Critica d'arte
di Giulio Carlo Argan
Critica d'arte
sommario: 1. Compito e significato della critica. 2. La critica militante. 3. La critica dell'arte e la storia dell'arte. a) La critica della forma. b) La critica dell'immagine. c) La critica delle motivazioni. d) La critica dei segni. 4. La crisi della critica e la crisi dell'arte. □ Bibliografia.
1. Compito e significato della critica
Nella cultura moderna l'arte è oggetto di studio da parte di una disciplina autonoma e specialistica, la critica d'arte, che opera secondo proprie metodologie, ha come fine l'interpretazione e la valutazione delle opere artistiche e, nel suo sviluppo, ha dato luogo al formarsi non soltanto di terminologie appropriate, ma di un vero e proprio ‛linguaggio speciale', che ‟ricorre con frequenza abnorme a una data sezione del lessico e, relativamente all'uso corrente, è ricco di termini tecnici derivanti da diverse nomenclature tecniche e scientifiche" (v. De Mauro, 1965, p. 1). Le opere artistiche sono sempre state oggetto di giudizi di valore e considerate come componenti di un patrimonio culturale che esigeva particolari attenzioni da parte della società e dei suoi organi rappresentativi, interessati a conservarle e a tramandarle (ma anche, non di rado, a toglierle di mezzo, a distruggerle, a sostituirle); e fin dall'antichità si è sviluppata intorno all'arte una vasta e varia letteratura con carattere, di volta in volta, cronistico o memorialistico, teorico e precettistico, storico-biografico, erudito e filologico, commentario o interpretativo. Tuttavia, soltanto a partire dal sec. XVIII, e cioè dall'epoca dell'illuminismo, la letteratura sull'arte si è configurata come disciplina critica, sviluppandosi a livelli diversi: filosofico, letterario, storiografico, informativo, giornalistico, polemico. L'alto grado di specializzazione e il sempre maggior peso culturale della critica d'arte nella seconda metà del secolo scorso e specialmente nel nostro dimostrano che essa risponde a una necessità obiettiva e non può considerarsi un'attività secondaria o ausiliaria rispetto all'arte stessa. È infatti impossibile intendere il senso e la portata dei fatti e dei movimenti artistici contemporanei senza tener conto della letteratura critica che a essi si riferisce. Una parte non piccola di tale letteratura è del resto dovuta agli stessi artisti, che spesso hanno sentito il bisogno di accompagnare, giustificare e sostenere la loro opera con dichiarazioni programmatiche e interventi polemici.
Il fatto che, nella presente condizione della cultura, la critica sia necessaria al prodursi e all'affermarsi dell'arte, legittima l'ipotesi di una sorta d'incompiutezza o, quanto meno, di una non immediata comunicabilità dell'opera d'arte: la critica adempirebbe così a una funzione mediatrice, getterebbe un ponte al di sopra del vuoto che è venuto a crearsi tra gli artisti e il pubblico, cioè tra i produttori e i fruitori dei valori artistici. Questa mediazione sarebbe poi tanto più necessaria in quanto si vuole che l'arte sia accessibile a tutta la società, a una gran parte della quale è ancora precluso l'accesso al godimento e al consumo dei prodotti della cultura e, specialmente, dell'arte: la critica offrirebbe così, delle opere d'arte, una interpretazione ‛giusta', o addirittura scientifica, che varrebbe per tutti, senza distinzioni di classi. Ma se la funzione della critica fosse principalmente esplicativa e divulgativa non si spiegherebbe il suo porsi come scienza o, in altri casi, come un ‛genere' letterario, il suo ricorrere ad argomentazioni astruse e, per lo più, meno accessibili del testo figurativo a cui si riferiscono, il suo valersi di un ‛linguaggio speciale' in cui abbondano nomenclature specialistiche e, per la maggior parte del pubblico, ermetiche. Ancora meno poi si capirebbe perché la critica moderna, e proprio nelle sue espressioni più avanzate, non si limiti a giudicare quali opere siano artistiche e quali no, operando cioè su quello che è stato fatto e presentato come arte, ma direttamente partecipi degli assunti programmatici e polemici delle correnti e tendenze, delle poetiche e delle intenzionalità più o meno esplicitamente dichiarate, mostrando così di preoccuparsi di quello che è ancora da fare o si sta facendo, e cioè del futuro orientamento dell'arte. Il fatto stesso, poi, che l'attività artistica si sviluppi, nel nostro tempo, attraverso contrasti di tendenze o correnti, il cui successo sul piano dei fatti è in ogni caso aleatorio, spiega il saldarsi della critica alle intenzionalità più che ai risultati del lavoro artistico e il suo carattere prospettivo più che retrospettivo.
Indubbiamente, la necessità della critica dipende dalla condizione di crisi dell'arte contemporanea (v. arte), dalla sua difficoltà di integrarsi nel sistema culturale in atto, dalla rottura del rapporto che la collegava funzionalmente alle altre attività sociali. Se nel passato l'arte era il modello della produzione economica e le sue tecniche rientravano nel sistema tecnologico dell'artigianato, sicché il rapporto arte-società avveniva nel normale circuito della produzione e del consumo, tale rapporto ha cessato di esistere con la rivoluzione industriale, con l'instaurazione di una tecnologia strutturalmente diversa, con la nuova organizzazione economica e sociale, con il mutamento radicale della morfologia degli oggetti e dello stesso ambiente materiale dell'esistenza. Sorge così il problema della relazione tra l'arte, come attività in cui la funzione estetica è dominante (J. Mukařovský), e le altre attività ‛normali' della società, siano esse estetiche (ma non artistiche) o non estetiche. Ogni volta, praticamente per ogni nuova opera presentata come artistica, bisogna dimostrare anzitutto che è veramente opera d'arte, e poi le ragioni della sua presenza e attualità, la sua capacità di adempiere a una funzione socialmente necessaria e che, non essendo più l'arte un'attività integrata, ha i suoi effetti al di là del campo specifico dell'arte. Il compito della critica contemporanea è dunque, sostanzialmente, di dimostrare che ciò che viene fatto come arte è veramente arte e che, essendo arte, si salda organicamente ad altre attività, non artistiche e perfino non estetiche, inserendosi così nel sistema generale della cultura: ciò che, appunto, spiega il ricorso ad argomentazioni assai complesse e l'impiego di un ‛linguaggio speciale' in cui abbondano non soltanto i termini tecnici e scientifici (in quanto scienza e tecnica sono le attività egemoni nel sistema culturale in atto), ma letterari, sociologici, politici. Se, infine, la critica è un ponte tra la sfera ‛separata' dell'arte e la sfera sociale, quel ponte si costruisce muovendo dalla sfera artistica verso la sociale (e non inversamente), sicché la critica può considerarsi come un prolungamento o un tentacolo col quale l'arte tenta di agganciarsi alla società, qualificandosi come un'attività non totalmente discrepante o dissimile rispetto a quelle che la società accredita come produttrici di valori necessari, quali la scienza, la letteratura, la politica, ecc.
2. La critica militante
Come processo interpretativo e valutativo e come tipo di letteratura artistica, la critica d'arte ha le sue origini nel Cinquecento, e precisamente nelle testimonianze letterarie delle reazioni emozionali suscitate dalle opere d'arte in soggetti particolarmente sensibili. I suoi primi atti riguardano la pittura veneziana (P. Aretino, P. Pino, L. Dolce) e la sua indipendenza dai principi teorici e normativi dell'arte toscana e romana. Finché l'arte è concepita come diretta da una teoria attraverso un insieme di precetti, la sola valutazione possibile dell'opera d'arte è la verifica della conformità della prassi alla teoria; se non si ammette il principio teorico, l'arte è soprattutto un fare, benché diverso dal comune fare perché suscitato e sollecitato da un furor interno, cioè dal sentimento, da uno stato di concitazione emozionale o affettiva. È questo, e non la verità dogmatica di una teoria, che l'opera comunica all'osservatore, il quale non può che ripercorrere l'iter espressivo dell'artista, riviverne in proprio l'esperienza. Poiché anche opere non artistiche possono emozionare, così come opere artistiche possono emozionare attraverso fattori che non sono propriamente artistici (per es. la drammaticità del soggetto), l'interprete deve saper separare i motivi artistici dell'emozione dai non-artistici, fornendo così il modello di una fruizione giusta, che permette di godere dell'opera d'arte in quanto è tale e non, per esempio, in quanto è insegnamento morale o atto devozionale o raffigurazione di cose o eventi. In altre parole, fin dall'origine la critica d'arte è l'accertamento della artisticità dell'opera d'arte, in quanto si ammette che proprio e soltanto per il suo essere tale adempia alla sua funzione. Fin da questo primo momento, la critica, esercitata per lo più da letterati, non tende a divulgare, ma piuttosto a restringere la fruizione del valore artistico a una cerchia di spiriti eletti, di persone di cultura; e poiché in essa rientrano coloro che, per la loro condizione sociale, sono in grado di influire sulla produzione artistica attraverso le commissioni e gli acquisti, la critica tende a orientare il gusto nel senso di creare condizioni più favorevoli all'affermarsi della tendenza artistica che si ritiene capace di dare i risultati migliori.
