Critici e storici della poesia e delle arti nel secondo Settecento. Dal Muratori al Cesarotti. Tomo IV - Introduzione
Il panorama che risulta dagli scrittori compresi in questo volume appare alquanto vario, almeno rispetto a quello che, nell'ambito del Settecento, può offrire la critica dell'Arcadia o del pieno Illuminismo; né per parte nostra si è cercato di schematizzare tale varietà, anzi, proprio per evitare questa tentazione, è sembrato opportuno dedicare ai singoli autori profili separati, nei quali trovassero posto più agevolmente quei riferimenti alle personali esperienze letterarie, filosofiche, politiche e pratiche, che giovassero a caratterizzare nella sua individualità ciascuno di essi. Riconoscere e rispettare questa diversità di posizioni non significa però escludere l’esistenza di rapporti e di convergenze di interessi, di problemi e di risultati, che valgano a stabilire dei legami interni fra questi scrittori e insieme a distinguerli nel più ampio quadro della critica settecentesca, e che giustifichino il loro raggruppamento in uno stesso volume. A tali rapporti e convergenze si è avuto cura, naturalmente, di accennare di volta in volta nei singoli profili: ma non sarà inutile insistervi più esplicitamente e di proposito in queste pagine introduttive.
Il primo e più generale aspetto che accomuna gli autori qui raccolti, è che per essi la cultura del pieno Illuminismo, quella cioè rappresentata nei decenni centrali del secolo dall'Algarotti, dal Gozzi, dal Bettinelli, dal Baretti, dai Verri, dal Beccaria, dal Parini (per ricordare i nomi più significativi nell'ambito della critica e della storiografia letteraria e artistica), costituisce un precedente, un punto di partenza piuttosto che un punto d'arrivo. Questo comune carattere non è da intendere - e ciò vale anche per coloro, come il Torti e il Salfi, la cui attività si esercita soprattutto nei primi decenni dell'Ottocento - nel senso che essi si pongano in esplicito e consapevole contrasto con i loro predecessori, che insomma giungano a concezioni estetiche e ad orientamenti di gusto integralmente nuovi. In tutti rimangono più o meno forti ma sempre presenti alcune convinzioni tipiche della critica arcadica e illuministica, che cioè l'opera dell'artista e il giudizio del critico debbano essere guidati da principii che, siano essi dedotti a priori o progressivamente formati attraverso l'esperienza, è compito della «filosofia» ritrovare e indicare; che le bellezze «universali» abbiano la supremazia sulle bellezze «particolari» o «nazionali», alle quali si riconosce al massimo la funzione di servire, se impiegate giudiziosamente, come accessori o contorni delle prime; che il freno della convenienza, del decoro, della misura e in genere della «ragione» non possa che giovare al poeta. Né per contro si può dire che essi, anche quelli che pur ne conoscono e ne ammirano l'opera, come il Cesarotti, il Napoli Signorelli, il Salfi, intendano in modo davvero approfondito il pensiero del Vico sulla natura appassionata e fantastica della poesia; che accolgano il concetto, bandito proprio in quegli anni dall'Alfieri, della poesia come espressione totale di un individualissimo «forte sentire» (proprio all'Alfieri il Salfi, che pure tra questi scrittori è quello che meglio ne comprende la grandezza, rimprovera « d'avoir mèle un peu trop de sa trempe dans la refonte de ces ètres qu'il a voulu nous représenter »); che giungano ad una rivalutazione integrale dei veri «geni» della poesia, di Dante, di Omero, dello Shakespeare, o guardino con piena simpatia la nuova arte che comincia a fiorire intorno a loro in Italia e in Europa. La loro qualità di «successori» dei critici del pieno Settecento è invece da intendere in un senso più modesto, nel senso cioè che essi ne riprendono ed elaborano alcuni motivi caratteristici, ora limitandosi ad applicarli in nuovi campi non ancora sistematicamente indagati e magari solo a riecheggiarli e a cristallizzarli, ora e più spesso svolgendone, attraverso nuove esperienze, gli elementi meno razionalistici.
