cristianesimo e lingua
Tutte le storie della lingua latina portano una sezione, un capitolo, se non altro un cenno, all’influenza esercitata dal cristianesimo (assai sinteticamente Meillet 19333: 276; più estesamente Devoto 1940: 309-341; Devoto 19742: 149-155; Giacomelli 1993: 198-205). Il repertorio dei tecnicismi liturgici introdottisi in latino per influenza cristiana permette di definire una componente innovativa che alimentò con abbondanti ➔ forestierismi orientali il sermo popolare usato dalla comunità della nuova religione, poi generalizzatosi con il trionfo del cristianesimo.
Già Schrijnen (20024) mise a punto la definizione del latino cristiano come Sondersprache («lingua settoriale» o «speciale») e introdusse la distinzione tra l’uso ecclesiastico letterario-tecnico e quello cristiano popolareggiante. Devoto (1940) diffidava di tale bipartizione, intuendo un quadro più complesso, per la presenza di una molteplicità di focolai attraverso i quali gli elementi cristiani si sarebbero fatti strada. Le parole tecniche si diffusero al di là dell’ambito teologico e del culto (dove questi prestiti lessicali avrebbero potuto «rimanere tranquilli in seno alla lingua latina come elementi innocui di terminologia filosofica»: Devoto 1940: 312). Invece si radicarono saldamente nel cosiddetto latino parlato o volgare e di lì passarono alle lingue romanze. Anche per gli autori cristiani vale ovviamente quanto si può dire in generale per ogni testo tardo-latino: non possediamo nulla che sia volutamente in sermo vulgaris, ma il sermo vulgaris affiora qua e là: se ne trovano le tracce dove un autore classico abbia ricercato effetti stilistici particolari, o dove uno scrittore abbia lasciato trascorrere forme meno sorvegliate (come nella Peregrinatio Egeriae, cronaca di un viaggio in Terrasanta del 400 d.C. circa, scritta da una religiosa della Galizia), o infine dove si sia volutamente cercato l’incontro con un pubblico più ampio e meno colto, come appunto era ambizione degli autori cristiani.
Ha dunque notevole interesse il catalogo dei termini cristiani, originariamente ebraici e greci, passati stabilmente nel latino ecclesiastico e nel latino volgare, e di qui, infine, nel volgare italiano. Si considerino parole come gehenna («inferno», dal greco géenna, a sua volta dall’aramaico gêhinnan), mammon («diavolo, ricchezza»), amen, pascha. Sono tutti termini ebraici, assunti come prestiti non adattati attraverso il greco, ma ebbero un ruolo diverso in italiano: i primi due (geenna e mammona) rimasero estranei alla lingua comune; amen è entrato nell’uso; Pasqua è il nome di una festività tra le più importanti del nostro calendario.
Per giustificare tale sviluppo è necessario tenere conto del peso esercitato dalla traduzione dei testi sacri, dapprima nelle più antiche versioni, le Veteres latinae, la cui fedeltà letterale favorì e moltiplicò prestiti e calchi (Boscherini 1961). La traduzione in latino della Bibbia di san Girolamo (la Vulgata), frutto di un lavoro filologico di vasta portata, fu attenta alla norma grammaticale latina, di cui offrì un’applicazione corretta, pur volutamente semplice nella sintassi. La Vulgata non è in una lingua diversa dal latino: è latino a tutti gli effetti, tuttavia presenta uno stile lineare, diverso dalla elaborata e assolutamente impopolare lingua dei classici, sicuramente più vicino all’uso comune. In questa aspirazione alla popolarità appositamente ricercata consisteva del resto la forza innovativa del cristianesimo, nel suo tormentato desiderio di affermarsi prendendo le distanze dalla cultura pagana, con la quale tuttavia si doveva necessariamente confrontare. Non a caso, come fa notare Tagliavini (19726: 214), Tertulliano, sant’Agostino e altri Padri della Chiesa, sebbene fossero capaci di scrivere in una forma impeccabile ed elegante, in molte delle loro opere, dirette a scopo propagandistico, si servirono di una lingua vicina a quella del popolo.
