CRISI ECONOMICHE (XI, p. 913)
ECONOMICHE La grande depressione mondiale, iniziatasi nella seconda metà del 1929 in Europa, con epicentro a Vienna, ed estesasi, poi, con alterne ondate di espansione, a tutti i paesi, ha segnato una svolta nella storia economica e politica del sec. XX. La sua significazione, infatti, ha superato i confini normalmente attribuiti ai fenomeni economici anche di massa, per coinvolgere nel suo divenire tutta la concezione politico-sociale del capitalismo che ne è uscita profondamente trasformata. L'alternativa che i popoli si erano posti all'inizio della fase depressiva: "crisi del sistema o nel sistema", è stata decisamente risolta a favore della prima ipotesi, specie in quei paesi dove la struttura economica, non presidiata da forti riserve accantonate in secoli di predominio mercantile mondiale, ha più rudemente subito i colpi della crisi. Ne è risultato, così, un sistema organico e un ordinamento sociale che ha spezzato quella formale identità nel governo dei varî paesi a civiltà occidentale che aveva guidato il mondo nel sec. XIX, sulle vie del reggimento liberale e parlamentare, come espressione politica della esigenza liberistica e individualistica della vita economica. Senza essere una delle cause determinanti della profonda trasformazione politica verificatasi in molti paesi nel dopoguerra, la crisi mondiale ha indubbiamente contribuito ad accentuare l'influenza di quelle forze dominanti storico-morali che hanno determinato quel mutamento. Sotto questo aspetto la crisi economica mondiale del 1929-30 assume un'importanza subordinata, come espressione di una situazione di disequilibrio e di perturbamento che ha cause lontane e profonde nella vita sociale medesima, nello spostamento dei rapporti fra gli uomini, nella prevalenza incontrollata di istituzioni tecniche e di organismi di mercato i quali hanno assunto dimensioni e forze, travolgenti anche coloro che avrebbero dovuto dominarne il funzionamento in ordine al benessere comune. Non a caso, infatti, l'epicentro del fenomeno si verificò a Vienna dove sussistevano, dopo la guerra mondiale, strutture e organismi a largo respiro, retaggio del distrutto impero austroungarico e che erano assolutamente sproporzionati al modesto campo d'azione loro segnato dai confini territoriali stabiliti dai trattati del 1919.
È questa una chiara manifestazione che la crisi ha dato del disequilibrio esistente fra potenziali produttivi, capacità di smercio, possibilità di commercio internazionale delle varie nazioni uscite dal conflitto mondiale e che ne costituisce una delle più gravi e precise ragioni. Questa particolarità di fatto che è propria del mondo postbellico è una causa decisiva di differenziazione della depressione iniziatasi nel 1929-30, da tutte le altre analoghe crisi del sec. XIX ed esattamente individuate al vol. XI, p. 913 segg. Il secolo XIX fu caratterizzato da una situazione di quasi immutabile equilibrio politico-economico. Le variazioni intervenute per moti locali, prima del conflitto mondiale, nella configurazione geopolitica definita dal trattato di Vienna, possono dirsi non certo gravi e perturbatrici di quell'equilibrio, come sono state quelle promosse dai trattati del 1919. Quindi le crisi economiche di cent'anni or sono venivano ad esaurirsi in un sistema che era saldo in sé e per sé; perché non esistevano in esso le ragioni di sommovimento politico e sociale che agitano, invece, il mondo postbellico; erano ondate che si manifestavano in una superficie in continua espansione (i traffici mondiali in rapido sviluppo), e quindi la loro íntensità assoluta e relativa era notevolmente ridotta dalle forze correttive e di resistenza del sistema medesimo. Invece nel mondo uscito dalla guerra mondiale, i potenziali energetico-spirituali, tecnici, produttivi, creati dal conflitto mondiale e dalla tensione degli spiriti che esso aveva promossa, hanno dato luogo a una tale situazione di immanente disequilibrio e di continuo sommovimento, che in essa la depressione mondiale ha trovato un campo per manifestarsi in tutta la sua potenza. Mancando forze di auto-equilibrazione del sistema economico perturbato, la crisi, una volta iniziatasi con la depressione dei prezzi mercantili, ha spinto l'economia mondiale su un piano di slittamento che ha profondamente modificato "nel suo moto" molte concezioni e quindi molte strutture tipiche della civiltà capitalistico-liberistica. Altre esigenze si sono manifestate nella vita economico-sociale dei popoli e, in conseguenza di quel disequilibrio politico fondamentale cui si è accennato dianzi, nuove istituzioni sono state promosse che tendono a costituire un correttivo all'instabilità essenziale e costituzionale dimostrata dai rapporti economico-finanziarî fra i popoli.