Finalizzando l'arte a esiti religiosi o moralistici, la Controriforma fa leva sulla forza persuasiva e quindi sulla presa emozionale o affettiva delle immagini, pure esigendo che la mozione degli affetti venga controllata e organizzata in modo che gli effetti siano benefici. Soltanto gli intenditori o i dirigenti possono rendersi conto del valore intrinseco dell'opera d'arte, ma la sua forza persuasiva o edificante deve esplicarsi nell'intero corpo sociale. È tipico in questo senso il comportamento dei critici romani del Seicento: si richiamano a una teoria dell'arte e alla normativa che ne consegue, ma non perché siano persuasi che solo rispecchiando la teoria le opere possono essere veramente opere d'arte, bensì perché vogliono che anche nell'arte sia d'obbligo l'ubbidienza ai principi d'autorità. G. P. Bellori e G. Mancini capiscono l'importanza del Caravaggio, ma lo biasimano come ribelle all'autorità dell'idea e della storia, e preferiscono e raccomandano Annibale Carracci la cui pittura, meno traumatizzante, agisce positivamente sull'immaginazione e sul sentimento, senza creare problemi. La loro attenzione si concentra sul mezzo della persuasione, la retorica del discorso pittorico, più che sui contenuti del messaggio figurativo. Applicando estensivamente il principio ut pictura poësis, che postula la traducibilità della rappresentazione in discorso letterario, si procede a una descrizione o versione poetica (G. B. Marino) o prosastica (Bellori) del testo figurato, cercando di rendere nella scelta delle parole e nell'articolazione della frase la bellezza delle forme e dei colori. Meno diversa di quanto potrebbe a prima vista sembrare è, nell'ambiente veneziano, la posizione di M. Boschini, certamente più libero da premesse teoriche, ma ugualmente interessato al mezzo della persuasione, che, nel suo caso, è la fattura concitata, la gestualità medesima del fare pittorico.
La critica specialistica, nel senso scientifico e professionale del termine, è nata in Inghilterra nel sec. XVIII, nell'ambito di quella cultura illuministica che, ricusando ogni dogmatismo, negava il valore delle teorie dell'arte e del bello nonché l'autorità del modello storico dell'antico. Se l'opera d'arte non è più valutabile dalla conformità a un dato ideale formale, soltanto dall'analisi del suo contesto, cioè del modo con cui è fatta, potrà dedursi se sia veramente artistica. L'Inghilterra non aveva una propria tradizione figurativa: la nuova ‛scuola' pittorica inglese, a cui si voleva dar vita, poteva nascere soltanto dalla scelta del ‛meglio', e cioè dalla critica di quelli che erano i due grandi filoni dell'arte europea: l'idealismo classicistico dell'arte italiana e francese e il realismo testuale dell'arte olandese. Inoltre si sentiva la necessità di proteggere il fiorente mercato artistico locale dall'invasione dei falsi, delle copie, degli scarti provenienti per lo più dall'Italia: per questo era necessario il formarsi di una ‛scienza' (il termine è di S. Richardson) capace di riconoscere l'autenticità delle opere d'arte. Il concetto di ‛qualità', che prende il posto del concetto di ‛bello' come definizione del valore artistico, rimane tuttora il concetto fondamentale della critica; e poiché la qualità non si deduce da modelli, ma si consegue nel corso del processo espressivo, il critico non può far altro che ripercorrere l'iter operativo dell'artista, controllandone la continuità e la coerenza. L'arte è ormai concepita come un certo tipo di processo, l'opera d'arte è il risultato di un procedimento o di un comportamento artistico: soltanto l'esperienza dei vari modi di procedimento artistico, o delle diverse ‛maniere' degli artisti, può permettere al critico, ora inteso come ‛conoscitore', di riconoscere che una data opera è ‛autenticamente' artistica.
La qualità, infatti, è la medesima cosa che l'autenticità; ma già W. Hogarth, il fondatore della scuola pittorica inglese, aveva dell'autenticità un'idea più vasta che non fosse quella dell'autografia, della fattura genuina, dell'attribuzione giusta. La conformità alle regole, ai modelli, alle convenzioni escludono l'autenticità, come l'escludono l'allegorismo forzato, l'oratoria celebrativa, l'adulazione encomiastica. Tutta l'arte della tradizione classico-barocca è dunque ideologicamente, anche se non tecnicamente, non-autentica, falsa: infatti è prediletta (e lo si vede nel primo quadro di The marriage à la mode di Hogarth) dalla classe aristocratica, che vanta le origini ‛storiche' e le ragioni ‛ideali' (non si sa quanto autentiche anch'esse) di un'autorità e di un potere che di fatto ha perduti. La borghesia, nemica del fasto e attenta alla realtà delle cose, ha altri interessi nel campo dell'arte: se la casa del ‛nobile signore' in rovina del primo quadro del Marriage era adorna di quadri italiani, la casa del ricco borghese dell'ultimo ha, alle pareti, quadri olandesi. Ma, nella pittura olandese, la descrizione minuta del vero riflette bensì lo spirito positivo e il senso della realtà, ma anche il limite della mentalità borghese: un limite da cui il borghese Hogarth vuole emendata la propria classe sociale, che vede destinata a succedere all'aristocrazia nella gestione del potere. Di qui la necessità della critica, sia nei confronti dell'idealismo sia nei confronti del verismo.
Poco più tardi J. Reynolds, capo riconosciuto dell'ormai affermata scuola inglese di pittura e primo presidente del suo organo ufficiale, la Royal Academy, sosterrà che la critica non è soltanto la riflessione sull'opera compiuta, ma una componente strutturale e determinante dell'arte che, nel suo farsi, non è altro che un succedersi di scelte di gusto. L'arte, nel pensiero del Reynolds, non procede dalle teorie né dall'ispirazione, ma dalla conoscenza e dal giudizio dell'arte del passato. La storia dell'arte dimostra che i modi sono diversi e talvolta contraddittori, tali da non potersi conciliare nello stile del medesimo artista: non v'è dunque un'opera d'arte che realizzi l'arte nella sua totalità, l'artista deve giudicare e scegliere: per esempio tra la forza del disegno e la luminosità del colore, tra i ‛sentimenti sociali' di Raffaello e il ‛sublime' solitario e inaccessibile di Michelangiolo. La scelta dell'artista sarà sempre, inevitabilmente, univoca e parziale, condizionata dalle sue preferenze di gusto, finalizzata all'opera che sta compiendo; ma la critica, rilevando difetti e limiti, che in realtà sono caratteri distintivi, ricollega il particolare dei singoli artisti all'idea globale dell'arte, che risulta da tutte le maniere ed è comprensiva di tutti i caratteri, anche se tra loro contraddittori. È garantita così la non-arbitrarietà delle scelte individuali e, quindi, la libertà della ricerca. Anche J. B. Dubos e D. Diderot insistono sul tema della passionalità delle scelte di gusto e sulla necessità che l'opera d'arte ‛tocchi' l'osservatore: non più per persuaderlo, ma per comunicargli l'impulso del ‛genio' e riscattano così dall'inerzia e dalla piattezza della vita quotidiana. Poiché il critico è, tra gli osservatori, il più vicino all'artista, la critica è l'apparato mediante il quale la società utilizza l'energia creativa dell'arte.
