Letteraria, critica e storiografia
È insistente la denuncia di una crisi che sembra ormai chiudere quell'età della critica scandita in Italia, forse più che altrove, sulla durata di un secolo lungo, protratto oltre i suoi limiti cronologici, dalla metà dell'Ottocento al tardo Novecento. Ponendo come data d'inizio il 1850, quando i primi saggi di F. De Sanctis cominciarono a rivelare un'inedita capacità di giudizio applicato tanto ai testi della tradizione quanto a quelli della modernità, e non solo d'ambito nazionale, la critica ha potuto trovare le ragioni della sua identità culturale e sociale riconoscendo a sé stessa una funzione partecipativa e non più regolatrice e normativa; una sua ragione innanzi tutto etica in quanto coscienza interpretativa della letteratura, vale a dire delle forme e dei contenuti della creatività. L'autoriconoscimento, almeno nella versione italiana, aveva un duplice fondamento, filosofico e politico.
L'estetica, liberata da G. Vico, I. Kant e G.W.F. Hegel, solo per evocare i massimi sistemi, distinti nelle premesse e pure negli effetti concomitanti, dall'ipoteca classicista di un'idea ordinatrice di bellezza su cui istituire un canone giudicante, orientava verso un recupero pieno dell'arte con i suoi caratteri distintivi di attività disinteressata, e quindi restituita alla sua autonomia, di esperienza originata dalla fantasia dei popoli secondo certi tempi e certe guise, di patrimonio di opere iscritte nello sviluppo progressivo dello spirito con una fenomenologia variamente articolata nei suoi processi tecnici ed espressivi.
Da qui prende valore l'istanza conoscitiva della critica e la sua conversione in una storiografia ricostruttiva e prospettica, non più elencatoria, tuttavia inscindibile da una prioritaria motivazione politica, non solo per De Sanctis e per il consacrato modello della sua Storia. Non c'è in quel suo gran teatro della nostra letteratura messo a confronto con gli altri scenari europei un condizionamento esterno, di parte, liberale o democratico che sia. C'è semmai l'idea di una promozione culturale della politica. Una nazione appena nata deve conservare la memoria degli scrittori che ne hanno anticipato la realizzazione, ma è nello stesso tempo una memoria militante che deve accompagnare o comunque favorire l'emergere del nuovo. Come primo monumento di una patria nascente la storiografia letteraria non avrebbe potuto limitarsi a tracciare un percorso di stili o ad allestire una galleria di ritratti: la sua finalità è necessariamente formativa, istituzionale e pedagogica e il suo limite è l'ideologia. Ma il principio che determina la sua durata è quello stesso della critica, a cui si aggiunge un criterio più largamente comparativo che compensa una comprensibile carenza di analisi e ricerche devolute, come auspicava lo stesso De Sanctis proprio mentre lavorava alla Storia, a un indispensabile incremento prioritario dell'erudizione e della filologia. Che fu il compito assunto dalla 'scuola storica' positiva e anche oppositiva al desanctisismo, tacciato di fumosità metafisica.
La periodicità dei 'ritorni a De Sanctis' testimonia, fino a tutta la prima metà del 20° sec., la volontà di ribadire quella preliminare mo-tivazione, etica appunto, che tiene stretto nel circuito dell'esperienza storico-critica il nesso di ragioni formali e spirituali alle quali la letteratura è chiamata a rispondere. Il principio di unità dell'opera, del suo carattere di totalità, non è stato mai messo in discussione nei corsi e ricorsi desanctisiani. Per questo si è potuto indicare in una filiazione quanto si voglia anomala De Sanctis-Croce-Gramsci la storia di una continuità, se non ideologica, culturale. Del resto, il significato di quei ritorni va individuato nella loro declinazione revisionistica. Ed è inutile dire quanto per B. Croce un'abbozzata, ma non per questo indefinita, estetica desanctisiana della forma tutelasse il suo principio di autonomia conoscitiva ed espressiva dell'arte, capace, in successive formulazioni del suo sistema, di recuperare nell'espressività individuale una totalità d'ordine morale più che storico.
