Cristo
Descriveremo e analizzeremo la figura e il tema di C. nelle opere di D., disponendole secondo il graduale sviluppo della cristologia dantesca che esse presentano. Un paragrafo conclusivo sintetizzerà i risultati dell'analisi.
Vita Nuova e Rime. - Nelle Rime D. non cita mai direttamente il nome di C. (se si eccettua Signor di Rime CV 4, e a meno che non si consideri la menzione poco riverente di LXXVII 11). Tuttavia a trentuno di esse, in quanto facenti parte della Vita Nuova, la narrazione e il commento in prosa in qualche modo conferiscono un senso cristiano, sia che si debba, almeno per alcune, a una intenzione precedente, sia che si debba del tutto al nuovo contesto. Tale senso cristiano risiede nel misterioso significato Attribuito a Beatrice, ravvisabile nel suo speciale rapporto col mondo soprannaturale e, in modo particolare, con C.; rapporto in parte suggerito da uno stile e da un linguaggio colmi di risonanze e allusioni bibliche e palesemente influenzato dall'agiografia del tempo, ma in parte anche dalla diretta relazione istituita tra la vita e la morte della gentilissima e la morte, resurrezione e ascesa alla gloria celeste di C. stesso. Questo stile tutto pervaso di ‛ sacro ' sta in funzione della correlazione Beatrice-C., la quale emerge da sola e chiaramente nella seconda metà dell'opera (dal cap. XXII). Beatrice è posta in relazione con C., in certo modo, sia come ‛ segno ' di lui, sia come ‛ via ' verso lui. Aspetto, quest'ultimo, mai apertamente dichiarato, ma che è implicito nell'effetto provocato in D. dalla morte di lei e dalla successiva ascesa in cielo. Cosicché l'intera azione s'impernia su due concetti fondamentali - quelli di ‛ segno ' e di ‛ esempio ' - e su un evento, la morte di Beatrice. Forse per chiarirne meglio le sottili implicazioni sarà bene porre il concetto di ‛ segno ' in relazione col termine gentile e i suoi derivati, e quello di ‛ esempio ' col termine beatitudine. In connessione con ambedue questi termini, amore (personificato fino al cap. XXIV) serve a collegare Beatrice - e quindi indirettamente anche D. - con Cristo.
La funzione di Beatrice quale segno o raffigurazione di C. - il suo speculum, per adoperare una metafora cara all'agiografia francescana e senza dubbio familiare a D. - ci viene suggerita in vari passi della prima metà dell'opera: in II 8 Ella non parea figliuola d'uomo mortale, ma di deo; in VII 3 (vv. 1-3), dove Amore dolente è posto in relazione con la morte di C. tramite la Bibbia e la liturgia (cfr. Ierem. Lament. 1, 12); in XII 3, dove Amore, apparendo a D. come uno giovane vestito di bianchissime vestimenta, richiama l'angelo presso il sepolcro di C. risorto (Marc. 16, 5); in XXIII 23-24 (cfr. anche § 5), dove la visione profetica della morte di Beatrice è riferita in toni riecheggianti la morte di Cristo. Ma tutto ciò diventa esplicito solo nel cap. XXIV. Ormai Amore è stato identificato con il cor gentil (XX 3) e Beatrice è gentilissima; questo prelude alla sua assimilazione ad Amore nel sonetto Io mi senti' svegliar (XXIV 7), che nel commento in prosa diventa un'assimilazione a C., la verace luce (§ 4; cfr. Ioann. 1, 9). Queste indicazioni sono avvalorate dalle risonanze epifaniche e mariane delle poesie del cap. XXVI 5 e 10, Tanto gentile (vv. 7-8) e Vede perfettamente (vv. 1-4; cfr. Cant. 6, 8; Gen. 30, 13; Luc. 1, 48). Infine, alla divina filiazione di Beatrice (cfr. II 8) vien dato, in XXIX 3, un senso accettabile per l'ortodossia che, al tempo stesso, conferma quanto in precedenza suggeriva l'idea di una Beatrice quale teofania o manifestazione del soprannaturale entro il mondo naturale (cfr. XXIX 3 con § 2). Un procedimento associativo parallelo è rintracciabile nel tema Beatrice-beatitudo, a partire da II 5, lungo i capitoli III e XI, fino a quella che, sotto l'aspetto morale, è la svolta decisiva della Vita Nuova (XVIII-XIX); laddove la decisione di D. di porre tutta la sua beatitudine in quello che non mi puote venire meno (XVIII 4, cioè la lode per la sua donna), da un lato sembra echeggiare il tema laudate-lauda dei salmi (altro potente motivo della tradizione francescana) e dall'altro sembra modellato sul topos della mistica cristiana di Luc. 10, 42 " Maria optimam partem elegit, quae non auferetur ab ea ". Ma il nesso tra il tema della ‛ beatitudine ' e la funzione di Beatrice quale via verso Dio, diventa chiaro solo nella seconda metà dell'opera, dal cap. XXIII alla fine. Questo nesso è costituito dalla morte di lei: ella che è stata la beatitudine di D. in terra, ora lo è nel secol novo insieme con Dio, angeli e beati (XXXI Li occhi dolenti; XXXIII-XXXIV). Per di più ella, passando attraverso la morte, l'ha trasformata da villana (VIII 8) in dolcissima (XXIII 9), e se ciò trova esplicita ragione nella sua umiltà nell'accettare la morte (XXIII 26-27), implicitamente tuttavia si giustifica col terminus ad quem del suo viaggio oltre la vita, vale a dire la figura svelata di C. la quale vede [ora, dopo la morte] la mia donna gloriosamente (XL 1). Inoltre, proprio in quanto rimane fedele a lei, anche D. può compiere, in spirito (lo peregrino spirito del sonetto finale, XLI 11 8), il medesimo viaggio. E certamente voluta è la corrispondenza tra i peregrini di XL 1-2, che si mettono in viaggio verso Roma per vedere l'immagine di C. impressa sul velo della Veronica, e lo peregrino spirito che, nel capitolo seguente, si avvia verso il cielo per contemplare Beatrice che sta, anch'essa, contemplando C. svelato. Ciò che l'imagine benedetta sul velo è per quei pellegrini, per D. è l'immagine di Beatrice nella sua mente - il pensiero, cioè, di lei come gloriosa in cielo (il cotale pensare di XLI 7); in realtà un'immagine del bene ultimo, di C. come beatificatore della ‛ Beatrice ' (cfr. il gioco di parole benedetta-benedictus con cui termina il libro: XLII 3).
