Croce e Adolfo Omodeo: l’altro autore della «Critica»
Dal 1928, quando apparve una sua recensione («La Critica», 26, pp. 355-60) al libro di Luigi Russo, uscito lo stesso anno, su Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1860-1885), fino al 1946, con l’articolo su Metodo dialettico e metodo naturalistico nella storia («Quaderni della “Critica”», 1946, 2, 4, pp. 11-17), Adolfo Omodeo rappresentò – con la compagnia di pochi altri – il collaboratore più stretto di Croce e, come questi scrisse pochi mesi dopo la morte di Omodeo, «quasi l’uno dei due suoi autori» (Adolfo Omodeo, «Quaderni della “Critica”», 1946, 2, 5, p. 1, poi in Nuove pagine sparse, 1° vol., 1948, 19662, p. 54), nel diuturno lavoro per la piccola rivista bimestrale dalla copertina arancione: la quale, come si sa, il 20 di tutti i mesi dispari uscì regolarmente, nonostante le minacce e le intimidazioni, e contribuì non poco a orientare gli animi nel triste ventennio della dittatura fascista. Come Croce scrisse nel necrologio per Omodeo, ricordando il lungo sodalizio, si trattava di una «fraternità d’armi», di una «relazione quasi quotidiana», fatta dei semplici gesti dello «studiare allo stesso tavolo» (Adolfo Omodeo, cit., p. 3, poi in Nuove pagine sparse, cit., p. 57) e dello scambiarsi reciproche osservazioni su pensieri e scritti. Si trattava, per altro, dell’incontro fra due personalità molto diverse, non solo per età (Croce era nato nel 1866, Omodeo nel 1889) ma anche per formazione e carattere: una differenza che l’amicizia non cancellò, tanto che, dissipate le nubi della guerra e del fascismo, tra il 25 luglio del 1943 e la morte di Omodeo, il 28 aprile 1946, sfociò in un contrasto politico destinato a toccare, oltre l’immediata azione pratica, anche non secondari orientamenti ideali.
Dopo una breve esperienza, nel 1908, alla Scuola Normale Superiore di Pisa (che abbandonò deluso per l’insegnamento tradizionale che vi si impartiva), Omodeo arrivò, nel 1909, all’Università di Palermo, dove trovò in Gentile (ma anche, sia pure in misura minore, in altri professori della facoltà di Lettere, come Gaetano Mario Columba e Cosmo Guastella) una guida non solo scientifica, ma umana e spirituale: con Gentile si laureò nel 1912, discutendo una laboriosa tesi su Gesù, che ampiamente rielaborata uscì nel 1913 per l’editore Principato con il titolo Gesù e le origini del Cristianesimo (e che apparirà poi, nel 1923, con il titolo Gesù, come primo volume della Storia delle origini cristiane).
L’ambiente palermitano, con la partecipazione alle attività della Biblioteca filosofica e con le amicizie che vi strinse (dalla futura moglie Eva Zona ai colleghi di studio Vito Fazio-Allmayer, Ferdinando Albeggiani, Giuseppe Carlotti), rappresentò un momento decisivo di crescita e maturazione (una «palestra», come ebbe una volta a definirla) per il giovane storico, che seguì con affetto filiale il primo delinearsi dell’attualismo gentiliano nonché i pubblici dissidi che, ben presto, si manifestarono con Croce. Nei quali non mancò, anzi, di intervenire personalmente, nonostante lo scarso entusiasmo di Gentile e qualche suo tentativo di dissuasione, sia con valutazioni private, che si leggono nell’epistolario di questi anni, sia con uno scritto filosofico, intitolato Res gestae e historia rerum («Annuario della Biblioteca filosofica», 1913, 1, pp. 1-28), che prendeva spunto dalla memoria crociana, letta all’Accademia pontaniana, su Storia, cronaca e false storie (1912) e ne formulava una critica, in chiave attualistica, fondata sulla negazione della distinzione tra storia e cronaca e sul primato dell’atto soggettivo della «testimonianza».
Ciò non significa, però, che già in questi anni – anche di fronte alla pubblicazione, nel 1913-1914, dei due volumi del Sommario di pedagogia come scienza filosofica di Gentile –, Omodeo non manifestasse dubbi e perplessità nei confronti della curvatura speculativa dell’attualismo, specie verso gli svolgimenti che, in ambito storico, vedeva prodursi negli scritti di Guido De Ruggiero e di Fazio-Allmayer, dove – scriveva a Eva Zona nel dicembre del 1912 – «si finisce così col formare un iperuranio di concetti schematici, rigidi, che si chiama storia», invece di connettere il pensiero alla vita, enucleando il «processo formativo dei concetti» (Lettere, 1910-1946, 1963, p. 51). Per quanto non riuscisse, per il momento, a governarne gli esiti filosofici, formulando una critica compiuta del metodo attualista, emergeva nelle sue lettere, e nelle pagine che via via componeva sul cristianesimo antico, una ricorrente e mai taciuta insoddisfazione, culminante nell’esigenza di illuminare la genesi storica delle idee. Più tardi, rievocando La collaborazione con Benedetto Croce durante il ventennio («La Rassegna d’Italia», 1946, 1, 2-3, pp. 226-73, poi in Libertà e storia. Scritti e discorsi politici, 1960, pp. 489-99) e il travaglio spirituale di quei primi passi nel mondo della storia, parlerà di un «equivoco» che si era insinuato tra la sua visione e quella degli attualisti:
Io esigevo che si attuasse realmente la trasformazione della filosofia in istoria; gli attualisti volevano restare nella formula pura, generica, e dovevano per bocca del maestro considerare la storia concreta grossa materialità (La collaborazione, cit., in Libertà e storia, cit., p. 495).