Ed è altrettanto ovvio ricordare l'incidenza del modello sociale e nazionale nella versione gramsciana del desanctisismo, che la critica marxista integrò con altri parametri di valutazione più coerentemente materialistici: teorie del tipico (G. Lukács), omologie strutturali so-cioeconomiche e sociolinguistiche (L. Goldmann, G. Della Volpe). Il modello Croce non fu sostitutivo di quello De Sanctis. Il crocianesimo fu pervasivo; determinò, fino all'avvento del fascismo, un moto generale di rinnovamento intellettuale, forse più efficace dell'azione svolta dall'avanguardia modernista e futurista; impresse un fervore militante all'idealismo dei dioscuri Croce e G. Gentile, poi maestri avversi. Però sotto il regime, e forse proprio in consonanza con la riforma Gentile che in fondo raccoglieva un'eredità di pensiero comune, l'autorità letteraria dell'estetica e della critica crociane si trasferì soprattutto nell'insegnamento universitario, e prevalse, con S. Russo, M. Fubini, F. Flora, N. Sapegno, M. Sansone e altri ancora, sugli altri orientamenti di scuola, senza indebolire il vincolo di critica e storiografia che ca-ratterizza lo storicismo desanctisiano, non quello crociano.
Con il titolo L'influenza culturale di Benedetto Croce (traducibile in un 'perché non possiamo non dirci crociani') nel 1951 riepilogò il radicamento nella nostra cultura di quel duraturo magistero un anomalo proselito come G. Contini. Si può anche supporre che il crocianesimo rap-presentasse una trincea accademica contro i rischi di una pedagogia di Stato, che di fatto il totalitarismo italiano non imponeva, almeno ai livelli superiori di studio. Fuori da queste circostanze, resta vero che un testo guida come La poesia di Croce del 1936 allargò l'ambito estetico e meto-dologico di quell'influenza verso la Stilkritik, la critica verbale e delle varianti: esercizi di lettura peraltro svalutati dal maestro.
Quanto al revisionismo d'ispirazione marxista, va ripetuto che esso non alterò una continuità culturale e che anzi i suoi sostenitori ne richiedevano un'applicazione più radicale teorica e militante nel nome di uno sto-ricismo che si dichiarava integrale.
Poetiche ed esperienze personali e di gruppo non riducibili all'unum crociano si svilupparono nel Ventennio traendo le proprie ragioni da matrici diverse e non di scuola. Per es., il simbolismo francese e la religione delle lettere di R. Serra, che è anche religione della vita, come annunciò il manifesto del 1938 di C. Bo, che animò una pratica critica di tipo esoterico solidale con l'ermetismo in poesia. Fu anche questa una posizione di trincea comune a gran parte della comunità dei critici che S. Solmi, nel 1963, rievocherà come una necessaria autolimitazione che nascondeva una incompatibilità morale e anzi si determinava come "prima ed essenziale moralità della forma" (Scrittori negli anni, Milano 1963, p. 11). Ma non fu un'attività concorrente dello storicismo.
La rottura della continuità si manifestò in pieno molto più tardi con l'introduzione, nel 1965, dello strutturalismo e della sua epi-stemologia applicata allo studio della letteratura per iniziativa di C. Segre, M. Corti e D.S. Avalle. Fu il trionfo della linguistica da cui il metodo si originava prendendo concetti e terminologia dall'opera di F. de Saussure. Favorì anche la ricerca psicocritica e simbolica. La teoria non contrastava, infatti, il metodo della saggistica freudiana di F. Orlando e neppure quello interdisciplinare di E. Raimondi, volti a sondare di là dalla forma del testo le strutture del profondo. Eppure si scorgeva già alla fondazione della scuola una disponibilità al recupero della storia, per quanto corretta su parametri funzionali e generativi quali la geolinguistica di Contini - con il rilievo assegnato al plu-rilinguismo e al maccheronico -, la geostoria tracciata con il filo rosso della lingua nazionale e regionale da C. Dionisotti, il principio di codificazione letteraria e trasmissione dei generi, sottolineato dalla Corti, che indurrebbe a identificare più da vicino la permanenza nel tempo delle strutture categoriali, considerate da Croce ininfluenti per il giudizio estetico.
