JACOVACCI, Cristoforo
Nacque a Roma da Giacomo e da Camilla Astalli nel 1499 o nel 1500. Apparteneva alla nobiltà civica romana, a un lignaggio che vantava condottieri e uomini di Chiesa sin dal Duecento e aveva residenza in piazza Colonna. Il nonno dello J. era noto come "speziale" e aveva avviato alla carriera ecclesiastica due dei suoi figli: il primo, Domenico, era divenuto un canonista di fama ed era giunto al cardinalato nel 1517, e il secondo, Andrea, era vescovo di Nocera dei Pagani.
Protetto da consanguinei ai vertici della gerarchia curiale, lo J. proseguì decisamente sulla stessa via: completò gli studi di diritto e raggiunse il titolo di referendario di entrambe le Segnature, primo gradino della carriera presso la corte di Roma, preliminare a ogni avanzamento; quindi, il 21 febbr. 1517 fu nominato canonico della basilica di S. Pietro, prestigioso e influente collegio di ecclesiastici. Il 23 marzo 1523 lo zio, il cardinale Domenico, gli cedette la diocesi di Cassano all'Jonio, in Calabria, che governò senza risiedervi ma, come aveva fatto il predecessore, tramite vicari e amministratori. Dopo il sacco di Roma (1527), il nome dello J. comparve in una lista di "molti che sono morti dapoi lo excidio et ruina di la corte" (Sanuto, XLVI, p. 209); tuttavia, pur mancando particolari sulle sue traversie durante il sacco, è certo che egli riuscì almeno ad aver salva la vita.
Con il pontificato di Paolo III Farnese la carriera dello J. fece subito un visibile balzo. Già nell'ottobre 1534 era a capo della Dataria, dicastero cui competeva il conferimento di benefici ecclesiastici. Poco dopo lo J. ricevette il grado di uditore del Sacro Palazzo, che accompagnò con la dignità di prelato domestico del pontefice. Gli furono affidati anche compiti politici di rilievo: il 14 genn. 1535 fu nominato da Paolo III (insieme con Pietro Flores, vescovo di Castellammare di Stabia) esecutore della riforma degli ufficiali della corte romana emanata da Leone X in occasione del concilio Lateranense. Il 23 agosto il suo nome fu compreso nella bolla Sublimis Deus, che istituiva la commissione deputata alla riforma delle magistrature capitoline e della Curia pontificia.
Il risultato non fu affatto all'altezza delle aspettative: l'editto emanato l'11 febbr. 1536 si limitava a regolare la condotta del clero della città di Roma, a sancirne l'obbligo di residenza, e a disciplinare le nuove ordinazioni sacerdotali; l'organizzazione e la prassi degli uffici di Curia, al centro della polemica con i protestanti d'Oltralpe, non furono invece trattate. E del resto, in qualità di datario, lo J. vigilava perché i prelati più attivi nelle diocesi d'Italia o i nunzi (come Girolamo Veralli a Venezia) non uscissero, nei propositi di riforma, al di fuori delle loro giurisdizioni e competenze.
L'operato dello J. fu certamente apprezzato dal papa: nel giugno 1536 - era già abbreviatore delle lettere apostoliche -, fu nominato segretario apostolico; quindi il suo nome, gradito a Carlo V per lo schieramento filoimperiale dello zio, fu compreso nella creazione cardinalizia del 22 dic. 1536. Lo J. ricevette la berretta il 15 genn. 1537 con il titolo di S. Anastasia (per poi passare, il 6 sett. 1537, a quello di S. Eustachio).
Carlo V si rallegrò con il papa per l'elevazione dello J., il quale continuò a reggere la diocesi di Cassano per mezzo di amministratori: alla fine del 1537 ebbe ordine dal papa di richiamare i religiosi ai costumi convenienti allo stato ecclesiastico e di vigilare sul rispetto della giurisdizione e delle proprietà della Chiesa da parte dei laici. Nell'ultima fase del lungo confronto militare tra Asburgo e Valois, lo J. fu chiamato a impegni di responsabilità. Il 19 ott. 1537, infatti, Paolo III affidò a lui e al cardinale Rodolfo Pio di Carpi una legazione presso l'imperatore Carlo V e il re di Francia Francesco I con l'obiettivo di giungere a una pace (o almeno a una tregua duratura) e a un concilio per rispondere alla Riforma protestante.
