FAUZONE, Cristoforo
Nacque intomo al 1593 (secondo A. Manno, infatti, al momento della morte, avvenuta nel 1657, aveva sessantaquattro anni) da un'eminente famiglia di Mondovì, che sin dal Medioevo ricopriva cariche nel governo cittadino e al servizio dei Savoia.
L'avo, anch'egli di nome Cristoforo, era stato scudiere e gentiluomo di bocca di Emanuele Filiberto; il padre, Vincenzo (morto nel 1613), era senatore del Piemonte e lo zio Giovanni (morto nel 1617) mastro auditore nella Camera dei conti. Le loro orme furono seguite da Annibale, fratello maggiore del F., cui nel 1618 fu conferito l'ufficio di prefetto di Savigliano e che cinque anni dopo divenne, come il padre, senatore ordinario, per sedere fino alla morte (luglio 1643) nella suprema magistratura giudiziario-amministrativa del Ducato sabaudo.
Come Annibale, anche il F. si addottorò in leggi nell'università di Torino e abbracciò inizialmente la carriera di giureconsulto e di docente. Fra il 1617 e il 1624, infatti, viene ricordato fra i lettori dello Studio torinese come "legista straordinario della sera", con uno stipendio annuale di 100 scudi. Come per molti altri esponenti del suo ceto, tuttavia, l'insegnamento non fu che il, primo passo di un prestigioso cursus honorum nell'apparato statale in via di consolidamento. La sua competenza giuridica e, in particolare, la sua dirnestichezza con l'intricata materia dei diritti rivendicati dai Savoia su una molteplicità di feudi e di territori indussero Carlo Emanuele I, nel 1628, ad affiancarlo a Gerhart de Joulx de Watteville, marchese di Versoix, incaricato di difendere alla corte dell'imperatore Ferdinando II le ragioni di casa Savoia sul Ducato del Monferrato, invaso in quei mesi dalle truppe sabaude e da quelle spagnole del governatore di Milano.
La consuetudine voleva che, quando occorreva trattare questioni diplomatiche dai complessi risvolti tecnico-giuridici, agli ambasciatori, di regola scelti fra 1 gli esponenti dell'aristocrazia militare e di Corte, si aggiungessero, come consulenti subordinati ma indispensabili, giuristi o magistrati di provata competenza. Secondo le istruzioni rimesse al Versoix, il F., provvisto delle scritture e dei documenti necessari, avrebbe dovuto intervenire in caso di controversia, difendendo "per termini et fondamenti legali con chi fia bisogno... la validità delle nostre ragioni".
Le capacità dimostrate durante la missione a Vienna valsero al F. l'ingresso nell'amministrazione ducale. Il 24 ag. 1631 il nuovo sovrano Vittorio Amedeo I gli conferi infatti l'ufficio che, pur unito ad altri di rilievo e prestigio sempre maggiore, non avrebbe cessato di ricoprire per tutto il corso della sua vita, nominandolo referendario e grande archivista, "o sia Gran Custode ordinario di tutte le scritture del nostro Patrimonio".
La concezione dell'archivio come tesoro e arsenale delle carte e dei titoli che giustificavano possessi, pretese e rivendicazioni del principe nei confronti di altri sovrani, ma anche di enti, corpi, Comunità e vassalli, faceva sì che tale incarico venisse tradizionalmente affidato a magistrati e a uomini di legge, e proprio la controversia monferrina, che imponeva la rapida accessibilità di una vasta documentazione, aveva messo in luce la disorganizzazione e la lacunosità degli archivi sabaudi, tanto che, sin nelle patenti di nomina, veniva prospettata al F. la necessità di mettere "in ordine" le scritture "che sino adesso stanno confuse e disordinate", attuando quella razionalizzazione del servizio nella quale egli si sarebbe impegnato, seppur con esiti alterni, nei decenni successivi.
Nel 1632, non più come semplice dottore di leggi, ma nella sua nuova qualità di archivista, il F. dovette ritornare alla corte imperiale, membro dell'ambasceria straordinaria che, sotto la guida di Filiberto Giacinto Simiana, marchese di Pianezza, era incaricata di ottenere da Ferdinando II il rinnovo dell'investitura degli Stati sabaudi e l'estensione di essa e del vicariato imperiale alle ottanta terre del Monferrato assegnate ai Savoia in virtù del trattato di Cherasco.