Rispetto al regolismo degli strutturalisti francesi la neocritica italiana si mostrò meno chiusa nell'esegesi formale. Intertestualità fu il nome che si diede a procedure diverse di assimilazione nel testo di elementi multiculturali diversamente presenti in teorie parallele: quelle culturologiche della scuola di Tartu di J. Lotman (1922-1993), quelle della relazione comunicativa tra autore e lettore indagata da U. Eco, quelle della 'ricezione' elaborate da H.R. Jauss, infine dell'antropologia di M. Bachtin, che dà fondamento a un'estetica innovativa la quale incorpora il vissuto reale e sociale nei processi di formalizzazione artistica. Dal dialogismo di Bachtin prese spunto una più articolata stilistica del romanzo e si rinnovò l'attenzione al realismo che era rimasto il principio valutativo primario della critica marxista, di volta in volta, però, messa a confronto con modelli di altra derivazione: la sociostilistica di E. Auerbach alla fine degli anni Cinquanta, l'esplora-zione bachtiniana del mondo popolare e della sua carnevalizzazione letteraria tra i Sessanta e i Settanta.
Bachtin indica un punto d'arrivo degli sconfinamenti dello strut-turalismo, forse il più sicuro, così come dello storicismo. È impossibile del resto continuare a distinguere due scuole che, separate nelle premesse, ora convergono nell'orizzonte comune dell'ermeneutica, necessariamente indeterminato e perfino oscurato da una neoermeneutica. È su questa indeterminatezza che ha agito il processo di deterioramento della critica - e più che mai della storiografia - operato dal deco-struzionismo. La sua filosofia, che ha avuto in J. Derrida il teorico più influente, è stata un'inversione di marcia, non una svolta né soltanto una deriva dello strutturalismo. E non solo. L'ermeneutica come interpretazione testuale nasce dalla consapevolezza che l'arte, la letteratura nel nostro caso e più ancora la parola poetica, produce più di un significato anche quando l'intenzione dell'autore si manifesta esplicitamente, come nella Commedia, laddove Dante avverte il lettore che è necessario percepire l'allegoria dietro il velo dell'immagine. Il critico deve, come ermeneuta del testo, rendere conto del significato dei significati; come scrive G. Steiner, del "tentativo di formalizzare e di descrivere dall'interno i modi in cui noi interpretiamo i significati del significato" (Real presences, 1989; trad. it. 1992, p. 11). Dottrina trasmessa dall'esegesi antica mitologica, oracolistica e biblica soprattutto, e pertanto da intendersi come una scienza divinatrice, l'ermeneutica si è trasformata in una filosofia della comprensione che può adottare diversi strumenti della conoscenza: storici, simbolici, filologici. La storicità abbrevia la distanza temporale dell'interpretazione; la simbologia attualizza, ossia fa emergere lo spirito dalla lettera; e con la lettera fa riscontro la filologia, che introduce così a un'arte del commento.
Quali che siano i suoi parametri di giudizio, l'ermeneutica moderna, da F.D.E. Schleiermacher a W. Dilthey, M. Heidegger, H.G. Gadamer, P. Ricoeur, non ha mai omesso il riferimento alla parola e alla sua articolazione formale, al suo costituirsi come mimesi di sentimenti, pensieri, figure, situazioni. Per questo essa è una teoria oltre che inesauribile, dilatabile, fino al punto, però, di una sua dis-articolazione, di una sua separazione dal testo e dalla verità, da cui trae origine, per sostituirla con altre verità disancorate e preesistenti. Che è l'atto, lo strappo, compiuto dalla neoermeneutica della decostruzione. La filosofia decostruttivista è una variante del relativismo di cui si può trovare una formulazione estrema nella dialettica di un protagonista pirandelliano, il Padre dei Sei personaggi in cerca d'autore: "Ma un fatto è come un sacco: vuoto, non si regge". Il decostruttivismo nega la realtà del fatto per affermare quella delle interpretazioni. Il testo è destinato alla lacerazione, come il corpo di Orfeo, vale a dire della poesia. Al sacrificio del poeta fa riferimento un fautore del postmodernismo che, per omologia, ci riporta al postmodernismo e al decostruzionismo: "Lo smembramento di Orfeo potrebbe essere un processo continuo e la letteratura potrebbe addirittura farsi e disfarsi per sempre", così si legge all'inizio del libro di I.H. Hassan, The dismemberment of Orpheus. Toward a postmodern literature (1971). In realtà è con le poetiche del postmoderno che va comparata la critica decostruttivista. L. Pirandello il sacco lo riempie: "Perché si regga, bisogna prima farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato". Il fatto dunque esiste, ha una sua verità. Il postmoderno, al contrario, la altera proponendo varianti del moderno che lo rendono inclassificabile. È arte senza modelli, così come il decostruzionismo è teoria che assegna statuto di verità di volta in volta a soggetti interpretativi diversi. La premessa è nel rifiuto di una verifica filologica e storica dell'interpretazione; il risultato una devalorizzazione del giudizio, del resto intenzionale.
