CASTELLETTI, Cristoforo
Della sua vita non si hanno molte notizie. Nacque a Roma, ove trascorse quasi tutta la sua vita: qui prese gli ordini religiosi e svolse un'intensa e rilevante attività culturale. Si ha notizia precisa ddlla sua morte che avvenne il 9 ag. 1596, sempre nella città natale, ove egli venne sepolto nella Chiesa Nuova.
L'attività del C., che pur non si dovette sottrarre alla consueta poliedricità dei letterati dell'epoca, ha un certo rilievo soprattutto in campo teatrale. Proprio in qualità di autore di "commedie tornite sul gusto" (Renazzi), il suo nome appare nelle cronache dei teatri, che pure testimoniano una certa popolarita ottenuta dalle sue opere, perfettamente aderenti al gusto medio dell'epoca. Questa aderenza è d'altronde dimostrata dallo stesso genere di testi teatrali che il C. scrive. La sua prima opera è infatti una favola pastorale, Amarilli, rappresentata per la prima volta nel 1580 in Roma e pubblicata a Venezia nel 1587.
Secondo il Carrara, il C. ebbe senza dubbio presente, nella composizione di questa opera, l'Aminta di Torquato Tasso, che è del 1573, perché alcune situazioni sono riprese in modo evidente, come ad esempio il travestimento pastorale dell'Apollo, nel prologo, che richiamerebbe la medesima trasfigurazione dell'Amore tassiano. In altri momenti invece l'allontanamento dall'illustre precedente è netto: la polimetria del verso, l'usò di un toscano rusticale per caratterizzare i personaggi più umili, sta a testimoniare un gusto per la rappresentazione (confermato pienamente dalle opere successive) molto più vivace ed articolato di quanto non permettesse la rigidità linguistica e strutturale delle pastorali di tipo ferrarese. Altrove c'è da rilevare una ripresa meccanica e giustapposta di situazioni tradizionali del genere, quali i consigli da darsi alla persona innamorata o il suicidio per amore, il che provoca una conseguente improbabilità della narrazione. Una novità può invece essere considerata l'introduzione dello scambio dei nomi dei personaggi, che si risolverà nell'agnizione finale, e che è funzionale a una vivacizzazione dell'intreccio. Il motivo, che troverà ampio credito anche nella pastorale, come già l'aveva trovato nella commedia, è una evidente conseguenza di quei passaggi di temi che il teatro intrattiene con la novellistica, per tutto il '500, e che lo portano appunto a mutuare da essa personaggi e situazioni narrative.
Lo stesso gusto per il cambiamento dell'identità dei personaggi lo rinveniamo nella seconda opera del C., I torti amorosi, la cui dedica alla sig.ra Clelia Farnese è datata 1581: il 1º marzo di quell'anno ebbe luogo, con successo, la prima rappresentazione della commedia. Essa fu poi edita in una edizione postuma che comprendeva tutta l'opera teatrale del C.: Tutte l'opere, Vinegia, G. Batt. e G. Bern. Sessa, 1597. Altra edizione, sempre a Venezia, è del 1606.
Molto interessante.il prologo, che è impiegato dall'autore quale tribuna da cui colpire apertamente i bersagli delle sue polemiche ed esporre la propria concezione della commedia. Essa non è troppo nuova, dati il luogo e la data in cui è espressa: la commedia, afferma il C., deve essere onesta (cioè edificante), utile (didascalica), e dilettevole (d'intrattenimento). Va invece rifiutata la commedia dell'arte come commedia d'evasione, cioè come spettacolo tendente a far dimenticare al pubblico i propri doveri morali. A conclusione, il C. apre una polemica contro i critici troppo sentenziosi, che discettano accademicamente sui lavori teatrali.
L'ambiente romano, dove più radicale era stata la chiusura controfiformistica, suggeriva la ristrettezza di queste posizioni. Come pure doveva suggerire uno dei temi della commedia, consueto del resto a molta parte della letteratura del secolo, quello cioè dell'affermazione dell'impossibilità dell'amore in una prostituta. Altri motivi tradizionali del teatro dell'epoca possono essere rinvenuti nella satira del personaggio del pedante, Teofrasto, ridicolo nel linguaggio ed autore di parodistici sonetti petrarcheschi; nella situazione della falsa morte della fanciulla innamorata, di cui si rinviene la camicia insanguinata, motivo che, attraverso la novellistica, rimanda alla favola mitologica greca. Ancora tipici sono gli scambi dell'identità dei personaggi e l'incrociarsi degli amori non corrisposti.
