CRISTIANESIMO
Cristianesimo/Cristianesimi. Cattolicesimo romano. Ortodossie. Comunione anglicana. Evangelici e riformati. Le Chiese perseguitate. Bibliografia
Nei primi tre lustri del 21° sec. il profilo del c. nella sua globalità è come sempre percorso da diversità e legami complessi. Esso continua a essere la prima religione per numero di aderenti sul pianeta, calcolati nel 2010 dal Pew research center in 2,18 miliardi. In altri termini, un terzo della popolazione mondiale è costituita da cristiani: un quarto di loro sono europei (erano i due terzi, cent’anni fa); un quarto sono africani subsahariani; un terzo vivono nelle Americhe e un sesto in Asia, dove però costituiscono una minoranza più marcata rispetto all’insieme della popolazione.
Cristianesimo/Cristianesimi. – Le divisioni confessionali in questa massa di cristiani sono, in parte, quelle storiche generate nelle rotture consumatesi fra la grande Chiesa e i cosiddetti miafisiti (i fedeli orientali che non aderirono alle tesi teologiche dei Concili di Efeso e Calcedonia), poi quelle dell’11° sec. fra Oriente e Occidente e infine quelle avvenute nel Cinquecento, durante la riforma e le riforme. Ma oggi seguono anche percorsi diversi, legati a veri e propri ‘stili’ che traversano le confessioni storiche: Chiese libere, profetiche o pentecostali, nate dentro una specifica tradizio ne confessionale, si propongono infatti come fenomeni apparentati fra loro in modo molto più duttile di quanto non siano in grado di fare i progressi ecumenici fra le Chiese stabilite.
Anche questa nuova consapevolezza nata dal fatto religioso in sé ha portato gli studiosi a usare sempre più spesso la parola cristianesimi al plurale, quasi a marcare una maggiore distanza fra sistemi dottrinali e stili di vita fra i quali, invece, l’ecumenismo del 20° sec. vedeva emergere una possibilità reale di unità basata sulla comune appartenenza al c. nei suoi tratti essenziali, identificati con lucidità dalla Chiesa d’Inghilterra nel cosiddetto quadrilatero di Lambeth, cioè nei quattro tratti – Bibbia, battesimo, la professione di fede nella forma del simbolo niceno-costantinopolitano, eucarestia – che potevano far sperare nell’unità visibile fra tutti coloro che confessavano il Cristo. L’uso del termine al plurale (molto frequente nelle storiografie nelle lingue latine) conferma un primo dato: e cioè che proprio la cessazione delle guerre di religione o a sfondo religioso in Europa (quella fra cattolici croati e ortodossi serbi finisce nella Krajina e a Sarajevo con gli accordi di Dayton del 21 novembre 1995, formalizzati a Parigi il 14 dicembre dello stesso anno; la guerra fra anglicani e cattolici si chiude nell’Ulster con il Belfast agreement il 10 aprile 1998, nel giorno del venerdì santo) e proprio il relativo successo del movimento ecumenico hanno cristallizzato una distanza confessionale che non ha più grande interesse rispetto a un disegno di unità visibile e consente allo sguardo scientifico di cogliere varianti di un’unica esperienza la cui pluralità, dunque, appare scontata.
Cattolicesimo romano. – La maggiore confessione cristiana, quella cattolico-romana che riconosce un primato d’onore e di giurisdizione al vescovo di Roma e gli attribuisce potestà di ‘pastore della Chiesa universale’, ha celebrato nel 2000 il grande giubileo nel passaggio di secolo e di millennio del calendario cristiano: Karol Wojtyła (n. 1920, eletto papa il 16 ottobre 1978 prendendo il nome di Giovanni Paolo II) aveva visto quel momento celebrativo, che replicava quello vissuto da giovane vescovo nel millenario del battesimo della Polonia, come un’occasione di penitenza e con un senso forte della chiamata a ‘prendere il largo’ per la Chiesa in un mondo profondamente mutato. Segnato da eventi di grande forza, come il mea culpa pronunciato a San Pietro e a Gerusalemme, così come da forti polemiche – soprattutto quella legata alla dichiarazione Dominus Iesus, documento della congregazione presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger, che forzava alcuni testi conciliari per limitare il dialogo interreligioso –, il giubileo segnò l’inizio di un drammatico lustro, nel quale Giovanni Paolo II venne progressivamente piegato dalla malattia e dagli anni: pur avendo perso mobilità e loquela, papa Wojtyła rimase al suo posto in un’ostensione della propria condizione che durò anche nei giorni finali della vita e del pontificato (2 aprile 2005).
