COCCO, Cristoforo
Nacque a Venezia, dopo il 1409, anno del matrimonio di suo padre, Nicolò di Giovanni, con Chiara Canal di Andreolo. Nel 1429 entrava nel Maggior Consiglio e nello stesso anno sposava Maria Foscari, del procuratore Marco, fratello del doge Francesco, dalla quale ebbe un figlio, Nicolò, nato probabilmente nel 1436. Non sappiamo quando morì la moglie; certo è che, dopo tale avvenimento, il C. si fece prete e divenne protonotaro apostolico. Colto, intelligente e ambizioso, ebbe rapporti di familiarità col politico ed umanista Francesco Barbaro, al quale inviò copia di un'orazione da lui scritta, il 1º marzo 1444, al cardinale Giuliano Cesarini, del quale era pure amico e che allora si trovava a Buda, come legato di Eugenio IV presso il re Ladislao.
Nella sua risposta del 24 aprile il Barbaro, allora ambasciatore della Repubblica a Milano, lo esortava ad applicarsi con il profitto di sempre agli studi di umanità, ma - soprattutto - lo assicurava della protezione di Iacopo Becchetti, che nel settembre 1443 era stato a Venezia come inviato di Filippo Maria Visconti. Queste conoscenze avrebbero condotto il C. alla rovina. Il 22 sett. 1446, il Consiglio dei dieci ordinava infatti l'arresto di un suo servitore e del cancelliere dell'ambasciatore milanese, il quale veniva in seguito espulso dalla città. Il 28 settembre, su denuncia di tale Luca Bartoli, funzionario del sopragastaldo (ma pare sia stata ascoltata anche l'opinione di Bartolomeo Colleoni), il Consiglio accusava di collusione col duca di Milano "d. Christophorum Chauco prothonotarium proditorem", e l'indomani gli veniva comminato il bando da tutti i luoghi dello Stato, sia di terra sia di mare, con una taglia di 2.000 ducati.
Ma il protonotaro era ormai riparato a Roma, dove ben presto ebbe modo di porre al servizio del nuovo papa, Niccolò V, e del re Alfonso d'Aragona, che aspirava al Milanese, la propria conoscenza degli ambienti politici veneziani. Pertanto, il 19 apr. 1447, il Consiglio dei dieci ordinava all'ambasciatore a Roma di non comunicare in alcun modo col C. e di trattarlo pubblicamente quale traditore. Costui, però, non mancava di aiuti e protezioni nel patriziato veneziano, e non esitò a sfruttarli, per procurarsi nuovi alleati: nell'ottobre di quell'anno il capitolo di Padova aveva eletto a quel vescovado Gregorio Correr, ma il Senato gli aveva opposto Fantino Dandolo, arcivescovo di Candia, e ne aveva sollecitato la conferma presso il pontefice. Roma, tuttavia, tardava a rispondere, a motivo di informazioni negative che pervenivano da Venezia; si venne a sapere, in seguito, che si trattava di lettere "per nonnullos ex non postremis civibus, et nobilibus nostris ... dolose et fraudolenter compositas". Nulla consente di attribuire al C. la paternità di questi documenti; certo è, però, che circa un anno dopo il veneziano Maffeo Vallaresso, protonotaro apostolico a Roma, informò il Senato che il collega indulgeva alla pratica di contraffare lettere, che poi vendeva ad Alfonso d'Aragona, insieme con segreti di Stato veneziani, che gli erano comunicati da almeno tre informatori. Il Vallaresso non fornì prove del suo dire: si limitò ad indicare nei cardinali Prospero Colonna, Pietro Barbo e Francesco Condulmer coloro che più di ogni altro erano a conoscenza delle cattive pratiche del Cocco. Pertanto, il 22 apr. 1449 la Signoria inviava a Roma il segretario Bertuccio Negro, con commissione di abboccarsi col Condulmer e scoprire i nomi dei complici.