È ormai lontana la domanda "dove va la critica letteraria?" che sottotitola le Notizie della crisi sulle quali nel 1993 Segre ha richiamato l'attenzione con considerazioni di stretta pertinenza teorica e la denuncia di una pericolosa evanescenza dei piani di lavoro nell'istruzione superiore universitaria orientati sul metodo e nel confronto dei criteri e delle scuole. Una risposta fino a ora è mancata. È vero, però, che la caduta d'interesse per la teoria non ha frenato l'attività della ricerca individuale e anche di quella programmata. Le bibliografie segnalano incrementi di studi, sui quali andrebbero accertati i dati rivelatori di una crisi o, al contrario, di una crescita, anche se all'esame emergono delle forti disparità a vantaggio, quanto meno nell'italianistica, della letteratura contemporanea rispetto all'antica e un'insufficiente capacità sia di selezione sia di puntuale segnalazione. Gli strumenti messi a disposizione dell'informatica sono incomparabili con quelli cartacei del passato, ma si ha l'impressione che proprio l'ingorgo di informazioni che tali strumenti accumulano e offrono, ovviamente senza nel merito discriminare, lasci privo di bussola il navigatore in rete. Quanto ai centri di ricerca letteraria, anche extrauniversitari, le funzioni certo apprezzabili di promozione che essi svolgono non sempre coincidono con le finalità per cui sono stati istituiti, forse anche per effetto di incaute sovraesposizioni. Vie d'uscita dall'impasse teorico non mancano. La critica tematica appare ancora un punto di convergenza di diverse istanze. Prima fra tutte la comparatistica, la cui competenza è meglio specificata, oltre che su una topografia retorica, alla Curtius, su una mappa non solo letteraria che intercetti la permanenza nelle diverse aree linguistiche di motivi, miti, figure suscettibili di significative trasformazioni e ne tragga indizi di una possibile interrelazione sovranazionale. Comparativa è necessariamente la storia intellettuale dell'Europa specie a partire dall'Umanesimo, ed è descritta a grandi campate: Illuminismo, Romanticismo e così via. L'arte come la scienza e la filosofia annulla i confini. La letteratura non ha un passaporto linguistico internazionale. Quello interlinguistico delle traduzioni lo sostituisce parzialmente e genera a sua volta problemi d'interpretazione sui quali peraltro si esercita la comparatistica. E tuttavia proprio dalle opere universalmente assimilate, per i significati che esse trasmettono e che aiutano a superare il diaframma dell'incomprensione, deriva l'idea di un canone occidentale, non solo letterario. La norma attinge ai capolavori, ma anche un repertorio tematico indica delle coordinate forse minori ma in compenso perfino extracontinentali. In questo senso il canone diventa meno esclusivo, contribuisce a conservare "nella letteratura e nell'arte la traccia della consapevolezza europea" auspicata da S. Márai, scrittore in cerca di una nazione comune, non confinata dalle sponde del suo Danubio. È una consapevolezza di cui un altro scrittore della diaspora di là dal Sipario, M. Kundera (Le rideau è un suo libro del 2004), lamenta il ritardo: "L'Europa non è riuscita a pensare la propria letteratura come un'unità storica e non mi stancherò di ripetere che in questo consiste il suo irreparabile fallimento in-tellettuale" (trad. it. Il sipario, Milano 2005, p. 47).
