Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Perché si arrivi a delle "teorie" del cinema occorrono due passaggi essenziali: la diffusione presso le elité intellettuali dell’idea che il cinema sia un’arte a tutti gli effetti, e che, pur in un processo produttivo che prevede molte figure professionali diverse, si possa parlare di "autore" come di un ruolo estetico autonomo. Più recentemente sono diventati importanti oggetto di studio non solo le analisi linguistiche e testuali, ma anche i contesti empirici di fruizione e quei meccanismi di costruzione sociale del senso che caratterizzano l’esperienza cinematografica.
Il cinema fra le arti
La nascita e il consolidamento di un canone teorico classico entro i primi due decenni del Novecento sono legati a due fenomeni di rilievo, a loro volta connessi tra loro: la diffusione presso le elité intellettuali dell’idea che il cinema possa essere considerato un’arte e il graduale passaggio da una fase in cui – essendo possibile pensare al film come a un’opera (d’arte o quantomeno d’ingegno) – viene prima introdotta la nozione di autore in riferimento a una serie variabile di figure professionali (letterati, produttori, operatori) e poi consolidata come ruolo estetico autonomo. È proprio nel momento in cui ci si sposta gradualmente verso un’idea di autore come soggetto responsabile dell’opera, come depositario di un’intenzione espressiva, che diventa più agevole inserire il cinema nella tradizione secolare delle altre arti e cominciare a stabilire confronti, a marcare differenze.
Soprattutto a marcare differenze. Il cinema infatti si legittima esteticamente nel rapporto con la letteratura, la musica, il teatro... Eppure, quasi da subito, sembra chiaro che esso gode di una specificità espressiva. Già Ricciotto Canudo nel 1912 aveva insistito sulla inconciliabilità tra il reale cangiante della scena e l’irreale fisso dello schermo. Poco dopo György Lukács , in Riflessioni per un’estetica del cinema (1913), individua nell’assenza del corpo e della voce dell’attore tratti caratteristici, capaci di conferire al cinema un’impronta al contempo realistica e onirica. Quelli che potrebbero apparire limiti del medium sono descritti come elementi di specificità espressiva. Lo stesso principio troverà ulteriore applicazione nella teoria dei fattori differenzianti la cui espressione più celebre è dovuta a Rudolf Arnheim (1904) in Film come arte (Film als Kunst, 1932): assenza di colore, bidimensionalità, delimitazione del quadro, discontinuità percettiva, mancanza di stimolazioni differenti da quelle legate al canale visivo, sono tutte caratteristiche che, proprio in quanto destinate a rendere il film una copia infedele del mondo, lo rendono anche un’opera d’arte originale. Mentre sulle potenzialità specifiche del montaggio alcuni teorici sovietici come Pudovkin, Vertov, Kuleshov, Ejzenstejn inauguravano una riflessione destinata ad avere notevoli ricadute pratiche, un’accuratezza particolare nella descrizione dei meccanismi propri del linguaggio cinematografico si trova anche nei contributi del formalismo russo come Boris Ejchembaum, Jurij Tynjanov, Osip Brik e in chiave diversa (più attenta alle modificazioni nelle abitudini percettive ordinarie introdotte dal medium e alle sue implicazioni sociali), in uno dei testi principali della riflessione teorica degli anni Venti: L’uomo visibile (1924) di Béla Balázs .
Oltre l’autore, fotogenia della realtà
È però soprattutto negli scritti di alcuni registi-teorici dell’avanguardia francese che si coglie il nesso tra la necessità di ritagliare un nuovo ruolo per l’autore cinematografico e quella di individuare gli elementi di assoluta originalità del medium-cinema. Per Luis Delluc e Jean Epstein si tratta di rinnovare, "liberare" il cinema, e per far ciò bisogna produrre una messa in valore delle sue qualità, cosa che può avvenire quando non si cerca di piegare la lingua-cinema alle necessità di un autore, e, al contrario, ci si annulla come autori nella prassi, in una sorta di comunione con il cinema stesso. Così emergerà ciò che il mezzo ha di più specifico, la sua qualità intrinseca. Un nome per la qualità specifica dell’immagine in movimento è fotogenia, termine che indica appunto un accordo tra le qualità dell’immagine e quelle del materiale riprodotto.
Benché non ignare dello statuto riproduttivo-fotografico, le teorie del primi trent’anni del Novecento hanno il più delle volte contribuito a consolidare una tradizione "formativa", cioè interessata a privilegiare gli aspetti di elaborazione formale legati al medium. Un’inversione di tendenza si registra nel secondo dopoguerra in alcuni scritti che privilegiano e danno spessore alla nozione di realismo. Se per Kracauer il cinema è soprattutto uno strumento naturalmente votato alla registrazione della realtà fisica, è in Bazin che si coglie ancor meglio lo scarto rispetto al passato. Bazin è comunemente considerato un teorico classico. La sua teoria è di carattere ontologico e non esente da accenti normativi. Malgrado ciò egli inaugura anche una pratica interpretativa in grado di privilegiare elementi che saranno al centro dell’interesse delle fruizioni moderne successive (attenzione alle cinematografie marginali, ai generi secondari, ai tratti di modernità degli autori classici). Bazin accetta di buon grado ogni innovazione tecnologica capace di potenziare il realismo del cinema (introduzione del sonoro, del colore, della profondità di campo), un realismo che assume i contorni di un concetto piuttosto complesso. Nell’ottica baziniana il cinema partecipa del reale a vari livelli: in virtù di una necessità psicologica, ma anche e soprattutto grazie a una possibilità tecnica di base (quella di registrare il mondo oggettivamente, di produrre un’impronta meccanica del reale senza che la mano umana possa truccare le carte in tavola), a scelte stilistiche capaci di esaltare questa adesione al reale.
