CRISPINO da Viterbo, santo
Pietro Fioretti nacque il 13 nov. 1668 in un ambiente di piccoli artigiani di Viterbo. Appena raggiunse l'età adatta, fu sistemato come apprendista da uno zio paterno che faceva il calzolaio.
La sua vicenda lascia supporre che il gruppo famigliare fosse in una fase di ascesa sociale: egli seguì un corso di studi fino alla classe di grammatica, aveva certe conoscenze letterarie, perché declamava ai suoi discepoli versi della Gerusalemme liberata del Tasso, recitava loro le canzonette devote di Felice da Cantalice e i pii sonetti di Filippo Neri, e leggeva naturalmente le vite dei santi che gli servivano di modello.
Nel luglio del 1693 la sua ammissione come novizio nel convento cappuccino di Palanzana (Viterbo) fu una nuova tappa di questa ascesa sociale, favorita dagli Ordini mendicanti che praticavano un reclutamento relativamente popolare. Ma quando l'anno successivo pronunciò i voti di laico professo, i limiti di questa promozione furono chiari. La leggenda che attribuisce questa scelta al suo desiderio di umiltà mette fuori strada. La sua origine sociale gli impedì invece l'accesso al sacerdozio e ad una carriera più prestigiosa e lo relegò nella condizione del servitore. Prese il nome di religione di Crispino e si trasferì a Tolfa, dove conobbe fra Alessandro da Bassano, che sarà il suo primo biografo poi nei conventi di Albano, Monterotondo, Orvieto ed infine in quello dell'Immacolata Concezione di Roma, dove morì il 19 maggio 1750. Svolse sempre le funzioni più umili di giardiniere, cuoco e questuante.
Questi sono i soli elementi autentici della sua biografia, intessuta per il resto dei soliti luoghi comuni agiografici. I quali confermano tuttavia che C. rappresentò con la sua vita un esempio riuscito dell'idea che la santità consiste nell'adesione totale a precisi modelli debitamente legittimati dall'istituzione e a un tipo di comportamento che assicura al santo il riconoscimento del suo statuto particolare da parte della popolazione. Con Felice da Cantalice e Bernardo da Corleone, C. è uno dei santi laici cappuccini prodotti dall'Italia centrale e meridionale nell'epoca moderna, e il dovere del suo biografo era di mostrare che la sua vita fu ricalcata esattamente su quella dei suoi due illustri predecessori, per i quali del resto egli ebbe la massima ammirazione. Come Felice da Cantalice, originario della stessa regione, egli sfuggì nell'infanzia più di una volta miracolosamente alla morte e soggiornò nel convento cappuccino di Palanzana prima di venire a morire a Roma. Come Bernardo da Corleone, fu apprendista calzolaio prima di diventare cuoco del convento. Li eguagliò poi tutti e due nello zelo con il quale eseguiva la questua e per il tempo che vi dedicava. Seguendo infine l'esempio di s. Francesco, non depose mai la serenità di spirito e la gaiezza che costituivano uno dei tratti obbligati della santità francescana. Le sue macerazioni furono esemplate sul modello di Bernardo da Corleone, il "martire della penitenza", e da lui prese in particolare l'idea di utilizzare una palla di cera coperta di pezzi di vetro e di chiodi per flagellarsi. Non è tuttavia da escludere che abbia influito sulla sua austerità anche l'esempio di Pietro d'Alcantara, che alla fine del sec. XVI cominciò ad avere una certa fortuna tra i francescani dell'Italia centrale e meridionale. Il modello eremitico fu il suo ideale e il suo biografo vuole che si sia ritirato in una grotta durante il soggiorno ad Albano.
Le sue attività soprannaturali - la funzione essenziale che era richiesta ad un santo - si manifestarono sin dalla più giovane età. Aveva un potere sulla natura: padrone degli elementi climatici, allontanava il fulmine, disperdeva le nuvole e proteggeva i raccolti. Padrone del mondo animale, arrestava i cavalli imbizzarriti, calmava i cani arrabbiati e risuscitava i conigli. Quest'ultima caratteristica lo ricollegava alla tradizione francescana. Il suo dono di predizione era a doppio senso e, come ogni personaggio sacro, egli poteva essere di volta in volta benigno o maligno: era un oracolo per chi gli chiedeva consiglio, ma prediceva la morte ai bestemmiatori e disgrazie a chi lo maltrattava. Ma furono soprattutto i suoi poteri taumaturgici che gli assicurarono la più grande rinomanza. All'inizio esercitò la sua attività di guaritore con l'intermediazione di una medaglia dell'Immacolata Concezione, ma presto il semplice contatto con la sua persona o con i suoi abiti-reliquia ebbe lo stesso effetto.
La morte del santo è sempre sentita come un momento parossistico nella rappresentazione della santità. È in questo momento che egli manifesta con la massima evidenza i suoi poteri soprannaturali al suo entourage che manipola il suo corpo secondo un rituale inteso a conservargli i poteri di intercessione anche dopo la morte. Questo corpo, tesoro inestimabile, era oggetto di grande bramosia. Quando, nel 1744, gli abitanti di Orvieto videro ritornare C. nella loro città dopo un breve soggiorno a Roma, esultarono all'idea che il venerabile, ormai ottantenne, vi sarebbe morto. Ma un santo non muore a caso, alla sua morte concorrono sempre circostanze che ne attestano l'elezione divina. C. morì infatti a Roma nel corso dell'anno santo (1750) e dopo il pellegrinaggio a S. Pietro per ottenervi un giubileo. Votato dalla madre nell'infanzia all'Immacolata Concezione, morì nel convento romano che portava quel nome e che conservava i resti del suo modello canonizzato (1712, da Clemente XI), Felice da Cantalice. Il suo cadavere subì la sorte riservata al corpo dei santi. Esposto per parecchi giorni non si putrefece, ma divenne più bello col passare del tempo, segno di purezza verginale, ma anche nuova imitazione di Felice da Cantalice. La folla fece a pezzi i suoi vestiti per farne reliquie, e il corpo, racchiuso in una cassa di cipresso, restò intatto dopo parecchi giorni di inumazione. Nell'ideologia della santità, la morte è rifiutata simbolicamente al santo, perché egli possa esercitare ancora, con la stessa efficacia che da vivo, la sua attività di intercessore presso la corte divina.
C. fu beatificato il 26 ag. 1806, e la causa per la canonizzazione, introdotta nel 1923, è stata conclusa il 20 giugno 1982.
Fonti e Bibl.: Il processo di beatificazione di C. è conservato nell'Arch. Segr. Vaticano, S. Congregazione dei Riti, nn. 2790-2805.Una prima bibliografia sommaria si trova in Lexicon Capuccinum, Roma 1951, p. 475.Fra i tanti titoli si ricordano: Alessandro da Bassano, Vita del venerabile servo di Dio Fr. C. da V., laico professo dell'Ordine de' minori cappuccini di S. Francesco, Roma 1761. Questa edizione fu preceduta da due edizioni veneziane del 1752 e 1753,e seguita da un'altra edizione romana nel 1761.Dopo la beatificazione apparve la biografia di Bonifazio da Nizza, Vita del b. C. da V., Roma 1806, e all'atto dell'introduzione della causa di canonizzazione quella di Isidoro d'Alatri, Il prediletto di Maria, Fr. C. da V., Civitavecchia 1833.La biografia più recente, R. Branca, Un frate allegro, Cagliari 1971, èun pretesto per considerazioni spirituali e non uno studio storico propriamente detto.