economici.
Occorre allora cercare di capire meglio sia i tempi, le ragioni e la portata della crisi generale sia l’impatto molto diverso che essa ha avuto – o forse sarebbe meglio dire le diverse risposte che ad essa sono state date – nelle varie regioni europee, ritornando alla demografia e al problema centrale del rapporto fra popolazione e risorse.
Popolazione e risorse
Durante il “lungo Cinquecento”, dagli ultimi decenni del Quattrocento ai primi del Seicento, la popolazione europea non solo aveva colmato i vuoti aperti dalle terribili epidemie del Trecento e del Quattrocento, ma aveva raggiunto un nuovo massimo storico, superando per la prima volta i 100 milioni di abitanti. Molti, probabilmente anche troppi. Una prima spiegazione della crisi chiama dunque in causa lo squilibrio fra popolazione e risorse. In sintesi, durante il Cinquecento la crescita della popolazione era stata più rapida della crescita della produttività dell’agricoltura. L’affermazione dell’economista Thomas Malthus, secondo cui la popolazione aumenta molto più rapidamente della produzione agricola, non ha una validità universale, non è una sorta di legge di natura e di fatto è stata in molte occasioni smentita. Ciò non toglie che nel contesto dell’Europa preindustriale e in generale di tutte le economie agricole, l’intuizione di Malthus costituisca una buona approssimazione della realtà.
Nel Cinque e nel Seicento lo sviluppo delle tecniche agricole è lento, e lento – o addirittura nullo – è di conseguenza l’incremento della produttività. Anche le nuove piante introdotte dalle Americhe, come il mais e la patata, che nei secoli seguenti avrebbero dato un contributo importante all’alimentazione dei ceti popolari, si diffondono solo gradualmente. Quindi, man mano che la pressione demografica spinge a coltivare terreni sempre meno fertili, la legge dei rendimenti decrescenti comprime spietatamente i redditi e il tenore di vita – già non entusiasmanti – degli Europei. Già nell’ultimo decennio del Cinquecento si manifestano i sintomi di una tensione fra popolazione e risorse, soprattutto nelle regioni più fragili dal punto di vista agricolo e più urbanizzate, come quelle del Mediterraneo. Queste difficoltà di approvvigionamento spiegano l’arrivo delle navi nordiche, soprattutto olandesi, cariche di grani dell’Europa orientale.
Invece è dubbio che le epidemie che colpiscono ripetutamente e duramente la popolazione europea nel Seicento (basti pensare alla peste di Milano del 1630 o a quella di Londra del 1665), famose anche per le ricostruzioni letterarie del Manzoni e di Defoe, siano una conseguenza della malnutrizione e della povertà. È vero che un organismo indebolito dagli stenti è più vulnerabile, ma le epidemie di patologie infettive particolarmente letali come la peste o il vaiolo rispondono a una logica in larga misura indipendente da questo fattore. Anzi, il drammatico aumento della mortalità può aver contribuito ad alleviare la pressione demografica sulla terra agendo da “freno repressivo”, secondo lo schema malthusiano.
Il rallentamento della crescita demografica è però anche dovuto all’azione di quelli che Malthus chiama “freni preventivi”. Le difficoltà economiche spingono infatti a ritardare o addirittura a rinunciare al matrimonio con una conseguente diminuzione delle nascite.
Gerarchie sociali e distribuzione del reddito
Il rapporto fra popolazione e risorse non spiega però tutto e forse nemmeno l’essenziale. Il fatto che la produzione non riesca a tenere il passo con la crescita della popolazione a causa della lentezza del progresso tecnico è qualcosa che deve essere a sua volta spiegato a partire dalle condizioni di una certa società, dai suoi equilibri interni, dalle scelte culturali, dai valori dominanti.
In molti regioni d’Europa coloro che possiedono la maggior parte della terra e delle risorse economiche non dimostrano un comportamento economicamente innovativo. La loro propensione a investire in migliorie e infrastrutture è scarsa. Nobili, redditieri borghesi e chierici preferiscono investire in abitazioni, abiti, gioielli e nel mantenimento di un seguito di clienti, servi e armigeri. Non si tratta di comportamenti irrazionali. Si tratta di investimenti in prestigio sociale e influenza politica, con finalità ben comprensibili. Ma non sono investimenti tali da favorire lo sviluppo economico.