Metodologie e nuove sintesi
Le posizioni di Bazin vengono contestate (pressoché come ogni elemento della tradizione) tra anni Sessanta e Settanta, nel ciclo storico della politicizzazione radicale. In un’ottica materialista la nozione di realismo ontologico appare ingenua e idealistica. L’analogia che la fonda è un costrutto socialmente dato. La macchina da presa, prima di diffondere qualsiasi cosa, diffonde ideologia borghese. Su riviste come "Cinétique" e "Cahiers du Cinéma" si comincia a parlare di "impressione di realtà" (prodotto da codici specifici operanti a livello di figurazione) e di "effetto di reale" (prodotto dall’iscrizione del soggetto nella rappresentazione). Gergo e nozioni richiamate fanno riferimento alla psicoanalisi (soprattutto lacaniana), allo strutturalismo, alla critica dell’ideologia di Althusser. Già dai primi anni Sessanta la teoria del cinema infatti si contamina con le scienze umane: sociologia, linguistica, e in particolar modo semiotica e psicanalisi. Al di là delle implicazioni politiche cui si è fatto cenno, questa contaminazione produce un passaggio a teorie fortemente orientate in senso metodologico. Non si tratta più di definire essenza e specificità dei fenomeni, ma di considerarli sotto determinate pertinenze. Per Christian Metz il problema di una semiologia del cinema è di capire quanto il cinema possa essere studiato come linguaggio. In conformità con quanto indicato da Roland Barthes, Metz sceglie di indagare le grandi unità significanti, le configurazioni narrative date dal modo in cui il cinema organizza la successione delle inquadrature. L’idea-guida è che gli elementi del linguaggio cinematografico (fino ai piani singolarmente presi) rimangono più grandi e strutturati delle unità minime del linguaggio verbale. Ne consegue che l’attenzione sulle organizzazioni narrative porta a trascurare un momento di prima apprensione del senso, in cui la significazione non si dà subito come senso narrativo, quanto piuttosto come senso visivo, percettivo, immediatamente sensibile. Si può intendere la svolta testuale degli anni Settanta, cioè lo spostarsi dell’interesse di molti studiosi verso le questioni di produzione testuale concreta, di scrittura, di pratiche significanti, e anche (attraverso nozioni narratologiche) di istanze astratte che regolano il processo narrativo, come tentativi di ancorare il problema del senso a una soggettività presupposta dal testo filmico, ma che in qualche modo rimane a esso esterno. Un’alternativa radicale anche a queste posizioni è rappresentata dai due volumi L’immagine-movimento, L’immagine-tempo (1974) di Gilles Deleuze. Partendo da un’interpretazione del tempo e del movimento che fa esplicito riferimento al pensiero di Bergson, Deleuze sviluppa una riflessione in cui si postula un doppio regime dell’immagine: da un lato l’Essere, l’universo di materia-flusso, della percezione diffusa e totale senza centro o soggetto; dall’altro il molteplice delle immagini viventi, attualizzazioni rapportate a una soggettività (o centro d’indeterminazione). Le immagini viventi sono ancorate a una soggettività percipiente, ma esse non sono che un sussulto, una piega dell’Essere. Il cinema da un lato permette di approssimarsi alla materia-flusso, attraverso la moltiplicazione dei punti di vista (è il limite dell’immagine-percezione, rappresentato dal cineocchio vertoviano), dall’altra ha le caratteristiche di un’immagine vivente dunque si struttura secondo le modalità di una coscienza. Questa sovrapposizione tra film e coscienza permette a Deleuze di offrire una lettura assai originale del cinema della modernità, indagato come figurazione diretta del tempo e della durata. Su questa strada egli arriva a sostenere che l’immagine cinematografica non è né una lingua, né un linguaggio, né un enunciato, ma massa a-significante, materia non formata, enunciabile. E su questa strada rincontra Epstein, con il suo progetto di articolare una sintassi presoggettiva che sia propria dell’immagine in sé.
Nella riflessione teorica degli anni Ottanta e Novanta si possono individuare più filoni di sviluppo, anche perché, caduta l’egemonia delle singole pertinenze disciplinari (semiotica, psicanalisi, narratologia), si è spesso fatto un uso specifico di concetti e modelli acquisiti in ambiti di indagine diversi, al servizio di un’analisi complessiva del fenomeno cinematografico in un quadro che ha ampiamente rivalutato gli aspetti storico-filologici e sociali del medium. Se da un lato si è sviluppata una vera e propria filologia del cinema (anche grazie alla enorme quantità di materiali resi nuovamente visibili da restauri e recuperi), dall’altro si è posta attenzione ai processi di relazione comunicativa istituiti dal medium cinematografico. Sulla scorta dei Cultural Studies, della teoria della ricezione e della semio-pragmatica, si sono analizzati i contesti empirici di fruizione e costruzione sociale del senso che caratterizzano l’esperienza cinematografica, indagata anche attraverso gli strumenti della psicologia cognitivista. Se dunque al centro della elaborazione degli ultimi anni ci sono nozioni come prassi ed esperienza, non stupisce il ritorno dell’attenzione sull’esperienza estetica, sia attraverso il recupero di tradizioni legate allo studio degli stili e della forma (neoformalismo), sia attraverso la valorizzazione delle affetti, degli aspetti passionali e del coinvolgimento della corporeità nei processi di percezione (recupero della tradizione fenomenologia e semiotica delle passioni).