Gli succedette, dopo un brevissimo conclave, Joseph Ratzinger (n. 1927), che si era mostrato disponibile a un’elezione, se rapida: elezione che, nonostante più di un terzo dei cardinali avesse votato il gesuita argentino Jorge Mario Bergoglio, al terzo scrutinio arrivò anche per i suggerimenti del cardinale di Milano, Carlo Maria Martini; si temeva infatti che un candidato straniero potesse essere superato da un cardinale italiano che poteva contare sulla stessa maggioranza di Ratzinger. Preso il nome di Benedetto XVI (v.), il nuovo papa introdusse un’agenda di un conservatorismo più netto del predecessore: dette grande peso alla ricomposizione dello scisma lefebvriano, perdonando e riammettendo i vescovi scomunicati da Wojtyła. Aprì una polemica sul fronte del dialogo interreligioso e, in una solenne Vorlesung a Ratisbona, attaccò la natura dell’islam, pur se attraverso la citazione di una fonte bizantina; liberalizzò l’uso del messale di san Pio V per gruppi chierici che volessero preferirlo a quello di Paolo VI e lui stesso adottò segni liturgici desueti, come la ferula di Pio IX al posto di quella fatta per Paolo VI a fine concilio. Il suo segretario di Stato Tarcisio Bertone – che per l’Italia ha avuto un’enorme importanza avendo posto fine nel 2007 alla stagione politica dominata dalla figura del cardinale Camillo Ruini – gestiva alcuni dossier chiave, come quello riguardante l’Istituto per le opere di religione (IOR), dove nominava presidente Ettore Gotti Tedeschi (sett. 2009) e poi, a papa dimesso, il finanziere tedesco Ernst von Freyberg (febbr. 2013); o quello sui cattolici cinesi, cui Benedetto indirizzò una lettera distensiva (27 maggio 2007), assai ben accolta. Ma proprio la ventennale amicizia di Bertone con il papa e la sua intenzione di proteggere il professorale disinteresse ratzingeriano per il governo crearono le premesse per un disordine sistemico che prostrò la Chiesa e il papa fra il 2011 e il 2012. Scandali, errori di comunicazione, scelte improvvide come la riammissione del lefebvriano negazioni-sta Richard Williamson (poi nuovamente colpito da censura), furti di carte, pubblicazioni pilotate di informazioni riservate (il cosiddetto caso Vatileaks) resero il clima della corte papale sempre più torbido e violento. Fu anche questa difficile situazione a convincere Ratzinger a rinunziare al servizio petrino, comunicando la sua decisione l’11 febbraio 2013 davanti al collegio cardinalizio.
Il gesto, che ha molti precedenti remoti, ma che arrivò come un fulmine a ciel sereno avrebbe potuto favorire un candidato teologicamente affine a Benedetto XVI: invece, quando il 28 febbraio il vescovo emerito di Roma si ritirò a Castel Gandolfo, e iniziarono le fasi preparatorie del conclave, si coagulò una maggioranza duramente anti-italiana, che pretendeva un ricambio drastico degli uomini di curia, un risanamento effettivo dello IOR, un timbro di prossimità alle persone e al Vangelo di tipo nuovo. A quest’aspirazione non corrispondeva la figura di Angelo Scola, patriarca di Venezia che il papa aveva trasferito a Milano quasi fosse un’investitura, ma Jorge Mario Bergoglio, lo sconfitto del 2005.