E, tracciando il bilancio di Trentacinque anni di lavoro storico («Mercurio», 1945, 13, pp. 105-08), affermò che, pur essendosi «sforzato a lungo a restare nella ortodossia dell’attualismo», ben presto lo sviluppo della storia gli «apparve ben più complicato degli schemi che il Gentile […] ricavava dallo Hegel e dallo Spaventa», perché, concludeva, «la filosofia non si genera dalla sola filosofia» (Trentacinque anni, cit., in Il senso della storia, a cura di L. Russo, 1948, 19552, p. 4). Erano, queste che pronunciava sul finire della sua vita, parole sincere ed equilibrate, che attestano un disagio nei confronti della filosofia allora professata, destinato a generare revisioni e ripensamenti.
Ma non vi è dubbio che, per almeno un decennio, le punte più inquiete della sua riflessione emersero solo in maniera sporadica, trattenute dalla devozione verso il maestro. La sintonia con Gentile, sul piano umano oltre che filosofico, restò solida, per quanto i dubbi su questo o quell’aspetto dell’attualismo potessero affiorare nelle sue pagine. A partire dal maggio del 1915, dopo avere ricevuto e letto la conferenza di Gentile su La filosofia della guerra (1914, poi in Guerra e fede, 1919, 3a ed. rivista e ampliata a cura di H.A. Cavallera, 1989, pp. 3-21), Omodeo assunse una decisa posizione a favore dell’intervento italiano, fino ad arruolarsi volontario come sottufficiale di artiglieria.
La dura esperienza del fronte, che è testimoniata da numerose e suggestive lettere (e che sarà poi alla base dei Momenti della vita di guerra [Dai diari e dalle lettere dei caduti], pubblicati a partire dal 1929 su «La Critica» e raccolti in volume nel 1934), lo segnò profondamente e lo indusse, nel corso del 1920, a scrivere per la rivista «L’Educazione nazionale» tre articoli dal titolo collettivo di Educazione politica (poi in Libertà e storia, cit., pp. 18-30), intensa meditazione storica e politica, primo annuncio della futura opera di storico dell’età moderna.
Ma restava ferma, anche in tali riflessioni sul significato della vittoria, la netta critica dell’intera fase postrisorgimentale e soprattutto l’avversione verso la figura di Giovanni Giolitti e il giolittismo, considerati, secondo un motivo allora in voga, come negazione delle tradizioni nazionali, come l’emergere degli «egoismi più meschini, accarezzati ed elevati a forza politica» («L’Educazione nazionale», 15 maggio 1920, in Libertà e storia, cit., p. 24). Un’avversione, quella verso Giolitti, che si estese, dal giugno del 1920, allo stesso Croce, la cui esperienza come ministro della Pubblica Istruzione (terminata nel luglio 1921) Omodeo criticò variamente:
Temo – scriveva nel novembre del 1921 – che di tutta l’opera di Croce ministro rimarrà ben poco. […] Il Croce alle sue riforme non ha saputo creare una base morale nel pubblico e nei professori (Carteggio Gentile-Omodeo, a cura di S. Giannantoni, 1974, p. 223).
Le cose cominciarono a cambiare nel periodo appena successivo, che non per caso coincide con la nomina di Gentile a ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini (ottobre 1922) e con l’adesione del filosofo, nel 1923, al Partito nazionale fascista. Come si sa, Omodeo non aderì mai al fascismo né simpatizzò con i primi passi del nuovo regime, arrivando a definirlo in una lettera a Gentile, già il 29 ottobre 1922 (poco dopo la marcia su Roma), «l’incubo che grava su tutta l’Italia» (Carteggio Gentile-Omodeo, cit., p. 278): giurò riluttante come professore universitario, nel 1931, seguendo il consiglio di Croce; e prese, nel 1941, la tessera del Partito fascista (dopo averla rifiutata nel 1933, non ostanti i «gravi pericoli» allora segnalati da Russo ed Ernesto Codignola), obbligatoria per gli ex combattenti della grande guerra, che subito gli venne ritirata dalle stesse autorità. Nel periodo in cui Gentile tenne il ministero della Pubblica Istruzione, non mancò di esprimergli, in una lettera del 12 novembre 1922, la sua «grande preoccupazione» (p. 279) per la confusione che andava delineandosi tra la riforma scolastica e la retorica del regime, e continuò a segnare una certa distanza, come aveva fatto con Croce, su punti essenziali della strategia del ministro, quali l’esame di Stato e l’insegnamento religioso. Un certo imbarazzo, bisogna aggiungere, gli procurò l’episodio che, nel corso del 1945, tanto gli fu rimpoverato dagli avversari politici, che arrivarono al punto di chiederne l’epurazione: la nomina nel giugno del 1923 alla cattedra napoletana di storia della Chiesa, voluta da Gentile sulla base di disposizioni che sarebbero confluite di lì a poco nella ‘riforma Gentile’ dell’istruzione superiore (r.d. 2102 del 30 sett. 1923), cioè per speciali meriti scientifici, dopo che l’anno precedente aveva vinto il concorso di storia antica a Catania. Un provvedimento che Omodeo non invocò e anzi per certi versi subì, derivando da un’iniziativa diretta di Gentile e dell’allora ministro Antonino Anile.