Ricevuta la nomina a legato de latere, lo J. mosse da Roma insieme con il cardinale Pio di Carpi il 23 dic. 1537. Il 13 genn. 1538 i due legati raggiunsero Montpellier, dove furono accolti da Francesco I con calore più apparente che sostanziale. Quindi lo J. proseguì da solo verso la Catalogna e il 17 gennaio giunse a Barcellona, dove si trovava l'imperatore. Subito furono avviate trattative e lo J. incontrò ripetutamente Carlo V, il potente segretario Francisco de Los Cobos e il cardinale Nicolas Perrenot de Granvelle.
L'imperatore non era molto propenso alla pace con i Valois e moltiplicava le affermazioni di buona volontà soprattutto per far cadere sui Francesi la responsabilità dello stallo. Lo J. non si avvide del complesso gioco approntato dalla diplomazia imperiale e, riferendo dei colloqui, si disse subito convinto del desiderio di pace dell'imperatore considerando accolta l'ipotesi di una mediazione del papa: in effetti, già il 18 gennaio lo J. scrisse che Carlo V era pronto a recarsi "dove Sua Santità giudicava essere più opportuno" (Capasso, p. 480). Più spinosa gli appariva la questione del concilio, per la convocazione del quale anche l'imperatore sosteneva di volersi impegnare in appoggio al pontefice. Lo J. assicurò che Paolo III avrebbe vinto le opposizioni di Francesco I, ma da parte dell'imperatore e dei suoi consiglieri non ottenne risposte favorevoli: erano ancora forti i timori che un sinodo generale sotto l'egida romana avrebbe provocato una sollevazione in Germania, l'indizione di un concilio nazionale dei prelati tedeschi, persino un accordo dei protestanti con il re d'Inghilterra, Enrico VIII, scomunicato dalla S. Sede. Solo la parte dei negoziati relativa all'incontro dei due re era destinata a trovare sbocchi concreti: Francesco I, all'inizio di febbraio, accettò l'incontro con l'imperatore e la missione dello J. si avviò alla conclusione. Egli ne trasse un bilancio nell'istruzione a Matteo Gherardi, il maestro delle poste del nunzio in Spagna Giovanni Poggio, inviato a Roma nel febbraio 1538 e giuntovi nel mese successivo. Lo J. dichiarava che Carlo V era ben disposto alla pace e che avrebbe accettato l'imminente incontro con il re di Francia a Nizza, dove sarebbe stato presente anche il pontefice, ma avvisava dei sospetti sulla condotta di Francesco I: la diplomazia imperiale temeva infatti "che tutte le buone parole, offerte, e dimostrationi, che vengon loro fatte per parte del Christianissimo siano tutte insidie per mettere tempo in mezzo, far spendere, e disturbare il Concilio e l'impresa contro il Turco" (Biblioteca apost. Vaticana, Chig., Q.I.6, c. 162v).
Sulle due importanti questioni della convocazione del concilio e della lega contro il Turco, lo J. confermava che Carlo V avrebbe assecondato i propositi della S. Sede. Semmai, "per quello si può comprendere" (ibid., c. 160v), l'imperatore si mostrava ancora preoccupato per i disordini che potevano nascere in Germania a causa di un concilio indetto da Roma senza sufficienti garanzie per i protestanti. Lo J. modellava piuttosto acriticamente il suo punto di vista su quello della diplomazia di Carlo V. Lo dimostrarono anche le sue positive impressioni, trasmesse a Roma nell'istruzione al Gherardi, riguardo ai possibili sviluppi del duro confronto tra la S. Sede e il re d'Inghilterra grazie alla mediazione di Carlo V.