Oltre a scrivere e a pronunciare l'orazione di rito, in cui si esponevano i motivi della missione e si tessevano le lodi dell'imperatore, il F. fu chiamato ad assicurarsi della rispondenza fra i caratteri formali e sostanziali dei diplomi concessi e le esigenze sabaude, e, a tale scopo, dovette trattare in prima persona, di concerto col Pianezza, coi ministri imperiali che sollevavano difficòltà circa l'estensione dell'investitura e del vicariato alle nuove terre.
Nel 1639-40, quando scoppiò la guerra civile fra i sostenitori della reggente Cristina di Francia e quelli dei principi cognati Maurizio e Tommaso, il F. non seguì la duchessa in Savoia, ma rimase nella capitale occupata da Tommaso e non solo continuò ad esercitare le sue funzioni di archivista, ma si fece anche conferire dal principe (mediante una "prestanza" di 5.000 lire) la carica di secondo presidente della Camera dei conti (14 nov. 1639). Il suo comportamento, tuttavia, diversamente da quello di altri magistrati e ufficiali, non incontrò la riprovazione della reggente, che, dopo la rioccupazione di Torino, non lo rimosse dai suoi uffici, limitandosi ad esigere da lui una dichiarazione giurata in cui affermava di non avere asportato alcunché dagli archivi su ordine del principe Tommaso e di avervi anzi aggiunto varie scritture consegnategli da quest'ultimo. In tale occasione si procedette altresì a un inventario dell'archivio stesso, che risultava composto di verituno "guardarobe" e di quattro "piccoli bauli" di scritture (25 sett. 1640).
Nel giugno 1642, "attesa la perfetta notitia" che il F. aveva "delle ragioni" ducali, Cristina lo promosse anzi al grado di "presidente e generale conservatore del patrimonio di Sua Altezza Reale", con uno stipendio di 3.000 lire all'anno; e il 14 luglio 1645 lo designava per l'alta carica di terzo presidente del Senato e presidente del marchesato di Saluzzo, incaricato cioè di sovrintendere, in particolare, alle cause concernenti i sudditi saluzzesi. Nel contempo, tuttavia, egli conservava l'ufficio e lo stipendio di grande archivista e ne esercitava le funzioni. Risulta infatti che, negli anni successivi, divideva il suo tempo fra i due incarichi, come dimostrano i suoi interventi presso la duchessa in merito ad atti di violenza commessi nel territorio del marchesato e, in parallelo, la sua intensa attività a favore del riordino dell'archivio ducale.
Dalla corrispondenza intercorsa fra il F., la reggente e alcuni fra i governanti di grado più elevato (il marchese di Pianezza, il gran cancelliere G. G. Piscina, il primo segretario G. F. Carron di San Tommaso) appare evidente la sua preoccupazione di concentrare nell'archivio tutti i documenti politicamente rilevanti, superando la deplorevole consuetudine per cui atti pubblici della massima importanza (si citavano fra l'altro i trattati di Ratisbona e di Cherasco, vari strumenti dotali di principesse sabaude, o gli originali dei giuramenti di fedeltà prestati ai sovrani da sudditi e vassalli) continuavano ad essere conservati, a distanza di anni, dai primi segretari o dai magistrati che avevano assistito alla loro conclusione, se non addirittura dai loro discendenti. Da un lato, dunque, il F. si faceva parte diligente nel sollecitare - non senza suscitare sordi malumori - la restituzione di tali documenti, "accio", scriveva a Cristina, "non si smarrischino e si possano prontamente ritrovare negli occorrenti, atteso che l'Archivio sta sempre stabile, et immutabile, ma li segretarij, et altri officiali, muoiono et si mutano" (1º marzo 1643); dall'altro esponeva alla duchessa l'inderogabile necessità di dare all'archivio stesso una sede definitiva, dal momento che la stanza del palazzo ducale in cui esso allora si trovava era "alquanto humida, esposta a pericoli di rotture, del fuoco, e particolarmente dei sorci, quali possono fare molti danni et non v'è modo di scacciarli" (27 marzo 1647).