Nel secolo successivo, la vastissima opera critica di J. Ruskin, il primo scrittore non-artista che si sia occupato esclusivamente dell'arte, insiste tutta sul criterio dell'autenticità ideale. Nella sua prima fase, esemplarmente autentica è la pittura dei paesaggisti inglesi, specialmente quella di J. Turner, che vengono indicati come i veri ‛pittori moderni'; nella seconda, l'autenticità assoluta dell'arte è ravvisata nei maestri del Trecento e del Quattrocento. La purezza dell'arte si offusca e scompare nel Rinascimento, quando l'arte viene inquinata dall'intellettualismo della scienza: e in questo il Ruskin riprende dallo spiritualismo di W. Blake la drastica distinzione tra la falsa conoscenza della scienza e la conoscenza autentica, la rivelazione della realtà che si dà soltanto, nella sua pienezza, nell'arte. La critica ruskiniana è apologetica, esortativa, polemica: rievoca l'eticità intrinseca e l'umiltà religiosa del lavoro artistico degli antichi maestri, deplora che l'avvento dell'industria abbia distrutto nella coscienza del popolo, con l'esperienza estetica, il sentimento profondo della vita, l'impulso a creare. Dopo Ruskin, W. Morris denuncia anche più duramente la contraddizione tra lavoro artistico e lavoro industriale, la condizione di subordinazione servile, di non-autonomia e di non-creatività, in cui quest'ultimo pone i lavoratori, l'azione diseducativa che la non-esteticità dei prodotti industriali esercita sulla comunità. Morris ha un'ideologia politica, è un socialista: la sua critica assume un carattere pragmatico. Morris è stato infatti l'ideatore, il promotore, il dirigente di quel centro di produzione di oggetti artistici utili all'esistenza (Arts and crafts), che diffonderà ovunque lo stile e l'ideale sociale dell'art nouveau. La critica diventa così intervento attivo in una situazione sociale e politica, perché la scomparsa della finalità estetica già congiunta a tutti gli atti del lavoro e dell'esistenza compromette la dignità e la libertà dei lavoratori, ridotti a meri strumenti e sottoposti allo sfruttamento degli imprenditori.
In tutt'altro senso, aprendo il corso della critica romantica, Ch. Baudelaire afferma che essa deve essere ‟parziale, appassionata, politica", fatta da un punto di vista ‟esclusivo", ma tale da aprire ‟i più larghi orizzonti". La caratteristica dell'arte romantica, per il Baudelaire, è di appartenere al proprio tempo e di rispecchiarlo: qualità diventa sinonimo di attualità. L'artista romantico - di cui E. Delacroix è il perfetto esemplare - appartiene ormai a una minoranza intellettuale che coltiva le qualità che la media piccolo-borghese reprime: l'immaginazione, la sensibilità, l'entusiasmo. Baudelaire è critico perché, come poeta, si sente vicino e solidale all'artista: v'è tra le arti una ‛corrispondenza' che va molto al di là dei contenuti o dei soggetti ‛poetici', si estende alla qualità delle immagini, all'affinità tra il timbro del colore e il suono della parola poetica. Più tardi un altro poeta, S. Mallarmé, che amerà circondarsi di pittori (tra gli altri, Cl. Monet, P. Gauguin, J. Whistler), porterà più a fondo la ricerca di un'affinità strutturale tra pittura e poesia, fino a tentare, per primo, una poesia ‛visiva': non farà critica, ma, in una concezione globale dell'arte come vita, riunirà il lavoro artistico a quello letterario. Pittore e scrittore di estrazione romantica, E. Fromentin affronta il problema dell'arte del passato dal punto di vista dell'artista moderno: in Les maîtres d'autrefois descrive e analizza con estrema finezza le proprie reazioni d'artista davanti ai quadri di Rubens, di Rembrandt, di Frans Hals: si interessa soltanto dello stile pittorico, studia come quei maestri abbiano risolti, al cavalletto, problemi simili a quelli che si ponevano agli artisti del suo tempo. Le grandi opere del passato non sono esempi da seguire, ma testi da consultare in rapporto all'opera che si sta facendo o si ha in mente: è precisamente quello che fanno E. Manet o P. Cézanne quando vanno a studiare, facendone copie interpretative, i capolavori del Louvre. È chiaro che l'arte non viene più valutata in rapporto al bello o alla natura o ai contenuti morali, ma in rapporto all'arte stessa, al proseguimento e allo sviluppo della sua storia.
Si delinea così una critica di corrente: del realismo (T. Thoré, J. Champfleury, J. A. Castagnary), dell'impressionismo (E. Zola, L. E. Duranty, J. Rivière, J. Laforgue), del simbolismo (G. A. Aurier), del neoimpressionismo (F. Fénéon). Più che alle opere, si riferisce alle poetiche; e le poetiche esprimono le intenzioni e gli orientamenti, risultano dalle scelte culturali che gli artisti fanno in vista dell'opera che si propongono di compiere e dell'influenza che si propongono di esercitare sulla cultura del loro tempo. Ciò che la critica di corrente verifica non è tanto la conformità alla poetica, che del resto non ha né potrebbe avere carattere normativo perché in tal caso sarebbe una teoria dell'arte, quanto la capacità della poetica stessa di sostenere lo sforzo creativo. Sostenendo una determinata poetica, la critica ne riconosce e afferma l'attualità, cioè la relazione, che può essere anche di polemica non-conformità, con i grandi temi della cultura contemporanea. Ciò che si propone di accertare è quale possa essere l'arte di quel determinato periodo storico; e poiché si riconosce che, nella presente situazione della cultura, l'arte non viene richiesta né sollecitata, a quali condizioni possa, nonostante l'avversità o l'indifferenza del pubblico, sopravvivere. Perciò il critico si avvicina e spesso si associa agli artisti, fa parte dei loro gruppi, partecipa della loro ‛politica', collabora alla definizione dei programmi e alla stesura dei manifesti, intraprende e conduce polemiche; e, mentre aiuta gli artisti a chiarire ed enunciare le loro poetiche, li esorta a portare la loro ricerca al massimo livello intellettuale. Respinta ai margini della ‛normale' esistenza della società, l'arte si porta all'avanguardia, si propone la riforma o addirittura la trasformazione radicale, rivoluzionaria, delle strutture culturali, cominciando dalle proprie, al fine di rendere possibile, sia pure su altri piani, la propria integrazione funzionale nel divenire della società. Il critico che non soltanto partecipa dei movimenti artistici contemporanei, ma li promuove e li stimola, è una presenza necessaria in seno alle ‛avanguardie'; ed è significativo che si tratti quasi sempre di un uomo di lettere che, come leader della cultura, sostiene la necessità della trasformazione strutturale e funzionale di tutte le attività artistiche. Un grande poeta, G. Apollinaire (al quale si sono poi affiancati altri letterati), è stato il compagno di strada e il portabandiera dei fauves e dei cubisti, giungendo fino a prevedere e preannunciare il surrealismo; i pittori, gli scultori, gli architetti futuristi si sono inseriti con i loro ‛manifesti tecnici' nella polemica letteraria di F. T. Marinetti, che è diventato così il dirigente di tutto il movimento e il responsabile della sua ‛politica'; l'avanguardia russa ha avuto come guida il poeta V. V. Majakovskij; il surrealismo figurativo ha avuto i suoi sostenitori in letterati come A. Breton, L. Aragon, J. Cocteau; più tardi, le correnti informalistiche francesi hanno avuto l'appoggio di Ponge, Paulhan, R. Queneau. Più recentemente, anche critici specializzati si sono impegnati a fondo, talvolta assumendo addirittura una funzione direttiva, nel dibattito delle correnti: tipici in questo senso sono i casi di P. Restany e del nouveau realisme francese o di H. Rosenberg e dell'espressionismo astratto americano.
Disponendo dei mezzi d'informazione, e specialmente della stampa, la critica ha avuto, e tuttora conserva, un'importanza decisiva nel dibattito delle correnti; e va notato che, se indubbiamente contribuisce al loro successo, è anche la causa principale della loro rapida decadenza. Affretta il consumo e, per conseguenza, il ricambio: di qui l'accusa di soggiacere al capriccio delle mode o addirittura di provocarlo. La critica viene altresì accusata di connivenza con il mercato artistico e con le sue manovre: il mercato artistico è infatti interessato al lancio clamoroso di correnti o di singoli artisti nonché alla loro rapida obsolescenza, non appena si affievolisce o viene richiamato altrove l'interesse degli acquirenti. Se certamente è talvolta accaduto che il mercato si sia servito del critico come d'uno strumento per le proprie manovre, il problema del rapporto tra critica e mercato è più profondo e non implica necessariamente la subordinazione prezzolata della prima al secondo. In una società fondamentalmente economica, come la moderna, non può non esservi rapporto tra il valore accertato dalla critica e il prezzo del mercato; e le opere d'arte hanno una circolazione nella società in quanto al valore artistico viene fatto corrispondere un valore economico. L'intenzionalità pratico-politica, più o meno esplicitamente dichiarata, della critica detta ‛militante' è appunto di eliminare dalla circolazione i falsi valori e di fare in modo che, corrispondendo il valore economico al valore artistico, l'arte rientri nell'economia delle attività sociali.