Questa elaborazione si polarizza intorno ad alcuni problemi critici, e prima di tutto intorno alle discussioni sulle opere straniere, dai canti ossianici alle poesie e prose dello Young, del Gray e degli altri scrittori preromantici inglesi e tedeschi, che vengono conosciute e tradotte in Italia all'incirca tra il 1760 e il 1780. Seguendo queste discussioni ci si accorge subito che è in giuoco non tanto la questione del valore dell'una o dell'altra opera straniera, quanto il problema ben più importante e generale dell'allargamento della sensibilità critica e quindi dell'estetica a nuovi contenuti e moduli poetici, nuovi e sconcertanti, nella loro sia pur limitata (come oggi sembra) tendenza al primitivo, al patetico, al fantasioso, all'irregolare, all'indefinito, rispetto al medio gusto contemporaneo italiano, solidamente ancorato ai criteri della chiarezza, della verosimiglianza, della precisione. A questo allargamento della sensibilità critica e dell'estetica illuministica contribuiscono soprattutto il Cesarotti e il Bertola, traduttori ed illustratori entusiasti di quelle opere straniere; ma né essi né gli altri che operano nella stessa direzione sono o vogliono essere dei rivoluzionari: e non solo in quanto nelle loro traduzioni e interpretazioni tendono costantemente ad una riduzione della poesia straniera in forme più ragionevoli e più concrete, ma anche perché, quando tentano di giustificarne gli aspetti meno accettabili dai loro contemporanei, non si valgono di nuovi canoni, bensì preferiscono insistere su motivi già affacciatisi nella critica e nell'estetica arcadica e illuministica, come l'idea dell'infinità del Bello, rintracciabile dal critico avveduto in ogni tempo e sotto ogni cielo, il riconoscimento della poesia di «natura», il culto della «sensibilità», il criterio dell'«interesse». Tutti questi motivi si trovano compresenti nelle opere del Cesarotti: ed è proprio questa compresenza che fa di lui il critico più aperto e geniale del secondo Settecento italiano, anche se la sua azione piuttosto che attraverso sistematici lavori di critica e di estetica (a cui la sua mente, in parte per difetto di capacità speculativa e in parte per la sua stessa vivacità e mobilità, era scarsamente portata) si esercita sul piano più generale e più elastico del rinnovamento del gusto, risolvendosi in suggerimenti, in osservazioni, in rapidi giudizi affidati magari alla breve e non impegnativa misura della lettera. Dal Cesarotti procedono il Bertola e il Torti, i quali, dotati di una preparazione culturale meno solida e di una intelligenza meno acuta ed aperta, ma in grado di valersi di altre esperienze speculative e artistiche, hanno il merito di imprimere a qualcuno dei motivi compresenti nel Cesarotti un più forte rilievo e di sfruttarne al massimo le possibilità sul piano critico. Il primo, aiutato cosi dalla sua personale attività di imitatore dello Young, di traduttore dei lirici tedeschi e in genere di letterato, come dalla meditazione di alcuni concetti dell'estetica sulzeriana, approfondisce soprattutto il motivo della «sensibilità», e per tale via riesce non solo a descrivere criticamente la poesia dei suoi tedeschi, ma anche a tracciare un ritratto assai aderente del Metastasio e ad offrire acute indicazioni su certi aspetti raffinatamente «naturali» dell'arte di alcuni scrittori classici come Teocrito, Esopo, Virgilio, nonché di poeti, pittori e musicisti moderni, dal Sacchetti al Goldoni, dal Correggio al Pergolesi. Il secondo, discepolo ideale del Cesarotti, ammiratore di Ossian e di Gessner, ma anche, sia pure attraverso la suggestione del giovane Monti, della Bibbia e della Divina Commedia, giunge, attraverso un impiego integrale del canone dell'«interesse», ad una revisione, o, come egli dice, ad un «prospetto» della nostra letteratura, in cui figurano interpretazioni e valutazioni di Dante, del Petrarca, dell'Ariosto e della poesia del Seicento e del Settecento, già singolarmente vicine nei risultati, se non nello spirito che le muove, a quelle romantiche.