Agostino rese esplicito questo principio, mostrando di preferire l’imperfezione della forma quando facilitasse l’incontro con il pubblico, piuttosto che l’eleganza, quando fosse di impaccio nella comunicazione: «Melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi» («meglio essere rimproverati dai grammatici, piuttosto che non esser capiti dal popolo»). Questo è dunque il principio ispiratore che trionfò nel cristianesimo, quando si spostò dall’Oriente a Roma e sviluppò ambizioni ecumeniche. La Vulgata di san Girolamo, capolavoro di capacità comunicativa, conservò i termini entrati nella tradizione ecclesiastica, o già presenti in greco nella traduzione dei Settanta. Lo dimostrano due esempi portati da Mancini (1994: 838-839), relativi a manna e Pasqua. L’originale ebraico di manna è mān, mentre il termine manna adottato nella Vulgata (poi entrato nell’italiano) risale alla forma più frequente nella versione dei Settanta, che è appunto mánna. Pasqua, dal latino pascha, non viene direttamente dall’ebraico biblico pesaḥ, ma si lega al greco páskha, la forma che compare con più frequenza nella versione dei Settanta e l’unica presente nel Nuovo testamento greco.
La terminologia cristiana incise sul latino in forme diverse: è possibile distinguere tra l’introduzione di neologismi e la risemantizzazione di termini già esistenti. In entrambi i casi, si tratta di fenomeni della lingua popolare realmente diffusi, e infatti quasi sempre trasmessi all’italiano. Qualche volta il forestierismo cristiano penetrato nel latino diede luogo a due esiti diversi: una parola rimase al livello libresco, in sostanza come cultismo (➔ cultismi), ma un’altra parola analoga entrò decisamente nella lingua quotidiana, con adattamento anche nella veste fonetica. È il caso di coppie come epifania / befana, blasfemo / bestemmia, ecclesiale / chiesa, episcopale / vescovo, presbiterio / prete.
Tra i neologismi cristiani (termini nuovi per indicare nozioni nuove, come già notava Meillet 19333: 276) si possono citare parole come salvare e salvator (il latino di Cicerone aveva servator, corrispondente al greco sōtér), dominica («il giorno di Dio», da dominus, ma anche questo rinnovato rispetto al latino classico: dominus «signore, padrone» aveva assunto il significato biblico di «Dio»), papa (in greco «padre», ma dal III secolo il titolo fu usato per i vescovi, poi per il solo Santo Padre, vescovo di Roma; nel VI secolo anche la cancelleria di Costantinopoli lo adoperava in questo senso specifico). Così ecclesia per il luogo di riunione, che troviamo nel Vangelo (Mat. 16, 18), nel senso di «comunità dei credenti in Cristo», mentre nel greco classico il significato era quello di «assemblea politica»: nell’uso evangelico la parola era diventata un calco dell’ebraico qāhāl, «assemblea, adunanza a scopo religioso» (Mancini 1994: 841). Presbyter, «prete», originariamente era in greco «il più anziano». Angelo in greco aveva solo il valore di «messaggero», ma poi fu il «messaggero di Dio». Il mutamento di significato che investì la lingua popolare si può verificare assai bene nel termine parabolare, che prese il posto del latino classico loqui. Allo stesso modo, al posto di verbum (che nell’ottica cristiana aveva assunto altro significato), si impose parola, dal latino tardo parabola (grecismo), la parola di Cristo nei racconti morali dei Vangeli (parabolare, si noti, non fu di tutta la Romània, perché lo spagnolo ha hablar da fabulare). La maggior parte dei vocaboli che si riferivano allo spirito e alla morale cambiò di significato nel periodo che va da Augusto a Teodosio (cfr. Migliorini 19785: 41): così fides, spes, caritas, virtus, passio, mundus, saeculum, pius, sacer, peccare, communicare. Per salus, Migliorini ricorda un sermone di sant’Agostino in cui si gioca sul doppio senso pagano e cristiano: per i pagani, infatti, salus è la sola salute fisica, lo ‘star bene’, non la salvezza eterna dell’anima.