Al di là di questi episodi, non vi è dubbio che tra il 1922 e il 1923 cominciò a mutare qualcosa di profondo nella stessa visione storica di Omodeo. Non può sorprendere, d’altronde, che il primo distacco dall’attualismo non accadesse per una diretta critica filosofica, ma attraverso un ripensamento di concrete tesi storiografiche, relative allo sviluppo della prima età cristiana. Nel citato libro del 1913 Gesù e le origini del Cristianesimo (e nel saggio sulle Res gestae che ne aveva accompagnato la pubblicazione e definito il metodo), la figura di Gesù era stata delineata come una specie di incarnazione dell’atto puro, quasi un’integrale storicizzazione della gentiliana «volontà volente»: ma quando, all’indomani della guerra, Omodeo cominciò a studiarne gli sviluppi ulteriori, ben presto si rese conto che, determinato Gesù come il compimento stesso della vicenda cristiana, la storia successiva rischiava di piegarsi (alla maniera di Adolf von Harnack e della teologia liberale, da lui nettamente criticata) in un ritmo di decadenza e di arresto, negando così, nei fatti, quella premessa storicistica che aveva animato, sul piano del metodo, l’intera ricerca. In un volumetto da lui curato nel 1921, L’esperienza etica dell’Evangelio: brani scelti dal Nuovo Testamento, pose appunto la domanda decisiva, chiedendosi: «Perché non si rimane fermi a Gesù?» (p. 21). E la risposta arrivò con il terzo volume della Storia delle origini cristiane, uscito nel 1922 con il titolo Paolo di Tarso apostolo delle genti, dove «il ritmo di tutta la storia» era individuato nel «rilievo personale», nella «intimità d’esperienza» dell’apostolo (p. VII), nella cui coscienza si raccoglie, nella forma mitica di una inopia, il problema insoluto di un’epoca, operando il passaggio pratico all’epoca seguente. Era il primo nucleo di quello storicismo centrato sulle grandi personalità creatrici, sulle «primavere del genere umano» (Trentacinque anni, cit., in Il senso della storia, cit., p. 3), che Omodeo svolgerà negli studi sull’età moderna, fino al progetto – di cui la morte troncò l’esecuzione – sul 5° sec. a.C. in Atene.
Con il libro su Paolo di Tarso, Omodeo aveva segnato una prima distanza dall’attualismo di Gentile, arrivando a proporne uno svolgimento personale e soprattutto a fermare, in una forma più coerente, quella insoddisfazione che fin dall’inizio lo aveva accompagnato. Le conseguenze di tale riflessione si possono osservare nella recensione che, nello stesso 1922 («La Cultura», 4, pp. 175-78), dedicò al libro di De Ruggiero su La filosofia del cristianesimo (1920): al quale rivolse critiche persino eccessive, rimproverandogli il «troppo idealismo attuale», l’«eccesso di modernizzazione», per cui «par che si anticipi di dieci o di venti secoli Giovanni Gentile» (in Tradizioni morali e disciplina storica, 1929, pp. 129-30). Le proteste che, in una lettera privata, De Ruggiero gli avanzò (cfr. Mustè 1990, p. 245), erano in buona parte giustificate: ma è evidente che, attraverso il suo libro, Omodeo aveva inteso colpire una tendenza più generale, che lui stesso aveva vissuto nella giovinezza e tuttora vedeva diffusa nella scuola attualista, e nella quale non si riconosceva più.
Lo stesso tono si può cogliere nella prolusione del 1923 ai corsi napoletani di storia della Chiesa, pubblicata con il titolo Il valore umano della storia cristiana («Giornale critico della filosofia italiana», 1923, 4, pp. 332-52, poi in Tradizioni morali, cit., pp. 9-41), che in certo modo chiude questa fase della riflessione di Omodeo. Un testo dove, celebrando Gentile come «grande Maestro di storicismo» (in Tradizioni morali, cit., p. 10), non solo adoperava per la prima volta quella espressione, «storicismo», ma soprattutto ridefiniva la propria concezione in termini assai diversi da quanto era accaduto nel vecchio scritto sulle Res gestae: l’attualismo, spiegava, gli aveva insegnato «la concretezza del reale», la capacità dell’«autocoscienza» di trascendere con uno «slancio spirituale», «in una rifusione perenne», il contorno e il limite della storia data, nelle forme della religione, dell’arte, del pensiero. Che era bensì il riconoscimento di un debito, ma anche una implicita e personale revisione, in senso appunto storicistico, della filosofia di Gentile.
