GIARDA, Cristoforo
Nacque il 21 sett. 1595 a Vespolate, presso Novara, da Giovanni Giacomo, piccolo possidente agricolo la cui famiglia aveva ricoperto alcune cariche comunali, e Margherita Caccione. Battezzato con il nome di Pietro Antonio, il 2 ott. 1611 il G. entrò nel collegio di S. Barnaba a Milano, appartenente alla Congregazione dei chierici regolari di S. Paolo, i barnabiti. Fu indirizzato alla vita religiosa dalla famiglia e dall'esempio del vescovo di Novara Carlo Bascapè (già superiore generale dei barnabiti), un attivo promotore della riforma tridentina che godeva fama di santità e di erudizione.
La vocazione del G. maturò in senso missionario, alimentata da un indirizzo pastorale preoccupato per le infiltrazioni protestanti provenienti dalla vicina Svizzera e votata a portare Oltralpe la dottrina cattolica. Ne è prova la scelta del nome Cristoforo, che egli intendeva come "portatore di Cristo" agli eretici, adottato il 25 genn. 1612 al momento dell'ingresso ufficiale nel noviziato barnabita di Monza. Il 24 febbr. 1613 il G. pronunciò i voti solenni nelle mani di un altro illustre generale barnabita, Giovanni Ambrogio Mazenta, e quindi andò a Milano per studiare eloquenza e a Pavia per i corsi filosofici e teologici.
Subito dopo l'ordinazione sacerdotale, avvenuta a Lodi il 14 marzo 1620, il G., che conosceva bene la lingua francese, fu destinato alla prima comunità barnabita del nuovo collegio francese di Montargis con il compito di insegnare materie letterarie. Vi restò per un triennio e tornò a Milano come docente al collegio di S. Alessandro. Questo incarico gli permise di pubblicare le sue due prime opere: Apis religiosa… (Mediolani 1625) e Bibliothecae Alexandrinae icones symbolicae (ibid. 1626).
Il primo libro, composto in occasione del giubileo del 1625, è una dettagliata meditazione sulla vita religiosa, densa di citazioni da autori classici ed ecclesiastici, presentata sotto la veste barocca di confronto tra l'operosa società delle api - con evidente allusione allo stemma della famiglia del papa regnante, Urbano VIII Barberini, cui era dedicata - e quella dei consacrati al Signore. La seconda opera è un buon testo di iconologia, elegantemente illustrato da Francesco Bassani, redatto per illustrare le allegorie delle arti liberali dipinte sugli armadi della biblioteca appena donata alla Congregazione dall'ex barnabita Carlo Bossi.
Queste opere, unite alla buona reputazione di teologo, permisero al G. di entrare in relazione con importanti personalità della Congregazione e della Chiesa, fino al nipote di Urbano VIII, il cardinale Francesco Barberini. Ciò favorì la carriera del G., che però ambiva solo a continuare gli studi. In quegli anni lasciò l'insegnamento a Milano per dedicarsi con maggiore tranquillità ai libri e alla predicazione.
Nel 1626 il G. fu a Bologna e poi, in novembre, a Roma, da dove non si sarebbe più mosso. Nella locale provincia rivestì le cariche di preposto della chiesa di S. Paolo alla Colonna dal 1631 al 1634, di quella di S. Carlo ai Catinari dal 1635 al 1639 e poi dal 1644 al 1645, e di provinciale dal 1641 al 1644, lavorando contemporaneamente al servizio della provincia, delle autorità centrali della Congregazione e della S. Sede.