Enrico VIII aveva definitivamente rotto i rapporti con Roma con l'atto di supremazia (3 nov. 1534), che gli assicurava la posizione di capo supremo della Chiesa inglese, e aveva tacciato di doppiezza gli sforzi di Paolo III circa la convocazione di un concilio generale per la riforma della Chiesa; dal canto suo, l'imperatore coltivava i rapporti con il re inglese per sottrarre alla Francia un pericoloso alleato. Invece, a giudizio dello J., che rivelava le pressioni di Enrico VIII affinché si convocasse un concilio per autorità imperiale, Carlo V non mancava "d'intrattenere quel re, che non vorria si esasperasse" (ibid., c. 162r) e si sforzava di creare le condizioni affinché potesse tornare all'obbedienza della Sede apostolica.
A Roma non fu dato troppo peso a queste considerazioni, che lo J. si riprometteva di esporre più compiutamente al pontefice a voce, una volta rientrato a Roma. Anzi, sembrava che egli non stimolasse a sufficienza la partenza dell'imperatore per il luogo deputato per l'incontro, Nizza; così, la Segreteria pontificia gli scrisse "caldissimamente" affinché l'imperatore si decidesse "a far quel che s'aspetta alla parte sua" (il cardinale Alessandro Farnese a G. Verallo, Roma, 7 marzo 1538, in Nunziature di Venezia, p. 145). Anche se in ritardo sulle attese di Roma, Carlo V si era comunque mosso: quando, il 23 marzo 1538, anche Paolo III partì da Roma diretto a Nizza, lo J. iniziò il rientro in Italia e a Piacenza incontrò il pontefice. Giunto a Roma, incluse fra i primi impegni un'importante iniziativa editoriale: essendo infatti il concilio un tema sempre più al centro del dibattito politico-religioso, egli curò l'edizione del De concilio scritto dallo zio, il cardinale Domenico, in occasione del quinto concilio Lateranense. L'opera uscì nell'ottobre 1538 presso Antonio Blado: nel momento in cui il concilio voluto da Paolo III subiva ulteriori rinvii, lo J. pubblicava un testo in cui si sosteneva che anche l'imperatore e il Collegio cardinalizio potevano convocare il sinodo generale, qualora al papa fossero state fatte, senza esito, tutte le possibili richieste in tal senso.
La limitata consonanza con gli indirizzi della politica di più ampio respiro della S. Sede determinò forse il passaggio dello J. ai compiti di governo nei domini temporali della Chiesa: il 21 apr. 1539 fu nominato legato di Perugia e dell'Umbria. Nel maggio lo J. fece il suo ingresso in Perugia (Pellini, p. 617). Lo J. aveva ricevuto disposizioni per la riforma degli ecclesiastici perugini, ma la sua attività nel governo spirituale rimase di scarso peso. I problemi fiscali costituirono invece da subito il punto di maggior attrito tra la corte pontificia e gli amministratori locali; in particolare, lo J. si trovò impegnato nell'esecuzione delle disposizioni di Roma "intorno all'impositione del mezo ducato per cento de' beni stabili" (ibid., p. 619), imposta diretta che avrebbe colpito i singoli cittadini superando il sistema consolidato di una ripartizione dei carichi fiscali locale e autonoma. Convocati i Consigli della città, lo J. promosse la costituzione di una commissione che, di comune consenso, decidesse "intorno alla quantità de denari, et del modo de' pagamenti" (ibid.). La città ottenne di pagare l'importo previsto dalle entrate municipali già esistenti e non dai singoli contribuenti e a Roma fu inviata una somma di 1000 scudi, di cui il papa si accontentò.