La Vita Nuova rappresenta, in scala ridotta, un paradigma del cristianesimo di D.; essa contiene in nuce la stessa combinazione di fede e di sensibilità individuale che troveremo, molto più ampliata e arricchita, nella Commedia. Né la sua importanza, al riguardo, verrebbe diminuita, qualora si riuscisse a dimostrare che essa fu composta come puro esercizio in un particolare stile, e che il suo linguaggio religioso sia stato mero " colore rettorico " (C.G. Hardie). Ciò che importa è quanto l'opera obiettivamente presenta: un complesso di concetti e di atteggiamenti incentrati su un'esperienza terrena che è anche religiosa, in quanto il suo oggetto si trova in un determinato rapporto con Cristo. La natura di tale rapporto non è definita con chiarezza nel libro (non lo sarà neppure nella Commedia): basterà forse dire che in Beatrice D. vede un qualche " esempio di ‛ conformità ' a Cristo, quale suo ‛ specchio ' " (Branca). E C. stesso, nella Vita Nuova, è visto (sempre in rapporto a Beatrice) principalmente sotto tre aspetti: come la verace luce del mondo (XXIV 4); come colui lo quale non negoe la morte a sé (XXII 1) e come l'oggetto della conoscenza divina beatificante (XL 1). E questi aspetti di C. sono quelli per i quali D. mostrerà sempre il maggiore interesse, unitamente a un altro aspetto che, come vedremo, più tardi poté solo cominciare ad affrontare.
Convivio. - La presenza di Beatrice nel Convivio è marginale e, dopo il trattato II, ignorata per proponimento (II VIII 7). Essa è collocata a un livello più alto, lontana dagl'immediati interessi di D. per la filosofia, simboleggiata da un'altra donna. Cosicché, inevitabilmente, la presenza di C. in quest'opera è marginale. La fede in lui rimane; nei momenti importanti dell'argomentazione la sua autorità è invocata con devozione e calore; ciò nonostante il principio animatore del Convivio non è la fede, ma la fiducia nella ragione, e non la ragione ‛ ancella ' dei teologi, bensì la ragione dei filosofi, libera e liberante, capace di rendere l'anima stessa veramente donna (IV II 17). Per la verità, in complesso, la presenza di C. nel Convivio è principalmente in funzione degl'interessi terreni di D. filosofo, sia implicitamente che esplicitamente.
Qui il tradizionale rapporto tra filosofia e teologia viene - forse inconsciamente - rovesciato in misura notevole: in questo caso è la teologia o la sacra Scrittura, sua fonte principale, ad assumere il ruolo di ancilla. Non che vi sia alcuna intenzione di sminuire le cose del cristianesimo: se D. fu indotto a prendersi certe libertà col nome e l'autorità di C., si trattò di un entusiasmo spirituale che comprendeva - pur se nel contempo in qualche modo se ne serviva - quel nome e quell'autorità.
Un esempio lampante è rappresentato dal paragonare il suo scrivere di filosofia in volgare a quello pane orzato, nutrimento di C. alle moltitudini e - ancor più audacemente - all'illuminazione del mondo da parte del Verbo incarnato: Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale... darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade (I XIII 12; cfr. Matt. 4, 16; Luc. 1, 78-79). Questa è una pura iperbole nata dall'entusiasmo, non certo un atto di profanità; nel caso peggiore soltanto una mancanza di buon gusto. Ma naturalmente il più delle volte nel Convivio l'entusiasmo di D. ha un'influenza ben maggiore dello stesso risultato; il suo principale oggetto è l'intelletto come tale, in quanto capace di filosofare e di essere in tal modo partecipe de la divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia (III II 14). Ma questo intellettuale, entusiasta è anche un colto e sincero cristiano; è naturale quindi che glorifichi la filosofia trasponendo e applicando termini tratti dalla teologia cristiana e, in particolare, dall'idea del divino Logos eternamente " apud Deum " (Ioann.1,1), creatore e ordinatore di tutte le cose " in mensura et numero et pondere " (Sap. 11, 21): O ineffabile sapienza che così ordinasti...! (Cv III V 22). La lode che D. fa della filosofia non poteva non essere una lode di Dio (III XII 12-13) - specialmente sotto l'aspetto del Verbo o della scienza divina - che creò ogni cosa (III XV 16; cfr. II XV 12, III XIV 7, IV XXX 6) e che per manifestare ancor più la sua bontà in vostra similitudine venne a voi (III XV 17). Ma questo riferimento all'incarnazione è pur sempre incidentale.
L'andamento dei tre primi trattati, e in maniera diversa anche del quarto, è solo indirettamente cristiano. Senza ignorare - per non dire escludere - C., esso tende a congiungere l'uomo con Dio più per mezzo della filosofia e dell'umana virtù, che per mezzo di lui. La divinità ed eternità del Logos, come abbiamo visto, è vigorosamente affermata; l'incarnazione è soltanto accettata o presupposta. Sia quell'affermazione che quest'accettazione servono allo scopo del trattato, che è l'esposizione e la lode della filosofia e della virtù; ma lo fanno in maniera diversa.
Le principali affermazioni dell'eternità del Logos ricorrono negli ultimi quattro capitoli del terzo trattato (precedute da II XV 11-12 e richiamate in chiusura del quarto trattato) e la loro funzione è, da un lato, quella d'indicare nella scienza divina, nella filosofia in quanto massimamente è in Dio (III XII 12), l'archetipo perfetto di ogni filosofia tra le creature intelligenti, siano angeli o uomini (XII, XIII, XIV 1-10); dall'altro quella d'indicare in questa divina perfezione della filosofia la meta ideale di ogni desiderio intellettuale, prima in Dio stesso (XII 12) e poi nelle menti create (XIII 3, XIV 7-9, XV 3-5). Per quanto riguarda l'incarnazione, quello che evidentemente interessa più D., nel Convivio, è l'aspetto dottrinale di C. venuto come maestro, a impartire la dottrina veracissima a coloro che altrimenti sarebbero ne la tenebra de la ignoranza mondana (II VIII 14). Di una dozzina di allusioni a C. uomo, otto - direttamente o no - lo riguardano in quanto maestro. Di queste, due (II I 5, IV XVI 10) sembrano puramente incidentali, ma le altre (sebbene anch'esse fatte di sfuggita) diventano più significative se considerate come recate a conferma di questioni di filosofia e di etica che erano per D. cruciali. Così il monito di C. contro l'amore per le ricchezze (IV XI 12; cfr. XXVII 8); così pure il suo ‛ legato di pace ' ai discepoli (Ioann. 14, 27), interpretato come sostegno della concezione di D. sulla differenza tra filosofia e teologia (II XIV 19); o ancora, il più tradizionale uso di un detto di C. (Luc. 10, 41-42) per celebrare la superiorità della vita contemplativa su quella attiva (IV XVII 10, confermato dalla narrazione della resurrezione in termini di sorprendente allegoria in XXII 14-17). In un altro caso (IV XXIII 10) la morte di C. è citata a conferma di una tesi di filosofia naturale che, in quel momento, l'argomento di D. richiedeva. Ma se tutte queste allusioni all'autorità di C. sono relativamente prive di enfasi (eccetto forse quella indiretta di IV XXII 14-17), in altri due luoghi quest'autorità è introdotta con marcata solennità: a proposito dell'esistenza degli angeli (II V 1-5) e a proposito dell'immortalità dell'anima (II VIII 14). Dal nostro punto di vista, l'importanza di ambedue questi passi consiste nel modo in cui sottolineano due caratteristici aspetti del cristianesimo di D.: il suo considerare la rivelazione cristiana come quella che supplisce ai difetti della filosofia, nel senso che dà certezza e chiarezza alle verità che la ragione priva d'aiuto può vedere - se mai - solo con ombra d'oscuritade (II VIII 15; cfr. III XV 6); e in secondo luogo (e ciò si riferisce particolarmente al passo sull'immortalità) la sua insistenza, tutta personale, sulla ‛ ultramondanità ' del fine ultimo cristiano, teso essenzialmente a una vita eterna e trascendente. Indubbiamente l'importanza che per D. rivestiva questa ‛ trascendenza ' del cristianesimo, sia rispetto alla conoscenza umana che ai fini terreni, spiega come mai egli metta in risalto l'autorità di C. in questi due passi, e specialmente nel primo: Ma noi semo di ciò [la verità intorno alle creature spirituali] ammaestrati da colui che venne da quello [Dio], da colui che le fece, da colui che le conserva, cioè da lo Imperadore de l'universo, che è Cristo, figliuolo del sovrano Dio e... uomo vero, lo quale fu morto da noi, per che ci recò vita. ‛ Lo qual fu luce che allumina noi ne le tenebre ', sì come dice Ioanni Evangelista, e disse a noi la veritade di quelle cose che noi sapere sanza lui non potavamo, né veder veramente (II V 2-3). C. creatore, redentore e maestro, dunque. Ma nel contesto generale del Convivio il primo e l'ultimo di tali attributi hanno maggior risalto del secondo, e l'ultimo, forse, più del primo. E significativo che D., venendo a parlare dell'immortalità dell'anima, alteri, adattandola al senso del suo discorso, l'espressione giovannea " Ego sum via et veritas et vita " (Ioann. 14, 6), in II VIII 14 Ancora, n'accerta la dottrina voracissima di Cristo, la quale è via, verità e luce: via, perché per essa sanza impedimento andiamo a la felicitade di quella immortalitade; verità, perché non soffera alcuno errore; luce, perché allumina noi ne la tenebra de la ignoranza mondana.
