MUNARI, Cristoforo Ludovico
MUNARI (Monari, Munarij), Cristoforo (Christoforo, Cristofano) Ludovico. – Figlio di Bernardino e di Antonia Mazzadi, nacque e fu battezzato a Reggio nell’Emilia il 21 luglio 1667 (Ghidiglia Quintavalle, 1964).
La riscoperta di Munari, sebbene in termini non elogiativi, si deve a Matteo Marangoni (1917) mentre spettano a Giuliano Briganti (1954) e a Giuseppe De Logu (1955) una lettura più complessa e articolata della sua personalità e dunque una sua sostanziale rivalutazione. Le scarne indicazioni fornite dai più antichi biografi (Gabburri [1730-41 circa]; Marrini [1766]) sono state confermate da Augusta Ghidiglia Quintavalle (1964) e da Geneviève Michel (1980). Alla prima studiosa spettano il ritrovamento del certificato di battesimo del pittore, una prima catalogazione delle sue opere e un’attenta analisi dei rapporti da lui intrattenuti con la corte estense, mentre alla seconda si deve la conferma, su base documentaria, del suo soggiorno romano; Francesca Baldassari (1999), nel ripercorrerne la vicenda biografica e la vasta produzione, ha dedicato particolare attenzione agli anni fiorentini dell’artista, rileggendo la documentazione archivistica resa nota da altri studiosi. Emerge che Munari, specializzato in nature morte, affiancò costantemente a questa attività quella di restauratore di pitture, disprezzata da Pandolfo Titi (1751), e quella di mercante di quadri.
Non abbiamo notizie circa la formazione di Munari e il suo apprendistato pittorico sul quale è possibile fare solo congetture. L’attenzione dell’artista verso le opere del parmense Andrea Benedetti (Bottari, 1960, 1964) e i rapporti personali col conte parmense Ferrante Borri suggeriscono forse un suo soggiorno giovanile a Parma. Vissuto e attivo nel Ducato estense sin almeno alla metà degli anni Novanta del Seicento, attorno al 1697 dovette trasferirsi a Roma. è infatti registrato nel 1699 nella parrocchia di S. Lorenzo in Lucina (Michel, 1980), con la moglie Giovanna Cavaterra di Nemi e con la sua prima figlia, Teresa, di un anno. Da questo matrimonio nacquero, nella stessa parrocchia, altri quattro figli: Nunzia Angela Paola (1700), Bartolomeo Ottavio (1701), Marta Domenica (1703) e Angela Antonia (1706), padrino della quale fu, in luogo del conte Borri, il pittore bolognese Domenico Maria Muratori.
Residente, sino al 1707, come il pittore faentino Santi Bocchi, nella «traversale» di piazza della Torretta (ibid.), Munari fu proposto, nel settembre del 1703, tra gli artisti da accogliere nella Congregazione dei Virtuosi al Pantheon. La sua partecipazione alle riunioni di questa istituzione, di cui nel 1707 sarebbe divenuto uno degli ufficiali infermieri, fu discontinua: vi prese parte mediamente due volte l’anno tra il 1703 e il 1707 e una sola volta nel 1713 (Bonaccorso - Manfredi, 1998). Questa scarna presenza, apparentemente incompatile con lo statuto dei Virtuosi, dovette tuttavia essere ritenuta sufficiente a evitargli l’esclusione. Frequentatore nei suoi anni romani soprattutto della comunità degli emiliani, in particolare di modenesi e parmensi, come attestano i certificati di battesimo dei suoi figli, padrini dei quali risultano sempre essere membri di questa comunità, Munari, forse attraverso Muratori, entrò in contatto, probabilmente sul finire del Seicento, con quello che già Francesco Maria Niccolò Gabburri (1730-41 circa) segnalava come il suo più importante committente romano, il cardinale Giuseppe Renato Imperiali. Per questo cardinale, legato di Ferrara dal 1690 al 1696 e poi prefetto della congregazione del Buon Governo, Munari eseguì almeno quattro tele, come risulta dall’inventario dei beni del porporato del 1737 (Prosperi Valenti Rodinò, 1987), una delle quali identificabile con quella, siglata e datata 1705, raffigurante Chitarra battente, bucchero, fiasco di vino, ghiacciaia, frutta, porcellana cinese, bicchiere e biscotti (Reggio Emilia, coll. priv.; Baldassari, 1999, n. 30). Della protezione offerta a Munari da Imperiali sarebbe ulteriore prova la possibile presentazione, da parte del cardinale, nel 1702 e nel 1705, di dipinti dell’artista alle mostre annuali che si tenevano presso la chiesa di S. Salvatore in Lauro (De Marchi, 1987)