Ma oltre a queste constatazioni che riguardano l'attuale situazione storico-politica mondiale, c'è da considerare anche il profondo turbamento arrecato ai sistemi produttivi tradizionali dal progresso tecnico che è stato facilitato, promosso e accelerato dallo sforzo bellico. Basta confrontare un qualsiasi trattato di tecnologia industriale del periodo prebellico con un altro similare odierno, per convincersi dell'enorme sviluppo assunto nell'ultimo trentennio della tecnica produttiva, dal potere dell'uomo di soggiogare le forze della natura; potere che è un'altra causa specifica di modificazione delle condizioni ambientali verificatasi nel mondo, ed è origine di perturbamento e di crisi.
Queste constatazioni sembrano spiegare, in sostanza, le cause per le quali le dottrine prebelliche, elaborate dagli economisti e dagli statistici, sulle rilevazioni relative alle varie crisi del secolo XIX si siano dimostrate unilaterali o errate o incomplete di fronte alla nuova realtà osservata. L'esperimento cruciale subito dalle varie teorie proposte in ordine alla crisi non inficia però la dottrina degli studiosi che le avevano elaborate: ma è una delle molte manifestazioni del profondo mutamento strutturale e sociale verificatosi in conseguenza del conflitto mondiale, nelle condizioni che determinavano, prima della guerra, la vita economica del mondo.
In concreto, la grande depressione che si è verificata su tutti i mercati nazionali e che ha assunto come prime manifestazioni quelle finanziario-creditizie, si può affermare che sia stata, appunto, preparata da errori e da manovre le quali si sono manifestate elettivamente proprio in quel settore. La loro origine che ha facilitato il manifestarsi del grande fenomeno, va ricercata lontano nel tempo, nel 1924, quando gli stati Uniti che detenevano, da soli, oltre la metà dell'intiera giacenza aurea mondiale destinata a scopi monetarî e creditizî, vollero iniziare la campagna per il "ritorno all'oro". Essa tendeva a ridistribuire il metallo fra i diversi paesi in modo da adeguare, relativamente e in proporzione, la giacenza di ognuno a quello che era il fabbisogno locale in base agli usi dei mercati, alle esigenze della produzione, degli scambî interni e di frontiera, del bilancio dei pagamenti internazionali. Per conseguire questo fine, l'America ridusse di molto il proprio saggio di sconto (al 3%) e lo mantenne basso costantemente per altri sette mesi (agosto 1924-febbraio 1925) nonostante che si manifestassero, subito, su quel mercato (nel quale le forze speculative hanno sempre una grande influenza) alcuni sintomi premonitori di turbamento. Consistevano nella deviazione, delineatasi con assoluta chiarezza fin dall'inizio, nelle correnti di investimento delle disponibilità liquide. Esse invece di affidarsi al sistema bancario, mediante il deposito che attribuisce alla banca una potestà discrezionale di governo (la quale è tanto maggiore quanto più adeguata alle necessità particolari del mercato è la preparazione dei dirigenti bancarî), cominciarono a investirsi direttamente, disertando le banche, attratte dalle alte remunerazioni che offriva il mercato speculativo dei titoli di credito (borsa). Questo mancato circuito bancario-creditizio, che avrebbe potuto subire le regolazioni della politica bancaria attuata con lungimirante visione da coloro cui spettava, ma risultata di fatto inefficace, fu la causa prima dei gravi mali che colpirono l'America, tramite il mercato di Wall Street.