3. La critica dell'arte e la storia dell'arte
Qual è il rapporto tra critica e storia dell'arte? È giusto dire che la critica si occupa dell'arte contemporanea e la storia dell'arte del passato? Oppure che la critica si limita a stabilire se una data opera sia o non sia opera d'arte, mentre la storia raggruppa e coordina i fatti artistici secondo certi criteri d'ordine, il più frequente dei quali è la loro successione nel tempo? E, soprattutto, se altro è la critica e altro la storiografia dell'arte, si può sostenere che quest'ultima sia non-critica, quando è noto che il processo della costruzione della storia è un processo critico? È ovvio che, se la storia dell'arte è la storia delle opere d'arte, lo storico deve accertarsi che le cose di cui si accinge a scrivere la storia siano veramente artistiche: non diversamente lo storico civile deve accertarsi dell'autenticità dei fatti e dei documenti su cui lavora. Il criterio dell'autenticità è dunque fondamentale non meno per lo storico che per il critico. Ma è anche da escludere che il critico e lo storico pervengano con due diversi processi al medesimo giudizio di autenticità, e che lo storico operi dapprima come critico, accertando l'autenticità delle opere, e poi come storico, ordinandole secondo certi criteri. La non-autenticità è ripetizione, la ripetizione non è mai necessaria, perché segna un indugio o un arresto in un processo di sviluppo; poiché lo storico ricostruisce tale processo, elimina le ripetizioni come storicamente, non meno che artisticamente, insignificanti. Poiché la novità o l'originalità, connotazioni necessarie dell'opera d'arte, si verificano paragonando l'opera che si studia con quello che è stato fatto prima e dopo, e cioè studiando la situazione della cultura figurativa in cui si è inserita e che ha modificato, è chiaro che l'artisticità dell'opera non è altra cosa dalla sua storicità, e che il giudizio critico è giudizio storico, sicché nessuna distinzione può esservi, sul piano teorico, tra critica e storia dell'arte.
La storia dell'arte si è dapprima sviluppata come ricerca di notizie documentarie intorno alle vicende esterne delle opere e alla vita degli artisti, solo talvolta accompagnando al racconto commenti e apprezzamenti circa le singole opere o la personalità dei maestri. Non di rado poi la storia dell'arte veniva intesa come integrativa o ausiliaria della storia politica o religiosa, cercando nelle opere null'altro che testimonianze iconiche di fatti non-artistici. Si deve proprio al formarsi di una critica d'arte e all'attività dei primi ‛conoscitori' se l'interesse si è progressivamente spostato dalla storia esterna all'interna: alle componenti della cultura dell'artista, al modo con cui s'intrecciano e interagiscono nel corso della sua opera, al tipo di processo attraverso il quale l'opera si è formata. Tra le varie storie ‛speciali', la storia dell'arte si distingueva per una condizione particolare, che imponeva l'adozione di procedimenti diversi da quelli delle abituali metodologie storiografiche. Le opere d'arte non erano soltanto i documenti primi e fondamentali, ma i fatti stessi di cui si doveva fare la storia. E questi fatti erano presenti, seguitavano a suscitare reazioni emotive e intellettuali; anzi, senza queste reazioni, che ne dimostravano la presenza e l'attualità flagranti, non era possibile intenderli, interpretarli, elaborarli. E come poi collegarli secondo un criterio di sviluppo, se ciascuno di essi si dava come qualcosa di assolutamente compiuto e lo sviluppo non poteva in nessun caso intendersi come un progresso?
a) La critica della forma
Già nella seconda metà del secolo scorso tra la figura del conoscitore e quella dello storico scompare la differenza per cui il primo era un empirico dotato d'intuito e d'esperienza e il secondo era un puro erudito. G. Morelli si propone di fondare scientificamente, dandole una finalità precisa e un metodo rigoroso, l'attività del conoscitore. Il fine è l'attribuzione, che non è più giudizio di bello e di brutto o di autentico e falso, ma inserimento dell'opera nella coerenza di una personalità artistica. La coerenza è intesa dal Morelli come costanza di modi figurativi o, più precisamente, come ricorrenza di taluni ‛manierismi' (per es. il modo di disegnare le mani o le orecchie), in cui la forza dell'abitudine prevarrebbe sull'invenzione. Il limite di questo procedimento, che fondava il giudizio sui fattori meno vitali delle opere e spesso portava a confondere il maestro con gli imitatori, è stato avvertito dallo stesso Morelli, le cui scoperte più interessanti dipendono dall'intuito e dall'esperienza piuttosto che dal metodo. Tuttavia era ormai affermato il principio che la ricerca sull'arte si fa analizzando direttamente l'opera d'arte, nel suo contesto stilistico e tecnico. Su questo criterio ‛scientifico' si fonda e sviluppa la famosa Scuola di Vienna di storia dell'arte (con la quale il Morelli fu in contatto), sorta all'interno dello Österreichisches Museum für Kunst und Industrie col proposito iniziale della catalogazione scientifica dei materiali, e in rapporto con il servizio statale austriaco di ricognizione e protezione del patrimonio monumentale e artistico. Quasi contemporaneamente ai primi saggi del Morelli (1873) usciva il saggio del Thausing, Die Stellung der Kunstgeschichte als Wissenschaft; e subito dopo F. Wickhoff, personalità dominante nella prima fase della Scuola, estese alla storia dell'arte i metodi rigorosi dell'analisi testuale, dandone l'esempio con la monumentale pubblicazione della Wiener Genesis. Altro passo decisivo fu il Cicerone (1855) e La civiltà del Rinascimento in Italia (1860) di J. Burckhardt che, indipendentemente dalla Scuola viennese, dimostrò come tutta una cultura si elaborasse nell'arte e come, perciò, fosse impossibile fare la storia della civiltà senza fare la storia dell'arte.
Nell'imponente fiorire degli studi sull'arte, alla fine del secolo scorso e al principio del nostro, si delineano così due indirizzi: uno essenzialmente storicistico, mirante soprattutto alla ricostruzione delle personalità storiche, l'altro essenzialmente scientifico, per il quale l'opera è puro fenomeno e documento visivo, di cui è relativamente poco importante stabilire non solo la paternità, ma la qualità artistica. In Italia, il passaggio dallo scientismo morelliano a un più articolato e penetrante storicismo è segnato da G. B. Cavalcaselle, che non soltanto fu infaticabile ricercatore e catalogatore (a lui si debbono i primi tentativi di una catalogazione sistematica del patrimonio artistico), ma un conoscitore attento, più che all'affinità dei ‛manierismi', alla qualità delle opere e alle loro componenti culturali. Sulla ricerca e lo studio diretto delle opere si fondano le prime grandi trattazioni storiche, che mutano profondamente la prospettiva storica tradizionale: la monumentale Storia dell'arte italiana di A. Venturi e, in un campo allora quasi inesplorato, il Medioevo di P. Toesca.