Tra i committenti romani del pittore vanno probabilmente annoverati anche i principi Colonna. Nell’appartamento privato di palazzo Colonna in piazza Ss. Apostoli a Roma, vi è infatti una natura morta con Cavolo, brocca con finocchi e cesto di cipolle, con ogni probabilità attribuibile a Munari (Safarik, 1999, n. 450), che forse era stata richiesta da Filippo II Colonna. Da questa stessa collezione è possibile provenga anche la tela ora a Berlino (Staatliche Museen, Gemäldegalerie) nella quale, sullo sfondo di un paesaggio, sono disposti su di un basamento, coperto da un tappeto, diversi strumenti musicali e, in primo piano, su di un frammento di colonna, un cocomero ed altri frutti (Baldassari, 1999, n. 118). Sempre a Roma Munari realizzò, forse sul finire del Seicento, una coppia di dipinti per tale Paciolo Malli, come indica l’iscrizione che compare sulla tela, con Chitarra battente, mandola libro e lettera, conservata, assieme al suo pendant (Mandola, libro aperto e chiuso, foglio con notazioni musicali arrotolato), nella collezione Guicciardini di Firenze (ibid., nn. 21 s.). Sulla base delle firme e delle date che compaiono sulle opere, possono essere ricondotti al periodo romano di Munari anche i due dipinti della galleria Moretti di Firenze (Id., 2001, figg. alle pp. 186-191) datati 1701 e le due nature morte firmate e datate 1704 (Torino, coll. priv.; ibid., nn. 113 s.).
Tutti questi dipinti presentano un repertorio di oggetti e una diligenza, compositiva ed esecutiva, che sarebbero divenuti il tratto stilistico caratteristico di tutta la sua produzione successiva e dimostrano come Munari – formatosi sugli esempi delle nature di Evaristo Baschenis e Paolo Antonio Barbieri, nonché estimatore di Andrea Benedetti – a Roma ebbe contatti significativi e fondamentali con la cultura fiamminga della cerchia di Jan Davidsz de Heem e in particolare con Christian Berentz, conosciuto forse attraverso l’Imperiali. Lo stile lucido, finito e astratto di questi artisti nordici appare però personalizzato dall’artista, la cui pittura, asciutta, è caratterizzata da una patina più calda di realtà, un ordine più vero nella disposizione degli oggetti e una luce cristallina ancora seicentesca (Briganti, 1954). Alcuni altri motivi ricorrenti nella sua pittura, dimostrano poi la conoscenza diretta delle nature morte di Pietro Navarra e Giovan Paolo Castelli detto lo Spadino, entrambi attivi a Roma tra la seconda metà del Seicento e l’inizio del secolo successivo; Castelli, in particolare, abitava, come Munari, nella parrocchia di S. Lorenzo in Lucina (Michel, 1980).
All’attività di pittore di nature morte, che gli precluse l’accesso all’Accademia di S. Luca (Baldassari, 1999), Munari dovette affiancare, come si è accennato, anche quella di procacciatore di dipinti, in particolare per la corte estense; ciò lascia intendere una sua lettera inviata da Roma nell’ottobre 1703 (Ghidiglia Quintavalle, 1964) nella quale informava un personaggio in vista della corte di Modena, forse lo stesso duca Rinaldo, che il suo dipinto inviato al gran principe Ferdinando de’ Medici era stato apprezzato al punto che, attraverso il conte Maurizio Santi, gli era stato commissionato il pendant. Le due tele, identificate con quelle di soggetto «rustico» ora a palazzo Pitti (Caneva, 1993), sono i primi documenti certi del rapporto di Munari con Firenze e con la sua corte, avviato forse sullo scorcio del Seicento e poi divenuto, dalla fine del 1705, sempre più fitto. Nell’aprile 1706 il pittore pagò, infatti, due lire all’Accademia fiorentina del disegno come matricola (Baldassari, 1999), segno evidente di una sua attività nel Granducato. In quest’anno eseguì, con buona probabilità, anche la Natura morta con trofei di guerra (Casalmaggiore, galleria D’Orlane; ibid., n. 11) e un dipinto, forse di piccole dimensioni, per Rinaldo d’Este (ibid.).