Quella politica del basso saggio di sconto, alla quale deve, per necessità, corrispondere anche il basso livello di remunerazioni sui depositi bancarî (in quanto la banca, quale intermediaria nell'investimento delle giacenze affidatele, deve vivere dello scarto esistente fra i saggi corrisposti ai depositanti e quelli percepiti dai clienti sugl'investimenti effettuati), fece addensare, per vie diverse non bancarie, le disponibilità esistenti anche nelle regioni più lontane dalla costa atlantica, verso la borsa di New York. Questo movimento di autonomia nell'investimento non sarebbe in sé e per sé da condannare, se le direttive d'impiego assunte direttamente dal risparmiatore fossero davvero sane e corrispondenti alle esigenze anche remote del mercato. Invece, normalmente, queste iniziative sono assunte proprio quando meno si dimostrano opportune: una conferma conclamata se ne ebbe in America, dove dal 1925 al 1929 si assistette a un progressivo gonfiamento delle disponibilità impegnate nella speculazione sui titoli quotati a Wall Street fino a raggiungere circa 7 miliardi di dollari.
Un così notevole capitale speculativo, la cui mole non ebbe mai riscontro in altri paesi e in altre fasi storiche, alimentato da una situazione economica che sembrava in rapido e costante sviluppo, mediante vendite all'interno crescenti, con esportazioni oltre i confini anche crescenti, con un livello dei prezzi mercantili mantenuto praticamente invariato per un lustro e più, creò una situazione psicologica aberrata in ordine alla possibilità concreta di perpetua "prosperità". Questa parola servì a indicare una fase storica che sembrava non dovesse avere mai fine e che era destinata a caratterizzare una civiltà: quella americana, espansiva, ricca, priva di ostacoli apprezzabili, aperta a tutte le possibilità, proiettata verso l'avvenire, in confronto a quella europea, modesta, vincolata al passato, limitata, povera.
Le determinanti d'ordine psicologico di questa fase ascendente del moto ciclico, che ebbero una decisiva influenza in America (e per ciò se ne parla) e non furono, di riflesso, neppure trascurabili in Europa, trovavano nella storia più recente, una conferma di fatto. Poiché, praticamente, i dirigenti l'economia produttiva, in carica allo scoppio del conflitto mondiale, avevano formato la loro educazione nel moto ascensionale dei prezzi mercantili, iniziatosi nel 1896 e che non doveva arrestarsi altro che nel 1920-21 per poi stabilizzarsi fino al 1929. Quindi può anche spiegarsi come la mentalità, ormai diffusa nei più, che i prezzi non dovessero mai diminuire e che ogni ciclo produttivo iniziato potesse, fondatamente, prevedersi chiuso con quotazioni almeno eguali a quelle dell'inizio e perciò con un margine di guadagno sicuro, essendo coonestata da un quarto di secolo di esperienza, potesse legittimamente essere considerata come saldamente incardinata nei fatti.
Inoltre, quella politica monetaria tendente a ridistribuire l'oro americano fra le nazioni che ne scarseggiavano, specie il Regno Unito considerato capo di un sistema economico mondiale, oltre ad arrecare i danni al mercato interno degli Stati Uniti che abbiamo ricordato, si dimostrò anche del tutto inefficace agli effetti di quella ridistribuzione aurea. Poiché a Londra, unico mercato mondiale del nuovo metallo prodotto, salvo che nel 1926, fu sempre presente la pressione della domanda americana d'oro; domanda creata dalle complesse forze che dominavano, allora, il bilancio dei pagamenti della confederazione, impinguandolo di partite eccezionalmente attive e che dovevano saldarsi, appunto, con importazione di metallo. Errore, dunque, a doppio danno: interno e internazionale.
A queste complesse condiziom si aggiunse, in America, l'errore grave di una politica mercantile, espansiva e invadente i mercati mondiali, la quale, non trovando nella libera competizione con gli altri popoli, la possibilità di affermarsi (a causa dei prezzi in dollari troppo elevati rispetto a quelli in oro dei concorrenti), cercò di sbaragliare la concorrenza mediante una larga, coraggiosa e fors'anco temeraria politica di prestiti all'estero. Si credette, così, di procurare alle merci nazionali lo sbocco sui mercati esteri che il confronto dei prezzi in oro non permetteva. Si cercò, con un espediente di natura finanziaria, di estendere l'esportazione, senza voler modificare (per le necessarie reazioni normali che una simile politica, sanamente condotta, porta con sé) il livello dei prezzi interni. Siccome il perseguimento di siffatta politica avrebbe imposto un ribasso dei prezzi interni (il che non era desiderato), così si cercò di sopperire a questa necessità mediante la concessione di larghi prestiti. Mancando, però, la convenienza dell'acquisto delle merci americane anche da parte dei mutuatarî esteri, questi prestiti restavano per larga parte inutilizzati in America oppure trasferiti in oro, per ragioni extraeconomiche (ricostituzione di riserve monetarie andate distrutte), creando insieme con le complicazioni nascenti dalle "riparazioni" e dai debiti di guerra, un groviglio di interferenze assai dannose all'economia mondiale.