Il C. del Convivio, quindi, è soprattutto il Logos eterno che, come uomo, ci ha insegnato le verità che oltrepassano le capacità della ragione. Sostanzialmente si tratta del medesimo C. della Vita Nuova, la cui visione sarebbe stata beatitudine celeste e le cui parole su questa terra sono verace luce. In questo caso, però, la sua intermediaria Beatrice è scomparsa dalla vista e la morte di lui ha un rilievo molto minore. D'altro lato, nella mente di D. comincia a farsi luce un nuovo aspetto di C., che lega l'incarnazione alla storia e all'Impero di Roma. Il tema è appena sfiorato nel Convivio (IV V 3-9), ma in termini già carichi del significato del secondo libro della Monarchia (E tutto questo fu in uno temporale, che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia... Per che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio per lo nascimento de la santa cittade che fu contemporaneo a la radice de la progenie di Maria, § 6).
De Vulgari Eloquentia ed Epistole. - Le uniche due allusioni a C. contenute nel De vulgari Eloquentia riguardano la sua divinità in quanto Verbo - opportunamente invocata in apertura d'opera (I I 1) - e la sua umanità, in quanto si servì dell'ebraico, la lingua gratiae che, data da Dio ad Adamo, fu preservata dalla confusio di Babele, proprio perché il Redemptor noster doveva parlarla. Altro esempio di adattamento della materia ‛ sacra ' a una tesi personale, simile a quelli già notati nel Convivio. Le Epistole (che in questa sede converrà considerare in blocco, senza sollevare questioni di cronologia) offrono spunti di maggiore interesse.
Lasceremo da parte le Ep I, II, IV, e per la III (a Cino da Pistoia) noteremo soltanto la citazione delle parole consolatrici di C. (§ 8; cfr. Ioann. 15-19), parole stranamente fuori posto in una lettera sulla passione amorosa. Ci soffermeremo invece sulle tre Epistole politiche (V-VII), che sviluppano in modo assai notevole il tema del rapporto di C. con Roma e l'Impero.
L'imperialismo di D. costituiva una visione della società e della storia, a un tempo politica, religiosa e cristiana: politica, in quanto per D. l'Impero era un requisito civilitatis humani generis (Mn I II 8); religiosa, in quanto l'autorità imperiale dipendeva direttamente da Dio; cristiana, in quanto l'Impero di Roma, come fatto storico, era sia richiesto che autorizzato dalla missione del Verbo incarnato. Tali concetti sono tutti chiaramente visibili nelle Ep V-VII, ma specialmente quelli riguardanti l'Impero come fatto storico, aspetto questo che coinvolgeva per giunta il cristianesimo. La ‛ pax romana ' sotto Augusto fu un segno manifesto della divina provvidenza (V 26); C., parlando come Uomo-Dio, confermò l'autorità di Cesare (V 27 sibi et Caesari universa distribuens; cfr. § 22 e Matt. 22, 21), autorità che de facto aveva già riconosciuto nell'infanzia col sottomettersi al censimento dei Romani e che lui, Lux nostra, il giorno della sua morte, in piedi di fronte a Pilato, asserì essere di origine divina: de sursum esse asseruit quod ille iactabat qui Caesaris ibi auctoritate vicaria gerebat officium (V 28). In genere C. è rappresentato come Dio reggitore della giustizia terrena, cioè - in concreto - dell'autorità imperiale (VII 14).
Tanto stretta è questa connessione tra C. e l'Impero, che D in queste lettere viene indotto (molto più che nella meno retorica Monarchia) a un'audace e persistente trasposizione da C. all'imperatore dei titoli messianici di origine scritturale e liturgica. L'Epistola V (2-5), che saluta l'arrivo in Italia di Enrico VII, è tutta intessuta di espressioni messianiche tratte da Isaia, i Vangeli e s. Paolo. Enrico è il sole nascente che giunge nel ‛ tempo propizio ' (§ 2; cfr. Rom. 13, 12, II Cor. 6,2), il novello Mosé, lo ‛ sposo ', la gloria plebis tuae, che l'Italia è chiamata ad accogliere con gioia (§ 5; cfr. Matt. 9,15; Luc. 2,32; Is. 66,10); e nelle ultime lettere, ispirate da collera e amarezza per l'opposizione incontrata da Enrico, l'imperatore diventa un vero e proprio " alter Christus crucifixus ", lui che ‛ portò i nostri dolori ' (VI 25; cfr. Is. 53,4) e persino l'Agnus Dei... qui tollit peccata mundi (VII 10). D. stesso parla in nome dell'umanità che soffre in vocem Praecursoris, come un altro Giovanni Battista (VII 7). È chiaro che da parte di D. non c'è, in tutto ciò, nessuna intenzione d'irriverenza verso C., o di sminuire l'unicità della sua missione redentrice. Eppure il linguaggio - particolarmente con quell'Agnus Dei - trascende i limiti della pietà, e forse persino dell'ortodossia. Può darsi che D., più tardi, si sia rammaricato di esser andato così oltre: fatto sta che nella Monarchia il suo ‛ messianismo ' imperiale è espresso con maggior temperanza, mentre nella Commedia tutti i titoli denotanti la funzione di salvatore e redentore sono riservati rigorosamente a C. soltanto.
