CRITICA
. La critica letteraria (XI, p. 975). - Il lavoro critico ha seguitato a svolgersi dai capisaldi rappresentati dal pensiero del Croce (vedine le ultime formulazioni in Aesthetica in nuce, 1929, e in La poesia, 1936), e dal disegno dell'estetica gentiliana (La filosofia dell'arte, 1931). Quali che fossero le difficoltà fra il Croce e il regime fascista, la posizione del crocianesimo andò in complesso rafforzandosi; ed esso penetrò zone della cultura che, forse per ragioni di specialismo tecnico, erano rimaste più chiuse: le letterature classiche, l'archeologia, la storia dell'arte, la critica figurativa, la stessa filologia, persino quella testuale.
Si tratta di un crocianesimo che continuamente si arricchisce e precisa, per opera anzitutto dello stesso Croce, instancabile a meglio determinare le proprie idee, e sempre vigile contro il pericolo massimo del suo sistema, cioè la frantumazione della poesia. L'odierna tendenza è di superare l'antitesi poesia-non poesia, riconoscendo non solo la legittimità dello studio della non-poesia in sede di storia della cultura, il che aveva fatto anche il primissimo Croce; ma la "storicità" di essa. Del resto, il tentativo di assorbire nella storia l'impressionismo latente nell'estetica crociana, era stato fatto per tempo, ad esempio da G. A. Borgese e da R. Serra (ciascuno per la sua via); ed è ora l'assillo d'un crociano di stretta osservanza, L. Russo.
Già la seconda generazione del "metodo storico", soprattutto per opera di E. G. Parodi, C. de Lollis, V. Rossi, M. Barbi, tutt'altro che indifferente all'insegnamento crociano, era rimasta ben ferma su alcune posizioni, del resto mai combattute dal Croce: che per giungere al "vero" della poesia, altro punto di partenza non possa esserci che il "certo", dato dalla filologia. Caratteristica essenziale dell'attuale generazione dei critici italiani è così un rinnovato fervore per gli studî filologici e l'erudizione; ed è ormai raro, tra i migliori, chi non sia in grado di alternare ricerche dell'uno o dell'altro genere; né manca chi - come si deve - sa fonderle nella necessaria unità (A. Monteverdi, M. Praz, P. P. Trompeo, L. Vincenti; S. Battaglia, U. Bosco, M. Fubini, N. Sapegno, ecc.). Comunque, i nuovi eruditi, a differenza dei predecessori, hanno presente il limite del lavoro erudito e si guardano dal considerarlo fine a se stesso; ben sapendo che il "fatto" accertato non basta di per sé a spiegare un poeta e una poesia. Si dà anche il caso di chi, come G. Contini, può muovere dal possesso della più rigorosa preparazione filologica per i suoi studî di letteratura modernissima, basati su un gusto pronto ad accogliere, magari un po' audacemente, anche le più nuove e spericolate esperienze. Del resto, la connessione fra critica e letteratura militante poche volte, o mai, fu più stretta di oggi. Il grande interesse, ad esempio, che la critica odierna mostra, con frutti eccellenti, per la disciplina filologica apparentemente più arida e "scientifica", la critica testuale (G. Billanovich, V. Branca, F. Maggini, V. Pernicone, R. Spongano, ecc.), se da una parte nasce dalla "sazietà di certo futile e verbalistico crocianesimo, dall'altra è visibilmente correlativo all'amore per il concreto e all'attenzione per la parola, che determina taluni aspetti della poesia contemporanea".
Dicevamo che, persino nella critica testuale, l'insegnamento idealistico ha agito in profondità. Pur accettando come base il metodo che potrebbe chiamarsi lachmanniano (v. edizione, XIII, p. 477), non si aspettano più da esso - come qualcuno ha detto - risultati sempre matematicamente sicuri, e si reclama la libertà di modificarlo e integrarlo, secondo le esigenze varie dei varî testi. La scoperta dell'individualità dei problemi testuali è l'importante punto di approdo della scuola italiana di filologia testuale moderna; la quale non si astiene più dall'intervenire, né più ha paura del "soggettivo", giacché esso "non è di necessità l'arbitrario".