Infatti le riparazioni dovute, in pratica, unicamente dalla Germania, per essere consegnate, avrebbero richiesto che i paesi creditori accettassero l'importazione di merci tedesche. Il rinascente e deciso protezionismo industriale di tutti i paesi usciti dalla guerra (giovani e vecchi), espressione anch'esso del sentimento nazionale ingigantito dal conflitto mondiale, impedì questo naturale e unico mezzo di pagamento; mentre con i debiti di guerra, dovuti specialmente a favore dell'America e della Gran Bretagna, si erano venuti ad aumentare i trasferimenti da farsi a questi paesi, normalmente creditori mondiali, a carico degli altri che non avevano la possibiliià di soddisfarli per il medesimo protezionismo che impediva l'importazione. Ne risultò un intreccio di rapporti creditizî e debitorî fra nazioni, così aggrovigliato da creare gravi interferenze fra le esigenze del mercato interno considerato a sé, e quelle relative ai rapporti fra esso e il mercato internazionale.
Queste alterne esigenze ebbero manifestazioni particolari e diverse nei paesi che risultarono dalla guerra fortemente creditori intemazionali rispetto a quelli che, in conseguenza del conflitto, avrebbero dovuto trasferire all'estero ingenti somme annue per sistemare i debiti contratti. Nei primi si rilevò, dall'aspetto del governo del mercato interno, l'esistenza di condizioni di fatto favorevoli all'espansione creditizia praticamente illimitata. Essa si fondava sulle crescenti giacenze metalliche addensantisi in essi, come risultanza del bilancio dei pagamenti in forte eccedenza, sia per partite eccezionali e anormali (crediti di guerra), sia per le conseguenze di bilanci mercantili fortemente in attivo dovute all'espandersi dell'esportazione.
I paesi debitori, invece, con le monete tuttora, in quel tempo, disancorate dall'oro e oscillanti nel mercato internazionale, intorno alle quotazioni stabilite, con alterna vicenda, dagli orientamenti della speculazione in ordine alle previsioni; esclusi dalle correnti auree mondiali, dovevano gestire la loro attrezzatura creditizia in modo da avviare la loro economia nazionale verso una situazione di stabilità e quindi di equilibrio. Erano, cioè, tutti orientati verso una politica di contrazione anzi che di espansione creditizia: e dipendeva soltanto dalla forza politica di cui disponevano i varî governi per effettuare la rivalutazione della moneta mediante una accorta deflazione, così come accadde in Italia a seguito del discorso del Duce a Pesaro nell'agosto 1926.