Lasciando da parte le Ep veniamo ora alla gran lettera ai cardinali italiani (XI), la più splendida espressione in prosa della fede di D. in C. e nella Chiesa, il corrispettivo in prosa di quei passi dedicati alla Chiesa, via via ritornanti dalla chiusa del Purgatorio lungo tutto il Paradiso. Qui C. è veduto soprattutto come il fondatore della Chiesa e l'esempio morale (poi futuro giudice) dei suoi membri, specialmente del clero più elevato (XI 5). Il tema è tutto costruito intorno a una complessa metafora (C. è lo sponsus della Chiesa che al tempo stesso è il suo currus, §§ 5-6) e a tre episodi del Vangelo: C. che affida il suo gregge alle cure di Pietro (§ 3; cfr. Ioann. 21, 15-17); la cacciata dal Tempio (§ 6; cfr. Ioann. 2, 14-15 e passi paralleli) e il dono della vista al cieco dalla nascita (§ 10; cfr. Ioann. 9 passim). Qui D. ha trovato davvero il linguaggio e i termini di riferimento finalmente appropriati, in cui parlare sia come devoto figlio della Chiesa militante (§ 15; cfr. Mn III III 18, Pd XXV 52-53), sia come riformatore di essa. Il suo atteggiamento è un misto di due sentimenti, ambedue intensamente sentiti: l'amore per la Chiesa e l'odio per i suoi attuali governanti. Atteggiamento che trova la sua completa giustificazione nel Nuovo Testamento, e il suo ‛ modello ' perfetto nello Sposo e Signore che rappresenta a un tempo l'amore e la giustizia di Dio. Si noti però che il tema politico di Roma, sebbene alquanto attenuato, è comunque presente, specialmente dietro l'immagine della città cui, post tot triumphorum pompas, et verbo et opere Christus orbis confirmavit imperium (§ 3).
La lettera a Cangrande (XIII) contiene solo cinque accenni a C.; essi tuttavia sono sufficientemente danteschi in contenuto e tono, per non rendere alcun servigio a coloro che ne negano l'autenticità. La chiosa a In exitu Israel de Aegypto (§ 21) riassume in termini più concreti l'allegorizzazione offertane in Cv II I 7. In due luoghi si allude a due momenti della glorificazione di C.: la trasfigurazione (§ 80; un episodio del Vangelo sempre prediletto da D.: cfr. Cv II I 5, Pg XXXII 73-81, Pd XXV 32-33, Mn III IX 11) e l'ascensione (§ 76; a essa perviene, e un po' sorprende, tramite s. Paolo Ephes. 4, 10 piuttosto che tramite Act. Ap. 1,9, che è la fonte parziale di Vn XXIII 7; cfr. anche Pd XXIII 118-120). Le sole reali parole di C. citate nella lettera (§ 82; cfr. Matt. 5,45) sono chiosate in un senso tutt'altro che ovvio, corrispondente a Ep XI 9-10 e, in genere, a quell'atteggiamento di sicurezza misto a umiltà che D. mostrerà lungo tutta la Commedia (cfr. If II 28-33, X 61, Pg XXXII 103-105, XXXIII 73-90, Pd XXII 106-108, XXVII 64-66). Infine, il passo di Ioann. 17,3, Haec est vita aeterna (§ 89), è addotto a sostegno dell'intellettualistica tesi secondo cui la beatitudine finale consiste in sentiendo veritatis principium, coerentemente con la dottrina enunciata, un po' enfaticamente, in Pd XXVIII 106-111. Prima di passare alle opere maggiori, è da notare l'unica allusione a C. di Quaestio 77, che è una caratteristica chiosa alle parole " quo ego vado vos non potestis venire " (Ioann. 13, 33); caratteristica in quanto torna a porre l'accento, come già nel Convivio, sulla trascendenza, rispetto alla ragione umana, della soprannaturale verità ‛ divina '.
Monarchia. - Il trattato politico di D. è ricco di idee teologiche espresse con estrema concisione: il terzo libro, in realtà, è un piccolo trattato de Ecclesia.
Il primo libro, dal nostro punto di vista, è semplicemente preparatorio. Esso non fa altro che associare C. all'idea, fondamentale, della pace (pace in generale e ‛ pax romana ' in particolare), e questo in tre modi. Prima di tutto, associando la nascita di C. alla pace, mediante il coro angelico che l'aveva accompagnata (IV 3; cfr. Luc. 2, 14), ma anche - con più stretta attinenza al trattato - mediante la condizione del mondo di allora, quando per la prima volta nella storia, dal peccato di Adamo in poi, il genere umano viveva felix in pacis universalis tranquillitate, secondo la concorde testimonianza dei poeti pagani e del Nuovo Testamento (XVI 1-2). In secondo luogo, citando due detti di C. per mostrarne lo stretto rapporto con la pace: dapprima il saluto " Pax vobis " da lui stesso usato e trasmesso, ai discepoli (IV 4), poi il monito solenne " Omne regnum in se divisum desolabitur " (V 8; cfr. Matt. 12, 25). In terzo luogo, associando la personalità di C. alla pace, mediante il toccante riferimento a s. Luca quale scriba mansuetudinis Cristi (XVI 2; cfr. II Cor. 10, 1; Matt. 11, 29).
L'idea dominante del secondo libro è che il popolo romano, conquistando il mondo, ha fatto la volontà di Dio. Prova di ciò sono i ‛ segni ' divini che ne accompagnarono la storia e soprattutto il ruolo giocato da l'Impero romano nella redenzione dell'umanità. L'alto Figlio / di Dio e di Maria (Pd XXIII 136-137) non nacque forse suddito dell'Impero e non morì in seguito a una sentenza emessa da un giudice romano? In tutto questo, senza dubbio, è racchiuso il complesso d'idee e di immagini che sta al fondo del linguaggio ‛ messianico ' delle epistole politiche riguardanti l'imperatore Enrico VII; ed è certamente per analogia che qui, in II I 1-4, l'imperatore è nuovamente chiamato ‛ Cristus '. Il resto del libro è un'esposizione sistematica dei ‛ segni ' divini nella storia di Roma, di gran parte dei quali non occorre occuparci. Va comunque notata, seppur brevemente, la discussione del cap. VII sui modi e i gradi secondo cui gli iudicia Dei possono venir percepiti
e compresi dagli uomini. Qui infatti D. arriva a toccare quella che per lui era una delle maggiori difficoltà nell'accettare il cristianesimo: il dogma secondo il quale nessun uomo, per quanto buono umanamente, può salvarsi senza fede in Cristo. Egli menziona la difficoltà ma passa subito oltre, osservando semplicemente hoc ratio humana per se iustum intueri non potest, fide tamen adiuta patest (II VII 5). La carica di sentimento e di fede, che sta dietro la sobrietà di questa frase, verrà fuori soltanto in Pd XIX-XX. Per il momento il suo maggiore interesse è per un altro argomento. I capitoli cruciali del secondo libro - il X e l'XI - espongono la tesi veramente centrale della sua ‛ romanità ': C., sottomettendosi all'autorità romana ai due estremi della sua vita mortale, ha dato la più piena e chiara sanzione divina del potere di Roma e dell'Impero. Nascendo, si sottomise al censimento ordinato da Augusto, moriendo, alla sentenza di Pilato, vicarius di Tiberio. Ma è da quest'ultimo atto di sottomissione che D. trae la sua più drastica e originale deduzione. La morte di C. fu la punizione del peccato dell'umanità, inflitta all'umanità nella sua persona; e perché quella punizione sortisse il proprio effetto di pieno soddisfacimento del peccato, erano richieste necessariamente due condizioni: la punizione doveva essere patita da un uomo che rappresentasse tutti gli uomini (cioè C.), e doveva essere inflitta da un uomo che rappresentasse tutti gli uomini, vale a dire da uno che avesse giurisdizione supra totum humanum genus, cioè - in concreto - da Caesar [lo iudex ordinarius del genere umano, l'imperatore] cuius vicarius erat Pilatus (XI 5). L'Impero trova così la sua precisa giustificazione nella fede cristiana.