Tra il marzo e l’aprile 1707 Munari lasciò Roma e si trasferì con la famiglia, a Firenze. Tale scelta fu determinata, è da credere, dalla protezione accordatagli dal gran principe, raffinato collezionista e appassionato di natura morta per il quale Munari avrebbe eseguito nel corso del suo soggiorno fiorentino diversi dipinti. Per il gabinetto di «opere in piccolo», messo insieme dal Medici nella sua residenza di Poggio a Caiano, realizzò un trompe-l’oeil, e, nel 1709, la Tavola imbandita ora nella Galleria degli Uffizi (Briganti, 1954). Altri tre dipinti, databili al 1710-11, sono poi registrati nella medicea villa di Pratolino (Chiarini, 1975). Si devono con buona probabilità allo stesso committente anche le sei tele già nella villa Ferdinanda di Artimino (Strocchi, 1978).
Ancora per il Medici, in questi stessi anni, realizzò la tela con Calice, bucchero, libri, flauto dolce, su tavolo coperto da tovaglia rossa, già a Poggio Imperiale (Baldassari, 1999, n. 65). Dalla collezione del gran principe proviene anche l’Alzata con cristalli, foglio di musica, clavicembalo, orologio frutta argenti e porcellane cinesi (1710 circa; Como, coll. priv.; ibid., n. 97). Secondo Gabburri l’artista realizzò opere anche per il cardinale Francesco Maria de’ Medici, zio di Ferdinando, che col nipote condivideva le passioni per la pittura e la musica; a quest’ultimo spetta forse la committenza (ibid.) della tela con Orologio, vaso di pietra dura, libri, porcellane cinesi, buccheri, conchiglie su due piani (coll. priv.; ibid., n. 99).
Il sostegno granducale assicurò a Munari l’attenzione dell’aristocrazia e della borghesia fiorentina e il suo ingresso nel circuito di questo mercato artistico è attestato almeno sin dal 1709. Attorno a quest’anno, eseguì, per Francesco Riccardi, in esilio a Roma dal 1699 al 1706, due trompe-l’oeil, oggi irreperibili e, nel 1713, un dipinto con strumenti musicali (De Logu, 1955). Prima del 1710 licenziò un quadro per il barbiere fiorentino Bernardo Guelfi che fu oggetto di una controversia con il committente, registrata tra le carte dell’Accademia del disegno, istituzione alla quale il pittore risulta pagare la sua matricola nel 1711 e nel 1715 (Baldassari, 1999). Nel 1710, forse per un breve periodo a Modena (Ghidiglia Quintavalle, 1964), realizzò sia il suo Autoritratto, ora agli Uffizi ma in origine nella collezione del medico pistoiese Tommaso Puccini (Marrini, 1764), sia due nature morte (Spoleto, galleria Paolo Sapori; Baldassari, 1999, nn. 95-96) che si qualificano come una originale via di mezzo tra il genere del trompe-l’oeil e le cosiddette Vanitas-Stilleben di area germanica.
Tra gli estimatori fiorentini di Munari sono da ricordare Giovanni Gualberto Guicciardini, che nel marzo del 1712 pagò il pittore per due quadri richiestigli forse nel 1710 (Baldassari, 1999), i marchesi toscani Guadagni e Feroni, che risultano proprietari di suoi dipinti (Fantozzi, 1842), gli Acciaioli e il pittore e collezionista inglese, Enrico Ignazio Hugford (Baldassari, 1999). Nel corso del suo soggiorno a Firenze l’artista lavorò poi ad almeno cinque dipinti per i Masetti da Bagnano, famiglia originaria di Modena ma trasferitasi già nel Seicento in Toscana, un tempo conservati nel castello di Uzzano a Greve in Chianti, e oggi alla Fondazione Manodori di Reggio Emilia (ibid.).