Per incrementare i propri redditi e mantenere il proprio tenore di vita, i ceti privilegiati preferiscono accrescere la pressione sui ceti popolari, aumentando il prelievo di risorse ai loro danni. Nell’Europa orientale, dove la loro egemonia è incontrastata, i nobili raggiungono il loro scopo ricorrendo all’uso della forza e impongono ai contadini asserviti prestazioni di lavoro più gravose. Altrove, in Europa occidentale, dove gli affitti pagati dai coltivatori sono determinati dalla libera contrattazione, è l’equilibrio della domanda e dell’offerta a favorire i proprietari. Se la terra scarseggia e il lavoro abbonda, i proprietari terrieri – nobiltà, clero e borghesia urbana – si trovano in una posizione di forza nei confronti di chi può contare solo sulle proprie braccia, come la maggioranza dei contadini, da tempo privi del possesso della terra. E poi, anche laddove la servitù della gleba è stata da tempo abolita, la nobiltà esercita una forte influenza sociale e politica e la sfrutta a proprio vantaggio per conservare, estendere o reintrodurre piccoli e grandi privilegi, come l’obbligo imposto ai contadini di utilizzare il mulino del signore o quello di prestare gratuitamente alcuni servizi.
Inoltre c’è lo Stato. La crescita dello Stato moderno, con i suoi apparati burocratici, giudiziari, militari e con una corte sempre più numerosa e sfarzosa, assorbe una quantità crescente di risorse. Queste sono in parte sottratte all’aristocrazia o alla Chiesa, ma aumentano anche i gravami cui sono soggetti i produttori diretti e in generale i sudditi. L’inasprimento della pressione fiscale è la causa, o almeno il motivo scatenante, di molte delle rivolte contadine del Seicento.
In conclusione non solo nel Seicento si verifica una ristagno o forse anche una diminuzione del reddito complessivo, ma anche una redistribuzione di questo reddito fra i diversi gruppi sociali a tutto svantaggio dei ceti popolari.
La fine del primato italiano
La crisi dunque non è uguale per tutti, anzi approfondisce le differenze. Ma se per quanto riguarda i diversi gruppi sociali il suo esito sembra essere quello di confermare e semmai approfondire le diseguaglianze esistenti fra ricchi e poveri polarizzando maggiormente la società, nella sua dimensione continentale lo sbocco sembra essere in un certo senso opposto. La crisi del Seicento accelera quel processo che lo storico Carlo Cipolla ha definito “il ribaltamento degli equilibri mondiale e intraeuropeo”. Lasciamo da parte l’equilibrio mondiale e concentriamoci su quello europeo. La crisi ha vincitori e vinti, ma non sono quelli che ci si sarebbe potuti aspettare verso la fine del Cinquecento. All’inizio del Seicento agli osservatori stranieri – diplomatici, chierici, mercanti, intellettuali – che hanno occasione di visitarla, l’Italia appare ancora non solo come una delle più prospere nazioni d’Europa, ma come un modello culturale che le altre tentano goffamente di imitare. Per Shakespeare è “la splendida Italia, che la nostra tardiva nazione scimmiotta, zoppicandole dietro servilmente” (Riccardo II , a. II, s. I). Meno di un secolo dopo un suo concittadino, il vescovo anglicano Gilbert Burnett definisce l’Italia “una delle più miserevoli nazioni d’Europa”. Anche tenendo conto del peso delle convenzioni letterarie – per Shakespeare – e della polemica anticattolica – nel caso di Burnett – qualcosa è evidentemente successo. Nel Seicento ha termine, dopo quasi cinque secoli, il primato economico e culturale italiano.
Epidemie e guerre hanno la loro parte di responsabilità, ma la ragione di fondo è l’incapacità di adeguarsi alle mutate condizioni economiche. Il primato italiano poggiava essenzialmente sulle attività commerciali, manifatturiere e finanziarie delle città e sul loro ruolo nell’economia mediterranea ed europea. Anche lo sviluppo dell’agricoltura era stato promosso dai capitali urbani e dalla domanda degli abitanti delle città. Come ha osservato Carlo Cattaneo in Italia “l’agricoltura è uscita dalle città”.
Nel Seicento però, e forse anche prima, gli operatori italiani trovano sempre più difficoltà a difendere i tradizionali mercati di sbocco dei loro prodotti e a conquistarne di nuovi, inserendosi nei circuiti commerciali più dinamici. Tradizionali clienti, come gli Inglesi e i Francesi, diventano concorrenti e insidiano nei mercati del Levante, dell’Africa settentrionale o dell’Europa orientale, la posizione degli Italiani che infine vedono il loro stesso mercato interno invaso da tessuti di lana, cotone e fustagno olandesi e inglesi.
Resistono, in virtù della loro qualità e prestigio, le produzioni pregiate – seta, specchi, arte, oreficeria – risultato di un’eccellenza artigianale costruita nei secoli. Anche in questo caso tuttavia il vantaggio italiano è provvisorio e sono proprio gli artigiani italiani ad aiutare la crescita dei futuri concorrenti. L’emigrazione di manodopera qualificata in cerca di occasioni migliori costituisce infatti il veicolo più efficace per la diffusione del know-how tecnico in una società preindustriale.
I vincitori: Inghilterra…
Forse il modo migliore per comprendere le ragioni del relativo declino italiano è analizzare quelle del successo degli Stati e delle regioni che nel corso del Seicento si conquistano una preminenza non solo economica: le Province Unite e l’Inghilterra.