Se l'indirizzo storicistico prevale negli studi italiani e francesi, nei tedeschi prevale l'indirizzo scientifico, che ha le sue origini nell'estetica antidealistica di J. F. Herbart e nel positivismo di G. Semper. Il limite positivistico, che portava il Semper a spiegare con cause extra-artistiche i mutamenti delle forme architettoniche, viene superato dal ritorno di C. Fiedler alle premesse kantiane: la sua estetica o, piuttosto, la sua teoria della ‛pura visibilità' pone l'arte come contemplazione espressiva o produttiva, cioè come un ordine o un equilibrio della percezione che l'artista raggiunge attraverso l'esperienza del proprio agire. Non vi sono, dal suo punto di vista, premesse teoriche, esperienze culturali, impulsi fantastici o sentimentali, contenuti religiosi o storici o morali o narrativi che condizionino l'opera dell'artista: la forma visiva è pienamente rivelatrice del ‛proprio' contenuto o significato, che poi non è altro che il proprio ordine o equilibrio, la propria struttura. I critici della ‛pura visibilità' si propongono perciò di individuare nel contesto delle opere quelli che considerano i principi strutturali delle forme (verticali, orizzontali, diagonali, angoli, curve, spirali ecc.), separando così i contenuti significativi delle forme da quelli delle cose rappresentate. La storia dell'arte non si poneva più come storia degli artisti, la cui personalità è definita appunto dalla formazione culturale, dagli interessi intellettuali e morali, dagli impulsi della fantasia o del sentimento, ma come storia delle forme. Era tuttavia discutibile se potesse parlarsi di una ‛storia' delle forme (più tardi infatti H. Focillon parlerà di una ‟vie des formes"), essendo parimenti escluso, dal punto di vista del Fiedler, uno sviluppo storico della ricerca formale e, a maggior ragione, un progresso o un'evoluzione nelle manifestazioni dell'arte: ogni opera vale soltanto per la pura evidenza delle sue forme e dell'ordine della coscienza che si riflette nella visione.
A. Riegl, forse il maggiore tra gli esponenti della Scuola viennese, pur muovendo da premesse filosofiche herbartiane affini a quelle del Fiedler, si rende conto che la storia dell'arte è la sola possibile scienza dell'arte. Essa deve però procedere secondo metodologie e proporsi finalità diverse da quelle della storia civile. Se il significato dell'opera d'arte è tutto nelle sue forme visibili, non può esservi gerarchia tra arti maggiori e minori, tra rappresentazione e ornato: la sua posizione si allinea così, benché con motivazioni diverse, a quella, contemporanea, di W. Morris, che riabilitava a livello d'arte la produzione artigianale. Fin dal suo primo studio (Stilfragen, 1893) sullo sviluppo dell'ornamentazione in Egitto e nel mondo arabo, il suo interesse va all'arte ‛anonima' all'espandersi e al tramandarsi di tradizioni stilistiche, senza i ‛salti' dovuti alle grandi personalità. Come logica conseguenza affronta e confuta uno dei maggiori pregiudizi della storiografia artistica tradizionale: la distinzione tra i periodi ‛classici' o di massimo apogeo e i periodi ritenuti di decadenza dell'arte, come il Tardo-Antico e l'Alto Medioevo o il Barocco. Poiché le forme mutano e la storia dell'arte è la storia di quei mutamenti, bisogna ricercarne le cause: influenzato dalla Volkspsychologie di W. Wundt, il Riegl le individua nel mutare delle esperienze comuni fondamentali, nelle diverse concezioni dello spazio e del tempo, che si sono formate nella coscienza dei popoli. Come il Fiedler vede nella ‛contemplazione' della realtà un incentivo al fare o un impulso ‛produttivo', così quelle concezioni del mondo e della vita si traducono, per il Riegl, in una spinta volontaristica, la volontà d'arte (Kunstwollen): e debbono essere riconosciute piuttosto nel modo di fare, o nello stile, che nelle cose rappresentate. Partendo dal pensiero del Riegl, M. Dvořák arriverà a concepire la storia dell'arte in senso universale, come ‛storia dello spirito'. La critica della ‛pura visibilità' (ed è significativo che, pur senza una provata relazione, il suo affermarsi coincida con l'affermarsi della pittura impressionista, per la quale il valore si concentra nel puro dato visivo) riconosce insomma che l'arte non è il riflesso, la trasposizione in immagine di una superiore e ben altrimenti complessa cultura, o dei suoi valori intellettuali o morali, ma il processo mediante il quale si elabora una cultura a sé, il cui fondamento è la percezione, i cui strumenti sono le tecniche, la cui funzione consiste sostanzialmente nel saldare l'esperienza che si fa del mondo a un fare che mira a mutarne gli aspetti, a ri-crearlo.
Anche W. Worringer ha avvertito la difficoltà di spiegare la costanza e la mutazione delle categorie delle forme artistiche. In Abstraktion und Einfühlung (1906) distingue appunto due grandi categorie: dell'astrazione e dell'empatia (o ‛simpatia simbolica'). Esse corrisponderebbero a due atteggiamenti diversi e antitetici dell'uomo nei confronti della realtà ambientale: i popoli mediterranei, per i quali la natura è chiara, accogliente, non presenta problemi, l'assumono come modello universale, la imitano, la rappresentano nel perfetto equilibrio, nell'armonia dei suoi aspetti visibili; i popoli nordici, per i quali la natura è misteriosa e minacciosa, e si rivela soltanto per segni o indizi, muovono da queste vaghe intuizioni per orientarsi nell'incerta dimensione del mondo. Tutta l'arte sembra dunque dividersi nelle due sfere antitetiche del classico e del non-classico, dell'equilibrio e della tensione o, riprendendo il binomio di Schopenhauer, della rappresentazione e della volontà. Per quanto l'impostazione del Worringer possa apparire metastorica, concorreva anch'essa a rimuovere il limite della storiografia artistica tradizionale, che praticamente limitava ancora la sfera storica dell'arte ai periodi classici, come culmini di un processo di formazione o di ascesa, a cui inevitabilmente seguiva una fase di decadenza; ed estendeva notevolmente il campo fenomenico dell'arte, com'è provato dalle contemporanee ricerche di J. Strzygowski sulla storia dell'arte nordica, prima considerata ‛barbarica'. Né va dimenticato che quasi contemporaneamente agli studi del Worringer e alla sua rivendicazione della validità artistica di forme o di segni non dedotti dalla morfologia della natura si sviluppano, nello stesso ambiente monacense, le prime ricerche artistiche ‛astratte' di V. V. Kandinskij e del Blaue Reiter. Poco più tardi H. Wölfflin in Kunstgeschichtliche Grundbegriffe (1915) fissa bensì talune categorie, ma le descrive come tipi di processo: dal lineare al pittorico, dalla superficie alla profondità, dalla forma chiusa alla forma aperta; dalla molteplicità all'unità; dalla chiarezza alla non-chiarezza. In pratica, le categorie del Wölfflin si riferiscono tutte ad una medesima area storica: l'arte in Europa tra Rinascimento e Barocco, cioè il processo di sviluppo formale a cui aveva dedicato il suo primo libro (1888). Più tardi egli ritornò sullo stesso problema (Italien und das deutsche Formgefühl, 1931) per spiegare la differenza strutturale tra il ‛sentimento della forma' che si esprime nell'arte italiana del Rinascimento e quello dell'arte tedesca, sottolineando che all'origine dello stile figurativo è una particolare Lebensstimmung, una certa ‟immagine del mondo e della vita" comune agli artisti dello stesso gruppo etnico o della stessa nazione. Intesi come ‛costanti formali', gli ‛schemi' del Wölfflin precedevano e precludevano ogni possibile storia dell'arte, riducendo lo studio dei fenomeni artistici alla descrizione dei loro caratteri differenziali: ciò che spiega la reazione polemica di B. Croce.