La tesi del terzo libro, che l'Impero deriva la propria autorità direttamente da Dio, è argomentata principalmente in termini d'indipendenza dell'Impero dalla Chiesa. Cosicché oggetto principale del libro in realtà è la Chiesa, che non viene ritenuta né fonte e neppure, in quanto tale, detentrice d'autorità politica. Ciò coinvolge immediatamente C., fondatore e legislatore di essa. L'argomentazione di D. si svolge in tre successive fasi: dapprima, quanto alla natura della Chiesa, distingue ciò che le è essenziale dalle traditiones sopravvenute (III 9-17); poi, quanto alla sua fondazione, definisce i limiti dell'autorità conferitale da C. (VIII passim; cfr. III 7); infine, alla luce dell'esempio di C., definisce il giusto atteggiamento che la Chiesa dovrebbe assumere nei confronti del potere e dei beni temporali (X-XIV). Il tutto è posto tra due citazioni di C., una all'inizio e l'altra quasi a fine di libro, l'effetto delle quali è di sottolineare la concezione dantesca della vita cristiana: questa vita implica una sorta di martirio che segua l'esempio di C. (I 3), e il fine cui essa aspira è la visione della verità soprannaturale rivelata da C. (XV 9).
Solo questa terza fase dell'argomentazione contiene qualcosa su C., che merita un puntuale commento. In III 10-15, C. è il figlio di Dio in cui gli uomini hanno creduto sive venturum sive praesentem sive iam passum (§ 10; cfr. Pd XX 104-105); lo Sposo che ‛ conduce dietro di sé ' la Chiesa (cfr. Pg XXIX 108); il grande critico del legalismo farisaico che autorizza a un eguale atteggiamento i suoi seguaci (cfr. Ep XI 10). Non occorrerà soffermarci sul cap. VIII, che è un esame del testo su s. Pietro di Matt. 16, 17-19; il cap. IX, col suo giudizio pieno di umana simpatia per il carattere di Pietro, non dice nulla di considerevole su Cristo. In X 7, C. è chiamato fundamentum della Chiesa (cfr. I Cor. 3, 11); il ‛ dilectus ', su cui la Chiesa debet semper inniti (§ 8; cfr. Cant. 8, 5; Pd XIII 111). Il cap. XII ripete il tema di II X-XI, di C. nato e morto come un suddito dell'Impero, ma questa volta solo per provare che, Ecclesia non existente (§ 3), l'Impero aveva già la sua autorità. Il cap. XIII invece ci ricorda che C. sollevò i suoi sacerdoti dalla ‛ temporalium sollicitudo ' (§ 4). Giungiamo così al cap. XIV e a una frase che ci colpisce: Forma autem Ecclesiae nichil aliud est quam vita Cristi, tam in dictis quam in factis comprehensa (§ 3). Il contesto chiarisce il significato inteso da Dante. Egli sta dimostrando che la Chiesa deve rinunciare a ogni potere e giurisdizione temporale, e questo perché C. fece lo stesso; e lo fece esattamente in quanto ydea... et exemplar militantis Ecclesiae (ibid.) e specialmente di coloro che ne sono a capo. Perciò forma, nel testo citato, assume chiaramente il senso di " campione " o " modello " di azione, uno " schema "; il che è molto vicino al significato che il termine assume in Pd XXXIII 91, dove D. dice di aver visto in Dio la forma universal di questo nodo, cioè dell'universo creato (mentre in I 104-105 è l'ordine delle cose create a essere forma della loro somiglianza a Dio).
Ricapitolando, diremo che la concezione dantesca di C., così come l'abbiamo seguita finora, tende a convergere su tre aspetti o temi principali: quello di C. come ‛ maestro ' ed ‛ esempio ' durante la sua vita su questa terra, e come ‛ termine ultimo ', in cielo, del desiderio intellettuale. Nella Monarchia questo tema ‛ celestiale ' è soltanto accennato, mentre i primi due - e specialmente quello di C. come nostro esempio, ma in un senso tutto particolare - sono sviluppati in modo notevole. Il C. della Monarchia è soprattutto un esempio e un maestro rispetto alla politica. Egli, con la parola e l'azione, insegna alla Chiesa il giusto atteggiamento verso l'autorità civile e verso il potere e i beni temporali. Ma lo ha insegnato soprattutto col suo atteggiamento personale (nascendo et moriendo) nei riguardi dello ius humanum, cioè, storicamente, dell'Impero romano. Egli sanzionò quest'Impero col diventarne suddito e coll'accettarne le leggi e, così facendo, pose il suggello di Dio sul processo storico che quell'Impero aveva preparato e istituito. Dunque l'essenza dell'insegnamento dantesco su C., qual è sviluppato nella Monarchia, è contenuta in II X-XI e III VIII, X, XIV. Ma la sua più originale concezione è quella espressa in II X-XI, e che ritroveremo nella Commedia, sebbene - come vedremo - con una diversa prospettiva (che può avere o meno implicazioni cronologiche).
Inferno. - La regione del peccato, il cieco mondo (IV 13), offre poche occasioni di citare C., anche se tutto in esso ‛ fu fatto ' in origine da lui che è la somma sapienza, insieme al Padre (divina podestate) e allo Spirito Santo (primo amore, III 5-6), e anche se ne confermerà l'esistenza in eterno in quel giudizio finale, la gran sentenza (VI 104), che egli, la nimica podesta, pronuncerà contro I dannati (vv. 94-99). Tutto ciò è detto in principio di cantica, mentre alla fine di essa, quasi a distinguere nettamente la perfetta umanità di C. dalla perduta umanità dell'Inferno, si allude nuovamente a lui, in XXXIV 114-115, come a l'uom che nacque e visse sanza pecca e che morì (consunto fu) affinché il peccato non prevalesse sugli uomini suoi simili. Per il resto, nell'Inferno ci sono cinque allusioni esplicite alla passione di C., una al descensus ad inferos e una, collocata opportunamente nel canto dei papi dannati (XIX), alla fondazione della Chiesa. Il terremoto conseguente alla morte di C. (cfr. Matt. 27, 51) provocò per tutto il basso mondo un tremito che fu avvertito da Virgilio (XII 37-41) con un oscuro senso del suo significato (sentisse amor del v. 42), e che provocò sia la ruina che conduce ai sottostanti cerchi dei violenti (vv. 31 ss.), sia il crollo dei ponti sopra la bolgia degl'ipocriti, la sesta delle Malebolge (XXI 106-114, XXIII 133-138); ciò evidentemente per porre in risalto il nesso tra la crocifissione e la colpa del Sinedrio ebraico il cui capo, il sommo sacerdote Caifa, giace infatti disteso nella bolgia degli ipocriti crucifisso in terra con tre pali (XXIII 111). La morte di C. è inoltre implicita nella visione di Giuda in bocca a Satana (XXXIV 62-63) e nella parodia dell'Inno alla Croce di Venanzio Fortunato, " Vexilla regis prodeunt inferni... " (XXXIV 1). Secondo la tradizione C., dopo la morte, " descendit ad inferos " per liberare le anime dei giusti in attesa nel Limbo. D. ricorda questa tradizione in IV 53-54, dove Virgilio dice: ci vidi venire un possente, / con segno di vittoria coronato. Infine c'è l'amaro rammentare di D. a papa Niccolò III dannato, che C. fondò la Chiesa in povertà e in umiltà (XIX 90-93). In tutto l'Inferno queste sono le uniche parole dette da un cristiano in stato di grazia; di qui il titolo di Nostro Segnore (v. 91), dato a Cristo. Esse, naturalmente, richiamano anche l'insegnamento di Mn III X 14 e XIV.