Lo J. tentò una mediazione anche in occasione dell'imposizione di una nuova tassa sul sale, nel 1539. Ripetutamente contattò i rappresentanti del governo locale (i Priori), offrendosi di premiare lo sforzo finanziario con il suo sostegno alle richieste della città in altri campi: non avendo ottenuto alcun risultato, rientrò a Roma nel gennaio 1540 e inviò a Perugia il vescovo di Rieti, Mario Aligeri, come vicelegato. Lo J. non era dunque a Perugia al precipitare della crisi: il breve pontificio che esigeva il pagamento della tassa (7 febbr. 1540) fu seguito dalla ribellione della città e questa a sua volta dall'interdetto papale, comunicato allo J. il 17 marzo, affinché lo facesse trasmettere dall'Aligeri ai Priori. Le operazioni militari - dopo che anche il vicelegato aveva lasciato la città e lo J. aveva preso residenza in Foligno - si protrassero per tutta la primavera del 1540.
Le forze pontificie, guidate da Pier Luigi Farnese, ebbero agevolmente ragione della resistenza dei Perugini ed entrarono in città all'inizio di giugno. Lo J., "di ordine del papa" (ibid., p. 635), fece rientro nella sua sede solo il 17 settembre. L'accoglienza, confidando le élites cittadine nelle sue capacità di mediazione per evitare pesanti ritorsioni da parte del potere pontificio, fu molto calorosa.
Tuttavia, pochi giorni dopo il suo ingresso lo J. si ammalò e, dopo essersi trasferito nel monastero di S. Pietro, morì il 4 ott. 1541. Il suo corpo fu traslato a Roma nella chiesa di S. Eustachio.
Fonti e Bibl.: Biblioteca apost. Vaticana, Chig., Q.I.6, cc. 159r-163v (il documento è presentato come istruzione del card. Rodolfo Pio di Carpi per Giovanni Poggio, vescovo di Tropea, "quando di Spagna lo spedì a Roma. 1538"; si tratta invece dell'istruzione dello J. a M. Gherardi, giunto a Roma nel marzo 1538); C. Bontempi, Ricordi della città di Perugia dal 1527 al 1540, in Arch. stor. italiano, XVI (1851), 2, pp. 376-378, 385; G. Di Frolliere, La guerra del sale, ibid., pp. 407 s., 476; M. Sanuto, I diarii, XLVI, Venezia 1897, p. 209; Concilium Tridentinum. Diariorum, actorum, epistularum, tractatuum nova collectio, I-XIII, ed. Soc. Goerresiana, Friburgi Brisgoviae 1901-85, ad indices; Nunziature di Venezia, II, a cura di F. Gaeta, Roma 1960, ad ind.; Correspondance des nonces en France Carpi et Ferrerio (1535-1540), a cura di J. Lestocquoy, Rome-Paris 1961, ad ind.; P. Pellini, Della historia di Perugia (1572), Perugia 1970, pp. 617, 619, 626, 635; S. Pallavicino, Istoria del concilio di Trento, I, Roma 1833, pp. 385, 438; L. von Pastor, Storia dei papi, V, Roma 1914, ad ind.; G. van Gulik - C. Eubel, Hierarchia catholica…, III, Monasterii 1923, pp. 24, 156; C. Capasso, Paolo III, I, Messina 1924, pp. 478-486, 491; P. Romano, Famiglie romane, II, Roma 1943, pp. 68 s.; F. Russo, Storia della diocesi di Cassano al Jonio, II, Napoli 1967, pp. 26, 28; N. Storti, La storia e il diritto della Dataria apostolica dalle origini ai nostri giorni, Napoli 1969, p. 168; H. Jedin, Storia del concilio di Trento, I, Brescia 1973, pp. 112, 379, 382, 470, 472, 488; B. Barbiche - S. De Dainville-Barbiche, Les légats "a latere" en France, in Archivum historiae pontificiae, XXIII (1985), pp. 93-165; Ch. Weber, Papstgeschichte und Genealogie, in Römische Quartalschrift, LXXXIV (1989), pp. 331-400, tav. XX; M. Di Sivo, Ghinucci, Girolamo, in Diz. biogr. degli Italiani, LIII, Roma 1999, pp. 779 s.