Assolutamente originale invece, e non di piccolo rilievo, è la caratterizzazione dialettale di un personaggio napoletano: il linguaggio doveva assicurare un immediato effetto comico. Tale caratteristica, che è poi quella che fa ricordare il C. nelle storie del teatro, la rinverremo in tutte le opere successive.
Il Furbo, composto anch'esso nel 1581, fu edito poi, sempre a Venezia, nel 1584. oltre che nelle edizioni, già viste, dei 1597 e del 1606. Nella dedica, a Girolamo Ruis, datata 1581, il C. afferma che mentre, due anni prima, cioè all'epoca della composizione, attendeva agli studi di poesia e di filosofia (Aristotele, Petrarca, Plauto), ora è dedito allo studio delle leggi.
Anche nel prologo di questa commedia viene riconfermato un fine moralistico, nell'intenzione di mettere in guardia gli spettatori dalla malizia dei furbi. Polemica è l'accusa alle donne di ferire e rubare i cuori: accusa in linea con tutto il filone antifemminista della cultura cinquecentesca. "L'intreccio della trama e il confronto dei personaggi avvengono piuttosto schematicamente: tra un personaggio positivo ed uno negativo, fa sempre da mediazione un personaggio che partecipa di ambedue le qualità. Parti allusive ai temi sessuali sono affidate ai personaggi dei servi. Anche Il Furbo conta un personaggio dialettale; si tratta proprio del protagonista, appunto il "furbo", che trova, nel parlato napoletano, una ridicolizzazione dei propri intrighi maliziosi. La conclusione della commedia è delle più edificanti: punizione del "furbo" e amore salvato.
Più ricca di interesse è Stravaganze d'amore, la cui dedica, a Giacomo Boncompagni, duca di Sora, è dat. 1° ag. 1585. Fu pubblicata a Venezia, anche essa nel 1597 e poi nel 1613. Nel prologo si afferma che il tema è la irrazionalità della passione: tema, da Bandello in poi, tradizionale di tutti i novellieri cinquecenteschi. Una cronaca teatrale dell'epoca (cfr. A. G. Bragaglia) ricorda il successo dell'opera dovuto alla efficace caratterizzazione dei personaggi: "un infranciosato" (raffinato), un "norscino" (servo sciocco), un pedante, una serva romana, un personaggio napoletano.
Questa volta, dunque, i dialetti impiegati sono due e, come nota il Migliorini, c'è addirittura una stratificazione del dialetto: cioè alla vecchia serva romana, Perna, è riservato un dialetto più arcaicizzante che non ai servi più giovani, pur muniti di accentì dialettali. È evidente, anche in questo caso, la funzionalizzazione espressiva del linguaggio.
Altri motivi dell'opera sono più tradizionali: contrasto tra l'esaltazione dell'amore platonico e quello dell'amore sensuale, satira dell'astrologia, contrasto tra il pedante petrarchista ed il napoletano, peraltro presentato ancora una volta come un cialtrone e un truffatore, che afferma: "C'haggio da spartire collo Petrarca?... Vui sapiti che la poesia è tutto furore". Il ridicolo del C. è distribuito equamente su tutti e due i personaggi, tanto da non permettere di stabilire chi egli volesse più colpire.
Anche lo scioglimento di quest'opera presenta il trionfo del giusto amore e la punizione dell'ingannatore.
Al C. vanno ancora attribuiti un sonetto encomiastico dedicato alla città di Roma (Sonetto in proemio all'opera "La serenissima nobiltà dell'alma città di Roma" di Alfonso Ceccarelli, in Bibl. Apost. Vaticana, Vat. lat. 4909, ff. I-IV), da una raccolta di analoghe composizioni di autori vari, ed un'orazione "De modo et potestate quam demones habent intelligendi ac commovendi coneptus anima passionern appetitus", datata Roma 1592.
Fonti e Bibl.:G. Cinelli Calvoli, Della biblioteca volante, Firenze 1677, p. 25; L. Allacci, Drammaturgia, Venezia 1755, pp. 44, 380, 742, 774; F. M. Renazzi, Storia dell'Univers. di Roma, Roma 1803, II, p. 232; F. Flamini, Il Cinquecento, Firenze 1912, p. 455; G. Incisa della Rocchetta, Il primo processo di s. Filippo Neri, Città del Vaticano 1957, p. 9; A. G. Bragaglia, Storia del teatro Popolare romano, Roma 1958, p. 65; B. Migliorini, Storia della lingua ital., Firenze 1961, p. 339; E. Bigi, Dramma pastorale del '500, in Il teatro classico ital. del '500, Roma 1971, p. 117; M. L. Altieri-Biagi, Appunti sulla lingua della commedia del '500, ibid., p. 274; E. Carrara, Poesia pastorale, Milano s.d., pp. 348 s.