D'altra parte tale contiguità, o continuità, di esigenze e di esperienze è attestata anche nel campo della storiografia letteraria: per esempio, da opere che son certo fra le più ambiziose e fortunate di questo periodo, la Storia della letteratura italiana di A. Momigliano, che la tradizione cosiddetta "universitaria" felicemente contempera con un gusto della poesia trepido, umbratile ed elegiaco; e quella di F. Flora, che nell'applicazione del metodo crociano come nella trattazione propriamente erudita, non sacrifica una sensibilità visiva e musicale educata anche sul miglior D'Annunzio. Mentre nell'ambito d'un crocianesimo non rigoroso, e conformandosi con gusto ed equilibrio alle esigenze d'una critica di feuilleton, a carattere cioè superiormente giornalistico, l'attività di letterati come P. Pancrazi, A. Bocelli, ecc. non mancò certamente al proprio effetto.
La corrente gentiliana direttamente non produsse molto, nel campo critico letterario; ma determinò una quantità di disposizioni favorevoli a nuove tendenze, emananti da svariati settori della cultura europea. Con il suo raccostamento d'arte e religione, il Gentile era venuto a spostare l'interesse critico al di là dei valori strettamente estetici, nella sfera vitale dove si formano sentimenti ed emozioni che poi diventeranno arte: nella sfera insomma della pre-arte. Si era così assai lontani dal razionalismo e storicismo del Croce. Difatti, quelle nuove tendenze, principale fra esse l'esistenzialismo, più o meno confusamente si innestarono sul fondo gentiliano. L'inquietudine morale e politica che, nell'imminenza della guerra, in tutto il mondo diventava più acuta, facilitò questi incontri e contaminazioni. In Italia si ebbe il fenomeno dell'"ermetismo" che, nei riguardi della creazione poetica, va genericamente ricollegato ai postumi del simbolismo, e agli influssi dell'immaginismo, del surrealismo, ecc. (v. ermetismo, in questa App.). Nel campo critico l'ermetismo, più che un sistema d'idee, in sostanza fu una disposizione mentale capace a investirsi di differenti contenuti ideologici; sempre con l'intesa che il fatto letterario dovesse essere immerso e risolto nel fatto vitale. In alcuni ermetici (C. Bo), l'elemento risolvente poté essere costituito dai postulati cattolici. In altri, da un senso lirico o drammatico dell'esperienza, libera da ogni principio, e giustificata e valida in se stessa: com'è per esempio in un Gide o in un Du Bos. Spunti freudiani, e come si è detto esistenzialisti, in un impiego spesso malsicuro, si riconoscono ad ogni tratto nei periodici di questi anni: Corrente, Campo di Marte, Prospettive, Letteratura, più tardi aggiungendosi ad essi, o intervenendo a sostituirli (G. Ferrata, G. Debenedetti) le tesi marxiste. Senza la pretesa di stabilire quanto sopravviverà della produzione "ermetica", sembra almeno non doversi escludere ch'essa abbia giovato a introdurre, sia pure in maniera approssimativa, certi argomenti e problemi, e ad incrinare certe superficiali cristallizzazioni dell'accademismo storicista; mentre è facile parodiare lo stile di taluni "ermetici", ma soprattutto quanto più si sia inadatti a coglierne non infrequenti e innegabili finezze psicologiche.
La resistenza all'estetica del Croce non si limitò del resto all'"ermetismo" di discendenza gentiliana, cattolica o esistenzialista. Già il Serra, con infinita prudenza, aveva rievocato l'insegnamento del Carducci: l'impareggiabile carducciana virtù di saper veramente leggere un testo classico. E sulla Ronda era stata promossa una sorta di campagna umanistica; ma invece del Carducci avendo a palladio il Leopardi. La crociana negazione della tecnica e della pluralità delle arti, non poteva d'altra parte non essere avversata da critici come A. Gargiulo e G. De Robertis, tutti fondati sul fatto espressivo. E poiché essi furono anche fedeli ed intelligenti sostenitori della letteratura succeduta al D'Annunzio, al Pascoli, al Panzini, ecc., era naturale si trovassero in implicito contrasto col Croce che, ripetutamente, di cotesta letteratura cosiddetta "giovane" aveva mostrato, quasi senza eccezioni, non fare che scarsissimo giudizio.