Nel 1711 e ancora nel 1712, anno in cui licenziò il suo dipinto con Brocca di vetro, strumenti musicali e tazze di porcellana cinese (Montepulciano, Museo civico), Munari scriveva da Firenze a Rinaldo d’Este per richiedere il pagamento di due quadri che il duca gli aveva commissionato nel 1708, identificabili con le due tele ora alla Galleria Estense di Modena (Baldassari, 1999, nn. 32-33). Nel sollecitare il duca il pittore dichiarava di vivere in miseria dovendo farsi carico oltre che della sua numerosa famiglia anche dei suoi genitori, ormai anziani, rimasti a Reggio Emilia. I debiti e la povertà dichiarati in queste lettere (Ghidiglia Quintavalle, 1964) contrastano col volume di attività del pittore sino a questa data e anche dopo, quando eseguì la natura morta, firmata e datata 1714, già nella collezione Lorenzelli di Bergamo (Baldassari, 1999, n. 108), ultimo numero documentabile del suo catalogo. È da rilevare tuttavia che a fronte della sua vasta produzione il prezzo medio dei dipinti di Munari era assai modesto, aggirandosi attorno ai 15 scudi (ibid.).
Presente a Roma nel settembre 1713, forse in cerca di nuove commissioni, essendo morto in quest’anno il suo protettore Ferdinando de’ Medici, nell’aprile del 1716 Munari è registrato a Pisa dove ricevette il pagamento per il restauro della tela con la Moltiplicazione del pani realizzata da Aurelio Lomi per il duomo pisano (Ciardi, 1990). In questa città esercitò, probabilmente, solo l’attività di restauratore.
Particolarmente abile nel ripulire «le pitture antiche», come sottolinea Marrini (1766), a Pisa Munari mise mano anche, sempre nella cattedrale, alla Crocifissione di Giovanni Bilivert e alla Consacrazione del duomo di Pietro Sorri. Stando a questa fonte, qui condusse, tra il 1716 e il 1720, vita ritirata; la mancanza di notizie certe sulla sua attività pittorica in questo periodo e l’assenza di tele firmate e datate dopo il 1714, autorizzano a ipotizzare un rallentamento della sua operosità, limitata, forse, a repliche delle precedenti invenzioni, come suggerisce la coppia di nature morte conservate nella Pinacoteca civica di Ascoli Piceno una delle quali riproduce, con lievi varianti, la tela con Uova al tegamino, vaso di terracotta, bacile di peltro, prosciutto, pane, porcellane cinesi, frutta, calice e fiasco di vino ora in collezione privata fiorentina (Baldassari, 1999, n. 67).
Morì a Pisa nel 1720 e fu sepolto nel Camposanto della città.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. storico del Vicariato, Parrocchia di S. Lorenzo in Lucina, Stati delle anime, 1699-1707, cc. 104v, 110v; Ibid., Libro dei battezzati, 1693-1700, c. 268v; 1700-1708, cc. 50, 114v, 142r.; Firenze, Biblioteca naz. centrale, Palatini, E.B.9.5: F.M.N. Gabburri, Vite di pittori (1730-41 circa), II, p. 618; P. Titi, Guida per il passeggiere…nella città di Pisa, Lucca 1751, p. 17; O. Marrini, Serie di ritratti di celebri pittori…, I, 2, Firenze 1766, p. XXXII; F. Fantozzi, Nuova guida… della città e contorni di Firenze, Firenze 1842, pp. 692, 695; M. Marangoni, Valori mal noti e trascurati della pittura italiana del Seicento in alcuni pittori di natura morta, in Rivista d’arte, X (1917-18), p. 14; G.J. Hoogewerff, Nature morte italiane del Seicento e del Settecento, in