Il compito del Negro, tuttavia, non si rivelò semplice: l'azione del C., in fondo, non mancava di essere apprezzata presso la Curia. Tra aprile e giugno, il Consiglio ed i Savi scrissero più lettere al segretario: facesse presente al pontefice che non di accusare un protonotaro si trattava, ma di togliere l'infamia gettata su un corpo patrizio di specchiata onestà (ma, intanto, vedesse di informarsi se, per caso, fra i traditori non ci fossero i nobiluomini Giacomo Donà e Andrea Venier); spiegasse, insomma, che "eas litteras quas dictus Christophorus produxit esse falsas et fictas et per eum dolose et inique scriptas".
Di fronte a tante pressioni, al papa non restò che privare il protonotaro del rocchetto e ordinarne la cattura. Costui, però, aveva provveduto per tempo a porsi in salvo: non già a Cesena, come ritengono le fonti, ma a Siena, fuori degli Stati pontifici. Aveva però i giorni contati: alla fine di agosto il fiorentino Pietro Torelli riusciva a sorprenderlo a Pontignano; di lì lo condusse a Ravenna, dove lo consegnò al capo del Consiglio dei dieci, Paolo Barbo, in cambio di 5.000 ducati. Il 18 settembre gli veniva erogato il carcere forte, cioè l'isolamento, però senza tortura: per questa occorreva il permesso del vescovo di Castello, alla cui diocesi il C. apparteneva. Il prelato accondiscese a malincuore, dopo replicate insistenze della Signoria; così, alla metà di ottobre, l'ex protonotaro finì per confessare una lunga serie di tresche da lui perpetrate in Senato, in Curia, col Visconti, con lo Sforza, l'Aragona, e persino coi Savoia.
La Repubblica chiese al papa la sua testa, supplicandolo di chiedere informazioni sull'infame a chi volesse.
La morte del C. rese inutili i desideri dei concittadini, e il 3 dic. 1449 il Senato richiamava a Venezia il Negro, dal momento che "ipse Christophorus carceratus mortuus est sua morte naturali".
Fin qui i documenti ufficiali. Sull'uomo ci resta ancora una testimonianza: la sua. Nel testamento, redatto in carcere il 22 ottobre, "perchè io mi sento de hora in hora debilitar le virtù vitali", chiede sepoltura in abito monacale, nella certosa del Lido, accusa il Torelli di avergli rubato gioie per 3.000 ducati, elenca una serie di crediti verso mercanti fiorentini e napoletani, accusa l'ingratitudine di tanti, troppi amici disonesti.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii..., II, p. 359. Stringati cenni sulla vicenda del C. (i motivi della sua incriminazione e gli atti riguardanti il processo non vennero divulgati sino alla caduta della Repubblica) nel Civico Museo Correr di Venezia, cod. Cicogna 3712: Cronaca Venier, c. 253r (ove però si sostiene che la sua cattura avvenne a Cesena, che in latino si scrive parimenti Sena. Ma nel testamento il C. sgombra ogni dubbio); Venezia, Bibl. naz. Marciana, ms. It., cl. VII. 538 (= 7734): Libro di nozze…, c. 46v; sulla missione del Negro a Roma e la cattura del C., Arch. di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci. Misti, reg. 13, cc. 42v-43v, 46r, 67r, 121v-123r, 128r, 130r, 133r, 135r-136r, 138r, 140r, 141v, 142v, 143v, 144v, 145v-146v, 148v-150r, 151v-155r, 157r, 162v; l'oraz. al Cesarini, la risposta di costui, la lettera del Barbaro, a Venezia, Bibl. naz. Marc., ms. Lat., cl. XIV, cod. 175 (= 4003), cc. 1r-12v; su queste lettere, si veda inoltre: A.M. Querini, Diatriba praeliminaris..., Brixiae 1741, pp. CCCLXXXIII-CCCLXXXVI; G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, Venezia 1752, I, p. 335; II, pp. 93, 102; E.A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, V, Venezia 1842, pp. 270-78.