E s'è già accennato a riflessi del crocianesimo ed altre dottrine nella storia dell'arte e nella critica figurativa che, in rapporto diretto all'altissima qualità e all'universale importanza del patrimonio artistico italiano, furono e sono coltivate in Italia con speciale assiduità e con bellissimi frutti (v. sotto). Nel campo dell'archeologia classica, che fin qui era rimasto loro quasi completamente precluso, R. Bianchi Bandinelli cominciò ad introdurre la teoria idealistica della storia e dell'arte, ed i metodi critici che ne dipendono. Infine, ultimamente, C. Brandi forniva un acuto e complesso ripensamento delle teorie idealistiche, con particolare riferimento all'arte della pittura. Se i concetti d'intuizione-espressione, di liricità, di linguaggio, ecc., operano nell'Estetica crociana come puri e semplici schemi dialettici, nella trattazione del Brandi la genesi del fatto artistico si chiariva attraverso una straordinaria abbondanza di notazioni psicologiche e tecniche, e corollarî che toccano una quantità di precisi problemi pittorici. Fra altre cose, notevole nell'opera del Brandi la discussione sulla natum intrinseca ed i limiti della più giovane fra le arti, o pseudoarti, visive: il cinematografo; forse la prima volta, non soltanto in Italia, in cui tale argomento veniva portato su altro piano che quello della divagazione letteraria o della meccanica.
Le condizioni determinate dalla guerra e dal dopoguerra rendono malagevole formarsi un'idea particolareggiata delle recenti tendenze critiche, in alcuni paesi: per esempio, l'Austria e la Germania, donde frattanto avevano mosso le teorie di S. Freud, e di M. Heidegger e K. Jaspers, destinate ad esercitare sì vasta influenza letteraria. Né ci sarebbe forse da meravigliarsi, se F. Gundolf e la ragione critica ch'egli rappresentava, avessero ancora preminente rilievo: il famoso libro di E. Bertram su Nietzsche non perde della propria originalità per avere i suoi modelli nello Shakespeare e soprattutto nel Goethe di Gundolf, e sebbene l'attività saggistica di T. Mann, negli ultimi anni, si sia soprattutto impegnata nel campo politico e morale, i due superbi studî su Goethe e su Wagner, apparsi nell'imminenza della rivoluzione nazista, non sono estranei ai predetti influssi. L'ultimo impegno più strettamente critico di S. Zweig sembra essere stato nell'Erusmo, come studio del drammatico disagio d'una natura contemplativa dinanzi alle necessità dell'azione politica. Successivi lavori biografici dello stesso autore forse concedono troppo ad un tono eclettico e romanzesco.
Intorno al 1930, in Francia poteva dirsi scontata la polemica dei patrocinatori d'una restaurazione classica e cattolica (Maurras, Massis, Maritain, ecc.) contro i puri sensibilisti da un lato ed i puri intellettuali dall'altro. Ma si tenga conto delle innumerevoli e complesse circonvoluzioni e ripercussioni di tale polemica, in una cultura come la francese, che le tesi in sostanza più irrazionali riesce, almeno esteriormente, a mettere in forma ed a svolgere in termini di stretto razionalismo. Comunque, verso quell'epoca, l'ascendente teorico di Paul Valéry è in incipiente declino. Lo stesso vale, probabilmente, per ciò che riguarda il misticismo letterario di H. Bremond. E l'elegante relativismo di Alain (v., App. I) sta segnando il passo. In A. Thibaudet, frattanto, s'era prodotta la sottile combinazione d'uno psicologismo e sensibilismo educatosi prima sul Sainte-Beuve, poi (attraverso il Bergson) sull'esperienza simbolista, con una capacità straordinariamente mobile d'interessi culturali. Anche se l'opera più schietta del Thibaudet rimane la prima, il libro sul Mallarmé; i volumi sul Barrès e sul Maurras, la Histoire de la litt. française de 1789 à nos jours, ecc., forniscono un ricchissimo repertorio dei fermenti intellettuali e morali nell'epoca che precedette la prima Guerra mondiale. L'impressionismo originario sopravvive tuttavia anche dove il Thibaudet più s'impegna in argomenti teorici e storici. Con l'andare degli anni, la sua versatilità diventa maniera; continuamente, è vero, rinverdita da una agilissima curiosità ed erudizione. Un critico così descrittivo e dispersivo non poteva crescere una scuola omogenea e vigorosa; né evitare d'essere attratto verso le forme di una pubblicistica sia pure assolutamente superiore. D'altra parte, anche meno per il surrealismo e movimenti affini (Breton, Éluard, ecc.) può parlarsi di vero pensiero critico: ma solo di "poetiche" e "retoriche", dedotte soprattutto dal simbolismo. E una nuova posizione estetica e critica in Francia, forse soltanto ora si sta delineando (con addentellati in Bergson e nel pensiero freudiano e degli esistenzialisti tedeschi), specialmente con l'opera di J.-P. Sartre.