Grazie alla protezione del cardinale Barberini riuscì a risolvere in senso favorevole ai barnabiti una lite tra la provincia romana e le suore benedettine di S. Anna, che avevano fatto bloccare l'edificazione dell'abside della nuova chiesa di S. Carlo ai Catinari, considerata, per la sua altezza, invasiva dello spazio del loro convento. Il cantiere poté quindi essere riaperto e l'abside fu affrescata con l'ultima opera di Giovanni Lanfranco, L'ascesa in paradiso di s. Carlo. Divenuto direttore dei lavori, il G. diede inizio all'ampliamento dell'adiacente collegio e all'edificazione della facciata della chiesa, di G.B. Soria (dal cui ovato fece togliere, per salvarlo dalle intemperie, un quadro raffigurante s. Carlo attribuito a Guido Reni), completata nel 1636. Il maestoso altare maggiore, di Martino Longhi, fu realizzato grazie a un'ingente donazione del principe Filippo Colonna, nipote del santo cui era dedicato, accortamente sollecitata dal Giarda.
Per conto del padre generale Eliseo Torriani (insoddisfatto del lavoro compiuto da Giovanni Antonio Gabuzio, morto nel 1621), nel 1629 il G. ebbe l'incarico di redigere la storia ufficiale della Congregazione dei barnabiti, destinata a restare incompiuta, e, secondo una lettera del Mazenta, la continuazione della stesura della celebre Roma sotterranea di Antonio Bosio. Mentre quest'ultima notizia non pare attendibile (l'opera del Bosio fu portata a termine da un sacerdote oratoriano), il primo incarico fu confermato nei capitoli generali del 1632 e 1647.
Su impulso del preposito generale Giovenale Falconi il G. intervenne con successo sul cardinale Barberini perché la preziosa e venerata Madonna del Melarancio di Gaudenzio Ferrari, custodita nella chiesa barnabita di S. Cristoforo a Vercelli, fosse preservata dal saccheggio dei soldati spagnoli. Non poté invece impedire che il papa approvasse la decisione dell'arcivescovo di Napoli Ascanio Filomarino di togliere ai barnabiti l'ufficio della penitenzieria diocesana per restituirlo ai canonici della cattedrale, ponendo fine così a una lunga controversia.
Il nuovo pontefice, Innocenzo X (1644), favorì ulteriormente la carriera del G., nominato qualificatore della congregazione dell'Indice e consultore di quella del Cerimoniale dei vescovi. Queste nuove occupazioni rallentarono il suo lavoro sulla storia dei barnabiti e solo nel 1647 il G. comunicò al proprio superiore che finalmente aveva completato la raccolta del materiale, cui mancava solo la stesura definitiva. Ma gli fu allora affidato un altro incarico impegnativo, quello di promuovere, in collaborazione con l'abate Gabriele de Besançon, la causa di beatificazione di Francesco di Sales e redigerne la prima biografia in italiano (la bibliografia sul Sales annoverava allora già 60 opere, di cui una dozzina di biografie in francese e latino).
Il nome del G., di cui erano noti i legami con la Curia romana, era stato proposto da un discendente del futuro santo, il vescovo di Ginevra Augusto de Sales. La causa era stata introdotta dai barnabiti nel 1639, ma era bloccata dall'obbligo, imposto da Urbano VIII, di 50 anni di attesa dalla morte dei candidati, e il Sales era deceduto nel 1622. Difficoltà venivano inoltre dai duchi di Savoia, più interessati a sostenere la beatificazione del loro congiunto Amedeo VIII (l'antipapa Felice V), alla quale gli storici e i teologi romani si opporranno sempre.
Nel 1645 il preposito generale Giovan Battista Crivelli concesse al G. ancora un rinvio della pubblicazione della storia dei barnabiti ed egli si dedicò alacremente al nuovo lavoro, presentando al papa una copiosa raccolta di lettere di personalità ecclesiastiche e laiche in favore del Sales, promuovendo l'apertura anche a Roma di un monastero della Congregazione della visitazione fondata dal Sales; sostenuto dal nunzio Fabio Chigi, devoto del Sales, il G. cercò inoltre di interessare alla questione i diplomatici cattolici impegnati nelle trattative per la conclusione della guerra dei Trent'anni. Fu da F. Chigi che il G. ebbe l'impulso di chiedere a Innocenzo X la riduzione a venticinque anni dell'intervallo tra la morte e la beatificazione del Sales.