Quanto a pagano, se ne sono date diverse interpretazioni: nel latino classico aveva due significati distinti, quello di «contadino», abitante del pagus, e, nel linguaggio militare, quello di «civile, borghese», in opposizione al soldato, che era detto castrensis. Nel linguaggio cristiano il pagano fu il non-cristiano, equivalente a gentilis. La trasformazione è stata attribuita da alcuni al fatto che i pagi erano rimasti più a lungo estranei alla cristianizzazione, poiché essa aveva interessato dapprima i centri urbani; lo storico del cristianesimo Adolf von Harnack (19062: 339 e 351) diede una diversa quanto affascinante interpretazione, secondo la quale il mutamento di significato era da collegare alla militanza in Cristo degli adepti della nuova fede, i quali, proprio in quanto ‛militanti’, si sentivano opposti ai pagani, i ‛borghesi’. Sta di fatto che paganus nel senso di «contadino» si è conservato molto sporadicamente, mentre in italiano, francese e rumeno i continuatori di paganus sono connessi al significato cristiano della parola. Interessante, infine, è l’imporsi di captivus al posto del latino classico malus. In latino captivus significava «prigioniero». Il termine fu adoperato dagli autori cristiani in senso morale, come del resto già lo era stato nei filosofi stoici del I secolo, e si ebbe captivus diaboli «prigioniero del diavolo», da cui si passò al significato di «malvagio» in italiano (ma non nei dialetti meridionali, dove malo, da malus, è sopravvissuto nel senso originario). La cristianizzazione di un termine come captivus, di uso assolutamente generale, risulta di particolare evidenza: mostra come la morale cristiana potesse incidere sul significato di una parola comune fino a mutarlo radicalmente. In altri casi, la parola latina, che si era persa nel passaggio al volgare comune, si conservò nell’uso religioso: così domus fu il «duomo», una chiesa, o meglio, all’origine, la casa degli ecclesiastici e poi del vescovo (domus ecclesiae, domus episcopi), mentre la gente abitava in una semplice casa, che in latino classico era una casupola o un casotto di campagna.
In un celebre documento in latino medievale, il Breve de inquisitione redatto a Siena nel 715 (Avalle 1965: 5-6), salta all’occhio la presenza fitta e costante dei termini che abbiamo esaminato nel § 1, a conferma del fatto che questo latino è un riflesso del volgare, di un parlato che traspare anche per altri motivi, per es. per l’uso ormai evidente di unus numerale in funzione di articolo indeterminativo. Il Breve è ricco di lessico tecnico cristiano: parole come salvator («il Cristo»), presbiter («prete»), episcopus («vescovo»), e ancora evangelia («Vangeli»), madodinos facere («celebrare il mattutino»), missa cantare.
Tutti i testi medievali, non solo quelli di natura religiosa, contengono, almeno in parte, lessico del genere, che marca (assieme agli ‘errori’ morfologici e alla sintassi) la diversità rispetto alla lingua classica, e restituisce una pallida immagine del parlato, del quale ovviamente non resta documentazione. Tra i primi documenti del volgare (Castellani 19762), molti sono in qualche modo connessi alla religione cristiana per il contenuto, per la funzione o per il luogo in cui si sono collocati, o per queste ragioni combinate assieme (➔ origini, lingua delle). Il più antico documento di volgare italiano, il graffito della catacomba romana di Commodilla (prima metà del IX secolo), in cui ricorre il primo caso di registrazione grafica del raddoppiamento fonosintattico, è stato spiegato come una scrittura relativa alle orazioni ‘segrete’ della messa, che lo scrivente, rivolgendosi a un ipotetico officiante, invitava a recitare in lettura silenziosa. Tra gli altri documenti, sono da ricondurre all’ambito religioso la Formula di confessione umbra (XI secolo) e la vivacissima iscrizione romana di San Clemente (fine XI secolo), che, collocata in un edificio di culto – la basilica sotterranea dell’omonima chiesa romana –, accompagna la raffigurazione di un episodio agiografico e miracoloso.