Il comparativismo non è soltanto uno studio disciplinare. Il saggio, a partire dai Saggi critici di De Sanctis, include la comparazione nella prospettiva pur sempre limitata in cui il saggista si pone. È un suo atto di coscienza. Uno, non l'unico, appunto, perché proprio la sua flessibilità discorsiva genera modi diversi e personali di espressione. Talora converte l'argomentazione in narrazione, altre volte in autobiografia intellettuale, letteraria, civile. È scrittura per l'altro, a chiarimento e confronto dell'opera, o scrittura per sé stessa, un secondo autonomo linguaggio: e in effetti è lo stile che per primo ne garantisce la durata. Ambivalente, servo di due padroni, lo scrittore e sé stesso, fu il saggismo di G. Debenedetti, che vale anche come modello di comparatismo.
Quando resta ancorata alle motivazioni che ne legittimano il fondamento conoscitivo (negato da Croce), la critica comparata mette in gioco soggetti, questioni, scrittori e opere che recuperano nel tempo segni di continuità (per es., tra classico e moderno), e nella geografia letteraria indicano percorsi tanto di differenziazione quanto di identità. Ulisse come prototipo romanzesco, la Scrittura come racconto e profezia e l'auctoritas dei classici (per es., nella struttura dottrinale e nel mondo immaginario della Commedia) sono temi privilegiati che comparatisti, quali P. Boitani e F. Ferrucci, hanno saputo mettere in risalto. Un censimento meramente nomenclatorio non potrebbe aggiungere nulla alla trattazione, ed è quindi meglio isolare le posizioni dalle quali è stato ripreso il dibattito sulla crisi, da Segre incentrato sulla teoria e ora spostato sulla saggistica, in particolare sulle proposte, ossia "pro-vocazioni", di saggisti stranieri di fama consolidata.
Alla nozione di Western canon (1994; trad. it. 1996) di H. Bloom fa riferimento G. Ferroni (2005) riconoscendo la forza di un richiamo alla tradizione dell'Occidente che non deve essere oscurata dalla politically correctness del multiculturalismo, dalle rivendicazioni localistiche nei college americani esasperate da vere e proprie "scuole del risentimento" avverse all'eurocentrismo, ma contrapponendo un recupero meno rigido del passato senza deprimere nel confronto le esperienze contemporanee, specie se capaci di trasmettere una rinnovata "fede" nella letteratura e un fervore formativo civile. Da parte sua, M. Lavagetto (2005) reagisce a una diffusa sindrome depressiva per un effetto Steiner: un suggestivo e rischioso incitamento a sgombrare la nebbia sempre più fitta della "città secondaria", degli esegeti opinionisti recensori, e lasciare libero il cielo della città primaria, della repubblica antiplatonica degli scrittori e dei lettori accomunati dalla regola naturale del senso comune. È quello che G. Steiner (e non si dica critico) auspica nelle pagine iniziali di Real presences (1989), rendendo comunque omaggio ai filologi ai quali va riconosciuto il merito di disincrostare la forma del testo e riportarla alla sua originaria chiarezza (tra questi, con funzione di dedica, G. Contini, di cui però si ricorda anche la vastità degli interessi ermeneutici e quindi a loro volta "secondari"). Di fatto, l'invito alla lettura restituita a una felice ingenuità è lo sfogo di un letterato che ha letto tutte le opere creative e di riflessione e vagheggia l'utopia di una società estetica che però per coerenza dovrebbe cancellare anche la presenza dell'autore per rivelare l'unica vera presenza, il mistero eucaristico dell'opera: eucarestia è il sacramento che Steiner stesso evoca per analogia. Anche l'insegnamento per Steiner è più un atto "estensivo" di lettura e comprensione diretto agli allievi che la trasmissione di un sapere criticamente elaborato. Un libro successivo, Lessons of the masters (2003; trad. it. 2004), ricorda la virtù doppia della persuasione e della fascinazione di prestigiosi docenti.
Lavagetto avverte il pericolo di questa mistica della lettura alla quale imprevedibilmente fanno riscontro le tante iniziative del mercato librario che affidano alle edicole la vendita accorpata a quotidiani e settimanali di testi narrativi e poetici, moderni e antichi, senza mediazioni interpretative. In realtà sono arrivate in edicola altre offerte mediatrici della lettura: storie monumentali della letteratura, enci-clopedie di un sapere anche settoriale ed esclusivo che già affollano lunghi scaffali domestici. Il mercato ha anticipato i tempi dell'utopia, ma forse non l'ha realizzata. L'editoria, una volta promotrice di opere di critica, ne risente; si attiene agli indici di diffusione che anche per la contrazione dei programmi universitari si è ristretta. E ne risente la critica detta militante.