L'Inferno descrive il mondo escluso dalla salvazione di Cristo. Al di fuori di esso, non toccati dalle pene infernali ma col loro proprio tormento d'insoddisfatto desiderio, stanno i pagani giusti (IV 40-42). Oltre di esso, nel regno della salvezza, stanno le anime del Purgatorio e del Paradiso; entro di esso c'è il regno - e in certo senso, il trionfo - della cupidigia, dell'ingiustizia, della violenza e della falsità; l'antitesi dell'Uomo, di Dio e dell'Uomo-Dio.
Purgatorio. - Ma qui la morta poesì resurga (I 7); nella seconda cantica richiami a C. ricorrono con una frequenza quasi pressante, l'influenza e il ricordo di lui sono dovunque. Converrà esaminare tutto questo materiale in due paragrafi, l'uno genericamente strutturale, l'altro dottrinale (anche se, beninteso, manca nel Purgatorio una formale trattazione su C., com'è invece nel Paradiso).
Aspetto strutturale. - Sarà bene ricordare che i canti centrali (X-XXVII) descrivono la purificazione dai sette vitia capitalia (cfr. Tomm. Sum. theol. I II 84 3-4) e seguono uno schema, ripetuto sette volte, articolato in una serie di exempla tratti dalla vita di Maria e dalle ‛ beatitudini ' (Matt. 5, 1-10), pronunciate dagli angeli delle varie cornici (v. BEATITUDINI EVANGELICHE). Gli episodi di Maria sono: l'annunciazione (X 34-35); le nozze di Cana (XIII 29); il ritrovamento al tempio (XV 88-92); la visitazione (XVIII 100); la natività (XX 19-24); di nuovo le nozze di Cana (XXII 142-143) e ancora l'annunciazione (XXV 128).
Essi non richiedono commento, salvo forse il rilievo che gli episodi di Cana e dell'annunciazione vengono replicati, e che invertiti - con caratteristica simmetria - aprono e chiudono la serie. Né occorrerà soffermarci sulle ‛ beatitudini '; noteremo soltanto che, di quelle elencate da Matteo, solo sei vengono usate, con l'esclusione della seconda e dell'ottava (l'omissione comunque appare insignificante). Risultato di questo accurato disegno di esempi ed esortazioni è la completa cristianizzazione dell'etica del Purgatorio, cosicché, in questo, è resa del tutto diversa da quella dell'Inferno, il cui fondamento era aristotelico. Altri due punti rilevanti quanto alla struttura sono: che questa serie di richiami a C. prelude all'ingresso del grifone, suo simbolo, in XXIX 106-108, e che la prima e l'ultima citazione di C. nel Purgatorio si riferiscono alla sua crocifissione (VI 118-119, XXXIII 63).
Aspetto dottrinale. - C. come riconciliatore dell'umanità con Dio. L'atto decisivo di questo processo fu la crocifissione, allorché il figlio di Dio in sé punio la colpa di Adamo (XXXIII 63). Come abbiamo visto, questa è l'ultima parola su C. nel Purgatorio che, se da un lato anticipa lo sviluppo teologico di Pd VII, dall'altro riassume l'insegnamento di Mn II XI, mentre naturalmente richiama e approfondisce la precedente allusione alla croce di VI 119, come pure quella di XXIII 73-75. Quest'ultimo passo è di particolare interesse. In VI 119, D. ha detto semplicemente che C. è morto per noi; veramente, con audace trasposizione dal linguaggio pagano, viene chiamato sommo Giove (v. 118), ma la crocifissione in sé è presentata in modo convenzionale. Non è- questo il caso del paragone di Forese tra il desiderio dei golosi di soffrire per la loro colpa e il desiderio della croce in C., ché quella voglia a li alberi ci mena / che menò Cristo lieto a dire ‛ Elì ' / quando ne liberò con la sua vena (XXIII 73-75), tocco splendido e drammatico nella sua audacia. C. s'è a tal punto identificato con noi, che la sua morte fu per noi vantaggio e per lui letizia. Per completare questo ritratto dantesco del C. sofferente, ricorderemo ancora due passi: l'Agnel di Dio che le peccata leva (XVI 18) e l'allusione all'incontro di C. risorto con i due discepoli sulla via di Emmaus (XXI 7-9; cfr. Luc. 24, 13-15). Il primo, nel contesto, funge da exemplum contro l'ira mala (cfr. XVII 69), ma anche della mansuetudo di C. (cfr. Mn I XVI 2, Tomm. Sum. theol. II II 157), poiché pone in risalto il fatto che egli mise in pratica il suo precetto ‛ Amate da cui male aveste ' (XIII 36), così come il suo emulo Stefano (XV 112-114). Il secondo (una delle rare allusioni di D. alla resurrezione) costituisce nel proprio contesto (l'incontro con Stazio) un ulteriore legame tra la sofferenza del Signore, nel suo aspetto trionfante, e quella delle anime del Purgatorio. Ma dietro tutti questi richiami all'opera e all'esempio di C., sta l'affermazione dello scopo fondamentale della stessa incarnazione: dall'angelo, Maria accettò - a vantaggio dell'umanità decaduta - il decreto / de la molt'anni lagrimata pace, / ch'aperse il ciel del suo lungo divieto (X 34-36); cfr. v. 42).
C. e Roma. - Il tema, esposto nella Monarchia, della sanzione data da C. all'autorità giuridica dell'Impero, costituisce l'implicito significato del coro in lode del grifone, perché non danneggia col becco l'albero della giustizia (XXXII 43-45), e della sua solenne risposta (le uniche sue parole): Sì si conserva il seme d'ogne giusto (v. 48). Come s'è visto, l'affermazione di XXXIII 63 richiama la dottrina della Monarchia sulla morte di C. (cfr. anche XXI 82-84); mentre la sua piena associazione con Roma è nuovamente messa in luce dalla rappresentazione del Virgilio dell'Ecloga IV come profeta dell'incarnazione, nelle parole rivoltegli da Stazio in XXII 64-72. E l'intero tema è contenuto in nuce in XXXII 102 di quella Roma onde Cristo è romano.