Parallelamente, con l'aiuto di Gabriel de Besançon, il G. pubblicò il Compendio della vita del venerabil servo di Dio monsignor Francesco di Sales (Roma 1648, ristampato a Milano nel 1649 e 1679 e a Venezia nel 1664). Il libro era una sintesi delle biografie francesi del Sales, e non piacque al Chigi, che avrebbe desiderato un'opera più approfondita. Ma l'intento del G. era stato quello di redigere in breve tempo un'opera divulgativa che potesse fare conoscere il Sales al pubblico italiano, al fine di ottenere il progresso della causa.
Il 25 apr. 1648 avvenne il fatto decisivo della vita del G., con la nomina al vescovato di Castro.
Castro era una piccola diocesi, povera di risorse, senza un clero adeguato e perdipiù assai pericolosa a causa del lungo contrasto che opponeva i Farnese, feudatari del ducato, alla S. Sede dal tempo di Urbano VIII. La scelta di quell'episcopato (quando in Italia ne erano vacanti anche altri) fu il frutto di un errore di valutazione: al G. - che non aspirava all'episcopato (come barnabita dovette essere sciolto dal giuramento di non accettare dignità ecclesiastiche), preferendo restare a Roma per completare il suo lavoro per la causa del Sales -, parve opportuno accettare la titolarità di una diocesi della quale, molto probabilmente, non gli sarebbe mai stato concesso di prendere possesso e, qualora la vertenza avesse trovato una soluzione, trovandosi Castro a poca distanza dalla capitale, gli sarebbe stato agevole raggiungere Roma.
Il papa era cosciente delle difficoltà e riteneva che il G. avrebbe potuto risiedere nella vicina Acquapendente, in territorio soggetto allo Stato pontificio, svolgendo tranquillamente il suo ministero e il lavoro in favore del Sales. Proprio la nomina del G. fu invece il detonatore del conflitto.
Per la diocesi di Castro Ranuccio II Farnese aveva, come consuetudine, presentato al papa la candidatura di due suoi sudditi; la scelta di Innocenzo X gli parve (o, secondo i difensori del duca, così gli fu descritta dal suo primo ministro, il provenzale Jacopo Gaufrido) una inaccettabile provocazione. A nulla valsero le deferenti lettere che il G. scrisse, il 20 maggio 1648, al duca e alla duchessa di Parma. Un auditore del Farnese, Francesco Pavoni, avvisò il G. di non partire da Roma prima che si fosse trovato un accomodamento tra le due corti. Il G. non si mosse per quasi un anno, sperando in una soluzione diplomatica della vertenza e tentando inutilmente di farsi ricevere dall'ambasciatore di Parma e di mandare a Castro un canonico, cui venne impedito di prendere possesso della diocesi in sua vece. La situazione si complicò ulteriormente anche per il comportamento del Pavoni e dell'ambasciatore di Parma che, consapevoli della disparità delle forze in campo, addebitavano apertamente al Gaufrido l'ostinazione del duca, incoraggiando così il fermo atteggiamento di Roma, nonostante da Parma il linguaggio si facesse sempre più minaccioso.
Infine Innocenzo X ordinò al G. di partire, ancora convinto che Ranuccio II si sarebbe limitato a chiudergli le porte della città obbligandolo a deviare verso Acquapendente. Invece il G. ebbe il chiaro presentimento di andare incontro al martirio, come testimoniarono i confratelli con i quali parlò prima della partenza, avvenuta il mattino del 18 marzo 1649.
Coraggiosamente il G. rifiutò la scorta armata offertagli dal papa, ritenuta sconveniente per un pastore d'anime, e accettò invece la compagnia di Gabriel de Besançon, ormai diventato suo amico, e di altre due persone. Giunto la sera, in lettiga, nei pressi di Monterosi, ancora in territorio papale, due sicari gli si affiancarono sparandogli quattro colpi di archibugio. Gravemente ferito, il G. fu trasportato in una vicina osteria dove, nonostante le cure di due medici, morì la mattina del 19 marzo 1649, dopo aver espresso il desiderio che il papa perdonasse gli aggressori e si astenesse da ogni vendetta. Sepolto il 20 marzo nella piccola chiesa di Monterosi, il corpo del G. fu traslato dopo nove giorni a Roma, in S. Carlo ai Catinari.