Come per altri allievi di Gentile, anche per Omodeo fu l’assassinio di Giacomo Matteotti, il 10 giugno del 1924, a segnare un punto di non ritorno nei rapporti con il maestro. Due settimane dopo il delitto, il 24 giugno, scrisse a Gentile una lettera in cui manifestava tutta la sua inquietudine per «le tristissime ombre che si sono rivelate», parlando di una grave «scossa» e di una «delusione amara» (Carteggio Gentile-Omodeo, cit., p. 313). Tra giugno e dicembre cercò in ogni modo di dividere le sorti di Gentile da quelle del fascismo e di Benito Mussolini, il quale, scrisse in una lettera del 19 dicembre, «non può più uscire dal cerchio in cui s’è chiuso» (p. 326): al movimento fascista, spiegava (addossandosi responsabilità che non gli appartenevano), «abbiam creduto di poter suggellare una forma nostra e invece esso aveva entro un principio animatore che ora diverge profondamente da noi» (p. 327). Ma il 22 dicembre, dopo diverse lettere dal tono sempre più intenso e drammatico, Gentile troncò bruscamente ogni ulteriore discorso, parlando di «diserzione» e di giudizi che «non corrispondono alla realtà delle cose» (p. 328). L’omicidio di Matteotti aveva confermato tutte le preoccupazioni che Omodeo, fin dal 1922, aveva nutrito, al punto che poco tempo dopo, il 16 marzo 1925, prendeva l’iniziativa di una lettera di solidarietà a Croce, allora vituperato dalla stampa fascista:
Nessuna grandezza l’Italia può aspettarsi da chi dimentica i doveri verso gli uomini che l’Italia hanno onorato al cospetto del mondo. Anche questo è un triste frutto di quel nazionalismo, che ignora la storia d’Italia e che lei giustamente flagella (Carteggio Croce-Omodeo, a cura di M. Gigante, 1978, p. 5).
Se all’inizio aveva cercato, senza alcun successo, di staccare Gentile dal fascismo, tra l’ottobre del 1927 e il gennaio del 1928 operò per una «tregua d’armi», un «armistizio» tra Croce e Gentile, per scongiurare il rischio di dare «fuoco all’edifizio della nostra cultura» e per «restaurare condizioni in cui sia possibile pensare e scrivere» (Omodeo a Gentile, 27 ottobre 1927, in Carteggio Gentile-Omodeo, cit., p. 391). Il tentativo finì, come forse era inevitabile, con una rottura ancora più drastica, che Gentile, in una breve ma durissima lettera del 30 gennaio (p. 397), addebitò alla pubblicazione della Storia d’Italia dal 1871 al 1915 di Croce – uscita in libreria solo due giorni prima e contenente parole di critica verso l’attualismo – e all’«articolo elogiativo» che Omodeo vi aveva scritto sopra per la rivista «Leonardo» e che sarebbe stato respinto per decisione dello stesso Gentile (vedrà le stampe solo dopo la caduta del regime; L’Italia dal 1871 al 1915, in Figure e passioni del Risorgimento italiano, 1932, 19452, pp. 135-44). «Quell’uomo – scriveva Gentile nella citata lettera del 30 gennaio, riferendosi a Croce – è accecato dall’orgoglio; da un orgoglio satanico. Ed è diventato pericoloso come un cavallo sfuriato. Non si può perciò non occuparsene». Parole di impensata violenza, che scavarono un solco non solo con Croce, ma soprattutto con Omodeo, che non a caso proprio in quello stesso 1928 iniziò la lunga collaborazione con Croce e con «La Critica». I rapporti con Gentile si trascinarono fino al gennaio del 1930, soprattutto per la travagliata collaborazione all’Enciclopedia Italiana, che si rivelò, per Omodeo, come una logorante persecuzione. Incaricato di pianificare e di redigere le voci sulla storia del cristianesimo, fu sottoposto alla continua censura delle autorità religiose, fin quando nel 1929 rassegnò le dimissioni, vedendosi restituite da Gentile le voci su Corinzi e Colossesi.
In questi anni, Omodeo tornò più volte sui punti fondamentali del suo pensiero storico, cercando – come scriverà a Croce il 24 luglio 1931 – di «chiudere certi conti con l’attualismo» e di «meglio precisare il mio punto di vista» (Carteggio Croce-Omodeo, cit., p. 41). Il primo e più cospicuo momento di tale processo fu la lettera aperta che nel 1926 indirizzò a Russo e che, dopo essere stata respinta da «Leonardo», con il titolo Storicismo formalistico fu pubblicata su «L’Educazione politica» (1926, 4, pp. 434-43, poi in Tradizioni morali, cit., pp. 249-66). Si trattava di un vero e proprio atto di accusa nei confronti della cosiddetta scuola romana dell’attualismo e, in generale, della convergenza, che lì vedeva realizzarsi, tra la filosofia di Gentile e il fascismo: «formalista» era, quello storicismo, in quanto «deformazione della fisonomia dell’idealismo» e «azionismo cerebrale», «neomachiavellismo», «negazione antidemocratica», a cui Omodeo opponeva non solo il «pensamento del concreto» e la «visione d’una libertà responsabile», ma anche il valore dell’eguaglianza politica e degli «immortali principii» del 18° sec., i quali, scriveva, «potranno avere assunto una diversa posizione nella spiritualità moderna, ma non possono essere sradicati» (in Tradizioni morali, cit., p. 261). Chiaro era, soprattutto, il tentativo di sciogliere il vincolo tra idealismo e fascismo: «Io credo per fermo che questo formalismo non abbia nulla di comune con la sostanza dell’idealismo, ma al più ne sia una scoria» (p. 266).
In modo analogo, nel primo articolo pubblicato su «La Critica», la già citata recensione del 1928 a Francesco De Sanctis e la cultura napoletana di Russo, formulava la critica della teoria dello «Stato etico», il quale «è portato a distruggersi in una forma autoritaria» (in Tradizioni morali, cit., p. 223), affermando la superiorità del pensiero di Silvio Spaventa rispetto a quello del fratello Bertrando, proprio perché capace di cercare la mediazione, sempre necessaria, tra i due estremi della «tutela dei singoli» e del contenuto etico. Erano, queste e altre che si potrebbero ricordare, forti prese di distanza da aspetti capitali dell’attualismo, e soprattutto dalla tendenza, che andava manifestandosi nel maestro e nei più giovani allievi, a confondere le ragioni dell’idealismo con il fascismo ormai al potere.