Eletto il 13 marzo, al quinto scrutinio (uno fu ripetuto per la presenza nell’urna di una scheda in più rispetto al numero dei 115 elettori), l’arcivescovo di Buenos Aires – primo non europeo da secoli, primo gesuita e primo latinoamericano da sempre – si è fatto chiamare Francesco (v.), un nome estraneo alla sequenza dei vescovi della Chiesa di Roma alla quale dal 10° sec. si erano rifatti quasi tutti gli eletti. Un nome che egli ha connesso a un’istanza evangelica ed evangelizzatrice di povertà, che è stata il portato maggiore, sul piano teologico, del continente latino-americano dopo il Vaticano II. Decidendo di risiedere non nel Palazzo apostolico, ma nella Casa Santa Marta, rifiutandosi di sostituire la sua croce pettorale con una di quelle assai più preziose usate solitamente dal papa, abbandonando un cerimoniale da capo di Stato anche nella scelta delle automobili con cui spostarsi, Francesco ha voluto subito sottolineare il suo ruolo di vescovo di Roma, con un accento sul ministero petrino come servizio alla Chiesa «che presiede alla carità», secondo l’antica formula di Ignazio di Antiochia, scelta che non ha lasciato insensibili le altre Chiese cristiane (per la prima volta il patriarca di Costantinopoli è intervenuto alla liturgia di inizio pontificato, il 19 marzo 2013).
Ligio alle indicazioni e al clima del conclave, Francesco ha messo mano ad alcuni uffici di curia particolarmente discussi o sconnessi: ha sostituito i prefetti delle congregazioni dei religiosi e del sinodo dei vescovi e, soprattutto, ha sostituito il segretario di Stato con Pietro Parolin, un diplomatico di scuola casaroliana, appartenente alla grande tradizione della diplomazia vaticana transigente e dialogante, in precedenza allontanato da Roma. Parolin ha immediatamente guidato la grande macchina curiale verso gli obiettivi del papato e quindi verso una maggiore attenzione per le periferie e con l’idea, anche, che l’Europa non dovesse essere più considerata una priorità: né ecclesiologica, né dottrinale, né politica. In quest’ottica, nel settembre 2013 la Santa Sede si è schierata contro l’attacco al regime di Bashar al-Hassad in Siria, che avrebbe potuto avvantaggiare i miliziani dello ‘Stato’ islamico sunnita (v. is). Nonostante questa presa di posizione, la rivolta è continuata e ha reso bersagli anche i cristiani caldei, siriaci e latini delle zone fra Siria, Libano, Turchia, Kurdistan e ῾Irāq. Importante, sul piano politico, l’attività svolta dalla Santa Sede di papa Bergoglio per concludere il negoziato con l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), iniziato nel 1994, che ha portato al riconoscimento dello Stato palestinese come interlocutore. Ad agosto 2014 il viaggio nella Repubblica di Corea è stato l’occasione per uno scambio di messaggi fra il papa e il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping, durante un sorvolo autorizzato dal governo di Pechino per dare un evidente segnale distensivo. Il 17 dicembre 2014, con un gesto senza precedenti, il Dipartimento di Stato ha riconosciuto il ruolo della Santa Sede nella fine dell’embargo americano su Cuba, preludio al ripristino delle relazioni diplomatiche fra Washington e L’Avana, interrotte nel 1959, e culminato nell’incontro a Panama fra Barak Obama e Raul Castro l’11 aprile 2015. Riguardo alla crisi sul confine fra Russia e Ucraina, che vede in tensione nazioni e confessioni di tradizione cattolica e ortodossa, la Santa Sede ha invece tenuto una posizione neutrale e ha dato segno di poter riconoscere lo statu quo, almeno in Crimea (v.), tornata, dopo un braccio di ferro politico e militare, sotto il controllo di Mosca.
Più complesso e farraginoso è stato l’intervento di papa Francesco sulle questioni finanziarie che hanno visto succedersi allo IOR tre presidenti e diverse commissioni, fino alla nomina, nel febbraio 2014, del cardinale George Pell a prefetto di una nuova segreteria per l’Economia della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano, un’istituzione finanziaria che ha documentato per oltre un anno leggerezze di gestione e denunciato appropriazioni indebite, ma anche costruito, con l’apporto di finanzieri maltesi e di altri Paesi che ben conoscono i meccanismi di Wall Street, un Vatican asset management con sede in Lussemburgo per poter avere margine di manovra adeguato e uno statuto fiscale vantaggioso rispetto a quelli che avrebbe potuto offrire l’Italia.