L'assassinio del G. costituì il movente per la ripresa della guerra di Castro. Innocenzo X ordinò l'invasione del ducato e, ottenuta la resa della città, la fece radere al suolo dopo aver trasferito la sede episcopale ad Acquapendente. L'inchiesta sull'omicidio, subito avviata, non lasciò dubbi sui mandanti: gli assassini avevano persino firmato il delitto, gettando sul G. morente un foglio con su scritto "Frate Giarda impara a parlar de i Principi". Tuttavia la giustizia papale raggiunse solo i due autori materiali dell'assassinio, Ranuccio Zambini da Gradoli e Domenico Cocchi da Valentano, parte di una banda reclutata dal castellano di Castro, Sansone Asinelli, e composta da almeno sette persone, in maggioranza scampate alla condanna a morte con la fuga oltre confine. Ranuccio II si liberò di Gaufrido, ormai divenuto scomodo, facendolo arrestare e condannare alla pena capitale per abuso del nome ducale, fellonia e depredazioni, negando così ogni sua responsabilità personale.
I barnabiti considerarono il G. un martire, ma non vollero mostrare troppo il loro rammarico per la sua scomparsa, a causa delle delicate circostanze in cui era avvenuta e per non inimicarsi i Farnese. Nel 1650 il Crivelli si oppose "per degni rispetti" alla stampa di un'orazione funebre di Gregorio Botty in onore del G. approvata dal vescovo di Ginevra e, nello stesso anno, bloccò sul nascere la proposta di avviare la causa di beatificazione, mai più ripresa.
Il G. pubblicò varie orazioni, tra cui la De venerabili servo Dei Francisco Salesio…, edita a Lovanio nel 1648 e terminata appena tre giorni prima della morte. La Historia Congregationis clericorum regularium Sancti Pauli (insieme con il materiale a essa pertinente) rimase manoscritta nell'Archivio generale dei barnabiti, a Roma, perché, dopo il conferimento del vescovato di Castro al G., il Crivelli ne affidò la redazione al padre Lorenzo Torelli, ma neppure costui riuscì a portare a termine l'opera.
Fonti e Bibl.: Bibl. apost. Vaticana, FondoChigi, A.I.7, cc. 39v-40; A.I.34, cc. 236 s.; F.M. Annibali, Notizie istoriche della casa Farnese…, Montefiascone 1817, pp. 72-79; I. Ciampi, Innocenzo X Pamfili e la sua corte…, Roma 1878, pp. 62-65; O.M. Premoli, Storia dei barnabiti nel Seicento, Roma 1922, ad indicem; L. von Pastor, Storia dei papi…, XIII, Roma 1931, p. 1036; XIV, ibid. 1932, p. 277; G. Boffitto, Scrittori barnabiti…, II, Firenze 1933, pp. 236-243; IV, ibid. 1937, p. 554; M. Carfora, L'assassinio di mons. C. G. ultimo vescovo di Castro, in Pagine di cultura, I (1934), 3, pp. 160-183; G. Donna d'Oldenico, C. G. da Vespolate ultimo vescovo di Castro, in Rivista araldica, XLVI (1948), 1, pp. 11-13; Id., Nel terzo centenario della morte di C. G. da Vespolate, in Boll. stor. della provincia di Novara, XLI (1950), pp. 18-26; A.M. Gentili, I barnabiti, Roma 1967, ad indicem; S. Pagano, Gerarchia barnabitica, I, Roma 1994, pp. 41, 189, 193; S. Ortolani, S. Carlo a' Catinari, Roma s.d., pp. 20, 45; Dict. d'hist. et de géogr. ecclésiastiques, XX, sub voce.