Tributaria in parte della Francia, dell'Inghilterra e della Germania, nell'internazionalismo culturale di J. Ortega y Gasset, e nel classicismo un po' artificioso e snobistico di E. D'Ors, la Spagna non offre rilevanti modelli di teoria e metodo critico; ma piuttosto brillanti esemplari di una letteratura saggistica che sta certo ad un buon livello di gusto.
Quanto all'Inghilterra: al solito senza gran cura dei fondamenti filosofici, la sua critica letteraria continua tradizionalmente a procedere da una chiara erudizione e dalla scuola dei classici (l'Inghilterra è rimasta oggi probabilmente il paese di più forte cultura greco-latina), con molta grazia espositiva e una solida pulizia di lavoro, sul piano di un illuminato eclettismo. Nell'ultimo ventennio, sia in letteratura sia nelle arti figurative, l'influenza francese non vi ha mai perso terreno. Ed è significativo che, sulla cattedra di "professore di poesia" ad Oxford, supremo presidio della critica accademica, ad E. de Selincourt, famoso editore e critico del Wordsworth e del Keats, sia succeduto (1946) C. M. Bowra, esegeta della poesia simbolista francese. Se i cultori ragguardevoli, sia della critica accademica, sia di quella giornalistica, sono in Inghilterra così numerosi da impedire un'elencazione benché sommaria, non può almeno tacersi di Lytton Strachey e di Virginia Woolf, nella cui viva originalità di critici-artisti rifiorisce qualcosa dell'armonioso ed umanissimo intellettualismo settecentesco. Rimane a sé D. H. Lawrence che, non fosse stata la sua maggiore vocazione, avrebbe potuto riuscire critico di prim'ordine. Come un posto a sé occupa T. S. Eliot, che potrebbe anche risultare, almeno in un certo senso, il più profondo critico di poesia dell'Inghilterra d'oggi. Non ci riguardano qui i suoi presupposti teologici e religiosi, certamente autentici ed autorevoli. E teniamo presente il fatto che la sua critica nasce quasi sempre in funzione più o meno diretta d'una ricerca o d'un'esperienza morale o tecnica, nel campo della creazione artistica dell'autore. In ogni modo, si tratta d'una critica d'assai alta qualità; con discontinue ma frequenti illuminazioni, talvolta addirittura decisive; non sorda alla lezione, ma purgata del nichilismo del Valéry.