A questo riguardo va rilevato che, fino a quando le principali monete mondiali furono disancorate dall'oro e i cambî esteri fluttuarono ampiamente, non si avvertì il peso della politica protezionistica assunta da tutti i principali paesi come necessario orientamento politico-sociale della nuova situazione mondiale di potenziale disequilibiio. I paesi nuovi creati dai trattati dovettero provvedere all'attrezzamento della loro economia per renderla autonoma in corrispondenza all'autonomia politica conseguita; e quindi imposero dazî di frontiera là dove prima non esistevano. I paesi vecchi, costretti, se a base imperiale, a difendere la coesione economica del loro impero, oppure, se privi di impero e ricchi di potenza demografica, a costituire in patria una ragione di vita per le crescenti generazioni, furono anch'essi sospinti sulla via della protezione doganale. Ne risultarono così vasti impedimenti al traffico internazionale il cui peso andò rapidamente crescendo. Non appena si avviarono le monete a una sistemazione, per iniziativa anglo-sassone, fu tenuta la prima conferenza economica mondiale a Ginevra nel maggio 1927 allo scopo di studiare i sistemi per la ripresa dei traffici e per una più efficace collaborazione produttiva fra i popoli. Questa iniziativa che avrebbe avuto, se attuata in concreto, un'importanza indubbia come mezzo preventivo della crisi già in maturazione, non portò ad altro che all'accertamento della impossibilità di fatto per una intensa e larga collaborazione economica nel mondo postbellico. D'altronde gli Stati Uniti, che per la loro preminente posizione avrebbero potuto assumere iniziative al riguardo, fedeli alla loro politica tradizionale, nettamente protezionista, adottarono la tariffa del 1930 che costituisce un rafforzamento tecnico assai efficace della protezione di frontiera. Anche per mitigare le conseguenze di questo orientamento di politica economica furono decise e attuate le svalutazioni monetarie (sterlina: settembre 1931; dollaro: aprile 1933) con le quali si cercò, fra l'altro, di sorpassare le barriere frapposte dall'estero all'espansione dell'esportazione dei paesi svalutatori. Ma questo nuovo perturbamento non fece che aggravare la crisi già in atto, dando luogo a tutte le misure doganali difensive da parte degli altri paesi, come contingenti, accordi di compensazione, ecc. Questa situazione di fatto, dovuta a errori particolarmente gravi nel settore creditizio, crollò come un castello di carta. Si era infatti costruita una impalcatura destinata alla "creazione del potere di acquisto" del mercato, mediante vendite rateali, dilazioni nei pagamenti e altre facilitazioni mercantili, le quali venivano poi mobilitate dalle banche, che impiegavano in questa mobilitazione una parte del potenziale creditizio di cui disponevano come effetto delle complesse cause di perturbamento mondiale dianzi indicate. Bastò quindi il crollo dell'insana speculazione alla borsa titoli perché tutta l'impalcatura creditizia di sostegno dei mercati e delle quotazioni mercantili vacillasse anch'essa e si accasciasse su sé medesima. Mancando l'ausilio del credito a tutte le vendite rateali e a pagamento dilazionato, le produzioni in massa di beni non trovavano più acquirenti: i prezzi ribassarono. Tutta l'economia mondiale, fondata su questa superstruttura creditizia in rapida liquidazione, venne a perdere gran parte del suo slancio. Durante e dopo la crisi di Wall Street, quasi tutte le banche di emissione che avevano lasciato in deposito a Londra e a New York una parte anche considerevole delle loro giacenze auree (le quali servivano, quindi, come duplice base di espansione creditizia) in ossequio al criterio anglosassone del gold exchange standard (sistema del cambio aureo), vollero avere la materiale e diretta disponibilità del metallo in casa. Questo nuovo orientamento ebbe anche la sua efficacia nel costringere a liquidare strutture bancarie inadeguate alle vere possibilità di ogni mercato. Tutte queste forze collaborarono a liquidare prontamente l'eccesso di credito di cui il mondo aveva fino allora sofferto, specie nei paesi anglosassoni. Poiché questi paesi, controllando la maggior parte dei mercati delle materie prime mondiali, che sono quotate e negoziate nelle loro monete, hanno una decisiva influenza sull'orientamento dell'economia internazionale, così questa crisi, che può considerarsi come tipicamente anglosassone, in quanto si è svolta nei settori creditizio e mercantile più sviluppati in quei paesi che in ogni altro, si è diffusa a tutto il mondo.