Sul piano magisteriale, su un tessuto fittissimo di predicazione quotidiana fatta a braccio nella messa del mattino a Santa Marta e in altri interventi, Francesco il 24 novembre 2013 ha pubblicato, come un’esortazione apostolica, la Evangelii gaudium, in evidente simmetria con la Evangelii nuntiandi di Paolo VI (8 dic. 1975). Un testo che inventaria tutti i problemi teologici irrisolti o radicalizzati nei pontificati di Wojtyła e Ratzinger: la questione della riforma del papato, il sensus fidei, la natura del ministero episcopale, la dimensione della povertà, l’autorità dottrinale delle conferenze episcopali (effettivamente citate come fonte del magistero in quel documento), un ecumenismo reale. Poco ricevuta dagli episcopati e dai fedeli, l’esortazione ha fatto da base a un fitto dialogo ecumenico che il papa ha sviluppato non solo con Costantinopoli e il patriarca ecumenico Bartolomeo I (al secolo Dimitrios Archontonis, n. 1940), con cui è stato pellegrino a Gerusalemme a maggio del 2014, ma anche con la Evangelischen Kirche in Deutschland (EKD), con esponenti di altre Chiese riformate, e perfino con le Chiese libere pentecostali che ha visitato ad agosto 2014 in un’inattesa sortita presso una comunità pentecostale di Caserta.
Con questi atti, il papa ha ridimensionato la funzione informale degli addetti alle relazioni esterne di molti movimenti che, anziché ricevere deleghe politiche o diplomatiche, come era accaduto in precedenza, sono stati richiamati con rigore alla qualità della propria vita cristiana. Questi atteggiamenti e una credibilità evangelica palpabile hanno permesso al papa passi insoliti: la predicazione a Lampedusa, davanti al mare, dove sono morti a migliaia i disperati in fuga dall’Africa e dal Medio Oriente; le canonizzazioni (27 apr. 2014) di Papa Giovanni XXIII, chiesta in concilio e mai conclusa, e di Giovanni Paolo II, tema posto durante il conclave, e la beatificazione di Paolo VI (19 ott. 2014); la gestione tutta spirituale di eventi di massa come la giornata della gioventù a Rio de Janeiro dell’agosto 2014; l’annuncio di un giubileo straordinario della misericordia e il doppio sinodo sulla famiglia del 2014-15.
Ma si sono manifestate attorno a Francesco anche prevedibili ostilità di diversa natura. Quelle plateali dei tradizionalisti sono scattate immediatamente, e si sono intensificate alla decisione papale di ridare alla morale, e in particolare alla morale coniugale e sessuale, uno statuto subordinato all’annuncio del Vangelo: l’opuscolame cartaceo e web based ha dunque riservato anche a papa Francesco la sequela di accuse (apostata, massone, anticristo ecc.) già usata contro vari predecessori, arrivando perfino a teorizzare un limite posto alla sua autorità dall’esistenza in vita del predecessore, il quale però non si è mai prestato a queste manovre. Le ostilità più sorde sono nate all’interno dello stesso episcopato, piuttosto resistente in diversi Paesi, fra i quali l’Italia, a far proprio l’impulso bergogliano e le sue priorità; e dentro il collegio cardinalizio che, specie nell’imminenza del sinodo del 2014, ha visto uscire allo scoperto una mezza dozzina di porporati con dichiarazioni sulla morale coniugale che a loro dire non presentava materia da discutere, come invece il papa aveva sostenuto.
Queste resistenze non hanno fatto massa critica nei primi due anni di pontificato: un gruppo di nove cardinali – dallo statuto indefinito, a mezza via fra un organo sinodale di comunione e un consiglio della corona di stampo politico, con funzioni meramente consultive – assiste infatti il papa nell’elaborazione di un progetto di riforma della curia, che avrebbe potuto catalizzare le resistenze o stroncarle, ma che il papa, fedele al principio filosofico secondo cui va data fiducia sia ‘al tempo che allo spazio’, non ha inteso accelerare.
Ortodossie. – L’ortodossia del primo Novecento ha visto muoversi due tendenze principali legate ai riassetti politici della curva che comprende Costantinopoli, Belgrado, Mosca, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria.