Se si passa dalle ariose e sensibili pagine del Cesarotti, del Bertola, del Torti a quelle dei loro avversari, del Galeani Napione, del Borsa, del Vannetti (per non parlare di altri non compresi in questo volume, come il De Velo e il Rubbi), non ci si può sottrarre ad una impressione di ristrettezza ed aridità, di retrivo e ottuso conservatorismo; la stessa impressione che si prova leggendo gli scritti più tardi del Bettinelli, dai quali soprattutto gli scrittori ricordati prendono l'avvio per la loro polemica contro la validità poetica non solo dei testi preromantici inglesi e tedeschi ma di ogni opera straniera contemporanea e particolarmente contro ogni tentativo di accoglierne i temi e le forme nella nostra letteratura. Anch'essi tuttavia, a ben guardare, non sono del tutto estranei alle nuove tendenze. La loro polemica, se per gran parte riecheggia i vecchi pregiudizi retorici e accademici già combattuti dai migliori illuministi, contiene pure in sé, certo debole e confusa, ma non per questo trascurabile, la tendenza ad un contatto meno spregiudicatamente critico, più attento e amoroso con la componente classica e umanistica della nostra cultura letteraria, una tendenza che collabora anch'essa, seppure in modo meno vivo e fecondo, allo spostamento del pensiero estetico e del gusto illuministico verso posizioni meno razionalistiche, più rispettose dei diritti del sentimento, della fantasia, della tradizione. In tal senso appunto possono assumere un significato positivo sia il misogallismo e le apologie nazionalistiche del Napione, sia l'insistenza sui danni prodotti dall'imitazione degli stranieri sulla coscienza letteraria italiana e la ragionata difesa della «fantasia» contro l'intrusione dello spirito filosofico da parte del Borsa, sia le polemiche del Vannetti per l'impiego moderno del latino e il suo culto di Orazio, come modello di una poesia più attenta alla «parola» e allo stile.
Questa convergenza fra preromantici e classicisti trova conferma nell'ambito particolare delle discussioni, che si fanno più vivaci e frequenti negli ultimi decenni del secolo, intorno alla questione della lingua. Anche in tale campo la posizione più aperta e feconda è quella del Cesarotti, accolta in sostanza dal Bertola e dal Torti (che tuttavia per questo aspetto è piuttosto un ritardatario) e da altri scrittori, non rappresentati in questo volume, come l'Arteaga, il Colle e in parte il Pindemonte. Pur assumendo anche in tale problema la veste non del rivoluzionario ma del «giudizioso» rinnovatore, e riallacciandosi da un lato al Vico e agli arcadi e dall'altro al sensismo, il letterato padovano offre la risposta più avanzata e matura che il Settecento italiano potesse dare alla richiesta di una lingua più aderente alla vita del sentimento e della fantasia, e capace al tempo stesso di servire come efficace strumento di unità nazionale. Ma a queste esigenze cercano di rispondere, da un punto di vista certamente più ristretto e insistendo su alcuni aspetti particolari del problema, e il Napione, quando, forte della sua esperienza di piemontese, batte vivamente sul rapporto fra la lingua di un popolo e la sua indipendenza ed unità politica; e il Borsa, allorché nel «neologismo straniero» vede il rischio di uno snaturamento della nostra tradizione culturale e nel «gergo filosofico» un'insidia contro l'autonomia del linguaggio poetico; e il Vannetti, il cui intransigente purismo vuol essere anche un richiamo a non dimenticare i tesori espressivi offerti dalla lingua latina e da quella trecentesca e cinquecentesca. E se tutti e tre si accordano fra loro nel combattere il presunto «lassismo» linguistico del Cesarotti, non è senza significato che consentano col loro avversario in più di un punto importante: il Napione e il Borsa nel respingere le pretese municipalistiche dei cruscanti, e, almeno il primo, anche nell'ammettere la necessità di uno snellimento della paludata lingua letteraria italiana; il Vannetti nell'accogliere la distinzione fra genio rettorico e genio grammaticale e nell'indicare la dote fondamentale di una lingua nella sua capacità di offrire ad ogni scrittore la possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero e il proprio sentimento.