S'è considerato Eliot come autore inglese. Al suo paese d'origine, gli S. U., la critica ha comparativamente avuto nel ventennio forse maggiore incremento che in ogni altra nazione. Un tempo potevano citarsi: lo Spingarn, quale esponente della critica accademica americana; H. L. Mencken, come lancia spezzata dell'opinione progressiva; il Brooks per le sue campagne contro l'incultura e l'utilitarismo poteva citarsi l'ingente e durevole apporto del Berenson nella critica figurativa; e più o meno s'era detto tutto. Non è qui il luogo d'investigare le probabili ragioni d'un mutamento già ad esempio annunciato in L. Lewisohn; che nell'applicazione, pur rudimentale, di alcuni schemi freudiani, temprò un acume interpretativo ch'ebbe i suoi effetti. La critica di questi ultimi anni, niente affatto sistematica, e quasi sempre espressa in forma faticosa ed impervia, impresta motivi e reagenti al freudismo, come s'è detto, al marxismo, allo stesso crocianesimo; e convoglia il proprio materiale come una lenta e disordinata fiumana. Così in F. O. Matthiessen, con i suoi massicci studî di American Renaissance (su Emerson, Hathworne, Thoreau, Melville, Withman), e i volumi su H. James e T. S. Eliot. Così in A. Kazin, con le sue "interpretazioni della moderna prosa americana". Ma altre testimonianze sovrabbondano: basta sfogliare le ottime riviste universitarie. In E. Wilson, forse un più stretto contatto con la cultura europea ha servito fra l'altro a maturare una migliore disciplina formale. E in suoi studî come quelli su Dickens e Kipling (The wound and the bow), o nella trattazione del Matthiessen sul Melville, sono da riconoscere alcuni fra i caratteristici prodotti della nuova critica d'America, che dalla letteratura della così detta "generazione perduta" (Faulkner, Hemingway, ecc.) trasse senza dubbio impulso e coraggio psicologico, ma già procede più largamente a prender coscienza della tradizione nazionale; e nei suoi spiriti, se non sempre nelle forme, ha ormai da apprendere qualcosa anche alla cultura del Vecchio Mondo.
Bibl.: G. Gentile, La filosofia dell'arte, Milano 1931; B. Croce, La poesia, Bari 1936; L. Russo, La critica letteraria contemp., 3 voll., ivi 1942-43; La vita come arte, Firenze 1942; G. Contini, Introd. à l'étude de la litt. ital. contemp., in Lettres, n. 4, Ginevra, ottobre 1944; V. Rossi, Storia della lett. ital., 15ª ed. aggiornata, III, Milano 1946; R. Bianchi-Bandinelli, Storicità dell'arte classica, Firenze 1943; U. Bosco, Gli studi di lett. ital. negli ultimi anni, in Svizzera italiana, maggio-giugno 1948, pp. 195-201 (cfr. anche la miscellanea dedicata a V. Rossi, Un cinquantennio di studi sulla lett. ital., 2 voll., Firenze 307); J.-P. Sartre, L'imaginaire. Psychologie phénoménologique de l'imagination, Parigi 1940; M. Raymond, De Baudelaire au surréalisme, 2ª ed., Parigi 1947; trad. ital., Torino 1948.
La critica d'arte (XI, p. 981).
La storia dell'arte ha avuto uno sviluppo assai grande in Italia durante gli ultimi cinquanta anni. A. Venturi (v.) e la sua scuola, e anche gruppi indipendenti come quelli di Firenze e Milano, hanno illustrato pitture, sculture e architetture italiane con metodo filologico rigoroso e con bene addestrato occhio di conoscitore.
Vanno anzitutto ricordati P. Toesca, per la sua fondamentale storia dell'arte nel Medioevo; G. Poggi, per gl'importanti contributi alla storia dell'arte fiorentina; M. Salmi, per la storia dell'architettura e della scultura romaniche in Toscana; G. Fiocco, che ha portato nuova luce sull'arte del Veneto, poi: G. De Nicola, P. d'Ancona, G. Fogolari, Géza de Francovich, G. L. Coletti, G. Lorenzetti, U. Gnoli, E. Lavagnino, A. Bertini-Calosso, V. Mariani, G. Delogu, V. Moschini, W. Arslan, A. Morassi, ecc.
L'erudizione artistica si era ampliata e la pratica del conoscitore precisata, quando B. Croce pose lo storico dell'arte di fronte all'esigenza di un approfondimento del concetto di arte e quindi della coscienza critica. Non era più sufficiente avere fini intuizioni, occorreva giustificare le intuizioni con un sistema d'idee e soprattutto assegnare alla storia dell'arte il compito di chiarire e giudicare la qualità dell'arte. Molti miti tradizionali scomparvero sotto i colpi della critica crociana: l'imitazione della natura, l'evoluzione degli stili e dei generi, il concetto di bellezza, la storia artistica come storia naturale, la storia della visione, la storia della tecnica, l'iconografia, i valori sensuali e razionali in arte, i cosiddetti valori trascendenti la personalità dell'artista, la distinzione fra storia e critica d'arte: questi e molti altri miti sfumarono per lasciare in evidenza il problema dell'arte come espressione di sentimento. E per facilitare il passaggio dalla storia di tipo erudito o di conoscitore alla storia critica dell'arte, il Croce pubblicò varî saggi poi raccolti in volume (1934).