Il rapido ribasso delle quotazioni mercantili ha creato una serie di problemi assai gravi da risolvere. Sotto l'aspetto internazionale esso ha limitato fortemente la capacità di acquisto dei principali paesi produttori di materie prime, quelle che maggiormente hanno sopportato il gravame della depressione. Siccome questi paesi sono anche notevolmente indebitati verso l'estero (specie verso il Regno Unito e l'America), come conseguenza del loro attrezzamento produttivo ancora in corso e necessario per farli uscire dalla fase meramente coloniale del loro sviluppo; così la depressione ha anche e fortemente colpito i paesi creditori per l'impossibilità nella quale si sono trovati i debitori di fronteggiare e onorare i loro impegni. Il commercio estero si riduce in valore oro al 42,5% (1935) del valore del 1929 con moto di contrazione costante durante 6 anni consecutivi. Considerando le quantità scambiate si riduce a circa il 74,5%, (1932). La produzione mondiale, a prescindere dalla U.R.S.S. si contrae al 63% circa (1932) di quella che fu nel 1929 con una limitazione ancora maggiore negli Stati Uniti dove la depressione infierisce con maggiore intensità. Il numero dei disoccupati aumenta a cifre impressionanti, valutate a molto oltre i 20 milioni di unità. Una moltitudine di imprese, nell'impossibilità di assolvere gl'impegni contrattuali assunti in condizioni di mercato profondamente diverse, o fallisce o liquida i proprî debiti con riduzioni notevoli sul dovuto.
Nei confronti del mercato interno, la situazione assume aspetti diversi, secondo le particolarità economico-sociali di ogni paese. Le nazioni prevalentemente agrarie si avviano decisamente verso la riduzione degli oneri costituiti sulle aziende negli anni di alti prezzi e quindi troppo elevati per essere sopportati dagl'imprenditori in fase di depressione. E si ebbero così interventi di governo per contribuire al pagamento di interessi onerosi su prestiti contratti a scopo produttivo, oppure per realizzare rapidamente una conversione in massa dei debiti contratti in altri tempi. Si ebbero interventi tendenti a sostenere il mercato delle derrate, mediante limitazione nelle quantità prodotte, ammasso obbligatorio dei raccolti per assicurare agli agricoltori il prezzo che si riteneva dovesse loro essere attribuito per ragioni sociali. Naturalmente questi provvedimenti di controllo dei prezzi furono anche accompagnati da regimi doganali, dazî, contingentamenti, ecc., in modo da rendere la loro efficacia più completa possibile. Nei paesi prevalentemente industriali si provvide a razionalizzare la produzione; ad adeguare i salarî al nuovo livello dei valori; a ridurre, anche qui, il gravame del capitale per i prestiti contratti e da contrarre. Tutti interventi di fortuna, più o meno coordinati, allo scopo di alleviare alle economie individuali l'urto grave e immediato di questa subitanea riduzione delle quotazioni. La finanza (e i mezzi tecnici di cui essa dispone: debito pubblico, gestione di bilancio, gravami fiscali di varia natura), ha un compito, in questo travaglio, assai notevole e del quale non si era mai avuta prima alcuna idea adeguata.
Può dirsi, anzi, che proprio in questo settore e in questo intervento statale sul mercato, si sono manifestate le nuove esigenze per il controllo e la guida centrale dell'attività economica privata. Infatti uno dei fenomeni di maggiore gravità sociale causato dalla crisi è, indubbiamente, quello della disoccupazione. Ci sono state, come si è detto, legioni di operai private della possibilità di lavorare dalla subitanea e ferrea distruzione dei profitti aziendali che è una delle prime conseguenze della crisi e che consiglia o obbliga gl'imprenditori a chiudere le loro officine. Questa diminuzione nella domanda privatistica di lavoro, che è una delle più gravi e immediate manifestazioni delle crisi in genere, e in particolare di quella che ci occupa, ha imposto a tutti i governi, sia a quelli muniti di possibilità di decisioni autoritarie, sia a quelli retti formalmente a regime parlamentare, di assumere iniziative, imprese, lavori, finanziati con mezzi di tesoreria, con i quali bilanciare la diminuita domanda aziendale di lavoro. Si tratta, in sostanza, di uno spostamento nel comando sui mezzi d'opera esistenti sul mercato: da privatistico diventa pubblicistico. Cioè si scelgono lavori destinati a dare prestazioni utili, di regola non immediate, ma più durature; con un periodo di ripresa che supera, normalmente, e anche di molto, la durata di una generazione (25-30 anni: al quale periodo è, invece, limitata la scelta degl'investimenti a carattere privatistico). La tesoreria, per provvedersi dei capitali necessarî, si indebita: cioè sostituisce una garanzia generica, costituita dalla capacità di contribuenza futura dei cittadini (da escutere con le procedure privilegiate del fisco) a quella garanzia specifica e individuale che è necessaria per tutti i finanziamenti privatistici, e che la crisi viene a restringere notevolmente o ad annullare.