Ciò non significa, tuttavia, che in tale critica, e nel progressivo avvicinamento alla filosofia di Croce, Omodeo smarrisse alcuni principi direttivi della prima formazione attualista, sia in termini filosofici sia in termini storiografici. Sul piano filosofico, l’accento batteva bensì, con sempre maggiore vigore, sulle crociane «distinzioni», che vedeva smarrirsi o affievolirsi nelle più recenti teorizzazioni attualiste, ma nel senso che «le distinzioni sussistono e infinite, per quanti sono i momenti di individuazione» (p. 262): in un senso, cioè, che era ancora quello derivato dalla prima filosofia di Gentile, relativo alla soggettività concreta e alle sue espressioni. Ancora più evidente appariva il debito verso l’attualismo nella visione storica, come si fece chiaro, con qualche esito paradossale, nella già citata recensione che nel 1928 aveva dedicato alla Storia d’Italia di Croce e che, come abbiamo visto, provocò l’irritazione di Gentile: nella quale parlò di Giolitti e del giolittismo come di un «liberalismo burocratico» e di «un tarlo che rode la vita morale», elogiando invece la figura di Francesco Crispi, «una specie di sfortunato Clemenceau italiano» (in Figure e passioni, cit., pp. 141, 144). Che erano giudizi attribuiti a Croce, ma che non appartenevano affatto all’opera da lui recensita e lodata: appartenevano piuttosto all’immagine della storia d’Italia che egli stesso, alla scuola di Gentile, aveva a lungo professato.
Nel già citato articolo del 1946 La collaborazione con Benedetto Croce, Omodeo rievocò la lunga consuetudine che, a partire dal 1928, lo aveva legato a Croce, soprattutto nel lavoro costante per la composizione e la stampa dei fascicoli della «Critica». Scrisse da parte sua Croce – nel necrologio di quello stesso anno, cui si accennava all’inizio di questo saggio –, ricordando l’amico prematuramente scomparso:
Una relazione quasi quotidiana, in quello studiare allo stesso tavolo, in quello scambiarci osservazioni, verificare e rassicurare me stesso al saggio di un’altra mente, fondamentalmente consenziente con la mia, ma con esperienze e attitudini proprie, e con una propria originalità e un proprio stile (Adolfo Omodeo, cit., in Nuove pagine sparse, 1° vol., cit., p. 57).
Alla «Critica», Omodeo affidò la parte migliore della sua produzione storiografica. Oltre le innumerevoli recensioni e discussioni e alcuni scritti di contenuto teorico e metodologico, proprio su «La Critica» apparvero quelle ‘serie’ di articoli che, raccolti e revisionati, costituirono poi il corpo delle principali opere elaborate nel corso del ventennio fascista: così, a partire dal 1929, vi pubblicò i già citati Momenti della vita di guerra; dal 1934 le Note critiche alla storia del Risorgimento; dal 1936 gli scritti su Cattolicismo e civiltà moderna nel secolo XIX; e dal 1940 i diversi capitoli su La cultura francese nell’età della Restaurazione. Ma attorno alla «Critica» (e alle preoccupazioni che ne derivavano, per il reiterato tentativo del regime di limitarne l’influenza e l’agibilità) si sviluppò, tra Omodeo e Croce, un sodalizio umano (che pure non passò mai dal voi al tu latino), solo in parte attestato dalle lettere che si scambiarono nei periodi di lontananza: un tono umano, di reciproco affetto e sostegno, che toccò momenti di particolare intensità, per es. in occasione della morte, il 21 aprile 1935, della figlia diciottenne di Omodeo, Ida, e della detenzione, tra il 1942 e il 1943, dell’altro figlio Pietro, prigioniero dei britannici in Egitto.
La stima e l’affetto che Croce nutriva per il compagno «d’armi» era grande, e più volte ne diede testimonianza. Già nel 1929, per es., lodava gli studi di Omodeo sulle origini del cristianesimo, dove «il senso storico vi concorre col filosofico, a ricomporre i fatti nel loro proprio organismo e nella loro logica» (Intorno alle condizioni presenti della storiografia in Italia, «La Critica», 1929, 27, poi in Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 2° vol., 1921, 19473, p. 226). E nel Proemio alla “Critica” del 1944, lo ricordò, insieme a De Ruggiero, come colui che «più a lungo e più intensamente» aveva collaborato con lui, e
col quale l’accordo e come la compenetrazione nei concetti storici e politici è stata perfetta, e che ha integrato i miei lavori coi suoi robusti saggi sulla storia italiana e francese dell’ottocento («La Critica», 1944, 42, poi in Nuove pagine sparse, 1° vol., cit., p. 15).
Un’intesa, dunque, «perfetta», che confermò e ribadì nel 1945 (In difesa di un amico calunniato, «Risorgimento liberale», 28 marzo 1945, poi in Nuove pagine sparse, 1° vol., cit., pp. 422-25), assumendo la difesa dell’«amico calunniato» da coloro (clericali e qualunquisti, ma anche, spiace ricordarlo, Ernesto Buonaiuti) che ne chiedevano l’epurazione per la nomina del 1923 alla cattedra napoletana di storia della Chiesa e per la collaborazione prestata all’Istituto per gli studi di politica internazionale. E che non venne meno – pur nel mezzo, come vedremo, di un aspro dissidio politico – quando, nell’ottobre del 1945, Omodeo accennò a ritirarsi, a favore di Carlo Antoni, dalla nomina a direttore del nascente Istituto italiano per gli studi storici, provocando la pronta e ferma reazione di Croce, che definì quella uscita «idea assurda e disastrosa», pensando sempre a lui come al suo «naturale successore» (lettera del 12 ottobre, Carteggio Croce-Omodeo, cit., pp. 231-32).
