COLOMBO, Cristoforo
Tutti i cronisti, geografi, cartografi dell'epoca delle grandi scoperte, italiani e stranieri, i quali hanno occasione di accennare alla patria di C., sono pressoché unanimi - tranne pochi casi in cui non dicano che egli nacque in uno o in altro paese della Liguria, o, più genericamente, non lo considerino ligure - nel dire che il grande navigatore fu genovese: genovese si dichiara egli stesso nel suo testamento (22 febbraio 1498), nel quale raccomanda al suo primogenito di "adoperarsi sempre per il bene, l'onore e l'accrescimento della città di Genova, donde" soggiunge "trassi origine e nacqui". Numerosi documenti permettono di seguire le vicende dei suoi ascendenti a Genova e in altri luoghi della Liguria; e da atti notarili, da non molto venuti alla luce, dell'Archivio di stato di questa città, risulta nel modo più esplicito che egli a Genova nacque. Il consenso unanime di tutte le fonti, e la mancanza di qualsiasi documento che autorizzi a farlo considerare nato fuori d'Italia, dovrebbero ormai rendere grotteschi i tentativi di chi vorrebbe farlo derivare da una famiglia ebraica d'origine gallega, o di chi sostiene ancora che egli era portoghese, o còrso o, come è stato ultimamente sostenuto, catalano. Anche l'anno della sua nascita, che ha dato luogo a tante discussioni, è ormai acquisito con sicurezza per il fortunato ritrovamento di documenti dell'Archivio di stato di Genova, dai quali si deduce che egli nacque in questa città, da Domenico Colombo e da Susanna Fontanarosa, fra il 26 agosto e il 31 ottobre del 1451. La sua famiglia era di umile condizione: il padre, di professione lanaiolo (nel 1450 era anche custode della porta o torre dell'Olivella), esercitò anche il piccolo commercio dei vini.
Delle vicende dei primi anni della sua vita, e in genere del tempo trascorso fino all'epoca che precede di poco l'anno della scoperta, si hanno ben poche informazioni. I dati più sicuri sono ancora gli scarsi cenni autobiografici, puramente occasionali, che si hanno dai suoi scritti, quali le postille segnate in margine delle opere da lui lette, i Diarii e le lettere. Più abbondanti, ma purtroppo non sempre degne di fede, sono le notizie più o meno ordinatamente raccolte ed esposte nelle due opere che alla sua vita e alla sua impresa dedicarono il figlio Fernando e il fido amico ed esaltatore Bartolomeo Las Casas, vescovo di Chiapas. Anzi, l'aver voluto sempre tener conto di tutto ciò che esse ci offrono fu ed è tuttora causa precipua del disagio in cui si trova la critica colombiana.
L'opera di don Fernando (morto nel 1539) figlio naturale di C., fu pubblicata nel 1571 a Venezia sotto il titolo: Historie del S. Don Fernando Colombo, e figura tradotta dallo spagnolo da Alfonso Ulloa; ma del manoscritto spagnolo originario non si conserva traccia, e per gli evidenti errori da essa offerti la critica odierna era già disposta a dubitare della sua autenticità, allorché la pubblicazione della Historia de las Indias, ben più vasta e completa, del Las Casas (scritta fra il 1552 e il 1561) nel 1875, che la cita e la riproduce qua e là anche testualmente, la rimise in valore confermandole con l'autorità del Las Casas patente di veridicità. Quali siano i veri rapporti fra le due opere, se cioè il Las Casas abbia avuto sott'occhio effettivamente il manoscritto di don Fernando, o una copia già rimaneggiata da altri, e se da questa attinse in buona o in mala fede, sono questioni ancora da approfondire (v. colombo, fernando). Sta di fatto che le Historie appaiono pubblicate per conto di don Luis, figlio di don Diego, primogenito ed erede dell'Ammiraglio, e di Maria di Toledo, al quale Fernando aveva legato la sua ricca biblioteca; onde non appare improbabile che egli, discendente degenere del grande scopritore, abbia introdotto nel manoscritto o negli appunti originali, dati di sua invenzione e passi di documenti apocrifi, destinati da un lato a tentare di nobilitare la sua origine (come la circostanza degli studî compiuti da C. a Pavia, la discendenza dal console romano che aveva fatto prigioniero Mitridate, l'aver avuto altri ammiragli nella sua famiglia, ecc.), e dall'altro allo scopo di mostrare che il suo grande avo prima di accingersi al viaggio prodigioso si era già segnalato in altre imprese audaci e gloriose, le quali però offrono particolari e circostanze inverosimili, erronee e spesso fantastiche. E poiché codesti dati figurano quasi sempre esposti direttamente da C. stesso, e non si osa dubitare della buona fede di don Fernando e del Las Casas che li riportano, così da un lato vi sono scrittori che s'inducono facilmente a considerare C. come millantatore, e usurpatore della sua fama; e dall'altro vi sono, più numerosi, coloro che non senza impaccio e fatica cercano d'interpretare codesti documenti in modo da scolparlo da così gravi accuse.
Ma non sarà stato certo il dottissimo, accorto figlio dell'Ammiraglio a fornire così leggermente dati che avrebbero nociuto alla fama di suo padre: egli aveva troppo buon senso e comprendeva che l'umiltà dell'origine non avrebbe minimamente oscurato la gloria del grande scopritore; ed esperto com'era, forse più d'ogni altro in Spagna al tempo suo, di nautica e di cosmografia, non avrebbe in modo cosi ingenuo attribuito a suo padre il racconto di gesta inverosimili e tali da pregiudicarne la fama. Piuttosto è da tener presente che nel tempo in cui viveva erano sopravvenute circostanze che gl'imponevano il dovere di difendere la memoria del padre: il lungo processo col Fisco, nel quale la Corona cercò con ogni mezzo di diminuire la portata della scoperta per non assolvere i suoi obblighi verso gli eredi; la leggenda abbastanza diffusa che C. avesse ricevuto da un pilota spagnolo morto in casa sua a Madera tutti gli elementi per raggiungere una meta già trovata; le pretese dei discendenti dei fratelli Pinzón, già compagni di C., che tentarono di rivendicare a Martino Alonso Pinzón, morto in miseria, il merito dell'impresa, erano tutti elementi che potevano indurre Fernando a sorgere in difesa del padre, raccogliendo, dai documenti originali e da quello che era in altri modi a sua conoscenza, tutte le prove atte a dimostrare che la grande impresa era stata preparata e compiuta per opera e per merito di lui. Ma il nipote don Luis, figura moralmente spregevole (nel 1563 fu condannato per poligamia a dieci anni d'esilio in Orano, dove morì nel 1572), dovette ritenere insufficienti e inadatti ai suoi fini i dati onestamente raccolti dallo zio; e allora introdusse o fece aggiungere particolari inesistenti, inventò addirittura dei documenti e modificò o ampliò a modo suo quelli che erano originali. Tutto questo, s'intende, è un'ipotesi; ma allo stato attuale non si potrebbe forse trovare una spiegazione più accettabile, quantunque non tutti appaiano oggi disposti a seguirla. Il Las Casas ebbe poi il torto, nella migliore supposizione, di accogliere, senza controllarle, tutte queste notizie. Un esame rigoroso e sereno delle opere dei due biografi, allo scopo di scartare ciò che in esse vi è di apocrifo, costituisce ancor oggi il vero punto di partenza per lo studio di molti problemi ancora insoluti sulla vita e sull'impresa di C.
Per quello, a ogni modo, che a noi consta da fonti insospettabili, quali gli annalisti genovesi contemporanei, nella sua prima gioventù C. esercitò l'arte della lana; e sempre da documenti genovesi risulta che egli esercitò insieme col padre anche il piccolo commercio, il che probabilmente dovette dare occasione ai suoi primi viaggi per mare, dapprima lungo le coste della Liguria, e in seguito verso più lontane spiagge del Mediterraneo. In un luogo del Diario del 1° viaggio (21 dicembre 1492) egli dichiara che a questa data navigava da 23 anni, donde si può dedurre che avesse iniziato i suoi viaggi di mare all'età di 18 anni. Nel 1473 era tuttora col padre a Savona, ed è questo, a quanto ci risulta, l'ultimo anno della sua stabile dimora in Liguria; dopo d'allora, anzi, si può ammettere che egli abbia iniziato la sua carriera di marinaio, navigando, sempre per ragioni di commercio in servizio di case genovesi, per tutto il Mediterraneo; egli stesso fa menzione, sempre in quel Diario, d'un viaggio a Scio, allora genovese, probabilmente per conto degli Spinola e dei Di Negro. Ma nulla d'altro in particolare sappiamo, dovendosi ritenere pura invenzione dell'interpolatore delle Historie il racconto dell'impresa di Tunisi, nella quale egli sarebbe andato con una nave del re Renato d'Angiò a catturare una galeazza aragonese nel porto di Tunisi, ricorrendo a un inverosimile sotterfugio per ingannare i marinai timorosi e contrarî. Né meno romanzesco deve ritenersi l'altro racconto, derivante dalla stessa fonte, che vorrebbe spiegare la ragione dell'arrivo di C. in Portogallo: l'assalto presso il capo San Vincenzo dato nel 1485 dai corsari della flotta francese, sulla quale egli si sarebbe trovato, a navi veneziane dirette in Inghilterra, l'incendio della sua nave e il suo salvataggio a nuoto sulla costa portoghese. Altrettanto si dica d'un suo viaggio compiuto sopra una nave portoghese in Islanda nel 1477. L'arrivo di C. in Portogallo e i suoi rapporti con questo paese derivano invece ben più semplicemente dal fatto che la casa Centurione, per conto della quale egli viaggiava, aveva esteso il suo commercio nell'Atlantico. La narrazione dell'incontro con navi corsare può avere qualche fondamento, in quanto è accertato che anche a una flotta genovese diretta in Inghilterra accadde - ma nel 1476 e non nel 1485 - di essere assalita e dispersa presso il capo S. Vincenzo da corsari francesi; tuttavia non risulta in modo sicuro, sebbene la cosa sia assai probabile, che in essa fosse imbarcato C. L'unica cosa certa è che il primo documento dal quale si deducono le prime relazioni di C. col Portogallo è un atto notarile dell'Archivio di stato di Genova del 25 luglio 1479, data in cui egli, trovandosi a Genova e in procinto di partire per Lisbona, è chiamato in causa per contestazioni con Luigi Centurione, a proposito di un carico di zucchero che egli nel precedente anno 1478 era stato ad acquistare a Madera. Da quest'anno nessun documento rivela più la presenza di C. a Genova, e il Portogallo sembra ormai diventato la sua residenza abituale. È presumibile che egli abbia continuato a navigare d'ora innanzi lungo le coste e per le isole dell'Atlantico (la leggenda che vivesse disegnando carte e mappamondi, è dedotta da una lettera apocrifa del Libro de Las Profecías), acquistando una notevole pratica nelle cose di mare prima ancora di formarsi una cultura teorica. E certo nessun paese, meglio del Portogallo, alla testa allora di tutti i popoli navigatori, poteva infondere e sviluppare in lui l'ardore per i grandi viaggi di ricerca e d'avventura. Da Lisbona dovette più d'una volta recarsi a Madera; e qui, o a Porto Santo (più probabilmente che a Lisbona), conobbe e sposò, forse nel 1480, Filippa Moniz figlia naturale di quel Bartolomeo Perestrello, d'origine piacentina, che molti anni prima era stato nominato capitano di Porto Santo dal principe Enrico. E fra Madera e Porto Santo C. visse per qualche tempo con la moglie e la suocera. Anche l'ambiente di Madera era adatto per sviluppare sempre più le sue disposizioni per il mare, sia per essere egli entrato in una famiglia di marinai, sia perché l'isola costituiva, come le Azzorre, uno dei punti avanzati dai quali non pochi navigatori intrepidi e avventurosi si spingevano alla ricerca di nuove isole verso occidente, indotti dai resti di alberi strani che le correnti abbandonavano sulle spiagge, e forse ancora più dalla persistenza di quelle misteriose e suggestive tradizioni medievali che avevano popolato l'Atlantico d'isole e di terre, che i racconti dei reduci davano poi come intraviste fra le brume lontane. Da Madera o da Lisbona dovette continuare i suoi viaggi, ed è certo che si spinse sino alla Mina (Elmina, nella costa meridionale della Guinea), che era stata fondata, a 5° di lat. N., dal re di Portogallo nel 1481. Da queste navigazioni egli dovette, naturalmente, trarre una conoscenza sempre più ampia delle cose di mare (egli stesso in una postilla accenna a misure di latitudine prese col quadrante e l'astrolabio) e poté anche trarre occasione di fare osservazioni sui venti e sulle correnti dell'Atlantico.