Per necessità contingenti, dunque, lo stato anche democratico e liberale, diventa assuntore di opere di mole, di lavori d'ogni genere, i quali rappresentano spese talora molto notevoli non solo in misura assoluta, ma anche relativamente, cioè come quota proporzionale del reddito nazionale annuo, nel quale esse assumono una parte decisiva. Questa attribuzioiìe alla tesoreria di compiti finanziarî e d'impresa che normalmente le sono negati, è, appunto, uno dei fatti caratteristici fortemente accentuati dalla crisi, ma la cui origine è ben più grave e profonda, in quanto sta nella tendenza degeneratrice del capitalismo finanziario alle grandi imprese monopolistiche esercitanti un potere fiscale, surrettizio e pericoloso, di imposizione fiscale (mediante prezzi politici) a carico dei consumatori, il quale viene esercitato senza alcun controllo da parte dello stato, anzi, talora, contro di esso, cioè contro l'interesse universale, della nazione.
È, questo, un altro degli aspetti aberranti dell'ordinamento capitalistico, origine di crisi, cui la depressione mondiale ha dato risalto e che è indubbiamente un'altra delle cause dello squilibrio. Quando l'impresa, per le esigenze della produzione di massa, ha raggiunto una dimensione tale da saturare da sola il mercato, sia per virtù propria, sia (come più spesso accade) con l'ausilio di provvedimenti di tutela o di protezione nei riguardi del mercato interno, essa tende inevitabilmente a regolare i prezzi in modo da massimizzare il proprio profitto monetario, senza preoccuparsi delle conseguenze ultime che questa politica può arrecare al mercato. Talora questo orientamento viene seguito contemporaneamente da molte imprese e quindi il loro effetto perturbatore sul mercato risulta cumulativo e più grave. Si tratta di un "risparmio forzato", imposto ai consumatori mediante i sovraprezzi loro imposti rispetto al costo concorrenziale dei prodotti e che addensa sotto il controllo di pochi uomini masse vistose di potere di acquisto, trasformando la natura di queste imprese che diventa composita: cioè produttrice e finanziaria insieme. Infatti molte di queste aziende a carattere di monopolio di fatto non hanno più bisogno, per la provvista dei capitali necessarî alla loro gestione, di ricorrere ai finanziamenti del mercato, cioè al risparmio individuale: si finanziano da sé, con una autonomia che è anch'essa causa di perturbamento. Poiché essa altera profondamente quella distribuzione del reddito individuale, fra domanda di beni di immediata e diretta utilità per l'uomo (e che vengono acquistati da esso e trasformati con un unico atto di consumo), e domanda di beni a fecondità ripetuta, cioè destinati a ulteriori produzioni ricorrenti, prima di esaurirsi. Questa distribuzione fra domanda di beni di consumo e di beni di produzione che avverrebbe automaticamente su un mercato regolato (ipoteticamente) dalla libera concorrenza, e che (si afferma) sarebbe una delle forze più decisive per assicurare la stabilità e la permanenza, senza crisi, dell'ordinamento capitalistico-individualistico, viene, dunque, alterata dall'esistenza di quel "risparmio forzato" di iniziativa aziendale e non statale, cioè sfuggente al controllo della tesoreria. Quindi dove questo fenomeno esista di per sé, per ragioni di fatto, si richiede che lo stato intervenga a controllare da vicino, direttamente o indirettamente, la gestione di questi organismi produttivi di natura complessa, allo scopo di regolare la loro gestione con criterî pubblicistici e non soltanto privatistici (controllo delle tariffe, della discriminazione dei prezzi, ecc.).