Non può stupire, dunque, il fatto che la morte di Omodeo abbia rappresentato un colpo durissimo per Croce. Il quale annotò nei suoi Taccuini di lavoro (6° vol., 1946-1949, 1987) le fasi della malattia, l’alternarsi repentino di vane speranze e di momenti di disperazione, le visite al capezzale dell’amico ormai appena capace di riconoscerlo e sorridergli ma incapace di parlare con lui, la ricerca affannosa dei medicinali; fino a quando Alessandro Casati e la figlia Elena gli portarono la tristissima notizia, che accolse con «un impeto di pianto»:
Con la morte dell’Omodeo gravissima, e non compensabile, è stata la perdita fatta dagli studi italiani di storia, e io ho perduto una mente che collaborava strettamente con la mia (p. 31).
Nel già citato necrologio del 1946 sui «Quaderni della “Critica”» annunciò la scomparsa dell’amico e la grave «perdita che la Critica ha fatto di colui che negli ultimi vent’anni è stato il mio maggiore aiuto nel lavorarla, e quasi l’uno dei due suoi autori» (in Nuove pagine sparse, 1° vol., cit., p. 54); e in quello stesso fascicolo dei «Quaderni» pubblicò gli ultimi scritti, o frammenti di scritti, che Omodeo aveva lasciato, cioè l’articolo su Democrazia e cattolicesimo (pp. 5-10) e quello su La nostalgia del passato (pp. 10-13).
Per l’editore Laterza, nel novembre del 1946 curò, aggiungendovi una sua avvertenza, la ristampa di un libro di Omodeo già uscito nel 1945, Giovanni Calvino e la Riforma in Ginevra (1947), un «corso di lezioni che la morte spezzò nel punto culminante» (p. 138), e nell’ottobre del 1947 curò la seconda edizione (con un nuovo sottotitolo, Dalla Grecia antica ai tempi nostri) di una vecchia opera del 1924, Religione e civiltà. Dalla Grecia al cristianesimo, dove tornò a difendere e onorare la sua memoria contro coloro che, «per basse mire clericali», avevano ingiuriato «un uomo la cui statura troppo li sovrasta» (pp. 141-42). Ma soprattutto, inaugurando l’Istituto italiano per gli studi storici, il 16 febbraio 1947, con una prolusione su Il concetto moderno della storia, ricordò con accenti solenni e commossi colui che, per quella scuola, aveva scelto come «effettivo direttore»:
C’era tra noi due qualcosa di più obiettivo e di più sicuro che non fosse l’amicizia personale: una cerchia di pensiero nella quale ci ritrovavamo sempre e respiravamo con lo stesso petto la stessa aria e ci riconfortavamo (Il concetto moderno della storia: discorso per l’inaugurazione dell’Istituto italiano per gli studi storici, seguito da altri scritti attinenti all’argomento, 1947, poi in Filosofia e storiografia, 1949, a cura di S. Maschietti, 2005, p. 344).
L’influsso di Croce si avvertiva, d’altronde, in tutte le opere storiche che, negli anni della «Critica», Omodeo aveva elaborato: dall’interpretazione del Risorgimento, fondata sulla centralità del «connubio» e sulla tesi della «integrazione» tra Camillo Benso conte di Cavour e Giuseppe Mazzini, a quella della restaurazione francese, dove emergeva in primo piano il conflitto tra religione liberale e religione autoritaria. Si avvertiva poi, in maniera altrettanto evidente, negli scritti metodologici, tutti incentrati sul rapporto tra storia e libertà. Ma è anche vero che, nel modo peculiare di accoglierla e meditarla, la filosofia crociana subiva, nelle sue pagine, trasformazioni sottili e profonde, che pure serbavano più di un legame con la prima formazione attualista. Nessuno spazio particolare, per es., veniva concesso al tema dell’utile, alla scoperta crociana della categoria dell’economico; così come, per altro verso, all’intuizione estetica. L’azione umana tendeva, nella sua riflessione, a risolversi nel momento morale dell’individualità creatrice, della grande personalità, nel mito edificatore di civiltà. La tetrade crociana delle categorie tendeva a stringersi, così, nella genesi concreta di una storia, nel gesto pratico di una volizione etica densa di storicità e, al tempo stesso, capace di fecondare ordini civili e prospettive epocali. Quella dimensione del «mito», che Omodeo aveva enucleato attraverso gli studi sul primo cristianesimo, continuava ad agire nella sua visione della storia, conferendo al motivo intimo della religiosità un ruolo più forte e originario di quanto lo stesso Croce avrebbe forse potuto concedere.