Quando e come sia sorta in lui la grande idea, noi non abbiamo modo di conoscere con certezza; ma ci sembra ovvio che essa traesse la sua prima origine dall'aver egli veduto o saputo di quegli audaci esploratori che da Madera o dalle Azzorre si spingevano alla ricerca d'isole verso occidente e talvolta ritornavano con le presunte prove di mete raggiunte o intravedute; mentre, al contrario, i viaggi portoghesi per raggiungere l'India da E. (soprattutto quello del 1482-83 di Diogo Cão, che s'era spinto al C. Santa Maria al 13° di lat. S.) rivelavano il costante proseguire della costa africana verso il S., e perciò sempre più lontana la meta dell'Asia verso Oriente. È certo peraltro che al formarsi e allo svilupparsi della convinzione che procedendo verso O. si sarebbe potuto raggiungere l'Asia, deve essere stata necessaria anche una preparazione teorica, che egli dovette, secondo ogni probabilità, aver iniziato con la lettura di libri e carte appartenute al suocero, sulla forma e sulle dimensioni della Terra, sull'estensione dell'abitabile, sul valore del grado. Cognizioni che egli venne sviluppando in seguito, ma che, data la sua mediocre cultura, egli non poteva attingere da una conoscenza diretta delle fonti latine, greche, arabe, ma solo acquistare leggendo e commentando quelle specie di Somme o d'enciclopedie diffuse allora, in cui il contenuto cosmografico era prevalente o nelle quali la descrizione dell'Asia era particolarmente trattata. E sotto questo riguardo due opere furono specialmente da lui lette e meditate: L'Imago mundi del cardinale Pietro d'Ailly (scritta verso il 1410 e stampata nel 1483) e la Hisioria rerum ubique gestarum di Pio II Piccolomini (1477). La Biblioteca Colombina di Siviglia possiede appunto, tra varie opere appartenute a C. (tra le quali un esemplare del Milione di M. Polo nella traduzione latina attribuita a fra Pipino, un esemplare delle Vite di Plutarco, e un Tolomeo del 1479), due preziose copie di codeste opere ampiamente postillate in margine da lui stesso.
La maggior parte di queste annotazioni sono richiami destinati a sottolineare gli argomenti dei quali si tratta nei varî passi degli autori suddetti, e sono redatte in un latino molto alla buona, spesso di forma e struttura fantastiche. Gli argomenti riguardano le cognizioni più svariate nel campo della cronologia, della storia sacra e profana, della storia naturale e della cosmografia: ma in qualche caso si tratta di vere e proprie postille, cioè di note e osservazioni personali e di riferimenti, preziosissime per noi in quanto possono metterci sulla via per riconoscere e fissare, se non addirittura il procedimento con cui si formarono, le linee fondamentali del suo progetto. È specialmente da porre in rilievo la frequenza con cui nella Imago mundi egli sottolinea tutto ciò che si riferisce al valore del grado in 56⅔ miglia, che dichiara accertato da lui stesso; l'abitabilità della zona torrida confermata pure dalla sua esperienza; la maggiore estensione delle terre in confronto dei mari, ritenuti da Esdra (ossia dall'autore dell'opera apocalittica detta "il Quarto Esdra") appena 1/7 dell'intera superficie terrestre; e soprattutto sono notevoli i frequenti accenni, spesso da lui posti a riscontro e coordinati, alla breve distesa dell'Oceano interposto fra la Spagna e l'Asia da occidente, che è il presupposto fondamentale della sua impresa: presupposto ch'era, del resto, validamente e quasi ininterrottamente stato ammesso dalla tradizione classica e medievale. Infatti, a eccezione di Eratostene che riduceva l'abitabile a ⅓ dell'intera circonferenza, e di Tolomeo che lo riteneva ½, quasi tutti erano concordi, Aristotele, Strabone, Plinio, Seneca, Ruggero Bacone, il card. d'Ailly, nell'ammettere una distanza assai breve fra le coste occidentali della Penisola Iberica e quelle orientali dell'Asia. Seneca aveva persino affermato che con un vento favorevole sarebbe stata questione solo di pochissimi giorni di navigazione.
Noi ignoriamo in qual tempo C. abbia iniziato la lettura e il commento di codeste due opere, che dovevano, specialmente l'Imago mundi, sostenere con l'autorità riconosciuta ai loro autori i principî fondamentali del suo progetto; ma non andiamo forse lungi dal vero ammettendo che ciò sia avvenuto non più di quattro o cinque anni prima del 1492. È bensi vero che in uno dei fogli lasciati in bianco dal tipografo nella Historia di Pio II v'è una nota sul computo degli anni dalla creazione del mondo secondo gli Ebrei, nella quale nota si accenna al presente anno 1481; ma essa è tratta da un almanacco spagnolo di questo anno, e C. può averla riprodotta qualche anno dopo, lasciandola tale e quale come era nell'epoca che a quest'anno si riferiva. Invece sin dalla prima pagina della Historia si legge una postilla che si riferisce al ritorno di Bartolomeo Díaz nel 1488; e nella stessa pagina in bianco sopra citata, dopo la nota riferentesi al 1481 e dopo una breve postilla relativa al disegno d'una sfera, ne viene un'altra che ricorda le misure di latitudine compiute in Guinea da un astronomo ebreo nel 1485 e ripetute a varie riprese da altri negli anni successivi, in modo da arrivare senza difficoltà al 1488. Né meno significativa per indurci ad ammettere che il commento di codeste due opere si sia iniziato in epoca relativamente tarda è un'altra postilla all'Imago mundi, che ricorre ugualmente in una delle prime pagine, la 13ª, nella quale si accenna pure al ritornpo della spedizione Díaz a Lisbona nel dicembre in hoc anno 1488 (risulta poi che quest'opera era stata commentata ancora nel 1491 - postilla 621). C. dichiara inoltre in questo luogo d'avere assistito al resoconto dettagliato che il Díaz fece al re di Portogallo, e sottolinea, soggiungendo d'aver veduto egli stesso la carta disegnata dal navigatore portoghese lega per lega, due circostanze che per lui erano di grande valore; che cioè il Díaz s'era spinto sino al 45° di lat. S. e che da Lisbona aveva percorso ben 3100 leghe (dati, in realtà, entrambi assai esagerati).
Per C. adunque i capisaldi del progetto erano - come si deduce da parecchie postille - un'estensione immensa delle terre verso oriente, e un circuito della Terra, lungo il circolo massimo, di 5100 leghe di 4 miglia ciascuna, ossia di 20.400 miglia, che, supponendosi ciascuna di 1480 m., dovevano corrispondere a poco più di 30.000 km., valore che è di circa ¼ inferiore al vero, con un grado di 83 km. all'incirca. Questa corrispondenza del grado a 56⅔ miglia era, del resto, comunemente ammessa nel Medioevo, e risaliva alla famosa misura araba ordinata dal califfo Al Mamun nell'828: ma qui stava l'errore, poiché il miglio arabo era risultato sensibilmente più grande (1973 m.). Se l'idea di poter raggiungere il paese delle spezie per un più breve cammino da occidente era già sorta e maturata in C., è certo che il risultato del viaggio di Bartolomeo Díaz deve averla fortemente ribadita nella sua mente, dandogli la convinzione assoluta che l'impresa, non solo dovesse riuscire possibile, ma relativamente facile. Poiché, se il navigatore portoghese aveva percorso 3100 leghe, corrispondenti a 3/5 della circonferenza del circolo massimo, ed era giunto a poco più di mezza strada prima di raggiungere l'India da oriente, era ovvio che, secondo le vedute di C., un cammino immensamente più breve doveva essere quello sopra un parallelo della zona temperata procedendo verso O.; tanto più che i dati dei geografi antichi erano d'accordo con la sua idea: già Marino aveva calcolato sul parallelo 365/8 di terra e 3/8 di mare; gli altri riducevano ancora di molto la distanza per mare. E coi dati di Marino concordavano quelli della famosa lettera di Paolo Toscanelli, sebbene leggermente modificati, facendosi la larghezza dell'abitabile, verso E., dalle coste del Portogallo a quelle dell'Asia, di 230° e del rimanente verso O. di 130°; da Lisbona a Quinsay, col grado ridotto al valore sul parallelo 41, una distanza di 6500 miglia. Fondandosi sopra dati siffatti, C. non era un esaltato né un visionario: era logico. E la sua grandezza sta nell'aver concepito per primo un tal piano, nell'averlo così ostinatamente difeso e nell'avere tentato con audacia sovrumana di attuarlo, riuscendo, è vero, a risultati riconosciuti poi diversi da quelli presunti, ma sempre di un'importanza gigantesca, superiore a quella di qualsiasi altro fatto della storia.