L'entusiasmo suscitato dall'Estetica del Croce fu tale che indusse parecchi, anche scrittori d'arte, a ripeterne i principî, e d'altra parte a ripetere i dati di fatto tali e quali erano forniti dalla storia tradizionale. Ma la storia critica dell'arte non poteva nascere da due ripetizioni. E però apparve agli spiriti più riflessivi la necessità di rinnovare la materia stessa della storia dell'arte, perché il pensiero critico ne sorgesse spontaneo o vi si imprimesse naturalmente.
I documenti pubblicati anteriormente erano soprattutto rivolti a precisare i dati della vita degli artisti, oppure le attribuzioni e la cronologia delle opere d'arte; ora occorreva documentare il giudizio sulle opere d'arte e sugli artisti. A questo bisogno rispose la storia della critica d'arte, iniziata da L. Venturi (v., in questa App.), su L'Arte (1917), e presto coltivata da molti con eccellenti risultati (M. Pittaluga, G. Vesco, L. Lopresti, E. Tea, S. Ortolani, G. C. Argan, C. L. Ragghianti. C. Brandi, M. L. Gengaro, G. Nicco Fasola, A. Bertini, C. Gnudi, R. Pallucchini, G. Sinibaldi, C. Baroni, ecc.). Essa è riuscita a precisare ciò che l'artista ha voluto fare, a fine d'intendere ciò che egli ha effettivamente realizzato. Inoltre, nel conoscere i modi seguiti dai critici antichi e recenti per giudicare le opere d'arte, ci si avvide dei loro errori e delle loro felici trovate e delle soluzioni provvisorie a problemi che sempre risorgono.
Per rinnovare la materia della storia dell'arte ha giovato inoltre la teoria della pura visibilità. Come teoria estetica la pura visibilità è stata rifiutata giustamente dal Croce, ma come ermeneutica della critica figurativa essa è stata preziosa. Certo, interpretazione e giudizio non possono scindersi, anzi devono confluire in un unico risultato. Ma il Croce stesso, in un saggio famoso, ha dimostrato che l'identità di storia e di critica d'arte è fondata sopra un'antinomia per cui non si comprende il tutto, cioè l'arte, senza conoscerne le parti, né le parti senza conoscerne il tutto. Ora tra quelle parti vi sono gli schemi della visione di cui la pura visibilità ha tentato di fare le storia. A proposito degli schemi del Woelfflin, L. Venturi ha chiarito che in genere gli schemi della pura visibilità sono propizî alla critica quando sono stati tenuti presenti dall'artista, e il critico li ritrova. Di recente C. Antoni ha obiettato che, se gli schemi furono presenti all'artista, questi non li ha superati e non ha fatto opera d'arte. Senonché sembra evidente che non vi è alcuna autentica opera d'arte il cui autore non abbia tenuto presente qualche schema; e se è vero ch'egli ha dovuto superarli per fare arte, è anche vero che il critico deve ritrovarli come schemi, se vuol comprendere come l'artista li abbia superati. Il problema si riduce quindi alla crociana necessità di conoscere le parti di un'opera per intendere il tutto, cioè l'arte dell'opera.
In questo senso, ed entro questi limiti, l'uso degli schemi della pura visibilità ha opportunamente liberato l'ermeneutica dell'opera d'arte dai continui riferimenti all'imitazione della natura. E se talvolta è avvenuto che, per amore all'uno o all'altro schema, la personalità di un'artista sia stata deformata, ciò fu dovuto a un eccesso di astrattismo che fu man mano corretto. Del resto, l'unico studioso che sia rimasto rigorosamente fedele alla pura visibilità è oggi M. Marangoni. In R. Longhi, invece, che ad adoperare gli schemi della pura visibilità era stato tratto, inizialmente, dalla familiarità con le astrazioni del futurismo, la perizia del conoscitore e la padronanza degli schemi figurativi, accompagnandosi alla felicità dello scrittore, giungono ormai di frequente (come in Cinque secoli di pittura veneziana, 1946) alla determinazione della qualità artistica.