L'esistenza del "risparmio forzato" come addensamento obbligato del reddito individuale destinato all'investimento in beni di produzione e che viene, indirettamente, costretto a una minore domanda di beni diretti, rispetto a quella che risulterebbe dalla libera determinazione dei redditieri-produttori, è stata anche, da alcuni scrittori, assunta come unica conseguenza della politica bancaria. Sarebbero, cioè, soltanto le banche che potrebbero influire sulle determinazioni del redditiere, in modo indiretto e politico, come si disse altrove (v. banca, App.) e quindi essi puntano su provvedimenti di carattere essenzialmente creditizio e bancario per ottenere da queste istituzioni quella regolazione del mercato che manca e che sarebbe unica ragione di crisi. Si dovrebbero, dunque, affidare alle grandi centrali di smistamento del credito la cura e la tutela della stabilità del mercato, assicurando quella optima distribuzione fra risparmio (investimento) e giacenza (depositi monetarî), delle complesse disponibilità creditizie, indifferenziate, che sono loro attribuite pro tempore dal mercato. Anche in questo caso si vorrebbe attribuire, in sostanza, a una volontà diversa da quella dei singoli redditieri-produttori il potere di influire nel senso d'una modificazione sulla destinazione e l'impiego di quelle masse di potere di acquisto, affidate dal mercato in gestione indifferenziata.
Come riferimento obiettivo a questa azione dovrebbe essere assunto, secondo alcuni, un ipotetico "saggio normale di interesse", il quale, esistendo sul mercato come saggio di rendimento degl'investimenti produttivi in atto, dovrebbe essere assunto dalle banche come l'esatta misura per remunerare identicamente sia le giacenze sia i risparmî. Secondo altri, le banche dovrebbero agire in questa difficile opera che dovrebbe essere loro affidata, in modo da eguagliare, in valore, la domanda di capitali per i nuovi impianti e per la rinnovazione dei vecchi, con l'offerta di risparmio.
Entrambe queste concezioni, per quanto degne di considerazione, sembrano costruite su basi non reali, in quanto fanno riferimento a condizioni obiettive di mercato quali dovrebbero sussistere nel caso che non vi fosse nessun altro perturbamento: e invece, come si vide, esistono complicate e intricate cause di intervento che impediscono a quelle ipotetiche forze automatiche di manifestarsi.
Queste considerazioni che tendono a rilevare l'importanza perturbatrice dell'indecisione collettiva dei redditieri-produttori, in ordine agl'impieghi da effettuare con la parte della loro entrata che è sottratta al consumo e destinata al risparmio, hanno anche nel settore internazionale la loro applicazione. Poiché un'altra delle manifestazioni e concause della crisi è, indubbiamente, la massa imponente di capitali apolidi, vaganti da mercato a mercato in cerca di guadagni speculativi; i quali non intendono investirsi durevolmente in nessuna forma concreta e restano indecisi e inerti, come potere di acquisto che non intende di assumere alcuna diretta responsabilità nei cicli produttivi che pur sarebbe tanto necessario iniziare. Contropartita finanziaria della disoccupazione umana! Si calcolava, negli anni più gravi della depressione, che tale massa di capitali bancarî e giacenti, fosse dell'ordine di grandezza di 30 miliardi di franchi svizzeri oro (ante svalutazione 1936). E tale misura andò soltanto lievemente riducendosi durante la ripresa economica.
In conclusione: da questo esame di fatto può dirsi risultare che non una causa specifica ha dato luogo alla grande depressione del 1930-35; salvo il riferimento generico a quel complesso di fenomeni di grande importanza, che è il processo di dissolvimento endogeno del sistema capitalistico, il quale ha dato luogo, in Italia, all'ordinamento corporativo, e altrove a forme più o meno coordinate di transizione verso un'economia regolata dallo stato. Questa conclusione sembra anche corrispondere alla realtà mondiale odierna (aprile 1938), la quale può definirsi di superamento della crisi, ma soltanto nel senso che a un fenomeno di depressione mondiale, proprio di tutti i mercati, si è sostituito un sistema di crisi nazionali, a sviluppo e a regime limitato a ogni paese; salvo che per il Commonwealth il quale dimostra sempre più, dagli accordi preferenziali di Ottawa (ottobre 1932) in poi, la propria netta tendenza a costituire un sistema economico anglosassone presidiato da precise barriere difensive.
Quindi la depressione iniziatasi nell'ottobre 1929 a New York non è chiusa: è in pieno divenire anche nei paesi a regime democratico, e i suoi sviluppi, dominati in pieno dalle spese e dagl'interventi statali anche per il riarmo, per le nazioni che non hanno provveduto a costituirsi un ordinamento a tipo corporativo, sono molto incerti e pieni di incognite.