C. aveva concepito il suo progetto prima di conoscere le idee del Toscanelli? Esistette realmente una corrispondenza fra C. e Toscanelli? Questo è ancor oggi il più importante fra i problemi colombiani, e dalla sua soluzione dipende, in sostanza, la diretta partecipazione, o no, di altri al merito della scoperta. Oggi è comunemente ammesso che il Toscanelli sia stato il vero e immediato inspiratore di C., e al tempo stesso colui che lo incoraggiò all'audacissima impresa; ma un esame oggettivo degli elementi della questione dovrebbe condurre a ben diversa conclusione. Nel cap. 7° delle Historie di don Fernando si dice esplicitamente che la lettera scritta dal Toscanelli a C. "fu cagione in gran parte che egli con più animo imprendesse questo viaggio"; e nel capitolo seguente si racconta che C., trovandosi a Lisbona - non è detto quando - seppe che il fisico fiorentino aveva scritto a un canonico Fernando Martins, amico e consigliere del re di Portogallo, una lettera in cui si dimostrava che la via più breve per raggiungere l'India non era quella che i Portoghesi seguivano lungo le coste di Guinea a oriente, ma quella verso occidente lungo il parallelo di Lisbona; alla lettera era unita una carta dimostrativa da lui disegnata che avrebbe dovuto esser consegnata al re. La lettera è datata da Firenze, il 25 giugno 1474. C. scrisse allora al Toscanelli esponendogli il suo progetto e chiedendogli delucidazioni e consigli; e il Toscanelli gli rispose una breve lettera - senza data - mandandogli senz'altro una copia della lettera stessa e della carta che alquanti giorni prima aveva spedito al Martins. C. scrive di nuovo, e il fisico fiorentino risponde con un'altra breve lettera - pure senza data - che contiene solo vaghe e generiche conferme di ciò ch'era stato scritto nella prima. Le tre lettere sono riprodotte, oltre che nel libro di don Fernando, nella Historia del Las Casas; ed è anzitutto da notare che qui la frase alquanti giorni prima è resa con la corrispondente ha dias, che non può avere il senso indeterminato, suscettibile d'essere inteso nel senso che fosse passato molto tempo, ma solo quello di un'epoca pure assai vicina alla data del 25 giugno 1474. Ma si deve subito constatare che C. in quell'anno non era ancora giunto in Portogallo. E basterebbe già questa circostanza per farci dubitare che la corrispondenza diretta sia stata immaginata per far risultare che C. aveva voluto suffragare il suo progetto con l'autorità da tutti riconosciuta del Toscanelli. Nel 1871 il più insigne, forse, fra gli storici colombiani, H. Harrisse, scopriva nella Biblioteca colombiana di Siviglia, in uno dei fogli di guardia della Historia rerum ubique gestarum di Pio II, il testo latino della lettera del Toscanelli al Martins, trascritta di pugno di C., preceduta da un breve titolo, scritto di mano diversa, "copia misa christofaro colombo per paulum fisicum cum una carta navigacionis". Questa lettera, redatta in un latino dove talvolta ricorrono forme quali potevano realmente ricorrere in uno scritto d'un umanista come il Toscanelli, ma che più spesso risente assai davvicin la forma delle postille, appare realmente trascritta da un originale, ma in modo frettoloso e disordinato, specialmente verso la fine, dove alcuni periodi sono disposti senza alcun nesso logico, e dànno piuttosto idea di note scritte in margine precedentemente da C. stesso in una prima copia e unite poi disordinatamente alla trascrizione eseguita più tardi, forse allo scopo di avere a portata di mano in un volume il contenuto della lettera stessa senza correre il rischio di perderla conservandola in un foglio volante. Ora questa lettera latina, diretta al Martins, il cui nome e le cui qualifiche appaiono nel primo rigo, è testualmente tradotta tanto nelle Historie di don Fernando quanto nella redazione spagnola del Las Casas, sebbene così l'uno come l'altro cerchino qualche volta di rettificare qualche dato oscuro. Dopo la scoperta di questo documento non vi poteva essere alcun dubbio che il Toscanelli. avesse realmente scritto al Martins, e che C. fosse riuscito a leggere e a copiare la lettera. Sennonché un critico francese d'innegabile valore e abilità, H. Vignaud, insorse contro l'autenticità di questa e movendo dalla natura apocrifa della corrispondenza toscanelliana, giunse a sostenere la falsificazione di tutti gli altri documenti che accennano al progetto colombiano: cosicché C. si sarebbe proposto semplicemente di raggiungere qualcuna delle isole che la tradizione collocava nell'Atlantico e ch'erano cercate da tanti altri; ma appena toccate le Antille, convinto d'esser giunto all'Asia, non avrebbe avuto che un proposito, quello di far credere che all'Asia per l'appunto egli mirasse. Onde al suo ritorno avrebbe iniziato, con l'aiuto del Las Casas, del fratello Bartolomeo e di altri, tutto un lavorio per imbastire un sistema di prove del presunto scopo al quale avrebbe mirato da gran tempo; così sarebbe sorta la persona del Martins, la corrispondenza col Toscanelli, la postillazione affrettata dell'opera del D'Ailly, e si sarebbero preparati tutti i mezzi per sostenere il gigantesco trucco. Questa tesi ebbe sostenitori e oppositori tenaci e appassionati; ma essa è oggi dalla critica definitivamente scartata, sebbene da alcuni elementi posti in luce dal Vignaud sia emersa la necessità di approfondire lo studio dei documenti colombiani e siano venuti fuori anche nuovi dati sulla vita di C. Il Vignaud nella foga con cui sostenne la sua tesi non vide o non volle veder altro che le argomentazioni che facevano al caso suo, non tenendo presenti, o sorvolando troppo leggermente molti fatti documentati e acquisiti che dovevano persuaderlo della natura paradossale delle sue vedute: basterebbe la prova sicura dei rapporti esistiti fra il Toscanelli e il Martins sin da quando questi era in Italia, nonché di quelli fra il Toscanelli e il re di Portogallo. A dimostrare poi in modo indubbio che un progetto analogo a quello di C. era sorto anche nel Toscanelli e che perciò la lettera al canonico di Lisbona dovette realmente essere stata mandata, dovrebbe bastare la lettera scritta il 26 giugno 1494 dal duca Ercole d'Este al suo ambasciatore a Firenze, per ottenere dal nipote ed erede di Paolo Toscanelli (morto nel 1482) tutte quelle informazioni e quelle notizie che questi aveva dato sopra le isole trovate recentemente per conto della Spagna. Ma soprattutto lo scopo di C. di raggiunger l'Asia, o le Indie come allora si diceva, risulta troppo esplicitamente da documenti insospettabili, privati e ufficiali, dell'anno stesso del ritorno dal suo primo viaggio; e risulta altresì dalla considerazione che troppe persone, dai reali di Spagna e dai loro consiglieri ai marinai stessi ch'erano con C., avrebbero dovuto consentire al trucco perché questo sin d'allora non potesse in qualche modo trapelare. Un tentativo recente di riesumare la tesi del Vignaud, additando in una presunta carta nautica del 1491, attribuita a C. stesso, la prova che il progetto era limitato alla ricerca di isole atlantiche, è stato respinto quasi unanimemente; risulta, fra l'altro, che la carta in questione è secondo ogni probabilità posteriore al 1504.
Si può pertanto considerare come fuori discussione che il Toscanelli scrisse al canonico Martins la famosa lettera che noi conserviamo oggi nell'affrettata, e forse incompleta, trascrizione di C. Ma una corrispondenza diretta fra C. e il fisico fiorentino sembra quasi certamente doversi escludere. Le due lettere riportate dal libro di Fernando e dalla Historia del Las Casas, la prima, che vorrebbe servire di cappello al documento trascritto da C., e la terza, che in modo così vago e inconcludente dovrebbe servir di risposta a una seconda lettera di C., presentano troppi e troppo evidenti indizî che non poterono essere state scritte dal Toscanelli. Intanto è già significativo il fatto che C. non le abbia trascritte con l'altra, e che gli originali nella forma latina non siano mai stati rintracciati; né meno strana è la circostanza che entrambe manchino della data, omissione alla quale vien cercato di rimediare, tanto nel testo italiano quanto in quello spagnolo della prima lettera che deve accompagnare quella scritta al Martins, in modo alquanto vago, riferendosi a una non grande distanza di tempo rispetto a quest'ultima, che figura scritta il 25 giugno 1474, alquanti giorni prima oppure ha dias: evidentemente nello stesso anno 1474, nel qual tempo C. non era ancora in Portogallo. E ben poco ammissibile appare che il Toscanelli, pregato da C. di fornire delucidazioni e schiarimenti sulle sue vedute, ricorra al ripiego di mandare la copia letterale di una lettera scritta a un altro, conservando persino le frasi che si riferiscono alla salute del Martins e ai suoi rapporti col re, e gli mandi pure copia della carta che aveva disegnata per il re in persona. O questi documenti, poi, erano di natura riservata, e il Toscanelli non avrebbe dovuto metterne a parte un estraneo, per giunta a lui sconosciuto; o non lo erano, e allora sarebbe stato più semplice che il fisico fiorentino, sapendo che C. era a Lisbona e che per essere venuto a conoscenza del progetto doveva essere in rapporti col Martins, lo avesse diretto senz'altro a questa persona invece di trascrivere la lettera altra volta spedita. Inoltre, se il Toscanelli avesse mandato direttamente la lettera a C., non si comprende perché questi, in possesso del documento, non lo abbia trascritto tale e quale e senza tutte quelle oscurità, omissioni, trasposizioni di frasi e di parole che, specialmente nell'ultima parte, ne rendono cosi incerto il contenuto: il modo invece con cui la lettera è trascritta rivelerebbe piuttosto la fretta con la quale egli copiava un documento riservato, di cui era forse riuscito a prender visione con qualche sotterfugio. Noi poi siamo troppo incompletamente informati delle vicende della sua vita in Portogallo e in Spagna fra il 1478 e il 1492 per poter indurre in qual tempo egli ebbe conoscenza della lettera toscanelliana: se sono di qualche peso le nostre induzioni che l'opera di Pio II, dove la lettera è trascritta di suo pugno in uno degli ultimi fogli in bianco, fu cominciata a commentare non molto prima del 1488, ci sembra poco probabile che la lettera sia stata riportata in questo stesso volume prima di quest'anno; e, d'altra parte, se è vero che C. nel 1483 - a quanto si suole ammettere - espose il suo progetto al re di Portogallo, non è neppur troppo verosimile che C. corroborasse sin d'allora le sue vedute con quelle della lettera e carta del Toscanelli, poiché avrebbe dovuto meglio d'ogni altro sapere che alla corte queste erano note sin dal 1474, e forse non sarebbe stato neppure prudente mostrare ch'egli conosceva codesti documenti; dell'appoggio che la lettera forniva alle sue vedute dovette, se mai, valersi più tardi presso la corte spagnola. E lettera e carta, probabilmente, furono da lui conosciute dopo aver iniziato, e fors'anche compiuto, il commento all'Imago mundi: nelle postille a quest'opera non ricorre mai il minimo accenno alle vedute del Toscanelli, mentre sarebbe stato così opportuno per lui suffragare col peso di un'autorità contemporanea, di valore così universalmente riconosciuto, tutto quello che in appoggio al suo progetto trovava in fonti antiche. Anzi si potrebbe persino soggiungere che, se egli avesse avuto a sua disposizione da tanto tempo la lettera e soprattutto la carta, si sarebbe persino potuto risparmiare tutto il faticoso lavoro delle postille. Che anche la lettera toscanelliana sia stata d'impulso alla sua decisione di tentare l'impresa si può ammettere; ma si esagera nel considerarla come primo e fondamentale movente. E del resto C., così pratico delle cose di mare e fornito ormai da un pezzo di conoscenze teoriche, doveva ben sapere che i dati forniti dal Toscanelli erano stati trovati a tavolino e che si fondavano su quegli stessi elementi ch'egli pure possedeva.
Codesta influenza diretta e decisiva dell'astronomo fiorentino si deduce soltanto dall'ammissione dell'autenticità della corrispondenza, la quale invece è apocrifa. La lettera trascritta da C. è preceduta, come s'è visto, da un titolo, scritto in caratteri più piccoli e d'altra mano e in forma più italiana che latina. Esso non può essere di C., anche perché questi non avrebbe commesso l'ingenuità di dichiarare diretta a sé una lettera che sin dalle prime parole risulta scritta a un altro: Ferdinando martini canonico lixiponensi paulus phisicus salutem. De tua valetudine, ecc.; e neppure del Las Casas e di Fernando Colombo, i quali avrebbero scritto in un latino un po' diverso, e il nome non sarebbe stato Colombo, ma Columbo o Colono. Furono invece probabilmente il fratello Bartolomeo o il figlio Diego, che, essendosi imbattuti in una lettera riportata da C., così all'ingrosso l'avranno ritenuta diretta a lui. Più tardi l'interpolatore delle Historie, trovandosi di fronte a un titolo in così curioso contrasto col principio della lettera, non vide altro espediente, per spiegare codesta anomalia, che quello d'immaginare una corrispondenza svoltasi in quella forma, cioè con l'invio a C. da parte del Toscanelli d'una lettera già spedita al Martins. E la lettera di questo dette così occasione a immaginare una corrispondenza diretta, che doveva in certo modo rientrare nel piano del manipolatore col mostrare che al progetto di C. non era neppure mancato il sostegno d'uno scienziato come il Toscanelli. Fernando Colombo non avrebbe commesso tanti errori o inventato due documenti cosi inconcludenti, e ben ingenuo sarebbe stato nel mostrare che suo padre, in sostanza, non era stato che l'esecutore d'un progetto concepito da altri.