Estetica crociana, storia della critica e pura visibilità si sono combinate per dare un tono molto alto alla produzione storiografica dell'arte negli ultimi anni. Tuttavia, vi sono due esigenze della critica d'arte poco o punto sentite in Italia: la coscienza dell'arte contemporanea e l'inquadramento dell'arte italiana in quella europea.
Si è assai pubblicato sull'arte contemporanea, ma con trattazioni giornalistiche anziché critiche. E persino i migliori tra gli storici dell'arte si sono trovati disorientati di fronte al gusto attuale, cadendo in giudizî fallaci. Ora è evidente che se l'occhio del conoscitore deve orientarsi nel classificare un oggetto che la tradizione storica ha trascurato, l'occhio del critico deve orientarsi nel giudicare un'artista cui manchi ancora l'apprezzamento della tradizione. Tuttavia un buon risultato è stato raggiunto negli anni posteriori alla prima Guerra mondiale quando furono rimessi in onore i macchiaioli toscani per opera principalmente di M. Tinti, di E. Somaré e di E. Cecchi. Precedentemente (1909) A. Soffici aveva compreso e illustrato l'arte di Medardo Rosso. Per quel che riguarda, invece, l'arte moderna straniera, la produzione critica non è brillante. Forse l'unico quadro d'insieme dell'arte europea nell'Ottocento e Novecento bene orientato criticamente, è: A. M. Brizio, Ottocento e Novecento (1939).
Fuori d'Italia è mancato quell'indirizzo unitario di pensiero che il Croce ha dato alla critica italiana. I migliori risultati tedeschi sono stati di un rinnovato tipo di storia dell'arte come storia della civiltà per opera del geniale Dvořák, di Weisbach, di Rosenthal, e degli studiosi connessi con il Warburg Institute, ora a Londra, come Saxl, Wittkover, Panofsky, Wilde. Si distingue tra essi Tolnay, che con le sue monografie sul Bosch, su Peter Brueghel e su Michelangelo ha concentrato l'attenzione sull'interpretazione della qualità dell'arte.
Un'altra corrente che ha avuto molta fortuna fa capo al Woelfflin e alla sua interpretazione della pura visibilità. Essa ha avuto fortuna anche in Francia con gli studî di Focillon sulla scultura e pittura romaniche e di Baltrusaitis. Il Focillon ha anche tentato una sistemazione del suo pensiero nella Vie des Formes.
Un ampio e fondamentale lavoro di storia della "letteratura artistica" è quello di J. von Schlosser. Anche un inglese, Anthony Blunt, ha pubblicato un saggio sulla teoria artistica nel Rinascimento. Il metodo del conoscitore prevale tuttavia in Germania per opera di M. Friedländer sui pittori dei Paesi Bassi, di W. Friedländer sui disegni di Poussin, di Valentiner su Rembrandt e altri pittori olandesi e sulla scultura italiana, di Burchard su Rubens, ecc. Anche nei paesi anglosassoni il metodo del conoscitore è rigorosamente applicato: per esempio da Offner sui pittori fiorentini del Trecento, da Pope-Hennessy sui pittori senesi, da A. Blunt sull'opera del Poussin. Un posto a parte ha B. Berenson che, oltre ad avere riccamente contribuito come conoscitore alla storia dell'arte italiana, ha voluto precisare le sue teorie e raccontare le sue esperienze.
Negli studî sull'arte del passato compiuti all'estero negli ultimi trenta anni il rigore nella notazione dei fatti è spesso assoluto, e degno di ammirazione, ma la coscienza critica è spesso inferiore alla media della produzione italiana. Invece negli studî sull'arte moderna e contemporanea, l'orientamento critico è assai superiore a quello italiano, non certo per vigore teorico, ma per ricchezza di esperienze. Infatti quel che è avvenuto nel mondo artistico negli ultimi 150 anni si può conoscere nei musei e nelle esposizioni di Parigi, di Londra, di New York e di Chicago, non in Italia.