Si possono aggiungere, per l’area settentrionale, le scritte dei mosaici di S. Maria Maggiore di Vercelli e del duomo di Casale (XII secolo), frammenti di antichi pavimenti di chiese, i Sermoni Subalpini (XII-XIII secolo) – imponente raccolta di prediche in volgare –, la traduzione interlineare dell’omelia pseudo-agostiniana del codice 199 della biblioteca di Einsiedeln (Ugolini 1944: 180-181). Il filone religioso, assieme a quello notarile (➔ notai e lingua), è dunque di notevole importanza documentaria. Mostra come in questo ambito si concretizzasse precocemente la possibilità di un uso scritto della nuova lingua, non di rado in forma di ‘scrittura esposta’, cioè di iscrizione o graffito murale.
Alla medesima categoria della ‘scrittura esposta’ appartiene la perduta iscrizione del duomo di Ferrara (1135), oggi reputata falsa: ma è significativo che si tratti di un falso inserito, ancora una volta, in un luogo di culto. Inoltre sono di ambito religioso molti dei primi documenti di uso letterario del volgare in area italiana, compreso il giullaresco Ritmo Laurenziano (se si tiene conto del fatto che esso è rivolto a un vescovo e vi si parla del papa e del Laterano). Ancor più evidente è il nesso con la religione nel marchigiano Ritmo di Sant’Alessio (XII secolo), nel Ritmo cassinese (XII secolo), nei versi del campano Pianto di Maria (XII secolo), fino ad arrivare a un vero capolavoro, il celebre Cantico delle creature di san ➔ Francesco d’Assisi, in volgare umbro. Poiché il Cantico di san Francesco è una lauda, giova ricordare che laudi provenienti dall’Italia centrale si diffusero fra XIV e XVI secolo nell’Italia settentrionale presso le comunità dei fedeli, tra i laici delle confraternite di laudesi e disciplinati, i quali usavano raccolte del genere per la preghiera cantata. Esse divennero uno dei canali di diffusione dei modelli linguistici centrali, pur variamente ibridati; fu un canale popolare del tutto indipendente dalla linea maestra dell’egemonia toscana esercitata per via letteraria, in forme ben più aristocratiche, con la diffusione delle Tre Corone.
La letteratura religiosa del Trecento ha inoltre diverse espressioni di alto valore e di grande successo, come i Fioretti di San Francesco (volgarizzamento toscano di un originale latino), le opere ascetiche e morali del pisano Domenico Cavalca, lo Specchio di vera penitenza del fiorentino Jacopo Passavanti (si tratta di prediche tenute a S. Maria Novella nel 1354, riordinate in forma di trattato), le prediche di fra’ Giordano da Pisa (detto anche Giordano da Rivalta), che sono le più antiche testimonianze di oratoria sacra in toscano. Questi testi toscani furono reputati per secoli modello esemplare di lingua e spiritualità. Ancora nell’Ottocento, per effetto del ➔ purismo e per il monopolio esercitato dai religiosi sull’educazione dei giovani, costituivano la base delle letture in lingua italiana nei primi livelli di scolarità, attinte a quello che veniva idolatrato come il ‘secolo d’oro’ della lingua.
Nell’Italia settentrionale, nel Duecento, epoca in cui circolava la letteratura profana provenzale negli ambienti aristocratici e in ambiente scolastico la prima prosa volgare muoveva i primi passi per farsi ‘illustre’ a partire dai dettami precettistico-retorici di Guido Faba, l’ispirazione religiosa diede vita a una letteratura moraleggiante di taglio divulgativo in una lingua fortemente locale: tra i suoi esponenti, il francescano Giacomino da Verona, autore di due poemi basati sull’Apocalisse (De Jerusalem e De Babilonia, rispettivamente paradiso e inferno), e il milanese Bonvesin da la Riva, il cui libro più noto è quello delle Tre scritture, che ha per tema l’oltretomba, materia che sarà poi di Dante. La letteratura religiosa ebbe dunque i suoi inizi negli autori citati, ai quali va aggiunto Jacopone da Todi, la cui opera si connette nuovamente al genere laudistico umbro. Vossler (1948: 48) osservava come fosse degno di nota il fatto che una letteratura «propriamente dialettale», nel XIII secolo, in Italia (nord e Umbria) e in Francia (Lorena e Normandia), fosse stata prevalentemente ecclesiastica e religiosa.