E non è neppure a credere che C. si sia valso in tutto e per tutto della carta del Toscanelli, se pure la vide (come si spiega, se ne avesse avuto copia, ch'egli senta il bisogno di trascriverne le caratteristiche nel tempo stesso in cui trascrive la lettera?). La carta che servì al primo viaggio doveva invece rassomigliare ben poco alla carta toscanelliana, almeno a quella che è stata ricostruita da H. Wagner e che ha il consenso di pressoché tutti i critici. Il Toscanelli indicava una rotta sul parallelo di Lisbona, e C. ne seguì invece uno di 14° più meridionale, quello delle Canarie; e l'isola Antilia, che certamente anche C. sperava d'incontrare sulla sua via, era dal Toscanelli situata a 50° O. da Lisbona, a 50° E. dal Cipango, e questo a 30° E. da Quinsay. Ora, se dal Diario risulta che il 25 settembre 1492, già a 36°-37° dal meridiano di Lisbona, Martino Alonso Pinzón si stupiva di non aver ancora trovato le isole che l'Ammiraglio aveva disegnato sopra una carta mandatagli tre giorni prima, è chiaro che le isole, e neppure l'Antilia, non erano quelle della carta del Toscanelli. È evidente che le isole dalle quali i Portoghesi, secondo la lettera e la carta di questo, dovevano partire erano le Azzorre: sono queste le isole, alla lat. di Lisbona, sul parallelo delle quali (in directo) dovevano trovarsi l'Antilia, il Cipango e Quinsay, e i 26 spazî della carta, di 5° l'uno, s'intendevano sul parallelo fra Lisbona e Quinsay; onde a torto il Wagner pone queste isole alla latitudine delle Canarie attenendosi alle indicazioni del globo costruito nel 1492 da Martino Behaim, un cosmografo così poco addentro nei segreti della cartografia portoghese da collocare la foce del Congo a 23° anziché a 6° di lat. S., e da ignorare persino la scoperta del Capo di Buona Speranza. Ora, se C. sperava di incontrare l'Antilia lungo un parallelo più meridionale e non dopo 10 spazî di 5° l'uno, ma dopo 7, come poteva avere con sé la carta del Toscanelli? E se poi C., dopo esser giunto a Haiti, appena a 60° O. da Lisbona, ritenne d'essere arrivato al Cipango, come conciliava questa sua convinzione con la carta del Toscanelli che avrebbe dovuto segnarlo a ben 100°? Egli era certamente in grado di valutare con molta approssimazione il numero dei gradi dal computo delle leghe percorse. Né la posizione delle isole, né le distanze corrispondono adunque ai dati del fisico fiorentino; talché, senza escludere che la lettera abbia esercitato qualche influenza sul progetto di C., dovrebbe ormai esser collocata fra le leggende codesta stretta dipendenza, della rotta seguita, dalla carta toscanelliana.
Sulle vicende della vita di C. in Portogallo si hanno dati troppo vaghi e indeterminati per poterne dedurre alcunché di positivo, anche per quello che riguarda una leale offerta del progetto a Giovanni II. Sembra che da questo paese sia passato in Spagna nel 1485-86. Ma anche per quello che riguarda i primi anni della sua dimora in Castiglia si hanno scarse notizie; e tranne qualche documento dal quale risulta effettivamente che egli fu a varie riprese al servizio - non si sa con quali precise mansioni - dei sovrani spagnoli, per il resto si tratta di dati incertissimi e contradittorî che non hanno servito ad altro, purtroppo, che a ricostruzioni di carattere romantico. Certo egli dovette adoprarsi faticosamente per fare approvare il suo progetto alla corte, ma è leggenda la famosa Giunta di Salamanca, che deve ridursi invece alle più modeste proporzioni d'una specie di conversazione privata, tenutasi forse nel 1487, per incarico dato dalla regina Isabella al suo confessore Fernando di Talavera, durante la quale i contradittori di C., oltre ad argomentazioni scolastiche, non devono aver mancato di formularne altre di ben diversa natura, specialmente a proposito della presunta breve distanza delle Indie da occidente. Verso la fine del 1488 C. era di nuovo in Portogallo, e il 2 dicembre assisteva a Lisbona al resoconto del viaggio di Bartolomeo Díaz.
Ma non sappiamo se in quest'occasione egli abbia di nuovo - o per la prima volta - presentato il progetto al Portogallo. E vaghi e contradittorî si conservano ancora oggi gli elementi per dedurre se esso fu offerto effettivamente ad altri stati, Genova, l'Inghilterra, la Francia. In Spagna riprese le trattative, ma il momento era male scelto, perché i sovrani erano impegnati nella lotta contro i Mori; onde non ebbe fortuna neppure questa volta, anche per l'insistenza dimostrata nel non voler cedere in nessun punto delle sue pretese, che parvero esagerate. Leggenda è probabilmente che dopo codesta seconda ripulsa, C. nei primi mesi del 1492, nel dirigersi a Palos si presentasse lacero e affamato col figlio Diego a chiedere ospitalità al convento della Rábida. Egli fu certamente in questo convento, ma verosimilmente per interessare al suo progetto il p. Juan Pérez, che era stato confessore della regina e poteva perciò conservare il suo ascendente sull'animo di lei. Infatti il Pérez, udito dapprima il parere del medico García Hernández di Palos mandò un messo alla regina intercedendo per l'accoglimento del progetto; e certo si deve all'autorevole interessamento del religioso spagnolo se il piano dell'impresa fu di nuovo preso in considerazione. Finalmente superate le ultime opposizioni soprattutto per l'appoggio prestato da Alessandro Giraldini, precettore dei figli del re, e non meno per quello dato per la parte finanziaria dal tesoriere Luis de Santangel, il 17 aprile 1492 si stabiliva una convenzione a S. Fe per la quale la spedizione veniva decisa: C. sarebbe stato nominato Ammiraglio dei mari dove terre e isole fossero state scoperte; di queste sarebbe stato nominato viceré, con diritto di trasmissione ai suoi discendenti, e con diritto alla decima parte dei proventi. Il compito, non troppo agevole, di organizzare la spedizione fu soprattutto assolto dai fratelli Pinzón, ricchi ed esperimentati armatori di Palos, la cui opera riuscì specialmente preziosa per la formazione dell'equipaggio. Due navi furono armate dalla città di Palos, a ciò costretta in pena di non si sa quale colpa collettiva, e l'altra dagli stessi Pinzón: nave capitana la S. Maria, di 200 tonnellate; le altre due, Pinta di 140 e Niña, di poco più di 100 tonnellate, erano rispettivamente comandate da Alonso e V. Yañez Pinzón. Erano caravelle a tre alberi, le prime due a vele quadre con il solo albero di mezzana a vela latina, e l'altra a vele latine; l'equipaggio era complessivamente di 120 uomini. La spedizione aveva in sostanza uno scopo commerciale: quello di raggiungere i paesi ricchi di spezie e di metalli preziosi dell'Asia orientale ed eventualmente di conquistare le terre e le isole che si fossero incontrate lungo il cammino. C. poi dichiara espressamente nel Diario (21 ottobre), che era latore d'una lettera dei sovrani al Gran Can: tanta fede aveva di pervenire all'Asia!
E così finalmente il 3 agosto del 1492, alle 8 del mattino, la spedizione salpava dalla barra di Saltes di fronte a Huelva per il viaggio più memorando che sia stato mai compiuto dagli uomini, il primo in cui l'uomo abbia attraversato d'un colpo l'Oceano fra due continenti. Qui sta soprattutto la grandezza di C.: pur con tutti gli errori e i difetti del suo audacissimo piano, egli ebbe per primo il sovrumano ardimento di accingersi a superare l'immensa barriera acquea posta fra i due mondi, allo scopo di avvicinare e collegare in un sol tratto dalla parte d'occidente quelle stesse spiagge che dalla parte d'oriente millennî di storia erano faticosamente riusciti a porre appena in contatto. Nulla potrebbe valere ad attenuare l'augusta, l'immensa portata della sua impresa: non l'illusione dalla quale mosse e dalla quale non si staccò mai, non il fatto che da varie fonti egli ebbe o poté avere indicazioni e incoraggiamenti al suo tentativo; e rimane sempre al disopra di tutto e di tutti quello che egli stesso il 4 marzo del 1493 scriveva ancora prima di approdare in Spagna, in fine della lettera al Santangel, e che così suona nella versione latina: Solet enim Deus servos suos, quique sua praecepta diligunt, et in impossibilibus exaudire, ut nobis in praesentia contigit, qui ea consecuti sumus, quae hactenus mordalium vires minime attigerant. Nam, si harum insularum quipiam aliquid scripserunt aut locuti sunt, omnes per ambages et coniecturas, nemose eas vidisse asserit, unde prope videbatur fabula.
Di questo primo viaggio, che naturalmente supera per importanza gli altri tre, possediamo una relazione in forma dî diario (il primo che si conosca in questa forma), scritto minutamente da C., con la registrazione delle distanze giornalmente percorse, delle direzioni delle rotte seguite e delle cose più notevoli osservate; esso ci è conservato oggi nella redazione del Las Casas, il quale però non ebbe sott'occhio l'originale, ma una copia probabilmente già ridotta, talché il Diario non è sempre riprodotto testualmente, ma in molti luoghi, purtroppo, solo riassunto. Le tre navi si diressero alle Canarie, ch'era il possesso più occidentale della Spagna nell'Oceano; di qui si sarebbe iniziato il grande viaggio verso l'ignoto, fors'anche perché era a conoscenza di C. che da quel punto poteva giovarsi dei venti favorevoli di E. Prima ancora di giungervi si era prodotta un'avaria alla Pinta, il che richiese una sosta di quattro settimane alla Gran Canaria per le necessarie riparazioni. E il 6 settembre s'iniziò la navigazione, proseguita poi per lunghissimo tratto sul parallelo di Gomera (circa 28° N.), quasi certamente perché C. aveva ricevuto istruzioni di attenersi alle clausole del trattato di Toledo (1480), con le quali la Spagna s'era impegnata verso il Portogallo a non dirigere spedizioni di scoperta a S. delle Canarie. Sono note le vicende del viaggio: le tre navi procedettero sempre di conserva con vento favorevole, fra l'alternarsi di speranze e delusioni di terre intraviste e rivelantisi inesistenti, e fra le mormorazioni dei marinai che temevano d'essere condotti troppo lontano; tanto che C., per evitare che l'equipaggio potesse abbandonarsi a sconfortanti previsioni, aveva adottato il sistema, sin dal quarto giorno della partenza dalle Canarie, di segnare un minor numero di leghe percorse. Anche il fenomeno, verificatosi o meglio constatato la prima volta, dell'improvvisa deviazione occidentale dell'ago della bussola a cento leghe oltre le Azzorre (17 settembre), spaventò non poco i marinai, ma avendo C. osservato che a 9 ore di distanza l'ago era di nuovo in direzione della Polare, spiegò il fenomeno con l'ammettere che questa non coincideva col N., ma descriveva anch'essa un circolo diurno intorno al polo. L'osservazione ripetuta il 30 confermò C. in questa convinzione, che era giusta, sebbene allo spostamento diurno della Polare (allora di un raggio di 3° 30′) si accompagnasse un'effettiva deviazione dell'ago verso O. in conseguenza della declinazione: fenomeno constatato poi in seguito, e per la prima volta, da C.: ma del quale sembra che egli allora non si rendesse conto.
Leggenda è che l'equipaggio abbia minacciato a un certo punto di ribellarsi, e che il tentativo di rivolta sia stato dominato dall'energico contegno e dal prestigio dei Pinzón: la leggenda si formò al tempo del processo intentato al Fisco dagli eredi di C., e fu preparata dai discendenti di quei navigatori, ai quali si volle persino attribuire il merito d'aver per i primi concepita l'impresa! Certo è però che i Pinzón, almeno sino al primo approdo, furono di valido ed efficace aiuto, se non nel consiglio, nell'azione. Per la ormai lunga durata del viaggio, circa un mese, senz'aver incontrato nessuna isola, qualche incertezza dev'essere sorta anche nell'animo di C.; tuttavia al parere di M. Alonso Pinzón (6 ottobre) di piegare a SO. egli non volle aderire, ritenendo che il Pinzón volesse raggiungere il Cipango, mentre egli voleva anzitutto raggiungere il continente. Il giorno seguente stabilì di volgere le prore in quella direzione, indotto dai voli sempre più frequenti degli uccelli, ma con intenzione di seguire la nuova via solo due giorni. Gl'indizi di terra non lontana venivano facendosi ormai più sicuri: ramoscelli di piante terrestri, un bastone intagliato resero certa la vicinanza della terra, della quale l'11 ottobre era in tutti il presentimento. Già sul far della notte C. stesso aveva intravisto un lume lontano e aveva raccomandato ai marinai d'intensificare la vigilanza: ma doveva essere un marinaio della Pinta, Rodrigo da Triana, a distinguere per il primo la terra, alle due del mattino del giorno 12 di ottobre.