Con la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, Omodeo e Croce si trovarono, dopo un ventennio di forzato isolamento e di «solitudine negli studi» (lettera ai membri del circolo Pensiero e azione; 18 gennaio 1944, in Lettere, 1910-1946, cit., p. 722), a partecipare alla rinascita dell’Italia, collaborando alla comune opera di ricostruzione civile della nazione. Già nell’agosto, De Ruggiero e Leonardo Severi, allora ministro della Educazione nazionale, indicarono Omodeo come presidente della Commissione unica per la defascistizzazione, incaricata del riordinamento e dell’epurazione universitaria, e soprattutto come rettore dell’Università di Napoli: incarico che, assunto il 1° settembre 1943 per nomina governativa, gli venne confermato nel febbraio del 1944 attraverso libere elezioni. Furono, entrambi, compiti molto difficili e assai travagliati, il primo per la questione che riguardava Gentile, del quale Omodeo cercò senza successo di favorire il collocamento a riposo volontario, e il secondo per i difficili rapporti con la questura napoletana, ancora inquinata di elementi fascisti.
Ma in quei mesi di intenso lavoro cominciarono a delinearsi i contrasti che, per un biennio, divisero profondamente, e a volte dolorosamente, i due Dioscuri della «Critica»: contrasti che entrambi, anche nei momenti di più acceso dissenso, cercarono di confinare alla sfera politica, sempre confermando il consenso e il comune orientamento sul piano ideale e scientifico. Già il 15 agosto, mentre era in corso la ricostituzione del Partito liberale, Omodeo esprimeva a Russo tutti i suoi dubbi sul circolo che stava vicino al vecchio filosofo (Lettere, 1910-1946, cit., p. 707); e il 9 ottobre, intervenendo su «Risorgimento liberale» in merito alla necessità di una fase costituente, chiariva in maniera definitiva il proprio orientamento per la repubblica e contro l’ipotesi di conservare la monarchia sabauda (La volontà degli Italiani: una libera Costituzione, poi in Libertà e storia, cit., pp. 85-86). A dividerlo, fin dall’inizio, dall’impostazione che Croce aveva dato al ricostituito Partito liberale, erano appunto questi aspetti: da un lato, l’opzione repubblicana e mazziniana, che confliggeva con la scelta monarchica di Croce, dall’altro lato, l’orientamento anticomunista, e per diversi aspetti ostile alla nuova democrazia, che i sostenitori di quel partito andavano assumendo. Vi era, inoltre, una schietta antipatia nei confronti del gruppo dirigente liberale, verso gli uomini che collaboravano con Croce, che si sarebbe palesata poi aspra e definitiva in un intervento dell’agosto 1944, I miei dubbi di fronte al Partito liberale (poi in Libertà e storia, cit., pp. 141-46).
Così, nel dicembre del 1943 Omodeo aderì al Partito d’azione, ‘formalizzando’ una decisione maturata fin dai giorni successivi alla caduta del regime, e seguendo il consiglio dello stesso Croce, il quale, verificata l’impossibilità di coinvolgerlo nel Partito liberale, gli suggerì di iscriversi alla formazione politica che sentiva più congeniale, per toglierlo da uno sterile isolamento e per garantirne la partecipazione al Comitato di liberazione nazionale e al futuro I Congresso dei Comitati di liberazione nazionale, che si sarebbe tenuto a Bari il 28 e 29 gennaio 1944. Nel suo diario, alla data del 7 dicembre, Croce annotò con molta precisione questo episodio, chiarendone il significato:
Ho raccomandato [a Omodeo] di partecipare al Comitato di liberazione, e poiché egli, che si dichiara, in pubblico e in privato, in tutto d’accordo con la ricostituzione che io ho fatta del concetto di libertà e di liberalismo, non vuole iscriversi al partito liberale per antipatie affatto personali verso alcuni dei suoi componenti, l’ho esortato a iscriversi al cosiddetto “Partito d’azione” (al quale sembra più incline, sebbene lo abbia per il passato censurato e confutato), e così potrà sostituire nel Comitato di liberazione il presente rappresentante di quel partito, che è molto debole (Taccuini di lavoro, 4° vol., 1987, p. 483).
In una più tarda lettera allo stesso Omodeo, del 26 marzo 1944, nel mezzo di una polemica molto accesa, Croce ricordò ancora il senso di quel ‘consiglio’:
Ricorderete che io stesso vi spinsi ad entrare nel Partito d’azione se non c’era altro modo perché partecipaste alle deliberazioni dei Comitati (Carteggio Croce-Omodeo, cit., p. 213).
Omodeo entrò così nel Partito d’azione, ma fin dall’inizio vi assunse una posizione distinta e peculiare, repubblicana e mazziniana ma, al tempo stesso, ancorata ai principi fondamentali del liberalismo di Croce: posizione che acquistò un rilievo visibile, fin dal dicembre del 1943, con la fondazione in Napoli del circolo Pensiero e azione, di cui assunse la presidenza, che aderiva bensì all’organizzazione azionista, ma con posizioni critiche e una spiccata autonomia di giudizio.