L'8 marzo 1656 il F. giungeva al culmine della carriera con la nomina a secondo presidente del Senato e presidente del ducato di Monferrato, conservando al solito la direzione dell'archivio; e ancora poco prima di morire, nel gennaio-febbraio 1657, si adoperava nella difesa delle ragioni ducali sui feudi dipendenti dalla Chiesa di Asti e sollecitava dal nunzio il concorso degli ecclesiastici, per motivi di "comune difesa", alle spese necessarie per prevenire il diffondersi in tale città della pestilenza, cercando altresì di mitigare l'ostilità del rappresentante pontificio nei confronti dei provvedimenti che si stavano prendendo per stroncare la prassi di intestare ad ecclesiastici, con atti simulati di compravendita, beni sottoposti all'imposta fondiaria. La competenza del giurista in materia di rapporti fra Stato e Chiesa era del resto dimostrata dal trattato, da lui pubblicato nel 1642 a Torino presso lo stampatore Giovanni Sinibaldo, De iuribus et privilegiis ducum Sabaudiae circa formam a summis pontificibus servandam in collationibus beneficiorum quae in eorumdem ducum ditionibus existunt.
Figlio cadetto, il F. non aveva ereditato le quote del feudo di Sant'Albano che il padre aveva a suo tempo acquistato e che erano invece passate al fratello primogenito Annibale. Nel dicembre 1636 ricevette invece in donazione da Francesco Fauzone, membro di un altro ramo della famiglia, un quarto della giurisdizione di Montaldo. Non avendo avuto figli dal matrimonio con Silvia Argentero di Bagnasco, con un atto del 31 genn. 1645 dispose la donazione di tutti i suoi beni (riservandosi in vita l'usufrutto di metà di essi) al nipote Gaspare Francesco, conte di Sant'Albano, figlio del defunto Annibale; venuto però a mancare anche costui, nel testamento depositato in Senato nel 1652 il F. designò come erede universale il conte Annibale Lodovico, figlio di Gaspare Francesco e di Anna Leonora Morozzo, figlia a sua volta del gran cancelliere Carlo Filippo Morozzo.
Morì a Torino il 12 maggio 1657.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Corte, Regi Archivi, cat. I, mazzo 1, nn. 1, 6/1º, 6/2º, 7, 8, 9; cat. II, mazzo 1, nn. 3, 4, 5; Ibid., Materie politiche. Negoziazioni con Vienna, m. 1, n. 31; Ibid., Materie d'Impero, cat. I, m. 1, nn. 16, 18; Ibid., Lettere ministri Vienna, m. 9, fasc. 4; Ibid., Lettere particolari, F, m. 14; Ibid., Camerale, Patenti controllo finanze, regg. 1630 in 31, f. 18; 1631 in 32, f. 90; 1632 in 33, f. 212; 1633/1º, f. 16; 1633/2º, f. 81; 1639 in 40, ff. 15, 17; 1642, ff. 143, 174; 1643 in 44, f. 76; 1644 in 45, f. 330; 1646 in 47, ff. 6, 95, 323; 1650, f. 133; 1656, ff. 53, 77; 1657, f. 22; Ibid., Testamenti pubblicati dal Senato, VIII, ff. 72 ss.; II, ff. 283 ss. (testamento del padre); Ibid., Insinuazione Torino, 1645, II, f. 91; Roma, Bibl. d. Ist. d. Enc. Ital., A. Manno, Il patriziato subalpino (datt.), ad vocem; G. Claretta, Storia del regno e dei tempi di Carlo Emanuele II duca di Savoia, II, Genova 1878, pp. 412 s.; C. Dionisotti, Storia della magistratura piemontese, II, Torino 1881, p. 279; M. Chiaudano, Ilettori dell'Università di Torino ai tempi di Carlo Emanuele I (1580-1630), in L'Università di Torino nei secoli XVI e XVII, Torino 1972, pp. 150, 200, 202 ss., 206 s., 209.