L'isola nella quale sbarcarono e di cui presero solennemente possesso in nome dei reali di Spagna si presentava bassa, con una grande laguna nel mezzo, e coperta di vegetazione; ed era popolata da indigeni nudi, che si aggirarono intorno agli Europei con la massima famigliarità e confidenza. Essi chiamavano l'isola Guanahani, e C. la ribattezzò col nome di S. Salvador, identificata oggi comunemente con l'attuale isoletta di Watling, nelle Lucaie. C., nel Dario, la pone alla stessa latitudine del Ferro (28°), mentre è di 4° più al S.; ma tanto per questa quanto per le altre isole scoperte in seguito in questo primo viaggio, l'indicazione delle latitudini è volutamente errata, essendo subordinata a un suo piano preconcetto, quello di non farle risultare a S. delle Canarie perché non ne contestasse il diritto di possesso il Portogallo. Fu per non aver tenuto conto di questo suo sistema, che del resto era comune a quel tempo, e per aver voluto prendere alla lettera le sue indicazioni, che si dedussero le conclusioni, generalmente ammesse, sul difetto di cognizioni nautiche e cosmografiche di C. (persino errori di 20° gradi), mentre il grande navigatore dimostrò all'occasione d'essere in questo campo della nautica ben al disopra degli altri del suo tempo. L'isola era estremamente povera, e nulla in essa faceva lontanamente presagire i paesi delle favolose ricchezze descritte da Marco Polo; tuttavia da qualche piccola mostra d'oro usato per ornamento dagl'indigeni gli Spagnoli argomentarono che potesse trovarsene in maggior quantità procedendo a O.; onde proseguirono il viaggio attraverso al gruppo delle Bahama nella ricerca affannosa del prezioso metallo, scoprendo di mano in mano parecchie isole della stessa natura della prima, abitate da indigeni miti e ospitali, ma senza incontrare indizî di quello che soprattutto cercavano: finché seguendo le vaghe indicazioni loro lasciate, giunsero il 28 ottobre nel tratto SE. della costa settentrionale di Cuba (tale era il nome indigeno). C. la ritenne dapprima il Cipango, ma poco dopo (1° novembre) fu convinto d'essere giunto sul continente nelle vicinanze del Quinsay e della sede del Gran Can, indotto più che altro dalle vaghe analogie dei nomi locali, e spedì persino un'ambasceria nell'interno per rintracciare il Gran Can e consegnargli la lettera dei reali di Spagna! Visto che né di questo, né dei palazzi dai tetti d'oro, né di abitanti ricoperti di seta e di gemme esisteva alcuna traccia, dopo aver costeggiato l'isola inutilmente verso NO., avendo creduto di comprendere dagl'indigeni che a SE. avrebbe incontrato una grande isola, Babeque, dove l'oro abbondava, il 12 novembre prese questa direzione. Pochi giorni dopo, il 21, Martino Alonso si allontanò di nascosto con la Pinta, forse per essere il primo a raggiungere l'agognata meta, e forse anche per precedere in Spagna l'Ammiraglio con l'annunzio della scoperta. Il 5 dicembre fu veduta l'estremità NE. di Haiti, che Colombo chiamò Hispaniola. L'isola apparve più ricca e meglio popolata di Cuba, e C. ritenne dovesse, essa, identificarsi col Cipango. Perduta, nella notte fra il 25 e il 26, la S. Maria che aveva dato in secco sopra un banco di sabbia, C. fu costretto a lasciare nell'isola in un forte battezzato la Navidad, una colonia di 43 uomini; i quali intanto, partito che egli fosse per la Spagna, avrebbero dovuto esplorare l'interno, stabilire rapporti con gli abitanti e soprattutto attendere alla ricerca dell'oro. Questa, come emerge chiaramente dal Diario, è la sua costante preoccupazione; e si spiega, naturalmente, con il bisogno che egli aveva di recare la prova che il viaggio aveva raggiunto lo scopo e fors'anche con la preoccupazione che, ritornando senza campioni di metalli preziosi, ben difficilmente il governo spagnolo avrebbe fornito i mezzi per una seconda spedizione. Il 3 gennaio del 1493 partiva con la sola Niña per il ritorno in Europa. Incontrata pochi giorni dopo la Pinta, il cui capitano volle giustificare il distacco con la scusa che il vento lo aveva trascinato a forza al largo, si diresse a NE. con intenzione di non fermarsi che in Spagna; e in questa rotta, da lui studiatamente scelta, sta la prova delle sue conoscenze o sia pur anche delle sue giuste divinazioni del regime dei venti e delle correnti tropicali dell'Atlantico.
Così lasciava C. le terre scoperte, convinto d'aver raggiunto l'Asia, o almeno le terre marginali del continente. A chi getti anche solo un'occhiata sopra la carta, si presenta con tutta evidenza e nelle sue proporzioni l'errore del grande genovese, errore di quasi una semicirconferenza; ma i presupposti teorici dai quali egli partiva - l'enorme estensione dell'Ecumene verso oriente, ammessa per lunga e concorde tradizione e dominante al suo tempo, e il valore di 56⅔ miglia italiane attribuito al grado terrestre - ben giustificavano in lui, anche a impresa compiuta, le sue vedute originarie. Certo, peraltro, l'Asia, o almeno le propaggini di questa, dovevano essergli risultate assai più vicine di ciò che egli prevedeva; perché le nuove terre non vennero mai da lui confuse con l'Antilia o con altre isole presupposte lungo il cammino; onde l'Asia dovette apparirgli estesa in larghezza assai più di quello che risultasse dai dati di Marino e dello stesso Toscanelli. Ma in realtà, di cotesta estensione dell'Asia non si sapeva nulla di positivo, ed era estrema anche allora come per l'innanzi la difficoltà della determinazione delle longitudini. Si abbia infine presente che prima che il viaggio di Magellano svelasse l'immensa distesa del Pacifico, e anche dopo che il memorando viaggio di Vespucci del 1501-02 aveva rivelato l'indipendenza della massa meridionale, il continente settentrionale fu ritenuto ancora per lungo tempo l'Asia o parte avanzata dell'Asia, e ancora nel 1517-18, e oltre, al tempo delle spedizioni di Grijalva e di Cortez, gli abitanti dello Yucatán presentavano agli occhi degli esploratori molta somiglianza coi Mori e coi Giudei. E giustamente C. sentiva che il risultato ottenuto doveva apparire immenso, anche se il pochissimo oro riportato e i campioni di cotone, di verzino, di alcune presunte droghe, di pappagalli e d'un gruppo d'indigeni che egli portava con sé dovevano apparire ben poca cosa in confronto alle ricchezze sterminate che egli si attendeva di trovare.
Talché quando, dopo un viaggio difficilissimo - le tempeste lo spinsero prima alle Azzorre e poi alla foce del Tago - egli approdò a Palos (15 marzo 1493), le accoglienze ch'egli ricevette furono veramente trionfali, e gli onori che in seguito ebbe attraverso la Spagna, furono quelli che si potevano tributare a un sovrano. Né era solo l'entusiasmo per il successo meraviglioso e dai più insperato, non l'orgoglio di avere per la prima volta le navi spagnole dischiuso una via intentata e trovato un Mondo Nuovo: ma era soprattutto, almeno in un primo tempo, il presentimento che da quel giorno si apriva per la Spagna un'era nuova, quella di un'espansione coloniale che ne avrebbe allargato immensamente la potenza e l'impero: i Portoghesi dopo decennî di fatiche erano appena giunti al Capo di Buona Speranza, ed erano ancora ben lontani dalle Indie agognate, mentre per la Spagna a 38 giorni di navigazione dalle Canarie appariva la soglia dell'Asia.
Né tardò il Portogallo a sollevare la questione del diritto di possesso delle nuove terre, fondandosi su quel trattato di Toledo che concedeva ai Portoghesi le terre e le isole scoperte e da scoprire a S. delle Canarie e di fronte alla Guinea, iniziandosi così quella lunga serie di contrasti e di diatribe che dovevan culminare all'epoca della conquista delle Molucche. E poiché i diritti precedenti erano stati confermati da bolle papali, avendo i Portoghesi fatto valere i loro meriti nella lotta contro gl'infedeli e nella diffusione della fede, così gli Spagnoli, mentre si organizzava una nuova e più vasta spedizione, ricorsero alla medesima autorità adducendo le stesse benemerenze per ottenere la conferma al loro diritto di possesso; e ottennero così da Alessandro VI, papa della loro nazione e legato da molti interessi alla politica spagnola, una serie di bolle emanate a pochi giorni di distanza l'una dall'altra con le quali si allargavano di mano in mano le concessioni alla Spagna: dopo due bolle del medesimo giorno (3 maggio 1495) ne venne una (4 maggio) con la quale si fissava la famosa raya (linea) a 100 leghe a O. dalle Azzorre, in modo che alla Spagna fosse riconosciuto il possesso e il diritto di conquista di tutto ciò che si trovava a O., sia a N. sia a S. delle Canarie, e al Portogallo il rimanente a E. Non solo; ma nel dubbio che i Portoghesi potessero trovar terre che si presumevano ricche a S. dell'equatore fra l'Africa e la raya stessa, con un'altra bolla del 24 settembre dello stesso anno i diritti spagnoli vennero estesi a qualunque terra essi avessero incontrato procedendo indefinitamente verso O., purché non fosse già stata occupata effettivamente da un altro stato. Non fu la decisione del papa, come si volle credere, frutto di un intervento motu proprio fra due parti in contesa, ma un giudizio a richiesta della Spagna e a tutto favore di questa; e si ha pure la certezza che i criterî per la ripartizione furono suggeriti e fatti sostenere dallo stesso C., che voleva esser libero di procedere verso occidente, sia a N. sia a S. delle Canarie, per giungere alle Indie, alle quali riteneva d'essersi avvicinato assai più che non i Portoghesi da oriente. Sennonché il Portogallo non poteva appagaisi d'una siffatta ripartizione; perciò, quando C. si trovava già per la seconda volta alle Antille, si addiveniva, dopo aver sentito il suo parere, a un nuovo accordo diretto fra le due parti (trattato di Tordesillas del 7 giugno 1494), per il quale la raya veniva trasferita a 370 leghe a O. delle Isole del Capo Verde, guadagnando il Portogallo un notevole spazio a occidente (tanto che pochi anni dopo poteva stabilirsi nel Brasile), ma allargando la Spagna d'altrettanto la propria sfera verso l'antimeridiano della linea stessa, in modo da potere più tardi accampare il diritto sulle Molucche ch'erano appunto in prossimità di quello. In realtà peraltro, non si ritenne lì per lì di specificare per quale delle isole dovesse passare la nuova raya, né si pensò a fissare il valore della lega da adottarsi né quello del grado del parallelo sul quale dovevano computarsi le 370 leghe: ciò che probabilmente ognuna delle due parti volle evitare per potere in seguito interpretare le formule vaghe e indeterminate del trattato a proprio vantaggio.