Un altro interessante, anche se forse meno osservato, punto di convergenza fra i critici del secondo Settecento è l'accentuarsi dell'interesse storiografico. Basterebbe ricordare che proprio nel loro gruppo nascono la Storia della letteratura italiana del Tiraboschi, la Storia critica de' teatri antichi e moderni e le Vicende della coltura nelle due Sicilie del Napoli Signorelli, la continuazione della Histoire littéraire d'Italie e il Résumé de l'histoire de la littérature italienne del Salfi. Ma non va dimenticato che rapidi e succosi disegni storici si incontrano nelle opere del Cesarotti, come lo schizzo di storia dell'arte poetica nel giovanile Ragionamento su questo tema, la delineazione dello svolgimento nei secoli della questione della lingua nel Saggio sulla filosofia delle lingue, la narrazione delle vicende del «gusto» letterario italiano nel Saggio sulla filosofia del gusto; che il Napione, autore di un Saggio sopra l'arte istorica e di un Discorso intorno alla storia del Piemonte, conduce (come i suoi amici della Sampaolina e della Filopatria) indagini particolari sulla storia letteraria, civile e militare della sua regione; che il Vannetti imposta storicamente le sue Osservazioni sopra il sermone oraziano imitato dagli italiani, che il Bertola, per non parlare del suo trattato Della filosofia della storia, traccia nella Idea della bella letteratura alemanna lo svolgimento della letteratura tedesca e nel Saggio sopra la favola descrive l'evoluzione di quel genere letterario; che una storia della poesia italiana, per quanto non si configuri esplicitamente come tale, viene ad essere il Prospetto del Torti. Neppure questo comune interesse per la storiografia deve essere sopravalutato, poiché tutte le opere ricordate rimangono ancora lontane dal tipo romantico di storia letteraria, modellate come sono sullo schema tipicamente settecentesco della narrazione dei progressi, o dei regressi, della ragione e del buon gusto, e costantemente rispettose delle partizioni classicistiche dei generi letterari. Anzi il merito maggiore di taluna di queste opere, di quelle ad esempio del Napoli Signorelli, va indicato nell'aver applicato i metodi illuministici in zone culturali non ancora sistematicamente esplorate con tali metodi; né manca qualche autore, come il Tiraboschi, in cui i più vitali concetti storiografici dell'Illuminismo, il senso in particolare dei rapporti fra la letteratura e la civiltà tutta, appaiono solo pallidamente e di riflesso.