Dal Trecento in poi la letteratura religiosa si sviluppò sia in forma autonoma, nei generi della poesia devota e moraleggiante, sia nella predicazione (spesso in forme di ibridismo linguistico), sia all’interno di opere più ampie, come nella stessa Commedia dantesca. Spesso si trattò di una letteratura letta avidamente da un pubblico specifico, un filone carsico non sempre percepibile, ma che appare palesemente quando la Chiesa dopo il Concilio di Trento esercitò il suo controllo su di essa (Fragnito 2005: 133-310).
Migliorini (1927: 105-137) ha allestito un ampio catalogo di tutti i nomi della tradizione cristiana traslati nell’uso comune della lingua italiana (e dei dialetti) in un processo di fusione tra l’elaborazione dotta e quella popolare. Si pensi a babele, beniamino, barabba, filisteo, geremiade, matusalemme, lazzaretto (da Lazzaro, il mendicante pieno di ulcere che stava davanti alla porta del ricco epulone: Luca 16, 19-26), santabarbara, salomonico; si pensi a espressioni proverbiali come essere un Giuda, essere un Erode, fare il Pilato, avere la pazienza di Giobbe, andare con il cavallo di San Francesco, essere nella fossa dei leoni (dall’episodio biblico di Daniele alla corte di Babilonia), lavarsene le mani (dal gesto di Pilato), fare san Martino («traslocare»), mettere in croce (per «tormentare»), occhio per occhio (cfr. Es. 21, 24), restare di sale (l’episodio biblico della moglie di Lot), essere la pecorella smarrita (Luca 15, 4-7), essere la pietra dello scandalo (1a Piet. 2, 8), essere un povero cristo, predicare nel deserto, recitare la litania, servire due padroni (Mat. 6, 24), troppa grazia Sant’Antonio (e un’infermità quale il fuoco di Sant’Antonio), il tempo delle vacche grasse o magre (dal sogno del Faraone, in Gen. 41, 2-3), passare una via crucis. I nomi cristiani sono presenti anche nelle denominazioni zoologiche (il pesce San Pietro, il cui nome si lega alla leggenda secondo la quale l’apostolo pescatore l’avrebbe preso con le mani, lasciando l’impronta di due dita, che si vede distintamente in due macchie; ma esiste nel dialetto piemontese anche la gallina di S. Pietro, cioè la coccinella), e in quelle astronomiche popolari (i Tre Re o Magi, le stelle della cintura di Orione; o la Via Lattea, interpretata come strada di san Giacomo).
Un ampio ventaglio di frati, preti, monache, vescovi e cardinali è applicato alle denominazioni di animali, mentre diavoli e santi compaiono nella fitonimia popolare (Beccaria 2000). Beccaria (1999) ha raccolto e commentato un repertorio esauriente, e stupefacente per abbondanza, delle espressioni di origine religiosa nell’italiano e nei dialetti. Alcune di esse coesistono con la moderna vitalità industriale: in provincia di Milano, per esempio, ricorre ancora persino nell’uso dei giovani fare la zabetta per «spettegolare», dall’episodio della Madonna da poco gravida, che stette ben tre mesi in visita a santa Elisabetta (Luca 1, 39-44). Non tutti i parlanti che adoperano espressioni come quelle esaminate hanno reale coscienza della loro origine: in molti casi l’espressione sopravvive desemantizzata, e la provenienza religiosa non è più percepita, in una società in cui i legami con la tradizione cristiana sono ormai allentati.
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