Una diversa interpretazione, che mirava a utilizzare nella ricerca storica le analisi formali della critica della visibilità, fu tuttavia proposta da L. Venturi: le cosiddette Lebensstimmungen non erano categorie a priori, bensì il prodotto di esperienze accumulate e sedimentate nel corso della storia, e dovevano perciò intendersi come premesse culturali comuni agli artisti e alla situazione di tempo e di luogo in cui operavano. Il problema che il Venturi sollevava con Il gusto dei primitivi (1926) era precisamente quello della cultura specifica dell'artista: una cultura che in parte coincide con quella dell'epoca e del luogo, sì da comprendere problemi conoscitivi o religiosi o morali, ma anche aspetti e problemi propri soltanto dell'arte. Può dunque dirsi che la prospettiva è nella cultura del Brunelleschi e di Masaccio, la linea nella cultura del Pollaiolo o del Botticelli, la forma plastica nella cultura di Bramante o di Raffaello, il colore nella cultura di Tiziano e così via. Il Venturi definiva la cultura specificamente artistica col termine di ‛gusto', che riprendeva dalla critica inglese del Settecento insieme con la relazione che collegava il momento del gusto (taste) o delle scelte culturali con quello del ‛genio' o dell'ispirazione artistica. Non volendo discostarsi dalle grandi linee dell'idealismo crociano, il Venturi ricusava di identificare tout court il gusto, come cultura, con l'arte, come creazione della fantasia, affermando inoltre che il gusto è ciò che accomuna gli artisti e permette di raggrupparli, com'è compito dello storico, per epoche o scuole o tendenze, mentre l'arte è ciò che distingue, all'interno di quei gruppi, le singole personalità degli artisti. Era tuttavia chiaro che il gusto non era soltanto un patrimonio di nozioni acquisite, da cui l'artista doveva in certo senso liberarsi per fare opera originale, ma un insieme di scelte intenzionate, fatte in vista dell'opera da compiere, dell'arte da fare. Lo stesso superamento della cultura acquisita, e cioè le scoperte o le invenzioni degli artisti nel campo dell'arte, diventano premesse culturali per gli ulteriori sviluppi dell'arte: il rapporto tra gusto e arte si configura così come il rapporto tra una cultura data, già storica, e una cultura in fieri, che l'artista stesso fa, facendo arte. Per questo suo aspetto volontaristico e pragmatico il concetto di gusto del Venturi si ricollegava al concetto di ‛volontà d'arte' del Riegl, trasponendolo però dal piano metastorico dell'ethos popolare e delle costanti etniche e nazionali, al piano storico della cultura consapevolmente posseduta ed elaborata dagli artisti con i mezzi stessi dell'arte. Fare la storia della cultura degli artisti, delle loro idee, preferenze, intenzioni nel campo dell'arte, significava naturalmente fare la storia di quanto di ‛critico' si ravvisava nel loro procedimento artistico, senza poter escludere a priori l'ipotesi, per altro già avanzata dal ‛criticismo' illuministico per bocca del Reynolds, che tutto il procedimento artistico fosse in sostanza, almeno in determinate situazioni di cultura, un procedimento critico. Scrivendo la sua monumentale Letteratura artistica (Kunstliteratur, 1924), J. von Schlosser si proponeva soprattutto di sviluppare lo studio delle fonti letterarie per la storia dell'arte già impostato, come disciplina ausiliaria, dalla Scuola viennese; ma doveva ben presto avvedersi che lo studio critico delle idee e dei giudizi sull'arte, lungi dal costituire soltanto una ricerca collaterale, portava nel vivo del problema dell'interpretazione dei fatti artistici e dei loro articolati sviluppi storici. La Storia della critica d'arte, pubblicata dal Venturi nel 1938, si presentava ormai come la storia di una cultura propriamente artistica, distinta dalla filosofia dell'arte come dalla storia ‛esterna' delle opere artistiche. La ‛critica della critica' appariva così come una nuova prospettiva metodologica della storia dell'arte, intesa ormai come storia ‛interna' della genesi dell'opera d'arte nella coscienza e nell'operazione dell'artista, nonché dei processi di sviluppo di una cultura specificamente artistica nel quadro generale della cultura di un'epoca.
La necessità di fondare il giudizio sui soli dati formali era stata ribadita, negli ultimi anni del secolo scorso, da B. Berenson con la drastica distinzione, nell'opera d'arte, della componente ‛illustrativa' e della componente ‛decorativa': secondaria la prima, in quanto collegata con la contingenza del tempo e del luogo, essenziale la seconda, in quanto i valori formali o, più precisamente, ‛tattili', non soltanto si offrono alla contemplazione, ma suscitano nel riguardante una reazione psichica e motoria, un'intensificazione delle sue capacità mentali e delle sue energie vitali. Che però il valore dell'opera d'arte non fosse concepito dal Berenson come soprastorico o metastorico è dimostrato dal fatto stesso che egli fu un grande conoscitore, interessato principalmente all'identificazione e all'attribuzione, cioè all'inquadramento delle opere nella coerenza storica di una personalità, di una scuola, di una cultura figurativa.
Anche R. Longhi fu soprattutto un grande conoscitore, un penetrante e finissimo ‛lettore', intento a cogliere e riflettere, perfino nella qualità letteraria della propria prosa critica, la vicenda ‛linguistica' dell'opera d'arte. Allo specchio dell'elaboratissimo linguaggio critico longhiano l'opera d'arte sembra scomporsi nelle sue componenti, anche le più deboli e celate, rivelando tutti i nessi vitali, sensibilissimi, che la collegano a un contesto culturale, spesso molto esteso nello spazio e nel tempo. Ciò che viene analizzato è ancora la cultura dell'artista, sia pure nei suoi specifici caratteri di ‛linguaggio'. L'opera è studiata come un nodo di relazioni, che soltanto un'accuratissima auscultazione può rivelare; ma non per questo perde la sua unità, perché quelle relazioni non avrebbero alcun significato se non convergessero alla finalità dell'opera in corso e di cui appunto il critico deve cogliere il processo formativo. La cultura dell'artista, quale emerge dalle analisi del Longhi, è una cultura sui generis, che non può in nessun caso essere spiegata per analogia con le altre discipline: e ciò che la caratterizza non è affatto un diverso contenuto, ma una diversa articolazione e struttura, che a loro volta si spiegano con l'intenzionalità pragmatica dell'artista. È dunque chiaro che gli stessi criteri di classificazione di cui si serve, per esempio, la storia civile non sempre servono per fare la storia dell'arte; sicché non ha senso fare la storia dell'arte come storia della cultura, ricercando per esempio in qual modo si riflettano nell'arte situazioni sociali, economiche, politiche oppure la letteratura o la scienza; scopo della critica è di stabilire quale tipo di cultura si faccia propriamente ed esclusivamente con l'arte, cioè la struttura di una cultura specificamente artistica.
b) La critica dell'immagine
La critica detta formalistica considera i soli fattori visivi, le forme, prescindendo dai contenuti o dai soggetti. Ma è legittimo smembrare l'unità dell'opera d'arte, considerandola, prima ancora di sottoporla a esame e a giudizio, come un composto, in cui qualcosa è artistico e qualcosa no? Anche ammettendo che le forme abbiano, come tali, un proprio contenuto semantico indipendente dal contenuto espositivo o narrativo, non si può negare che l'opera d'arte sia un'immagine o un insieme di immagini e che la storia delle immagini sia altrettanto legittima della storia delle forme. A. Warburg osserva che l'arte del Rinascimento italiano recupera il vasto patrimonio d'immagini dell'antichità classica, ma quelle immagini assumono un significato diverso, sicché non può certamente dirsi che le Veneri di Botticelli o di Giorgione o di Cranach siano imitazioni o copie delle Veneri classiche. L'Istituto fondato dal Warburg ad Amburgo (e poi, per salvarlo dalla persecuzione nazista, trasferito all'università di Londra) ha in primo tempo raccolto la documentazione relativa alla trasmissione della imagerie classica al mondo moderno, ma è andato via via trasformandosi in un centro di ricerca sulla storia delle immagini. F. Saxl, che per molti anni lo diresse, scrive: ‟Le immagini esprimenti un significato particolare nel tempo e nel luogo in cui furono concepite, una volta create hanno il potere magnetico di attrarre altre idee nella propria sfera; esse possono essere improvvisamente dimenticate e poi richiamate alla memoria dopo secoli di oblio" (v. Saxl, 1957; tr. it., pp. 2-3). Si ha così un'attribuzione di significati nuovi, che prendono il posto degli scaduti o, spesso, una trasmutazione di significato per via di associazioni mentali, come nel caso, studiato da E. Panofsky, in cui il tema d'immagine di due figure viste frontalmente e una di tergo trapassa dalla figurazione classica delle tre Grazie a quella di Ercole al bivio. Appoggiandosi alla filosofia delle forme simboliche di E. Cassirer, il Panofsky ha fondato un vero e proprio metodo d'indagine, che non può certamente considerarsi collaterale o ausiliario, per l'interpretazione dell'opera d'arte, anche se l'obiettivo non è più il valore estetico, ma il significato del ‛messaggio'. Estendendo la ricerca all'architettura e trasponendola dall'iconologia alla tipologia, R. Wittkower è giunto a risultati che anticipano quelli della ricerca strutturalistica. Forma e immagine non costituiscono, tuttavia, due categorie. Fin dal principio della sua ricerca il Panofsky ha studiato il fondamento del sistema di rappresentazione dell'arte occidentale, la prospettiva, giungendo alla conclusione ch'essa non è, come si affermava, la costruzione oggettiva, ma una ‛forma simbolica' dello spazio, dunque una immagine e, nel suo sviluppo, una tradizione iconica, una delle tante possibili: nulla di più, infine, che un carattere storico dell'arte occidentale, anzi di un determinato periodo storico di essa, nel ben più vasto quadro fenomenico dell'arte mondiale. Cadeva così il pregiudizio di una priorità e centralità dell'arte classica, cioè dell'arte fondata sul principio della mimesis e avente come fine la conoscenza della realtà mediante la sua rappresentazione: la storia delle forme non era più che un caso particolare di una storia dell'arte intesa come storia delle immagini. È chiaro che una pura ricerca sul significato delle immagini non può concludersi in giudizi di valore: la trasmissione di un tema iconico non avviene necessariamente attraverso i capolavori dei grandi maestri, ma attraverso i tramiti più diversi, non esclusa la imagerie popolare, le tradizioni letterarie, ecc. Il Panofsky, tuttavia, ha sempre avuto di mira le grandi figure storiche (per es. Dürer), mirando a dimostrare che nell'artista la tradizione d'immagine avviene secondo processi non puramente meccanici e giungendo così a mostrare come l'immaginazione, cioè l'attività mentale propria dell'artista, elabori i suoi materiali. Perciò il Panofsky tiene a distinguere nettamente l'iconologia, come trasmissione e mutazione di significati, dall'iconografia, come semplice ripetizione d'immagini: e giunge così a dimostrare che nella trasmissione di un tema iconico avvengono mutamenti qualitativi sui quali è sempre possibile pronunciare giudizi di valore.