A Mosca la caduta del regime sovietico e l’uscita della Federazione russa dalla crisi dei primi anni Novanta hanno restaurato quella ‘sinfonia’ fra Cremlino e patriarcato che fa parte della storia russa: fra il 1990 e il 2008 il patriarca Alessio II (Aleksei Rüdiger, nato estone nel 1929) ha accompagnato la transizione dal decennale potere di Boris N. El′cin degli anni Novanta a quello di Vladimir V. Putin, il cui dominio pieno sulla politica russa dura dal 1999. La nuova Russia ha infatti favorito la pietà popolare, la ricostruzione di chiese e monasteri, e ha frenato con una legislazione contro il proselitismo la presenza di predicatori sia di altre Chiese sia delle gerarchie delle Chiese stabilite. Dopo la morte del patriarca, il 5 dicembre 2008, il santo sinodo elesse a gennaio 2009 Cirillo I (Kiryl, al secolo Vladimir M. Gundjaev, n. 1946), già metropolita presidente del dipartimento delle relazioni esterne della Chiesa russa, e per questo ben noto in tutte le Chiese non ortodosse (aveva conosciuto personalmente Ratzinger). Dal 31 marzo 2009 il suo posto come capo del Dipartimento per le relazioni esterne è stato assunto da Hilarion Alfeyev (al secolo Grigorij V. Alfeyev, nato a Mosca nel 1966), giovane metropolita di Volokalamsk, che ha interpretato un mandato sinodale molto chiaro: cioè mostrare l’autonomia di giudizio della Chiesa russa, anche a costo di prendere posizioni diverse dove non esistevano ragioni teologiche o disciplinari oggettive e spesso a prezzo di gravi conflitti infraortodossi emersi soprattutto nel dialogo con Roma e contro Costantinopoli.
Il patriarca Bartolomeo I ha infatti dovuto gestire da posizioni politicamente più deboli questo nuovo protagonismo russo che si è manifestato sia in questioni canoniche relative all’Estonia e all’Ucraina sia in questioni ecumeniche, facendo mancare la concordia teologica ortodossa in diverse sessioni della commissione di dialogo fra Chiese ortodosse e Chiesa cattolica. Il punto teologico di dissenso riguarda non tanto il primato di Roma, ma la stessa categoria di protos. Le Chiese in comunione con Costantinopoli si sono dette disposte ad accettare quello del papa, se esercitato nelle forme del primo millennio come promesso da papa Francesco nel novembre 2014, sulla base degli studi del teologo John Zizioulas, che teorizza la necessità per la sinodalità effettiva di un protos (ispirata alle antiche Costituzioni apostoliche, Canone degli apostoli nr. 34) che la animi e la solleciti; Mosca, che vi vede un’esaltazione indebita della funzione primaziale di Costantinopoli, ha reagito in modo formale negando, nel sinodo del Natale 2013, che la fede possa riconoscere un alto protos se non il Cristo.
Nel corso di queste discussioni molte Chiese ortodosse del Medio Oriente e diverse Chiese orientali non in comunione con Costantinopoli hanno però dovuto misurarsi con questioni più drammatiche, come lo stato di guerra perpetua in ῾Irāq, che ha portato alla fuga dal Paese di oltre i due terzi dei fedeli cristiani caldei e di altre confessioni; la guerra latente in Libano, che ha ridotto la presenza cristiana anche lì; e soprattutto la guerra civile in Siria, che ha portato al sequestro di metropoliti, all’uccisione e alla pulizia etnica di cristiani delle più diverse obbedienze, facendo precipitare di quattro quinti il numero di fedeli rimasti nelle città dove erano insediati storicamente da secoli e dove proprio l’islam aveva permesso a Chiese minoritarie di sopravvivere.
Comunione anglicana. – Anche la Chiesa d’Inghilterra ha avuto una rinunzia importante all’inizio del 20° sec. con le dimissioni di Rowan Williams (n. 1950), arcivescovo di Canterbury dal 2003 al 2012, al quale è succeduto Justin Welby (n. 1956). Durante i primi lustri del secolo la Chiesa d’Inghilterra e la comunione anglicana sono state in una situazione di tensione per una disputa sulle ordinazioni presbiterali ed episcopali. Mentre l’ordinazione di una donna prete risale al 1944 in modo episodico e agli anni Settanta in modo più diffuso nelle varie Chiese, dal 1992 anche la Chiesa di Inghilterra legiferò in tal senso, con l’esito di registrare, a inizio 21° sec., una donna ordinata ogni cinque nuovi preti; invece, l’ordinazione di donne vescovo, iniziata nel 1989 dalla Chiesa episcopaliana del Massachusetts, è stata accolta dalla Chiesa d’Inghilterra fra il 2010 e il 2014.