La 2ª spedizione, allestita fra le più larghe speranze e con mezzi imponenti, fu di 17 navi con circa 1500 persone, la maggior parte delle quali erano agricoltori che recavano con sé campioni di colture e di animali domestici per tentare lo sfruttamento agricolo dei nuovi paesi, che C. aveva descritti così promettenti. Essa partì da Cadice il 25 settembre del 1493; dopo una breve sosta alle Canarie si diresse a SO., riuscendo sull'orlo forzato dalle Piccole Antille e scoprendo di mano in mano la Dominica, la Maria Galante e la Guadalupa, che furono trovate abitate da popolazioni bellicose e ostili, dette Caribi (le cui abitudini antropofaghe furono dedotte forse, più che altro, da usi e credenze religiose sulla conservazione delle ossa dei parenti defunti). Dopo la scoperta di altre isole del gruppo, Montserrat, Antigua, S. Cruz e delle Vergini, la flotta costeggiò Porto Rico e il 25 novembre giungeva ad Haiti; dove, prima delusione, C. non trovò più nessuno dei 43 compagni che aveva lasciato a la Navidad, uccisi dagl'indigeni e dal clima. Ma ben più gravi dovevano rivelarsi le delusioni di questo secondo viaggio: difficilissimo l'adattamento dei nuovi coloni al clima, scarsissimi l'oro e quei prodotti preziosi dai quali potesse venire un compenso immediato alle spese della spedizione, sospettosi e ostili gl'indigeni, sfiduciati ben presto e contrarî i compagni che erano stati attratti dalla speranza di conseguire facilmente la ricchezza. E, in mezzo a tutte queste difficoltà, C. non fu certo all'altezza del suo compito: i suoi atti e le sue decisioni non rivelano i tratti fermi e maschi dell'uomo di conquista. Autoritario talvolta, e anche spietato, fu più spesso debole e soprattutto, mentre nella sua qualità di straniero si sentiva facilmente esposto alle antipatie degli Spagnoli, privo di senso pratico e d'accorgimento. Fermo poi nella sua idea che Haiti fosse il Cipango e Cuba il continente, egli volle proseguire a O. per raggiungere il paese del Gran Can. Questa volta scese a S. per lo stretto fra Haiti e Cuba, e dopo avere scoperto la Giamaica (5 maggio 1494) costeggiò il lato meridionale di Cuba, aggirandosi in quel labirinto di isolotti che egli chiamò Jardin de la Reina; ma per le difficoltà della navigazione e la scarsità delle vettovaglie non poté proseguire oltre l'isola di Pinos, presso l'estremità O. di Luba. Per poco che avesse proceduto avrebbe constatato l'insularità di questa terra; egli invece, in base alle sue idee preconcette e seguendo, al solito, alcune vaghe assonanze di nomi locali, ritenne di essere giunto in prossimità dell'Aurea Chersoneso (Malacca). Anzi, poiché probabilmente - sia per quel poco che potevano lasciar capire gl'indigeni, sia per quello che si poteva dedurre da codesto continuo imbattersi in popolazioni selvagge, anziché nei ricchi e civili abitatori descritti da M. Polo - qualcuno dei suoi compagni dovette aver manifestato dubbî sopra la realtà del suo convincimento, egli fece stendere da un notaio la dichiarazione che una terra come quella, che era stata costeggiata per centinaia di miglia, non poteva essere che un continente, e volle che tutto l'equipaggio la giurasse per vera, comminando a colui che in seguito l'avesse rinnegata una pena che andava dalla multa di 10 mila maravedis (moneta di un valore di 1 centesimo e mezzo) al taglio della lingua! Ingenuo e vano espediente, escogitato forse per evitare che, diffondendosi in Spagna la nuova di codesto continuo occorrere di grandi isole che né le carte del tempo né alcuna tradizione conoscevano, si finisse con essere persuasi che quella non era l'Asia delle grandi ricchezze rimuneratrici.
Ritornato all'Isabella (che era la nuova sede da lui fondata in Haiti), C. vi trovò il fratello Bartolomeo, giunto dalla Spagna con tre navi; ma trovò anche, purtroppo, la colonia in istato di completo sfacelo, con gli Spagnoli sfiduciati e indolenti, ridotti ormai esclusivamente a sfruttare il lavoro degl'indigeni, talché questi sotto i loro cacicchi si rivoltarono cagionando nuove e più spietate repressioni. Era fallito anche questa volta lo scopo del ritrovamento dell'oro, nonché quello d'un visibile e pratico raggiungimento dell'Asia; e tutt'altro che promettente si rivelava lo sfruttamento agricolo della colonia. Il malcontento degl'illusi che ritornavano in patria più poveri di prima e il risentimento di coloro che avevano avuto contrasti con l'Ammiraglio, non potevano mancare di destare in Spagna sfiducia e preoccupazioni. E a informarsi dello stato delle cose fu nell'ottobre del 1495 mandato ad Haiti Juan Aguado, proprio quando C. era impegnato nella lotta contro i cacicchi; e, poiché i poteri dell'inquisitore non gli parvero chiaramente definiti, egli pensò prudente, lasciato come adelantado il fratello Bartolomeo, di ritornare in Spagna, dove giunse l'11 giugno 1495, allo scopo di ristabilire il suo prestigio. Riuscito a riacquistare il favore della corte e a ottenere la conferma dei suoi privilegi, ottenne anche d'istituire un maggiorasco con facoltà di trasmettere titoli e diritti ai suoi discendenti in linea maschile.
La 3ª spedizione non poté organizzarsi che assai lentamente per la difficoltà di trovare i mezzi finanziarî. Essa fu di 8 navi, allestite per conto della casa Berardi da Amerigo Vespucci; di esse due furono spedite innanzi nel gennaio e le altre sei salparono con C. il 30 maggio 1498 da S. Lucar. Dalle Canarie però C., mandate tre navi direttamente ad Haiti, volle con le altre dirigersi a S. per accertarsi se al di là dell'equatore esistessero, come avevano divulgato i Portoghesi, terre ricche di spezie. Sennonché dopo qualche giorno che s'era oltrepassata Santiago (Isole del Capo Verde), per le sofferenze del caldo terribile, l'Ammiraglio decise di proseguire verso O. lungo il 10° parallelo N. sul quale si trovava. Il 31 luglio giungeva così in vista di una grande isola, ch'egli chiamò Trinidad, alla foce dell'Orinoco. Costeggiata la parte meridionale dell'isola, entrò per lo stretto chiamato Boca de las Sierpes nel Golfo di Paria, e dalla punta dell'Arenal vide il 2 agosto profilarsi a NE. una terra che egli ritenne isola e che battezzò Isla de Gracia. Era in realtà la Penisola di Paria, sulla quale pochi giorni dopo posero piede alcuni marinai; onde, escluso ormai il viaggio di Vespucci nel 1497 e ammesso che Giovanni Caboto nel primo viaggio non toccò il 25 giugno del 1497 la costa del Labrador ma solo un'isola (forse del C. Bretone), rimane a C. anche l'onore di avere per primo scoperto effettivamente la costa del continente americano. Anzi, pare accertato che egli stesso intuisse la natura continentale della nuova terra dalla persistenza delle acque dolci sul Golfo di Paria, che egli comprese non potersi spiegare se non come dovuta ad un gran fiume. Ma in ogni modo neppure qui si ha il minimo indizio che egli avesse il sospetto d'aver a che fare con una massa diversa dall'Asia (due anni dopo, negli stessi paraggi, V. Yañez Pinzón riteneva d'aver oltrepassato la foce del Gange, e lo stesso Vespucci, nel primo viaggio del 1499-500, riteneva essere quella terra parte dell'Asia). Uscito dal golfo per lo stretto settentrionale, chiamato Boca del Drago, costeggiò per qualche tratto la penisola, indi si diresse al N. e il 22 agosto del 1498 entrò nel porto di S. Domingo, la nuova città che era stata fondata dal fratello Bartolomeo sulla costa meridionale di Haiti. Le condizioni in cui trovò la colonia erano assai tristi: allo scarsissimo rendimento, al malcontento degl'indigeni, si aggiungeva ora l'aperta ribellione di Fr. Roldan, alcade dell'Isabella, e a questa dovevano unirsi le mene d'un altro avventuriero, Alonso de Hojeda. Anche ora C. non rivelò nessuna qualità d'uomo di governo: non ebbe neppure il coraggio d'affrontare sin dal principio i suoi nemici, e giunse al punto di seendere a trattative coi ribelli. L'eco di codesti contrasti e lotte così esiziali in una colonia in formazione, giungeva naturalmente alla corte: C. stesso anzi aveva chiesto l'invio di persona autorevole investita dell'autorità di fare un'inchiesta sui ribelli (egli, il viceré!). E nell'agosto del 1500 comparve, delegato a quest'uopo dal governo spagnolo, Francesco da Bobadilla; ma in realtà questi era investito di poteri più ampî, quelli di arbitro senza controllo e, eventualmente, di governatore. Disgraziatamente C., sempre oscillante fra la mitezza e il rigore, si era proprio allora deciso a un'energica e spietata politica di repressione, condannando alle forche varî Spagnoli implicati in una congiura; onde era fatale che sull'animo già mal disposto del Bobadilla influissero in prevalenza sentimenti ostili, avvalorati dalle voci concordemente avverse all'Ammiraglio; il quale, coi fratelli Bartolomeo e Diego, fu messo in catene e in questo stato inviato in Spagna (fine di novembre del 1500). È leggenda però che in catene fosse introdotto dinanzi ai sovrani: i quali invece, deplorando l'affronto fattogli, lo accolsero con gli onori dovuti al suo grado.
Così finiva miseramente questo terzo viaggio; ma non bisogna neppure credere che la diffidenza ormai diffusa contro le idee di C. fosse dovuta solo a ingratitudine e a una preconcetta ostilità o a ingiusta incomprensione: in realtà troppo forte era il contrasto fra il molto che si attendeva e il pochissimo che dall'impresa si traeva. Il valore scientifico delle scoperte non contava, allora, che sino a un certo punto, né sappiamo quanto valesse presso i governanti il fine religioso della conversione degl'indigeni. Quello che si voleva era l'oro. Si aggiunga poi che, a rendere ancor più amara la delusione, nel settembre del 1499 era ritornata a Lisbona la spedizione di Vasco da Gama, reduce dalla meta effettivamente raggiunta delle Indie, con quei ricchi e remunerativi prodotti che C. aveva sin qui învano cercati. E infine varî navigatori, lanciatisi per proprio conto sulle orme del grande scopritore (Juali de la Cosa, V. Yañez Pinzón, Rodr. de Bastidas, Alonso Niño, A. Vespucci), cominciarono a richiamare su di sé quell'attenzione che sin qui era stata rivolta all'Ammiraglio sebbene nessuno di questi navigatori fosse ritornato con proventi che compensassero le spese della spedizione. La stella di C. volge ormai al tramonto e per il grande navigatore s'inizia quel periodo doloroso in cui alla tenace, ostinata persistenza nella sua idea sente ormai contrapposto pressoché generalmente lo scetticismo o l'aperta sfiducia. Tuttavia il prestigio del suo nome rimaneva, e ancora valeva presso qualcuno l'ascendente della sua fede; e fors'anche v'era a corte la preoccupazione che, opponendosi definitivamente a un ultimo tentativo che C. chiedeva di fare, la Spagna, dopo otto anni di lotte e di spese, fosse esposta a lasciarsi tagliar fuori per sempre da una meta verso la quale si avanzava sempre più la potenza rivale, che proprio allora dal trionfante viaggio di A. Vespucci (1501-02) s'era assicurata anche a O. il dominìo del Brasile sino alle foci del Plata. E fu così organizzata la 4ª spedizione, composta di 4 piccole navi, che salparono da Cadice il 9 maggio 1502. Il viaggio, in cui C. ebbe compagni il fratello Bartolomeo e il figlio Fernando quattordicenne, avrebbe dovuto compiersi lungo una ormai presupposta terra avanzata dell'Asia, e (trovato uno stretto) riuscire nel mare orientale: idea nella quale gli esploratori spagnoli si affaticarono poi per un ventennio.