Le dimensioni ormai intercontinentali assunte dal commercio europeo, l’integrazione crescente delle regioni europee e l’ampliamento dell’area del mercato rispetto a quella dell’autoconsumo determinano un aumento della domanda di prodotti di qualità medio-bassa e di costo contenuto, soprattutto nel settore tessile, che costituisce l’asse portante dell’industria di Antico Regime. In questo contesto la capacità di contenere i costi di produzione è l’arma vincente.
L’Inghilterra ci riesce soprattutto grazie allo spostamento di parte della produzione nelle campagne – la cosiddetta protoindustrializzazione – e alla disponibilità di alcune materie prime strategiche, come la lana, della quale l’isola è da secoli uno dei principali produttori. Per rispondere alle richieste del mercato, la produzione si sposta sempre più dai tradizionali broadcloths (i costosi panni pregiati) alle new draperies (panni più leggeri e meno cari).
Un altro rilevante vantaggio è costituito dalla presenza di giacimenti di carbone. Le potenzialità insite in questa fonte di energia di origine fossile estratta dal sottosuolo si manifesteranno appieno solo a partire dal secolo seguente, ma già nel Seicento si rivelano preziose. In molti utilizzi, come il riscaldamento domestico, il carbone comincia infatti a sostituire il legname, sempre più raro e quindi sempre più prezioso. Nel 1700 l’Inghilterra estrae poco meno di 3 milioni di tonnellate di carbone, pari a cinque volte la produzione totale del resto del mondo. Da essi si ricava una quantità di energia termica pari a quella che si può ricavare annualmente da una superficie di 12 mila km quadrati di foresta, poco meno di un decimo della superficie totale dell’Inghilterra stessa.
Ancor più importante è la parte che l’Inghilterra si ritaglia nel commercio internazionale e intercontinentale. Nell’Atlantico gli Inglesi diventano i principali fornitori di schiavi delle piantagioni americane proprie – Giamaica, Virginia, Carolina – e altrui. Nell’oceano Indiano, pur restando distanziata dagli Olandesi, la presenza inglese aumenta costantemente nel corso del Seicento, da 20 a circa 100 navi all’anno. Nel Mediterraneo, nei traffici con l’Italia e con il Levante, sono invece gli Inglesi a prevalere sui rivali d’Oltremanica grazie anche alla possibilità di esportare prodotti particolarmente richiesti come piombo, stagno, pesce, grano e legname.
…e Olanda
Gli stessi fattori dei progressi inglesi li ritroviamo, anche se con un peso relativo diverso, dietro all’ancora più clamoroso boom economico delle Province Unite.
I tessuti di lana leggeri e poco costosi, le nieuwe draperijen, fanno ad esempio la fortuna di Leida. Qui tuttavia sia la materia prima, importata dall’Inghilterra, che la manodopera, prevalentemente urbana, sono più costose. In campo manifatturiero le Province Unite possono contare però su altri vantaggi, innanzitutto una notevole disponibilità di fonti di energia inanimata, come il vento e la torba. L’energia del vento è utilizzata non solo per azionare pompe idrauliche o per la macinazione dei cereali, ma anche in altre attività come la lavorazione del legname e della carta. La torba invece è impiegata come combustibile in sostituzione del legno nell’industria del vetro, della ceramica, dei metalli, nella tintura dei tessuti, nella fabbricazione della birra e così via.
Il vantaggio principale dell’Olanda è costituito però dalla sua posizione dominante nel sistema degli scambi commerciali europeo e mondiale. Una preminenza dovuta alla collocazione geografica, a un sistema di comunicazioni interne molto efficiente grazie alla rete di canali, ma soprattutto a una flotta mercantile che, con circa 900 mila tonnellate complessive, è pari alla metà del totale delle flotte europee. Non bisogna inoltre dimenticare il ruolo di un’organizzazione commerciale e finanziaria avanzata. Questa preminenza non solo assicura agli Olandesi – i “carrettieri del mare” - i profitti derivanti dalla riesportazione di beni provenienti da ogni angolo del mondo, ma permette loro di rifornirsi a costi più bassi di prodotti alimentari – come il grano dell’Europa orientale – e materie prime per le manifatture come lana e cotone o il legname per la cantieristica.
Un segno importante della modernità olandese è dato dalla sua struttura occupazionale. A metà del XVII secolo, per la prima volta in un’economia preindustriale di grandi dimensioni, gli addetti al settore primario – agricoltura e pesca – scendono sotto la metà degli occupati, fino al 40 per cento. Le attività manifatturiere e artigianali rappresentano circa un terzo, commercio e trasporti circa il 16 per cento e il resto suddiviso fra altre professioni e servizi. L’economia olandese del Seicento, se non può certo essere definita industriale in senso moderno, può almeno essere considerata la prima economia post-agricola.