Gruppi di fedeli e di chierici, renitenti a questa legislazione, sono passati al cattolicesimo romano (Benedetto XVI con la costituzione apostolica del 4 novembre 2009, Anglicanorum coetibus, ha permesso a preti e vescovi sposati l’esercizio delle prerogative del ministero e della giurisdizione nella Chiesa latina): con loro hanno cambiato confessione, o dichiarato la propria distanza da Canterbury, i gruppi contrari all’ordinazione di persone omosessuali e alla celebrazione di nozze fra persone dello stesso sesso. La conferenza di Lambeth del 2003 aveva aperto una discussione molto aspra su questo tema e nel 2004 furono pubblicati gli Atti della Conferenza (Windsor report), che condannavano gli atti d’amore degli omosessuali, anche se in molte Chiese il dibattito proseguiva. Nel 2008 un gruppo di vescovi boicottò la conferenza di Lambeth riunendosi a Gerusalemme in una Conferenza alternativa. L’ordinazione nel 2010 a Los Angeles di Mary Douglas Glasspool, prima donna omosessuale a essere ordinata vescovo della Chiesa episcopaliana, ha accresciuto il dibattito, con le Chiese africane su posizioni più ostili rispetto alle Chiese del Nord del mondo.
Evangelici e riformati. – Le Chiese evangeliche (luterane nel gergo comune) vivono in una reciproca autonomia e in comunione nella confessione di fede, con specifici settori, come quelli del dialogo e dell’azione umanitaria, che agiscono attraverso una Federazione mondiale, presieduta dal 2003 al 2010 da Mark Hanson (n. 1946 ), vescovo della sua città natale dopo una lunga carriera accademica, e dal 2010 da Munib Younan (n. 1950), firmatario nel 2006 della dichiarazione delle autorità religiose della città santa contro il ‘sionismo cristiano’ propugnato da Chiese evangelicali e fondamentaliste, in cui i capi cristiani della città santa vedevano un indiretto sostegno alla politica della destra religiosa israeliana sulle occupazioni. Younan – l’unico presidente non euroamericano, oltre a Josiah Kibira fra il 1977 e il 1984, ad aver presieduto la Federazione – ha rappresentato i 72 milioni di luterani in diversi incontri ecumenici e ha partecipato insieme al patriarca, a Shimon Peres e ad Abu Mazen alla preghiera per la pace convocata da papa Francesco in Vaticano l’8 giugno 2014, pochi giorni prima che l’uccisione di tre ragazzi ebrei a Hebron e di un altro adolescente arabo a Gerusalemme scatenassero l’ennesimo conflitto fra Israele e Ḥamās nella città di Gaza.
Le Chiese riformate (comunemente dette calviniste) subiscono, dall’inizio del 20° sec., la concorrenza dei movimenti del New calvinism (ispirati, per es., alla militanza politico-religiosa di Abraham Kuyper, 1837-1920) di impronta spiritualmente puritana, politicamente conservatrice e teologicamente fondamentalista. Tuttavia il grande dinamismo che nasce dalle comunità calviniste si è riflesso anche negli organismi di coordinamento fra le Chiese, come la World alliance of reformed Churches e il Reformed ecumenical council, noto per la sua posizione ostile all’ingresso dei calvinisti nel Consiglio ecumenico delle Chiese all’inizio degli anni Cinquanta. Con una lettera comune dei due presidenti Clifton Kirkpatrick e Douwe Visser, il 1° febbraio 2006 le due organizzazioni si sono fuse nella World communion of reformed Churches, che rappresenta circa 80 milioni di fedeli e riunifica presbiteriani, calvinisti e congregazionalisti in un’entità che è la terza del mondo cristiano per numero di fedeli rappresentati. Averne fissato a Ginevra la sede del Consiglio ecumenico delle Chiese, che come organo del dialogo multilaterale soffre una perdita di rappresentatività, evidenzia un impegno nel dialogo ecumenico che ha il suo maggiore esempio nella tenuta della Concordia di Leuenberg, l’accordo teologico e pastorale del 16 marzo 1973 che stabilisce il riconoscimento dei ministeri, la comunione di fede e l’intercomunione nei sacramenti fra un numero di Chiese luterane e calviniste, alle quali si sono aggiunti nel 1994 i metodisti.