È questa l'ultima 'notizia' della crisi. Andrebbe commentata a vari livelli storici e sociologici ancora non tutti definiti. Basterà intanto fermare alcuni punti. La fine della gramsciana 'battaglia delle idee', affrontata per affermare un'egemonia intellettuale in funzione politica, smorza il calore delle controversie; la scarsa concorrenza tra tradizione e innovazione, tra ismi tanto distinguibili, invece, tra Ottocento e Novecento, non induce a prendere partito; la perdita d'aureola dei grandi opinionisti (P. Pancrazi, E. Cecchi e pochi altri) periodicamente riscontrati sulle terze pagine, ora variate come pagine di cultura senza firme particolarmente privilegiate, ha allentato il legame tra lettore comune e lettore di professione; la promozione libraria in tutti i media, non solo nella carta stampata, e l'eco dei premi di maggiore richiamo mondano, esercitano una pressione più forte sugli indici di vendita di quella esercitata da un giudizio di merito, a meno che esso non susciti il clamore di una provocazione sollecitando mobilitazioni pro e contro, forse pretestuose: Pasolini vs Calvino, come in tempi non tanto lontani, nella logica dell'organico-disorganico, Leopardi vs Manzoni. E tuttavia l'ultima generazione novecentesca di critici militanti si è infoltita di presenze in convegni e tavole rotonde, nella stampa, nella radio, nella televisione e anche in Internet. Il pubblico utente - per non dire passivo - della letteratura interloquisce con quello della mediazione, attivo, giudicante. Nella babele della lettura e dell'ascolto forse si profilano nuove occasioni e nuove fondate ragioni di intervento. Un rendiconto come questo non può trarre conclusioni né fare previsioni. Può solo auspicare una rinnovata consapevolezza dei compiti affidati da sempre alla critica sia che maturi nei tempi lunghi della ricerca sia che si impegni con la letteratura nei tempi stretti della quotidianità.
Bibliografia
N. Borsellino, L'età della critica. Da Croce a Contini e G. Patrizi, La critica letteraria nel secondo Novecento: teorie, metodi, autori, in Storia generale della letteratura italiana, diretta da N. Borsellino e W. Pedullà, Milano 1999, 10° vol. pp. 75-115, e 11° vol. pp. 38-81.
Si vedano inoltre i saggi di A. Berardinelli, Saggistica, stili di pensiero e tendenze culturali, M. Perniola, Le ultime correnti dell'estetica in Italia, e S. Calabrese, La critica letteraria, in Storia della letteratura italiana, fondata da E. Cecchi e N. Sapegno, Il Novecento. Scenari di fine secolo 1, diretto da N. Borsellino e L. Felici, Milano 2001, pp. 3-36, 37-76, 77-116. Cfr. ancora E. Biagini, Tra critica e teoria della letteratura. Le ultime tendenze, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, 11° vol., La critica letteraria dal Due al Novecento, coordinato da P. Orvieto, Roma 2003, pp. 1271-97.
Antologizza una pubblicistica di data recente il volume La critica militante, a cura di P. Febbraro, introduzione di G. Manacorda, Roma 2000 [ma 2001], pp. 1285-97.
Sulla conversione della terza pagina in giornalismo culturale cfr. B. Benvenuto, La malinconia del critico, Palermo 2005. Dal passato al presente della critica militante fanno da guida i dialoghi tra scolaro e maestro di W. Pedullà, Il Novecento segreto di Giacomo Debenedetti, Milano 2004.
Temi diversamente elaborati di critica comparata nei volumi di P. Boitani, Parole alate, Milano 2004; F. Ferrucci, Il teatro della fortuna, Roma 2004; P.V. Mengaldo, Tra due linguaggi. Arte figurativa e critica, Torino 2005.
Diversamente argomentati anche i temi della crisi della critica da G. Ferroni, I confini della critica, Napoli 2005; M. Lavagetto, Eutanasia della critica, Torino 2005; R. Luperini, La fine del postmoderno, Napoli 2005.