Sino alla Dominica la rotta fu quasi esattamente identica a quella del 2° viaggio; indi l'Ammiraglio si diresse a S. Domingo, dove il nuovo governatore Ovando doveva proibire a lui, viceré, di toccar terra. Fu un viaggio, quest'ultimo, veramente disastroso per il continuo, incessante accumularsi d'impedimenti d'ogni genere, soprattutto delle correnti e dei venti che in nessuno dei viaggi anteriori erano stati così ostinatamente avversi: si può dire che, più che dalla volontà dell'Ammiraglio, la piccola flotta fu dominata dalle tempeste. Dopo essere passate a S. della Giamaica, le navi furono spinte sulla costa di Cuba, e di qui, sempre trascinate dalle correnti e dal vento, raggiunsero l'isoletta Guanaia (Bonacá), all'ingresso S. del Golfo di Honduras. L'incontro in questi paraggi di una canoa di indigeni Maya ben vestiti ed equipaggiati e recanti con sé mercanzie che rivelavano abitudini d'una civiltà ben superiore a quella degli altri incontrati sin qui, e le informazioni avute, dalle quali C. ritenne di poter raccogliere le prove d'un paese più a S., detto Veragua, ricco d'oro, lo indussero, anziché continuare verso il N., a dirigersi verso mezzodì. Singolare destino! S'egli avesse continuato nella direzione primitiva, sarebbe giunto alle soglie del Messico, il suo prestigio si sarebbe di colpo ristabilito, e al suo nome sarebbe stata legata anche la scoperta di quella regione, che doveva finalmente per la prima soddisfare con le sue ricchezze il bisogno d'oro della Spagna. Dalle vicinanze di Trujillo, dopo una navigazione difficilissima, giunsero al capo Gracias á Dios nell'Honduras. Procedendo a sud C. ritenne, dalla direzione della costa, d'essere nei paraggi dell'Aurea Chersoneso e di poter trovare lo stretto che lo avrebbe condotto all'India di qua dal Gange; tanto che, giunto alla costa di Veragua (costa settentrionale del Panamá), egli scriveva d'essere ormai distante dall'India d'un tratto come fra Pisa e Venezia; e uno schizzo del fratello Bartolomeo suffraga perfettamente questa sua convinzione. Anche qui, se le condizioni di salute sua e i mezzi glielo avessero consentito, egli avrebbe potuto, seguendo le indicazioni degl'indigeni, tentare la traversata dell'Istmo e precedere di dieci anni la scoperta di Balboa. Mai come in questo viaggio gli fu così avversa la sorte; ma sarebbe iniquo non riconoscere che anche in questo le sue scoperte dovevano lasciare tracce incancellabili, fornendo i primi elementi alle gloriose e fortunate imprese di Balboa e di Cortez. Dopo varie soste a Puerto Belo e nei porti di Bastimentos, di Retrete, ritornò verso Veragua, sempre in mezzo a tormentose tempeste, e risalito il fiume Betlem (Yebra) tentò di fondar qui una colonia, che dovette però subito abbandonare per l'ostilità degli indigeni. E con due navi malconce e un equipaggio ridotto e indebolito dalle malattie e dagli stenti, tentò ancora di scoprire terre verso il S. spingendosi sino al Golfo di Darien. Ma ormai non gli restava che decidersi al ritorno, e si diresse alla Giamaica, dove giunse dopo infinite traversie, trovando riparo nel Porto di S. Gloria (S. Anna), sulla costa settentrionale, con le navi non più in istato di proseguire il viaggio, onde fu forza attender qui lunghi mesi, fra gli stenti della fame, le malattie, fra i pericoli delle rivolte degl'indigeni e le sedizioni di parte dei compagni (i fratelli Porras), che qualche avvenimento insperato lo salvasse da una situazione tragica. C. ci appare ormai un vinto, un rassegnato: non più forza, non più energia, ma solo il rimpianto amaro e sconfortato. Fu fortuna che un suo fido e affezionato, Diego Mendez, con un Bartolomeo Fieschi, genovese, ebbe l'audacia di dirigersi, in due fragili canoe montate da 14 uomini, verso l'isola di Haiti, riuscendo, dopo una navigazione miracolosa di cinque giorni, a toccare terra e a ottenere dall'Ovando una piccola nave di soccorso. E così, dopo dieci mesi di sosta fra privazioni indicibili, C. poté lasciare la Giamaica il 28 giugno del 1504 e far ritorno in Spagna (7 novembre 1504).
Anche questa volta il fine non appariva raggiunto, e lo stato miserando dei reduci bastava ormai per impedire che si nutrissero altre illusioni sulla possibilità di raccogliere alcunché di rimunerativo; anzi l'aver costeggiato un così lungo tratto di terraferma senz'aver incontrato nessuno stretto rendeva ancor più aggrovigliata e inverosimile la soluzione d'un problema che l'Ammiraglio era ormai solo, nella sua fede, a considerare risolvibile. E questo egli stesso comprendeva, tanto che non sollecitò nessun altro tentativo, anche perché, essendo morta la sua grande protettrice, la regina Isabella, l'ambiente della corte si fece a lui decisamente ostile. D'ora innanzi egli sembra non avere più che una preoccupazione: quella di difendere per i suoi discendenti quei diritti e quei privilegi, che i servizî resi e i patti convenuti avrebbero dovuto assicurargli, contro la politica gretta e subdola del re e dei suoi consiglieri. E sino all'ultimo s'illuse d'aver raggiunto l'Asia, talché nessun torto gli fecero i contemporanei nell'accogliere la proposta, fatta nel 1507 dal cosmografo tedesco Martino Waldseemüller, di denominare la grande terra meridionale esplorata e rivelata per la prima volta da Amerigo Vespucci col nome di America; la sorte fu, se mai, ingiusta solo nell'aver permesso che il nome a poco a poco si fosse esteso a tutto il continente: è una grande ingiustizia credere che il Vespucci sia stato un usurpatore della gloria di C. Le scoperte dei due grandi Italiani avvennero in campi essenzialmente diversi, e in base a concezioni indipendenti; nessuna rivalità o antagonismo fu mai tra loro: una delle ultime lettere scritte da C. contiene espressioni di affettuosa riconoscenza per il grande navigatore fiorentino, e rivela anche una stima e un'amicizia che erano di lunga data.
C. moriva a Valladolid il 20 maggio 1506, e la sua morte avvenne fra l'indifferenza di tutti: invano fra i cronisti o gli scrittori contemporanei si cercherebbe una parola di cordoglio o di rimpianto. Neppure le sue ceneri si sottrassero al destino che aveva preso a perseguitarlo negli ultimi anni della sua vita: trasportate dapprima a Siviglia, furono in seguito trasferite (1537-47) nella cattedrale di S. Domingo, nella tomba di famiglia; e quando l'isola nel 1795 fu occupata dai Francesi, gli Spagnoli le trasportarono all'Avana. Ma per gli ampliamenti subiti precedentemente dalla chiesa di San Domingo, e per il disordine a varie riprese creato dai saccheggi dei corsari e dai terremoti, non si è sicuri che le ossa del grande navigatore non siano state scambiate con quelle d'un suo parente: talché rimane ancor oggi giustificato il dubbio che la tomba nella cattedrale di Siviglia, dove la Spagna, nel cedere Cuba agli Stati Uniti, volle trasferire e custodire le gloriose reliquie, racchiuda veramente la spoglia del più grande scopritore di tutti i tempi.
Un giudizio riassuntivo sopra una figura come quella di C. non è neppure oggi facile a pronunziarsi, nonostante, o meglio per gl'innumerevoli studî che a lui vennero e vengono tuttora dedicati. L'impressione per l'impresa gigantesca da lui d'un sol colpo compiuta, gli ostacoli incontrati, le vicende della sua vita, le sue sventure, la sua fine e l'ingiustizia stessa della sorte, che parve volergli negare l'onore di lasciare il suo nome al Nuovo Mondo che egli di fatto scoperse, dovevano far sì che intorno a lui si sviluppassero, accentuandosi sempre col procedere degli anni, elementi romantici e da leggenda, alcuni dei quali rimasero così strettamente aderenti alla sua figura da contribuire ancor oggi a render difficile una completa, esatta ricostruzione e valutazione della sua impresa. E la critica ai nostri giorni si è trovata di fronte a un lavoro immane, nel quale purtroppo ha proceduto spesso con metodi e fini di dubbia serietà e consistenza; ché anzi, per aver voluto spiegar tutto e di tutto trovare esposte le ragioni, per il vezzo di rovistare talvolta fra minuzie insignificanti, per la soverchia diffidenza sorta verso alcuni documenti e l'esaltazione di altri realmente apocrifi, o di scarsa importanza, per la tendenza a voler scoprire a ogni costo cose nuove e persino per la miseria di certe rivendicazioni nazionalistiche, è avvenuto che siano sorti nuovi problemi o se ne siano allargati altri là dove non ve n'era affatto bisogno. S'aggiunga che, a eccezione forse del solo Humboldt, i critici non manifestano, nel trattare delle questioni colombiane, in proporzione della loro cultura storica un'adeguata preparazione nel campo delle scienze nautiche e cosmografiche, o viceversa. Cosicché molte questioni, specialmente quelle relative alla preparazione dell'impresa, rimangono aperte ancor oggi; e tali rimarranno finché non si sará definitivamente proceduto a una disamina rigorosa e meglio approfondita delle fonti. Una buona parte delle Historie di don Fernando e dell'opera del Las Casas è da ritenersi di contenuto apocrifo o sospetto; altrettanto si dica di alcune lettere che si attribuiscono a C. e, forse, del Libro de las Profecías, pure a lui in gran parte attribuito. E d'una speciale, radicale revisione hanno soprattutto bisogno i documenti sui rapporti col Toscanelli.
Si è creduto di poter definire C. un uomo del Rinascimento; ma ciò non è esatto. La sua cultura, la sua preparazione teorica appaiono invece prettamente medievali: dalle cognizioni medievali sul valore del grado e sull'estensione dell'Ecumene egli trasse appunto gli elementi fondamentali che gli fecero considerare attuabile la grande impresa. Dell'epoca nuova ebbe, se mai, l'ardore della ricerca, il sentimento vivissimo della natura, la pronta intuizione nell'affrontare la spiegazione di fatti e fenomeni non osservati o non tentati di spiegare prima da alcuno; le sue osservazioni sul variare della temperatura, sulla corrente equatoriale, sull'azione delle correnti marine nella formazione delle isole staccate dalla terraferma basterebbero a rivelarlo sotto questa luce. Fu detto poi che C. ebbe troppo rispetto per l'autorità altrui: in questo, se mai, fu uomo del suo tempo; ma non è neppure da escludere che l'ossequio alle autorità scolastiche e sacre, addotte a sostegno della sua idea, fosse per lui anche un mezzo per potersi far ascoltare nell'ambiente in cui viveva; e anche di una sua profonda religiosità, almeno nel periodo anteriore alla sua sventura, v'è ragione di dubitare. Ma uno dei più gravi errori di giudizio su C., generalmente ammesso, è quello di considerarlo mediocremente fornito di cognizioni nel campo della nautica e della cosmografia: errore generato da incomprensione di documenti, nonché dall'attribuzione a lui di documenti apocrifi, e più ancora dal non essersi tenuto conto che molti dati erronei sulle rotte seguite e sulla posizione astronomica dei luoghi erano, secondo il sistema in uso nel tempo, forniti per l'appunto così per necessità di non rivelare elementi che dovevano rimanere segreti. E alla sua gloria di marinaio basterebbe la scoperta della declinazione magnetica e della sua variazione, e quella del fenomeno non meno importante, da lui pure segnalato, del movimento diurno della stella Polare, e del conto che si doveva tenerne per la determinazione delle latitudini.
Quello che, in ogni modo, si può sempre dire come conclusione è che la sua figura si aderge sempre più alta fra le più grandi dell'umanità; e che in nessun caso forse all'inizio di un'epoca nuova stanno uomini e fatti che al pari di C. e della scoperta dell'America abbiano segnato un'influenza così profonda e decisiva sul presente e sull'avvenire del mondo.