c) La critica delle motivazioni
La critica d'indirizzo sociologico studia il rapporto tra le attività artistiche e la sfera sociale, mirando a spiegare l'opera d'arte come il prodotto della situazione sociale e culturale. Già nel secolo scorso H. A. Taine ha cercato di spiegare le opere d'arte come il riflesso delle istituzioni, delle preferenze, dei modi di vita delle diverse epoche. Nel nostro secolo il determinismo positivistico è stato superato dal materialismo marxista (A. Hauser, F. Antal), che vede nell'arte non soltanto il riflesso della situazione sociale, ma una delle forze che la determinano e, in molti casi, la mutano. La ricerca riguarda principalmente le condizioni del lavoro artistico: le condizioni economiche e sociali degli artisti, i margini d'indipendenza del loro operare, le loro associazioni professionali, le loro relazioni con le classi dirigenti attraverso la meccanica della committenza e del mercato. In un ambito più largo, la ricerca concerne il rapporto dei procedimenti operativi dell'arte con la tecnologia del tempo e specialmente con altre tecniche produttrici d'immagini (come la fotografia e il cinematografo), dimostrando come tali rapporti incidano sugli stessi criteri di valore. È esemplare in questo senso lo studio di W. Benjamin sullo statuto dell'opera d'arte nel tempo della sua ‛riproducibilità meccanica'. P. Francastel ha sviluppato la ricerca sociologica ricercando il rapporto tra la rappresentazione spaziale e la cultura d'immagine, l'esperienza visiva della società del tempo.
Muovendo dalla premessa che l'arte appartiene a una ‛sovrastruttura' i cui movimenti sono determinati da quelli della struttura, il metodo sociologico applica all'arte procedimenti d'indagine simili a quelli dello studio dell'economia, indicando cioè nel consumo il fattore determinante della produzione. Anche gli atteggiamenti anticonformistici e talvolta di esplicita condanna e di aperta ribellione degli artisti nei confronti della società del loro tempo vengono interpretati come aspetti della dialettica interna del sistema, che il sistema stesso ha interesse a tollerare e incoraggiare. D'altra parte, la critica d'indirizzo sociologico non ha mostrato finora alcun desiderio di mutare i parametri di giudizio e i criteri di valore: e, con poche eccezioni (i critici che affiancano l'avanguardia russa tra il 1920 e il 1930), ha seguitato a dare per scontato che il compito dell'artista è il rappresentare invece che l'intervenire e agire nel vivo delle situazioni. I campi che maggiormente si prestavano a una ricerca sociologica sono rimasti pressoché inesplorati: il rapporto tra lavoro artistico e produzione economica, tra le tecniche artistiche e le tecnologie produttive, le arti applicate e industriali, l'arte popolare, ecc.
Il problema dell'esistenza e della destinazione sociale dell'arte non si esaurisce evidentemente nel rapporto economico di produzione e consumo. Il pensiero, da molto tempo latente e formulato chiaramente da J. Dewey, che l'arte non sia il trascendimento dell'esperienza, pura contemplazione, ma momento concreto e operativo dell'esperienza stessa, pone bensì il problema della specifica qualità dell'esperienza artistica, ma anche quello del tipo di esperienza che essa determina o sollecita nei fruitori. Non essendo più ammissibile nella struttura del mondo moderno (e meno che mai in quella di una futura società di massa) che l'esperienza o la fruizione dell'esperienza mediata dall'arte sia riservata a una cerchia ristretta e privilegiata, sembra essenziale stabilire a quali condizioni e con quali modalità l'esperienza artistica o, in senso più generale, estetica possa essere fruita dall'intero corpo sociale. Uno dei piani sui quali l'esperienza artistica può essere generalizzata è quello della percezione: tutti percepiscono, ma la percezione è sempre condizionata da un insieme di convenzioni o di consuetudini, che l'arte stessa ha nel passato contribuito a istituire e che, in definitiva, dipendono dal condizionamento che le classi dirigenti impongono alla comunità. Di qui il pensiero che l'arte, invece di condizionare, debba educare a un'esperienza diretta, impregiudicata e costruttiva della realtà: a una percezione, insomma, che sia già atto della coscienza. La critica della pura visibilità ha perciò affinato le proprie metodologie mettendosi in rapporto con le ricerche della psicologia della percezione o della forma e ponendo l'arte non più come prodotto dell'apprensione e dell'emozione sensoria, ma come un vero e proprio ‛pensiero visivo' (R. Arnheim).
A sua volta, la ricerca iconologica ha messo in luce un altro piano, quello dell'inconscio individuale e collettivo, in cui ha luogo il recupero, l'elaborazione, l'associazione delle immagini: di qui il legame di talune correnti della critica con le ricerche di Freud e, specialmente, di Jung.
Sempre più distaccandosi da quello che pareva il suo compito istituzionale, il giudizio circa il valore di un'opera come opera d'arte, la critica d'arte è andata configurandosi come ricerca ‛motivazionale'. Non essendoci più un dare e un accettare, che implicavano comunque il riconoscimento del valore di ciò che veniva dato e accettato, cade la ragione e la possibilità di una mediazione: tra l'operare dell'artista e quello dei fruitori si stabilisce o dovrebbe stabilirsi una continuità assoluta, addirittura una identità di comportamento. La critica più recente si è infatti disimpegnata dal rapporto con la psicologia della percezione per collegarsi con l'opposta psicologia del comportamento e, per conseguenza, con le ricerche sui processi d'informazione e comunicazione.
d) La critica dei segni
Dopo avere esteso il campo della propria ricerca dall'ambito della forma a quello della immagine, la critica più recente concentra l'attenzione su quello che considera il fattore comune, l'elemento non ulteriormente riducibile che si può individuare in tutte le manifestazioni artistiche: il segno.