È naturale che in queste condizioni la critica migliore non sia quella di storici dell'arte, ma di poeti e di artisti a contatto diretto con l'arte nel suo farsi, e che interpretano l'arte propria e quella dei proprî vicini. Noi si sa da tempo che il critico è il philosophus additus artifici e non l'artifex additus artifici, e però ci è facile elevare obiezioni teoriche. Eppure dalla adesione spontanea di artisti e di poeti alle nuove creazioni e dalle sporadiche intuizioni geniali è nato un complesso critico che ha la sua importanza nel riconoscere valori indiscutibili di opere e nel dirigere il gusto moderno. Non si può ancora parlare di un nuovo metodo, ma piuttosto di una maniera critica che amplia l'orizzonte dei metodi precedentemente stabiliti. G. Apollinaire, A. Gleizes, A. Lhote, J. W. Power, D. H. Kahnweiler hanno commentato cubisti e cubismo in modo non solo da giustificarne l'esistenza nel mondo dell'arte, ma anche da rilevarne le corrispondenze con aspetti dell'arte passata non prima notati. G. Lemaître ha tracciato un parallelo tra letteratura e arti figurative dal cubismo al surrealismo (1941), riuscendo a fissare di là dagli aspetti visivi gli atteggiamenti spirituali dell'arte moderna. E A. Breton ha composto un quadro efficace della pittura surrealistica e delle sue origini.
In Inghilterra, Roger Fry ha profittato dall'esperienza di Cézanne e delle tendenze astratte più recenti non solo per interpretarle e giustificarle, ma anche per guardare con occhi rinnovati all'arte del passato. H. Read ha dato un quadro assai compiuto dell'arte attuale. E lo scultore H. Moore ha teorizzato la propria scultura con molta perspicacia.
Negli Stati Uniti A. Barr ha illustrato Picasso e James T. Soby, i successori di Picasso e Giorgio De Chirico.
Anche il rinnovamento avvenuto nell'architettura ha trovato i suoi interpreti e difensori per opera di Le Corbusier, di W. Gropius, di F. L. Wright, e di molti altri.
Bibl.: B. Croce, La critica e la storia delle arti figurative, Bari 1934; C. Antoni, Dallo storicismo alla sociologia, Firenze 1940; R. Longhi, Officina Ferrarese, Roma 1934; id., Cinque secoli di pittura veneziana, Firenze 1946; M. Marangoni, Saper vedere, Milano-Roma, 1946; S. Bottari, La critica figurativa e l'estetica moderna, Bari 1935; C. Brandi, Carmine o della pittura, Firenze 1948; G. Nicco Fasola, Nicola Pisano, Roma 1941; id., Della critica, Firenze 1947; L. Venturi, Storia della critica d'arte, Roma-Firenze-Milano, 1948; id., Cézanne, Parigi 1936; id., Rouault, New York 1940; id., Chagall, ivi 1945; id., Pittori moderni, Firenze 1946; id., La Pittura, 1948; id., Pittura contemporanea, Milano 1948; G. C. Argan, Henry Moore, 1945; A. Blunt, Artistic Theory in Italy, 1939; E. Panofsky, Studies in Iconology, New York 1939; G. Apollinaire, Les peintres cubistes, Parigi 1912; A. Gleizes, Traditions et cubisme, ivi 1927; A. Lhote, La Peinture, le coeur et l'esprit, ivi 1933; J. W. Power, Éléments de la construction picturale, ivi 1932; D. H. Kahnweiler, Juan Gris, ivi 1946; G. Lemaître, From Cubism to Surrealism in French Literature, New York 1941; A. Breton, Le surréalisme et la peinture, ivi 1941; Roger Fry, Transformations, Londra 1926; id., Cézanne, ivi 1927; H. Read, Art Now, ivi 1933; Le Corbusier, Vers une architecture, Parigi 1923; W. Gropius, The new Achitecture and the Bauhaus, Londra 1935; F. L. Wright, On Architecture, New York 1941.