Bibl.: Oltre alle due opere già ricordate, ritenute sin qui fondamentali, la Historia de las Indias del Las Casas e le Historie attribuite a D. Fernando Colombo, fra quelle degli scrittori contemporanei o di qualche decennio posteriori che, pur essendo di carattere generale sulla storia della conquista spagnola dell'America, trattano ampiamente di C., sono da ricordare: P. Martire d'Anghiera, De rebus oceanicis et de orbe novo decades, Parigi 1536 (un'edizione parziale era già comaprsa nel 1511 a Siviglia); Fernandez Oviedo y Valdes, La historia general de las Indias, Siviglia 1535 (pubblicata poi integralmente sotto il titolo di Historia general y natural de las Indias dalla Real Academia de la Historia, Madrid 1852). Tanto l'opera di P. Martire quanto quella di F. Oviedo furono pubblicate nella traduzione italiana del Ramusio nel 3° volume della sua raccolta, Navigazioni e viaggi, Venezia 1556. V. ancora: Lopez de Gomara, Historia de las Indias, Anversa 1554; G. Benzoni, Historia del Mondo Novo, Venezia 1565; A. de Herrera, Historia general de los echos de los Castellanos, en las islas y tierra firme del Mar Oceano, Madrid 1601. Solo in quest'ultima, sebbene ricalcata completamente sulla Historia allora manoscritta del Las Casas, si può rintracciare qualche barlume di critica. Scarsa è la letteratura colombiana nei secoli XVII e XVIII, benché i viaggi di C. siano riprodotti in tutte le grandi raccolte di viaggi; e merita appena d'essere oggi ricordata l'opera di W. Robertson, History of America, Londra 1777. La vera critica fondata sulla raccolta e sulla disamina dei documenti s'inizia per opera di J. B. Muñoz con la Historia del Nuevo Mundo, della quale però fu pubblicato solo un primo volume, Madrid 1793. In Italia la prima raccolta di documenti originali, inediti, spettanti a Cristoforo C. e alla scoperta fu il Codice diplomatico Colombo-Americano, di G. B. Spotorno, Genova 1823. Poco dopo usciva a Madrid in 5 voll. (1825-28), l'opera, ancor oggi fondamentale, di M. Fernández de Navarrete, Collección de viajes y descubrimientos que icieron por mar los Españoles desde fines del siglo XV; e i documenti raccolti nel I e nel II vol., tratti in gran parte dall'opera del Muñoz, furono messi a profitto da Washington Irving nella sua History of the life and voyages of Columbus, Londra 1828, che si può considerare come la prima vera e propria ricostruzione della vita e dell'impresa di C., ma che è in gran parte di carattere romantico. Fra il 1836 e il 1839 A. di Humboldt pubblicò il suo monumentale Examen critique de l'histoire de la Géographie du nouveau Continent, voll. 5, opera che si stacca nettamente dalle precedenti per il rigore del metodo seguito nell'elaborazione dei materiali e soprattutto per la larghezza e profondità di vedute nei giudizî su C. e nella conoscenza dei suoi tempi. L'opera di Roselly de Lorgues, Christophe Colomb: Histoire de sa vie et de ses voyages d'après des documents authentiques tirés d'Espagne et d'Italie, Parigi 1856 (trad. italiana di Tullio Dandolo, Milano 1857) ha più che altro lo scopo di un'esaltazione mistica di C., riuscita eccessiva. Di ben altro valore è l'opera di H. Harrisse, il più insigne forse degli americanisti: il suo Christophe Colomb, son origine, sa vie, ses voyages (voll. 2, Parigi 1884) è certamente la più completa e organica fra le opere dedicate a Cristoforo C., sebbene documenti venuti nuovamente in luce non permettano più, naturalmente, di seguirla in tutte le conclusioni. Una grande fioritura di studî colombiani si ebbe al tempo della celebrazione del 4° centenario della scoperta; e fra quetsi spetta il posto d'onore alla grandiosa Raccolta di documenti e studi pubblicati dalla R. Commissione Colombiana, di 15 voll. in-folio (Roma, auspice il Ministero della Pubblica Istruzione, 1892-94). Essa contiene, fra l'altro, la raccolta più completa dei documenti che riguardano C., la sua impresa e i suoi tempi. Non tutte le parti hanno eguale valore, ma alcune emergono, nella trattazione di speciali argomenti, fra le altre del genere pubblicate dagli stranieri: ad es. i primi tre volumi che contengono la riproduzione degli scritti di C. e di quelli che a lui si attribuiscono, con gli autografi riprodotti in eliotipia, ampiamente e criticamente illustrati da C. De Lollis, costituiscono ancor oggi la base per qualsiasi studio su C. Appartiene pure al De Lollis un'opera di carattere divulgativo, eccellente, C. C. nella leggenda e nella storia, Milano 1892, della quale furono fatte varie edizioni, la più completa a Roma nel 1924. Sono inoltre da ricordare fra le varie opere comparse nella stessa occasione, in Europa e in America: H. Harrisse, Christophe Colomb devant l'histoire, Parigi 1892; id., The Discovery of North America, Parigi 1892; G. Winsor, Christopher Columbus and how he received and imparted the spirit of discovery, Boston 1891; id., Narrative and critical history of America, Boston 1899; C. R. Markham, Life of C. C., Londra 1892; G. Fiske, The Discovery of America, Boston 1892; V. Bellio, C. C., Milano 1892; L. Hugues, L'opera scientifica di C. C., Torino 1892; G. M. Asensio, C. C., su vida, sus viajes sus descubrimientos, Barcellona 1892; F. Serrato, C. C., Historia del descubrimiento de America, Madrid 1892; Manuel Sales Ferré, El descubrimiento de America segun las últimas investigaciones, Siviglia 1893. In Spagna furono inoltre pubblicate notevoli raccolte di documenti, come la Cartas de Indias publicadas por primera vez por el Ministero del Fomento, Madrid 1877, e la grandiosa Collección de docc. inéditos relativos al descubrimiento, conquista y organisación de las antiguas posesiones españolas de ultra mar, per cura della R. Academia de Historia.
Sono pure notevoli: Ruge Sophus, C., Berlino 1902, 2ª ed.; J. Boyd Thacher, C. C., his life, his work, his remains, as revealed by original printed and manuscript recoreds, New York 1903; Joung Filson, C. C. and the New World of his discovery, Philadelphia 1906; M. Serrano y Sanz, Los amigos y protectores aragoneses de C. C., in Nueva bibl. de los autores españoles, Madrid 1918; G. Pessagno, Questioni colombiane, in Atti della Soc. ligure di storia patria, 1926, l'opera sotto ogni aspetto più completa per la vita di C. prima del 1492.
Per quello che riguarda le conoscenze nautiche di C., cfr. E. A. de Albertis, L'arte nautrica ai tempi di C., I, iv, della Raccolta colombiana; T. Bertelli, La declinazione magnetica e la sua variazione nello spazio scoperta da C. C., ibid., II, iv; G. Nunn, The geographical conceptions of C., New York 1924; A. Magnaghi, I presunti errori che vengono attribuiti a C. nella determinazione delle latitudini, in Boll. della R. Soc. geogr. ital., 1928, fascicoli 9-12; 1930, fasc. 6; G. B. Charcot, C. C. vu par un marin, Parigi 1928.
Le opere su C. che a varie riprese scrisse H. Vignaud, a differenza di quelle degli scrittori sopra citati, mirano, in sostanza, a togliere pressoché ogni merito all'impresa del grande navigatore: Études critiques sur la vie de C. avant ses découvertes, Parigi 1905; Histoire critique de la grande entreprise de C. C., voll. 2, Parigi 1911; Le vrai C. C. et la légende, op. postuma, Parigi 1921. Fra coloro che più validamente si opposero alla tesi del Vignaud, ormai abbandonata, è da ricordare C. De Lollis, soprattutto nel suo Chi cerca trova, Roma 1926.
Sulla più dibattuta delle questioni colombiane, la lettera toscanelliana e la ricostruzione della carta di Toscanelli, cfr.: G. Uzielli, La vita e i tempi di Paolo dal Pozzo Toscanelli, in Raccolta colombiana, I, v; H. Wagner, Die Rekonstruktion der Toscanelli Karte vom J. 1474, in Nachrichten der K. Gesellschaft der Wiss. zu Göttingen, Phil. hist. Klasse n. 3, 1894. Sulla tesi sostenuta dal Vignaud intorno alla natura apocrifa della lettera e corrispondenza toscanelliana, nella sua opera La lettre et la carte de Toscanelli ecc., Parigi 1901, cfr. la ricchissima bibliografia fornita dallo stesso Vignaud negli Atti del V Congresso geografico italiano, Napoli 1905; da segnalare fra i varî studi G. Uzielli, in Riv. geogr. italiana, gennaio 1902; A. de Altolaguirre y Duvale, C. C. y Pablo del Pozzo Toscanelli, Madrid 1903. V. poi: N. Sumien, La correspondance du savant florentin Paolo dal Pozzo Toscanelli, Madrid 1903. V. poi: N. Sumien, La correspondance du savant florentin Paolo dal Pozzo Toscanelli avec C. C., Parigi 1927.
Per un'informazione generale sul C. e sulla sua scoperta, si possono consultare: S. Ruge, Storia dell'epoca delle scoperte, Milano 1903; C. Errera, L'epoca delle grandi scoperte geografiche, 3ª ed., Milano 1926. E infine per una sommaria, adeguata conoscenza dei recenti risultati degli studî colombiani, è da vedersi l'ottimo volumetto di R. Almagià, C. C., 2ª ed., Roma 1927.
Poesia colombiana.
Il primo omaggio della poesia italiana alla gloria di Colombo è il poemetto di Giuliano Dati (edito a Roma nel 1493), che pose in ottave la relazione delle prime scoperte inviata dal Colombo a Gabriel Sánchez (14 marzo 1493). Un ciclo epico si venne formando per tutto il'500 e il'600 intorno al grandioso avvenimento; ma la fantasia poetica si mostrò inferiore alla realtà della storia. Il poema più antico è quello in esametri latini di Lorenzo Gambara, De Navigatione Christophori Columbi (Roma 1581), dove il navigatore genovese narra i suoi quattro viaggi al cardinale di Granvelle, Antonio Perrenot. Nel 1589 Giulio Cesare Stella stampava a Roma i primi due canti del suo poema in esametri latini Columbeis; e nel 1596 Giovanni Giorgini pubblicava il Nuovo Mondo, in ottave, dove la figura dello scopritore è messa in seconda linea perché il poeta con fantasia cortigianesca immagina che, dopo il primo viaggio del genovese, lo stesso re Ferdinando si fosse imbarcato per le nuove terre. Misera cosa è il poema del Giorgini; migliore, sebbene nel complesso mediocre, è il noto poema il Mondo nuovo (pubblicato incompiuto a Piacenza nel 1617 e per intero a Roma nel 1628) di Tommaso Stigliani. Come elemento episodico la scoperta dell'America è ricordata nella Siriade (1591) di Pietro Angelo Bargeo; nel Fidamonte (1581) di Curzio Gonzaga; nel Conquisto di Granata (1650) di Girolamo Graziani; nel Palermo liberato (1612) di Tommaso Balbi; nel Tancredi (1612) di Ascanio Grandi. Nell'America (Roma 1650) di Girolamo Bartolomei è narrata la spedizione del Vespucci e solo per incidenza, in alcuni canti, quella di Colombo. Frammenti di poemi colombiani lasciarono Giovanni Villifranchi (Firenze 1602); Guidobaldo Benamati (Parma 1622); Agazio di Somma (Roma 1632), e il Tassoni nel suo felice frammento L'Oceano (Parigi 1622). L'Arcadia ci offrì un poema latino: il Columbus di Ubertino da Carrara, gesuita (Eudosso Pauntino) e un poema in ottave L'ammiraglio dell'Indie di Ormildo Emeressio, nome arcadico di Alvise Querini. Nell'Ottocento abbiamo la Colombiade (1826), in ottave vacue e tronfie di Bernardo Bellini, e, di gran lunga superiore, il Colombo, in otto libri (Genova 1846; Torino 1858) di Lorenzo Costa. L'ultima eco è la Scoperta dell'America (Roma 1894) narrata in cinquanta sonetti in romanesco da Cesare Pascarella (v.).
Neanche la Spagna riusci a dare una degna celebrazione poetica dell'impresa. Juan de Castellanos nelle Elegías (1859) ripete nel suo verso prolisso ma pittorico le azioni colombiane e quelle dei suoi capitani. Intorno a questi ultimi scopritori scrissero Francisco de Terrazas, Antonio Saavedra Guzmán, Gabriel Lasso de La vega e tanti altri, che iniziano le singole letterature coloniali dell'America spagnola: la letteratura chilena con l'Araucana dell'Ercilla ha dato il poema più notevole, e ha fornito la traccia agli epigoni.
Bibl.: C. Steiner, C. C. nella poesia epica italiana, Voghera 1891; G. Bianchini, C. C. nella poesia italiana, parte 1ª: Poesia epica, Venezia 1892; A. Belloni, Gli epigoni della Gerusalemme Liberata, Padova 1893; C. Oyuela, C. y la Poesía, Madrid 1892; M. Menéndez y Pelayo, Historia de la poesía hispano-americana, Madrid 1911-1913.