Dedalo, IV (1923-24), p. 611; F. Baumgart, M. C., in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXXV, Leipzig 1931, p. 56; G. Briganti, Cristofano Monari, in Paragone, V (1954), 55, pp. 40-42; G. De Logu, Cristofano Monari o Monarico? : Monari o Munari?, in Emporium, CXXI (1955), pp. 249-258; L. Mortari, Il Settecento a Roma (catal.), Roma 1959, p.156; M. Gregori, Mostra di tesori segreti delle case fiorentine (catal.), Firenze 1960, pp. 11, 119 s; S. Bottari, Una segnalazione per C. Berentz, in Arte antica e moderna, 1960, n. 12, pp. 416 s.; G. De Logu, Natura morta italiana, Bergamo 1962, pp. 75-78; R. Roli, in La natura morta italiana (catal., Napoli-Zürich-Rotterdam), Milano 1964, pp. 101 s.; A. Ghidiglia Quintavalle, Christoforo M. e la natura morta emiliana, Parma 1964; U. Baldini, C. M. e la natura morta emiliana, in Antichità viva, III (1964), 9-10, pp. 64-69; S. Bottari, La mostra di C. M. a Parma, in Arte antica e moderna, 1964, pp. 468 s.; J.H. van der Meer - F. Hellwig, Strumenti musicali in un quadro attribuito a M., in Antichità viva, X (1971), 6, pp. 12-16; M. Chiarini, Gli ultimi Medici. Il tardo barocco a Firenze (1670-1743) (catal.), Firenze 1974, p. 290; D. Lanzi, Monari C., in Diz. encicl. Bolaffi…, VII, Torino 1975, p. 433; M.L. Strocchi, Il gabinetto d’«Opere in piccolo» del gran principe Ferdinando a Poggio a Cajano, in Paragone, XXVI (1975), 309, pp. 115-126; Id., ibid., XXVII (1976), 311, pp. 83-116; G. Michel, Notes biographiques sur Giovanni Paolo Spadino, in Colloqui del Sodalizio tra studiosi dell’arte, s. 2, VI (1980), pp. 30, 34; L. Salerno, La natura morta in Italia: 1560-1805, Roma 1984, pp. 137-139; Id., Tre secoli di natura morta italiana, Milano 1984, pp. 336-340; M. Gregori, Una natura morta diBonaventura Gandi, in Studi in onore di L. Grassi, Firenze 1985, pp. 281 s.; Nature morte del Seicento e del Settecento, a cura di P. Consigli Valente, Parma 1987, pp. 114-117; S. Prosperi Valenti Rodinò, Il cardinal Giuseppe Renato Imperiali committente e collezionista, in Bollettino d’arte, s. 6, LXXII (1987), 41, pp. 25, 33; G. De Marchi, Mostre di quadri a S.Salvatore in Lauro (1682-1725), Roma 1987, pp. 163, 203; D. Biagi Maino, C. M., in Lanatura morta in Italia, a cura di F. Porzio, II, Milano 1989, pp. 412-420; Settecento pisano. Pittura e scultura a Pisa nelsecolo XVIII, a cura di R.P. Ciardi, Pisa 1990, pp. 99 s. n. 95; E. Epe, Die Gemäldesammlungen des Ferdinando de’Medici, Erbprinz von Toscana (1663-1713), Marburg 1990, pp. 171-173; C. Caneva, I dipinti, in Giuseppe Maria Crespi nei musei fiorentini (catal.), Firenze 1993, pp. 94-97; G. Bonaccorso - T. Manfredi, I Virtuosi al Pantheon (1700-58), Roma 1998, pp. 62-65, 74 s.; C. M. 1667-1720 (catal., Reggio Emilia), a cura di F. Baldassari - D. Benati, Milano 1999; E.A. Safarik, Palazzo Colonna, Roma 1999, p. 252; F. Baldassari, C. M., Milano 1999; F. Baldassari, Pittori attivi in Toscana dal Trecento al Settecento (catal.), Firenze 2001, pp. 186-191; Id., Quattordici importanti dipinti di natura morta del Seicento e del Settecento (catal., Modena), Firenze 2002, p. 42; Natura morta italiana tra Cinquecento e Settecento (catal., München), a cura di M. Gregori - G.J. von Hohenzollern, Milano 2002, pp. 344-347, 472.