La critica che ricerca nel segno il principio strutturale del fatto artistico si pone come scienza dei segni, semiologia, e non deduce più le proprie metodologie da una filosofia dell'arte, da un'estetica, ma dalla linguistica. Sul piano teorico (v. estetica) il problema riguarda soprattutto la riducibilità o non-riducibilità dell'arte al sistema della comunicazione (vedi specialmente gli studi di C. Brandi, U. Eco, E. Garroni) e la possibilità della distinzione di un livello estetico nell'ambito della comunicazione. Poiché la critica non può più aver luogo a partire da un ‛concetto' di arte, ma dalla specificità delle singole arti intese come ‛campi' semantici (G. Della Volpe, Critica del gusto, Milano 1960), il punto di partenza non è più la concezione del mondo o, sia pure, dell'arte che le singole arti esprimerebbero in modi diversi, ma l'operatività particolare di ciascuna di esse. Mirando all'individuazione di una intrinseca strutturalità, la critica strutturalistica si è principalmente rivolta all'architettura (v. Brandi, 1967; v. De Fusco, 1973) sia per l'ovvia mancanza di un riferimento diretto della morfologia architettonica alla morfologia naturale, sia per il riferimento inevitabile dei fatti costruttivi alla vita sociale, sia infine per l'intrinseca strutturalità di cui l'architettura sembra essere la manifestazione. Il punto cruciale del problema rimane la riducibilità dell'arte alla comunicazione e la possibilità di conciliare la ricerca scientifica della struttura con la ricerca storica. Giustamente il Brandi distingue tra la ricerca strutturale propria della fisica moderna ‟rivolta a scoprire la struttura ultima della realtà empirica, ricerca ontica per eccellenza, e la ricerca strutturale rivolta a quella realtà che appartiene in proprio all'uomo, emerge solo attraverso la coscienza dell'uomo, di cui l'attività semantizzante è parte integrante e fondamentale ma non l'esaurisce" (v. Brandi, 1967, p. 4). Contro la diffusa tendenza a ridurre la critica a scienza dell'arte, cioè alla descrizione analitica dei ‛fenomeni' artistici, si riafferma così che non può esservi una scienza dell'arte che non sia storia dell'arte, anche se di essa dovranno mutarsi le premesse, i procedimenti metodici e le finalità.
4. La crisi della critica e la crisi dell'arte
La rinuncia o l'incapacità della critica a seguitare a porsi come giudizio corrisponde all'orientamento o, addirittura, agli enunciati ‛critici' delle più recenti correnti artistiche, che non soltanto ricusano di sottoporsi al giudizio, ma di produrre alcunché di giudicabile: infatti ogni giudizio è giudizio di valore, e l'arte non vuole più essere valore né produttrice di valori. Se fosse tale, infatti, si inquadrerebbe in un sistema di valori e si riconoscerebbe, al di là del suo puro essere qui-ora, la finalità del valore: la critica viene dunque aborrita come il processo con cui l'arte verrebbe omologata al sistema della cultura istituzionalizzata. La stessa eliminazione dell'oggetto artistico, dell'opera d'arte, vuole essere infatti l'eliminazione di un medium tra l'azione produttiva e l'azione fruitiva; ma all'eliminazione dell'opera d'arte non può non seguire quella dell'arte stessa che, ove non s'indentifichi con l'intero universo della comunicazione, costituirebbe un limite alla comunicazione stessa. Né soltanto il giudizio, ma la stessa interpretazione del fatto artistico costituirebbe una riduzione della sua forza d'impatto e una deviazione della sua incidenza (S. Sontag, Against interpretation, New York 1967), sicché la critica non sarebbe altro che un apparato mediante il quale il sistema borghese neutralizza gli impulsi creativi, e perciò stesso pericolosi e temuti, dell'arte.
La crisi radicale dell'arte nel mondo odierno non soltanto coinvolge la critica, ma ne è in certo senso il prodotto: ‛spiegando' l'arte, la critica la assimilerebbe a un sistema di valori non-artistici e, nel momento stesso in cui la integra nella realtà sociale, la distruggerebbe come arte. Le due grandi ipotesi che oggi si formulano sono: o l'arte è un essere-in-sé, che non ha premesse né fini, oppure è un modo che, facendo sistema con gli altri, realizza la totalità e l'unità del sapere. Stando alla prima ipotesi l'arte muoverebbe da premesse in sé non artistiche (l'interesse conoscitivo, la religione, la politica, l'ideale morale o lo stesso ideale estetico) e mirerebbe a finalità anch'esse non artistiche. Così, per esempio, una costruzione architettonica esprimerebbe artisticamente una concezione dello spazio, una convinzione religiosa o politica, una situazione della società, un'ideologia o un'utopia; e un'opera pittorica implicherebbe una conoscenza data o un interesse di conoscere il mondo visibile, avrebbe finalità religiose o morali o, sia pure, estetiche. L'arte rientrerebbe così, pur conservando l'autonomia delle proprie modalità, nel sistema globale dei valori; e la sua storia, pur procedendo secondo proprie metodologie, si risolverebbe nella storia generale della cultura o della civiltà.
L'altra ipotesi, quella di un assoluto monadismo dell'arte, muove dalla tesi strutturalistica e dalla negazione radicale di ogni spiegazione ‛storica' della realtà umana: l'arte si fa a partire dall'arte per giungere ancora all'arte, né questa può intendersi come un ‛valore' perché ciò significherebbe ammettere un sistema di valori comprensivo dell'arte, né può essere l'oggetto di giudizio critico, perché ogni giudizio è giudizio di valore. La sola definizione possibile dell'arte sarebbe dunque una tautologia, che a sua volta dimostrerebbe l'impossibilità di porre un ‛concetto' dell'arte, la realtà dell'arte essendo diversa dalla realtà del concetto di arte. Non solo, ma se la sola possibile formalizzazione del concetto di arte è l'operazione artistica, questa stessa formalizzazione del concetto di arte distrugge l'opera d'arte come tale, cosicché l'arte e la critica si distruggerebbero l'una con l'altra. Stando alla prima ipotesi, la critica sarebbe l'agente determinante della morte dell'arte in senso hegeliano, la risoluzione, cioè, della conoscenza artistica nella conoscenza filosofica; stando alla seconda, l'arte determinerebbe ‛criticamente' la propria morte escludendosi da ogni possibilità di relazione con la realtà del mondo.
bibliografia
Antal, F., Florentine painting and its social background, London 1948 (tr. it.: La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel trecento e nel primo quattrocento, Torino 1960).
Blunt, A., Artistic theory in Italy 1450-1600, London 1940 (tr. it.: Le teorie artistiche in Italia dal rinascimento al manierismo, Torino 1966).
Brandi, C., Segno e immagine, Milano 1960.
Brandi, C., Struttura e architettura, Torino 1967.
Brandi, C., Teoria generale della critica, Torino 1974.
Claus, J., Theorien zeitgenössischer Malerei in Selbstzeugnissen, Hamburg 1963 (tr. it.: Teorie dell'arte contemporanea, Milano 1967).
De Fusco, R., Segni storia e progetto dell'architettura, Bari 1973.
De Mauro, T., Il linguaggio della critica d'arte, Firenze 1965.
Dvořák, M., Kunstgeschichte als Geistesgeschichte, München 1924.
Focillon, H., La vie des formes, Paris 1939.
Francastel, P., Peinture et société. Naissance et destruction d'un espace plastique. De la renaissance au cubisme, Lyon 1956 (tr. it.: Lo spazio figurativo dal rinascimento al cubismo, Torino 1957).
Gombrich, E. H., The story of art, London 19662 (tr. it.: La storia dell'arte, Torino 1966).
Hauser, A., Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, München 1955 (tr. it.: Storia sociale dell'arte, Torino 1955).
Hauser, A., Philosophie der Kunstgeschichte, München 1958 (tr. it.: Le teorie dell'arte: tendenze e metodi della critica moderna, Torino 1969).
Kulterman, U., Geschichte der Kunstgeschichte, Wien 1966.
Mahon, D., Studies in seicento art theory, London 1947.
Panofsky, E., Meaning in the visual art. Papers in and on art history, New York 1955 (tr. it.: Il significato nelle arti visive, Torino 1962).
Ragghianti, C. L., Profilo della critica d'arte in Italia, Firenze 1948.
Riegl, A., Stilfragen. Grundlegungen zu einer Geschichte der Ornamentik, Berlin 1929 (tr. it.: Problemi di stile, Milano 1963).
Saxl, F., Lectures, London 1957 (tr. it. parziale; La storia delle immagini, Bari 1965).
Schlosser, J. von, Die Kunstliteratur, Wien 1924 (tr. it.: La letteratura artistica, Firenze 19643).
Schlosser, J. von, Über die ältere Kunsthistoriographie der Italiener, in ‟Mitteilungen des österreichischen Instituts für Geschichtsforschung", 1929, XLIII, pp. 47-76 (tr. it.: Sull'antica storiografia italiana dell'arte, Palermo 1933).
Venturi, L., Il gusto dei primitivi, Bologna 1926; Torino 19732.
Venturi, L., Storia della critica d'arte, Firenze 1945; Torino 19643.
Wölfflin, H., Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, München 1915 (tr. it.: Concetti fondamentali di storia dell'arte, Milano 1953).
Worringer, W., Abstraktion und Einfühlung, Berlin 1908.