C. e la Chiesa. - L'immagine del grifone che trascina il carro (XXIX 107-108) simboleggia il giusto rapporto che deve intercorrere tra la Chiesa e il proprio fondatore ed esempio, come, in Mn III III 12; rapporto che il clero, colpevole, ha ignorato, sia disobbedendo all'esplicito comando di dare a Cesare quel che è di Cesare (VI 91-93), sia cercando bramosamente possessi e vantaggi temporali, tanto che ‛ puttaneggia con i re ' (XXXII 124-160; cfr. If XIX 108). Ciononostante la Chiesa mantiene ancora la propria autorità (III 136-141), e persino papa Bonifacio VIII, considerato come vicario di C., è visto come un ‛ alter Christus ' (XX 85-90).
C. come oggetto della beatitudine celeste. - Nel Purgatorio due aspetti di C. traspaiono in particolare: il maestro di un'etica assolutamente contraria ai sette vizi capitali, e il crocifisso. Ma, osservando più da vicino, ci si accorge che dietro questo ammaestramento e questa morte c'è un motivo dominante - una meta che sta oltre le imagini di ben... false perseguite da quei vizi, anzi addirittura oltre le presenti cose (cfr. XXX 131, XXXI 34-35), una meta alla quale C. non solo ci conduce, ma con la quale in certo modo s'identifica: quel fine ultimo che egli indica è lui. Per rilevare ciò, basta, prima di tutto, dare un rapido sguardo ad alcuni detti di C., citati o impliciti lungo la cantica, e poi, con maggior chiarezza, prendendo in considerazione due apparizioni di C. quasi alla fine. I detti citati indicano tutti il ‛ futuro ', indicano uno stato di gloria celeste oltre ai vincoli della carne e della vita temporale. Il ‛ Neque nubent ' di XIX 137 e il ‛ Venite, benedicti... ' di XXVII 58, si riferiscono direttamente alla condizione dei beati dopo il giudizio. Le parole di D. di XXI 1-3, piene di brama intellettuale, identificano l'appagamento della sete spirituale col bere l'acqua d'eterna vita, promessa da C.; mentre le parole di Beatrice di XXXIII 10-12 (‛ Modicum... / et iterum... modicum... ') che echeggiano parole dette da C. prima della passione (Ioann. 16, 16), sebbene forse vogliano in parte significare una profezia sul ritorno da Avignone della Santa Sede (Vandelli, Pézard), sicuramente sono anche un riferimento allo stato di gloria di C. dopo la resurrezione, quello stato che egli guadagnò per sé, allo scopo di dividerlo con noi (Ioann. 17, 22-24). Orbene, cos'altro potrebbe essere questa gloria se non la rivelazione, alle menti create, della ‛ divinità ' del Verbo incarnato? E senza dubbio proprio a tale rivelazione è rivolto il senso della similitudine della trasfigurazione in XXXII 73-81: sulla montagna i tre apostoli videro la glorificazione della carne di C. (i fioretti del melo, v. 73), a un tempo segno della sua divinità e pegno della visione di essa, visione che avrebbero condiviso con gli angeli (che del suo pome li angeli fa ghiotti, v. 74). Implicitamente, questa è un'anticipazione della felicità celeste, che prosegue e conferma quella concessa per breve tempo a D., poco prima, quando aveva contemplato il riflettersi del grifone nel sorriso e negli occhi svelati di Beatrice (XXXI 118-145).
Paradiso. - Il lettore, dopo quanto preannunciato, si aspetterà che la presenza gloriosa di C. in cielo sia, quanto meno, una condizione di felicità per i beati. A dire il vero D. non affronta mai direttamente il problema speculativo che sorge a questo punto, il problema dell'esatto modo in cui l'umanità di C. entra nella visione beatifica come suo oggetto costitutivo, quando, secondo tutta quanta la tradizione cristiana, dal Nuovo Testamento in poi, l'essenza della beatitudine finale consiste in una visione immediata della divinità come tale (I Cor. 13, 12; Ioann. 3, 2; cfr. Pd XXX 100-102).
Se D. non affronta ex professo il problema, tuttavia lo solleva implicitamente col riferirsi, indirettamente e con una certa insistenza, alla conoscenza beatifica dell'Uomo-Dio da parte delle anime dei beati; e basterà aver messo questo in evidenza. È quindi naturale che la nostra breve descrizione del tema di C. nel Paradiso si divida in due parti: una prima che mostri la presenza dell'Uomo-Dio come un fattore essenziale della gioia celeste e di quella personale di D., come colui che per grazia... preliba il Paradiso (XXIV 1-6; cfr. X 82-87, XXV 40-42); una seconda consistente in un breve sommario di quanto è detto nel Paradiso intorno alla vita e alle opere di C. in terra.
C. come elemento costitutivo della gioia celeste. - Che C. come Logos eterno, seconda persona della Trinità, sia un oggetto della visione beatifica è meno importante che non il fatto - suggerito così ampiamente da D. - che questa visione riguarda anche il Logos in quanto incarnato. Alcuni testi illustreranno il primo di questi temi, mediante l'identificazione della seconda persona o con la somma Verità, meta finale del desiderio intellettuale, o con la Sapienza del Padre, l'immagine in cui il Padre vede perfettamente sia sé stesso che l'universo creato, nel suo ‛ modello ideale '. In quanto Verità, dunque, il Figlio è il pan de li angeli (II 11-12, che richiama le immagini del ‛ cibo ' e della ‛ sazietà ' di Pg XXXI 128-129, XXXII 74, che a loro volta riecheggiano Ecli. 24, 29 e Ps. 77, 25), la Verità che comprende ogni altro vero (IV 118-126), poiché essa è l'etterna luce (V 4-9); che è misura di ogni giudizio di qualsiasi intelletto, sia in cielo che in terra (III 32-33, XIX 64-66); che, trasmessa alle menti create, le ‛ innalza ' all'unione con sé (XXII 42; cfr. XXI 83-87) e allo stato di perfetta pace (XXVIII 108, XXX 40-42, 100-102), e ciò perché essa è la verità assoluta, l'alta luce che da sé è vera (XXXIII 54), somma luce (v. 67), luce etterna (vv. 83, 124). Il tema del Figlio come immagine del Padre e come modello ideale di tutto il creato è enunciato per la prima volta in forma esplicita in X 1-12 (Guardando nel suo Figlio con l'Amore...). Il Padre crea ogni cosa secondo un ordine che riflette l'arte che è dentro a sé e che egli ama in eterno e necessariamente. Chiaramente qui l'arte di Dio è la stessa seconda persona, considerata come l'idea che il creatore ha della creazione, in quanto Verbo creante (cfr. Mn II II 2-4; Tomm. Sum. theol. I 15 1-2). Questo tema ricorre ancora, implicitamente, nel cielo di Giove (i cui angeli, le Dominazioni, sono i contemplanti per eccellenza del Figlio; cfr. Cv II V 7-11), mentre il creatore-artista è ricordato in XVIII 109-111 e il Verbo creante in XIX 40-45. L'espressione finale di questo rapporto creatore-creazione è in XXXIII 85-93, mentre quella del rapporto tra Figlio e Padre, in quanto sua immagine, è ai vv. 124-126.