Questa esperienza di comunione, senza precedenti, si distingue dai numerosi dialoghi ecumenici sia bilaterali sia multilaterali degli ultimi decenni. Se il capitale accordo sulla giustificazione, siglato dalla Federazione luterana mondiale e dalla Chiesa cattolica il 31 ottobre 1999, pur prevedendo l’immunità dell’una dalle condanne del Concilio di Trento e dell’altra dalle condanne dei riformatori, non ha prodotto alcuna conseguenza sul piano della comunione, Leuenberg, invece, basato su una sintetica chiarificazione dottrinale, ha ottenuto un’intercomunione di predicazione, sacramenti e ministero che per la prima volta ricuce in modo stabile lacerazioni secolari. Similmente, in Italia, l’accordo fra valdesi e metodisti del 1979 ha prodotto un’unificazione stabile che nei primi lustri del 21° sec. si deve confrontare con il dinamismo missionario di nuove comunità evangelicali e pentecostali, destinate a cambiare le proporzioni interne al protestantesimo italiano.
Le Chiese perseguitate. – La distinzione confessionale che permane fra le grandi Chiese stabilite e le contrappone al fermento di Chiese pentecostali e profetiche o di Chiese libere, che in termini di crescita sono la prima esperienza cristiana del pianeta, è dunque un tratto distintivo fra i cristiani, anche nei quadranti del mondo più popolosi e più interessanti (Cina, India, Africa, Corea, Filippine) per il domani del c., nei quali abitano minoranze cristiane piccole rispetto alla popolazione, ma in quanto tali assai vaste (nel 2014 il numero di cinesi che è andato a messa la domenica in una chiesa cattolica è stato doppio rispetto a quello degli italiani).
La distinzione fra Chiese stabilite ed evangeliche latu sensu non sembra interessare solo i piccoli gruppi di milizie musulmane che hanno adottato una lettura bellicosa e violenta dell’islam e che, malgrado una tradizione di tolleranza islamica e il dettato del Corano, praticano una guerriglia terrorista su vasta scala contro i cristiani. I salafiti e Ǧamāat al-Islāmiyya (Gruppo islamico) in Egitto, l’ex GIA (Gruppo Islamico Armato) in Algeria, l’organizzazione terroristica jihādista Boko Haram in Nigeria, il fronte islamista radicale salafita al-Shabaab nel Corno d’Africa, Ansar al-Sharia nello Yemen, Ḥamās e Jaljalat a Gaza, al-Fatah e Ḥezbollāh in Libano, Ansar al-Islam nel Kurdistan, i gruppi che agitano ‘l’emirato del Causaso’ in Cecenia e nel Daghestan, le minoranze Uguri in Cina, i Ṭālibān in Pakistan, l’organizzazione terrorista Lashkar-e Taiba nel Kashmir, Abu Sayyaf nelle Filippine, nonché al-Qāida e l’ISIS di Abū-Bakr al-Baghdādī, hanno infatti minacciato e in molti casi aggredito e terrorizzato comunità, ucciso fedeli cristiani, aumentando il numero dei rifugiati e dei fuggitivi da una vasta area nella quale, durante l’impero ottomano, i cristiani al pari degli ebrei avevano vissuto in pace. Un’aggressione che colpisce anche fedeli musulmani, che rimangono concittadini pacifici e spesso vittime, al pari dei cristiani, delle campagne di un salafismo sanguinario: ma che pone alle Chiese il problema di come porsi davanti a chi, ignaro della loro cultura e storia, li guarda come corpo estraneo o come avamposto dell’Occidente da espungere. La possibilità infatti di una ‘reazione’ alle violenze o di una ‘reciprocità’ nei diritti agita il dibattito politico europeo, ma al momento non trova nessuna Chiesa disposta a farsene interprete se non, entro certi limiti, l’ortodossia russa; ma anche un atteggiamento di compassionevole nonchalance non soddisfa né le autorità né le comunità colpite da questa ondata di violenza che le guerre, iniziate da o per gli Stati Uniti dal 1980, non hanno coartato, ma semmai esaltato.
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