Se tuttavia si considera nel complesso tutta questa attività storiografica, bisogna riconoscere che attraverso di essa si vengono variamente arricchendo quella sensibilità ai valori del sentimento, della fantasia e della tradizione, quell'attenzione più amorosa per la poesia classica, quel senso dell'unità e della vitalità della storia letteraria e culturale italiana, quei motivi insomma che si sono veduti accentuarsi nelle discussioni critiche e linguistiche. Nello stesso Tiraboschi, che poi è il massimo rappresentante di tutta una serie di ricercatori e raccoglitori di documenti e di notizie, lo scrupolo erudito, oltre che cercare una giustificazione nel compito di illustrare le glorie letterarie e culturali italiane, si fa a volte consapevole volontà di accertare quelle «verità di fatto», quei particolari concreti (e saranno magari sempre esterni) che sfuggono ai costruttori di «filosofici quadri»; né è da trascurare che la ricerca di questi particolari egli conduce di preferenza nelle zone più oscure della cultura e della storia civile e religiosa del Medioevo. Al Medioevo, e naturalmente al Medioevo piemontese, volge la sua attenzione anche il Napione, a cui non sfugge il sapore caratteristico di certe manifestazioni culturali e civili di quell'antica età; mentre il Napoli Signorelli nelle Vicende della coltura nelle due Sicilie ribatte i giudizi bettinelliani intorno alla barbarie dell'Italia e specialmente dell'Italia meridionale prima del Mille. Ed è ancora il Napoli Signorelli, scolaro del Genovesi ma anche studioso del Vico e amico del Tiraboschi, che nel tracciare la storia dei teatri non solo si sofferma con curiosità sulle forme primitive di rappresentazione scenica, ma sa altresì accostarsi ai grandi scrittori classici e in particolare greci con una viva simpatia per la grandiosa e patetica «semplicità» della loro poesia. Il senso della tradizione italiana antica e recente si fa luce spesso, in modo meno geloso e polemico ma anche più aperto e dinamico, nelle opere e nelle pagine storiografiche del Cesarotti, del Bertola e del Torti. Nel Prospetto di questo, poi, appare, seppure non costante e non pienamente consapevole, una attenzione assai viva alla genesi storico-biografica delle opere poetiche, di quelle, ad esempio, di Dante, del Metastasio, del Goldoni. Ma la storiografia letteraria settecentesca trova la sua espressione più alta nelle opere del Salfi. Uomo di formazione tipicamente illuministica, seppure non ignaro del Vico, illuminista fino all'ultimo anche nel gusto, per certi aspetti più arretrato di quello di un Cesarotti e di un Torti, egli può valersi però di un privilegio che manca a tutti gli altri critici di questo volume, della sua esperienza di patriota «giacobino» e unitario; un'esperienza che nelle opere composte durante l'esilio parigino, al fecondo contatto con gli ideologi, gli consente di rivivere con una più vitale intensità il concetto illuministico del rapporto tra letteratura e vita civile e quindi di accogliere, spogliandolo di ogni residuo accademico e conservatore e riempiendolo invece di un'ansia risorgimentale, l'orientamento nazionalistico degli storiografi precedenti.
Nella critica e nella storiografia delle arti figurative i fermenti nuovi sono forse meno vivi e frequenti. Veri e propri spunti di carattere preromantico sono assai rari e si riducono in sostanza a qualche pagina del Milizia sull'architettura gotica. La suggestione del neoclassicismo winckelmanniano opera senza dubbio in questa zona più estesamente che nella critica letteraria (dove qualche traccia, comunque sporadica e indiretta, se ne può ritrovare solo nel Bertola, e forse nel Napoli Signorelli, nel Napione e nel Borsa), ma incontra sempre pure qui la forte resistenza di una mentalità e di un gusto ancora saldamente legati al razionalismo e al sensismo, e più generalmente al classicismo illuministico. Questa resistenza si nota nel Milizia, che, per quanto dichiarato seguace del Mengs e del Sulzer e attento lettore del Winckelmann, si rivela soprattutto, sia nella teoria che nei giudizi, un efficace divulgatore dei criteri e del gusto illuministico nel campo della critica figurativa; e anche nell'operetta estetica dello Spalletti, la quale, ridotta alle sue giuste proporzioni e riportata all'ambiente in cui fu composta, appare un compromesso, speculativamente non privo di originalità, fra il classicismo empiristico e la lezione winckelmanniana. Questa lezione opera forse in modo più efficace nella Storia pittorica della Italia del Lanzi: ma non tanto nel senso che egli assimili più profondamente degli altri la nuova sensibilità promossa dal grande critico tedesco, quanto perché la Storia dell'arte presso gli antichi fornisce allo studioso italiano l'impulso probabilmente decisivo ad impegnare la sua preparazione di erudito e la sua sagace esattezza di filologo nel più obiettivo e sistematico tentativo di caratterizzazione «stilistica» che il Settecento ci abbia lasciato.