L'idea che comprendere il mistero dell'incarnazione significa comprendere l'essenza della visione celeste, è fondamentale nel Paradiso. L'intera cantica raggiunge il suo momento culminante proprio con questo tema dell'unione dell'Uomo con Dio (XXXIII 127-141). E questo momento culminante è accuratamente preparato.
A preannunciarlo erano stati, in particolare, tre momenti della cantica: l'ingresso nella Luna (II 37-45 S'io era corpo... / accender ne dovria più il disio / di veder quella essenza in che si vede / come nostra natura e Dio s'unio); la prima visione, piena e diretta, di C. (XXIII 22-45); e, indirettamente, le riflessioni su Bernardo di XXXI 103-111, le quali, paragonando il santo al velo della Veronica, ne fanno un intermediario per la visione del Segnor mio Iesù Cristo (v. 107; cfr. Vn XL). Sulla stessa linea di sviluppo va posta, in qualche modo, anche l'improvvisa visione di C. nella sua umana sofferenza, che D. ha nell'entrare in Marte (XIV 103-108).
Tutti i motivi e i temi sulla vita di C. in terra fin qui notati, ricorrono nel Paradiso, ma tuttavia due sono posti in particolare evidenza: la sua morte per la redenzione dell'umanità e il suo rapporto di Sposo con la Chiesa. Una sintesi della natura e della missione di C. è contenuta nelle parole che Beatrice rivolge a D. nel Cielo stellato: Quel che ti sobranza / è virtù da cui nulla si ripara. / Quivi è la sapïenza e la possanza / ch'aprì le strade tra 'l cielo e la terra, / onde fu già sì lunga disïanza (XXIII 35-39; cfr. Pg X 34-42): parole che da sole riassumono, metaforicamente, la lunga esposizione di VII 25-120, che costituisce l'enunciazione singola più completa del pensiero di D. sulla redenzione e l'incarnazione. Tratto lo spunto da un'allusione alla giusta vendetta dei Romani sugli Ebrei (VII 20; cfr. VI 92-93), questa profonda esposizione è un'implicita conferma della dottrina di Mn II XI, precedentemente esposta; tuttavia il punto di vista è diverso; essa colloca la morte del Figlio di Dio sulla croce in una prospettiva puramente teologica, senza alcun riferimento al motivo politico sottolineato nella Monarchia. La crocifissione trova la sua spiegazione non già nella decisione di Dio di sanzionare l'Impero usandolo come suo strumento giuridico nella redenzione dell'umanità, ma nella sua scelta di fare di questa redenzione l'espressione più piena della divina bontà, misericordiosa e giusta a un tempo. Per questo, nella sua misericordia redense l'uomo e nella sua giustizia redense come un uomo, umiliato ad incarnarsi (VII 120): per questa via l'umanità, nella persona di C., fu resa sufficiente a rilevarsi, fu resa capace di espiare la propria colpa (vv. 115-120). Scritta che sia prima o dopo Mn II XI, è certo che questa esposizione rivela ancor più chiaramente la profondità del pensiero teologico di Dante.
Allusioni dirette o indirette alla croce abbondano nel Paradiso. Su di essa C. ottenne la sua alta vittoria (IX 118-123; cfr. XIV 125-126) e fece sua sposa l'umanità redenta (XXXI 3; cfr. XI 32, XII 43, XXVII 40); egli l'Agnel di Dio che morì per togliere le peccata (XVII 32-33); egli nostro pellicano (XXV 113). Mediante la croce egli c'induce a ricambiarlo col nostro amore (XXVI 59; cfr. nostro Diletto di XIII 111), come fece in così alto grado s. Francesco - col suo amore per madonna Povertà che salì con C. sulla croce (XI 64-72) - tanto che infine la sua carne fu materialmente segnata dalla croce col sigillo di C. (v. 107). Ma la sposa di C., la Chiesa da lui fondata su Pietro (XXIV 34-36, XXXII 125-126) e consacrata dal sangue dei martiri (XII 41, XVIII 123, XXIX 91-92), è stata prostituita e tradita dai suoi capi attuali (XXVII 40-60; cfr. XVII 51). Allo stesso modo, la verità rivelata che C. ha portato nel mondo (XXII 41-42) e che, accettata per fede, è il fondamento della speranza e dell'amore in lui (XXIV 70-75, XXIX 109-114; cfr. XII 62, XXV 10-11), è stravolta e travisata dalla vanità dei predicatori (XXIX 88-126). Tutti questi mali sono dovuti al dimenticare C. (cfr. IX 133-138) e il suo venerabil segno (XIV 101); e il Paradiso - in cui il nome di C. fa rima soltanto con sé stesso (XII 71-75, XIV 104-108, XIX 104-108, XXXII 83-87) - rappresenta l'appassionata protesta di D. contro quest'irriverenza.
Il nome Cristo compare ancora in Fiore CXVII 2 e 13, CLVIII 12; unito a quello di Gesù, in Pd XXXI 108 (Iesù Cristo), Fiore XXXIX 4, LIV 5, LXVII 13, CIV 9, CXXIII 8 (sempre Gieso Cristo). Compare inoltre due volte il nome Gesù (Fiore CXII 1 e 9) e Iesù (Pd XXV 33).
Nelle sue opere. D. esprime, fondamentalmente, tre atteggiamenti nei confronti di C.: uno mistico, uno dottrinale e uno etico. Se tutti sono presenti, allo stato embrionale, nella Vita Nuova e se uno o l'altro sono particolarmente evidenti nelle altre opere in prosa, tutti e tre trovano la loro piena espressione nella Commedia. La Vita Nuova è una sublimazione, in senso cristiano, della passione amorosa. C. è veduto soltanto attraverso la donna. Qui l'intuizione fondamentale è quella della bellezza e della bontà creata come manifestazione del divino e, in questo senso, come un miracolo capace di stimolare in chi l'osserva il desiderio di scorgerne l'origine divina, nella vita eterna. Il ‛ modello ' per questa manifestazione divina è tratto dal cristianesimo, ma l'attenzione è volta soprattutto alla donna che si conforma a quel modello, e solo indirettamente a C. stesso. L'idea di una divina manifestazione in terra prosegue nel Convivio, ma qui, scolasticamente, è argomentata in termini di distinzione tra luce della ragione naturale e luce della fede. E l'interesse di D. va più a quella prima luce che non alla seconda; più all'insegnamento sulla vita temporale in terra di madonna Filosofia, che non all'insegnamento di C. sulla vita eterna in cielo. In ogni caso, nelle Epistole e nella Monarchia, un nuovo pressante interesse - un interesse politico e morale insieme - porta C. in primo piano. Esso riguarda, da un lato, il rapporto di C. con l'Impero romano, da un punto di vista storico e provvidenziale; dall'altro, il suo rapporto con la Chiesa, in quanto suo legislatore ed esempio. Infine, nella Commedia, tutti gli aspetti del C. dantesco vengono armonizzati e fusi in un'unica visione complessiva. Egli è il sommo esempio morale, per la Chiesa come per l'umanità in generale; il sommo maestro, il cui messaggio proclama l'unico vero fine della vita umana, mostrandoci anche come raggiungerlo; e, da ultimo, egli stesso, nella sua misteriosa unità di divino e umano è, in certo senso, questo fine medesimo; è il diletto Sposo non solo della Chiesa militante, ma anche della Chiesa trionfante.