Riprendendo concetti e parole che provenivano dagli studi sulla Restaurazione e sul Risorgimento, Omodeo definiva la propria visione politica come un «liberalismo espansivo», o anche – con significati diversi ma in fondo convergenti – nei termini della «libertà liberatrice» (che ne sottolineava il carattere riformatore ed egualitario) e della «libertà costruttrice» (che ne evidenziava, invece, la capacità di deliberazione). Tutte queste espressioni insistevano sulla critica della linea conservatrice del Partito liberale, erede, a suo giudizio, di quel liberalismo «pigro», quietistico, che aveva accompagnato la storia europea fin dalla grande rivoluzione del 1789: insistevano, insomma, sul nodo del rapporto tra liberalismo e democrazia, sul compimento che l’idea di libertà doveva trovare nei princìpi dell’eguaglianza e della giustizia sociale. Di fronte alle spinte regressive del Partito liberale, Omodeo non solo accoglieva la riforma che Croce aveva operata del liberalismo classico (distinguendo, per es., liberalismo e liberismo e riportando la libertà al momento etico dell’azione, oltre ogni identificazione con gli istituti del passato), ma indicava un’incoerenza, persino una contraddizione, tra quella teoria e l’applicazione che ora il vecchio filosofo ne proponeva. Se la nuova immagine del liberalismo, che proprio Croce aveva elaborata negli anni della dittatura, dischiudeva la possibilità di ricomporre il secolare conflitto con la democrazia, quel comportamento conservatore ne tradiva adesso l’essenza e il significato, riportando la posizione liberale alla medesima chiusura che aveva condotto l’Europa e l’Italia alla catastrofe. Si trattava, insomma, di ricondurre Croce a se stesso, alla coerenza tra il pensiero e l’azione, tra le idee di fondo della sua filosofia e la prassi politica che avrebbe dovuto incarnarle.
Il presupposto del liberalismo «espansivo» di Omodeo era dunque qui: nella persuasione che Croce avesse compiuto una riforma radicale del liberalismo classico, portando il principio liberale, con la dottrina metapolitica, dalla conservazione al progresso, e consentendo così una inedita e coraggiosa apertura in senso democratico. Per questo, sebbene le critiche al vecchio compagno di lotta si facessero via via severe, le idee fondamentali restavano quelle che, nel ventennio, entrambi avevano discusso e, sulle pagine della «Critica», rese pubbliche. La posizione di Omodeo nel Partito d’azione rimase particolare proprio per questa fedeltà di fondo al pensiero di Croce: che si esprimeva, per es., con la costante critica delle tesi del liberalsocialismo e del socialismo liberale, considerate anche da lui come un’associazione di principi eterogenei, perché – scrisse con le parole stesse di Croce – «la libertà è il principio regolativo della giustizia» (I fondamenti ideali del Partito d’azione, discorso a Radio Napoli del 16 novembre 1943, poi in Libertà e storia, cit., p. 116) e contiene in sé, non fuori di sé, il germe espansivo di ogni sviluppo in senso democratico. Una consonanza ideale con Croce che si manifestò, soprattutto, nella profonda fede europeista e nella proposta della «confederazione europea», intesa come «assoluta eguaglianza di tutti i cittadini europei, giuridica e morale; libera circolazione di uomini, ricchezze e merci […]; contributo alla difesa militare […]; assoluta tolleranza religiosa» (La confederazione europea, opuscolo del Partito d’azione, 1943, poi in Libertà e storia, cit., p. 69): unica forma politica capace di sanare la ferita della Germania, oltre ogni inutile misura punitiva, di mitigare il dissidio con la Russia sovietica e di allontanare «dall’Europa il rischio di nuove guerre» (Un’occasione perduta, «L’Acropoli», 1945, 12, poi in Libertà e storia, cit., p. 463).
Sul piano politico, dopo l’adesione al Partito d’azione non mancarono momenti di convergenza con le posizioni sostenute da Croce. Al già citato Congresso di Bari, che segnò la fase di massima intesa tra i due studiosi, Omodeo appoggiò la linea Croce-Sforza sull’abdicazione del re Vittorio Emanuele III, scontrandosi con gli esponenti ‘intransigenti’ delle sinistre, ma anche rimarcando la propria posizione con due ordini del giorno, uno di severa censura verso il re e l’altro contro il governo di Pietro Badoglio e per la costituzione di un ‘antigoverno’ che si ipotizzava presieduto da Croce e Carlo Sforza. Proprio con Badoglio, il 22 aprile 1944, assumerà il ministero della Pubblica Istruzione, alla cui guida resterà fino al 10 giugno, quando, fra polemiche pubbliche e duri contrasti personali, verrà sostituito da De Ruggiero.
Dopo la ‘svolta di Salerno’ del Partito comunista, che all’inizio considerò con ostilità (cercando in più occasioni di tenere testa a Palmiro Togliatti in alcune riunioni della giunta del Comitato di liberazione nazionale), Omodeo si batté per evitare, come scrisse in una nota, un «nuovo aventinismo» (poi in Libertà e storia, cit., p. 325), votando per la partecipazione azionista al nuovo governo di Badoglio (votazione che, il 20 aprile, segnò una frattura verticale e ormai irrimediabile nel partito) e assumendo, con il sostegno decisivo di Croce, il dicastero della Pubblica Istruzione, insieme ad Alberto Tarchiani, che andò ai Lavori pubblici, e a Filippo Caracciolo come sottosegretario agli Interni. Ma l’esperienza del Partito d’azione era ormai esaurita, come si vide al congresso di Roma (4-8 febbraio 1946), quando, nel momento della scissione, Omodeo seguì Ugo La Malfa e Ferruccio Parri nella Concentrazione democratica repubblicana.
Il contrasto che, a partire dal 25 luglio 1943, aveva diviso i due studiosi sul piano delle scelte politiche, s’intrecciò, così, con momenti minori di collaborazione, e con il persistere, fino alla morte di Omodeo, del lavoro comune per «La Critica» e per i «Quaderni». Con la significativa interruzione del 1944, non mancarono, sulle pagine della rivista, gli articoli e le recensioni dello storico siciliano. Non mancarono, fino all’ultimo articolo pubblicato in vita, il già citato Metodo dialettico e metodo naturalistico; anche se, nel gennaio 1945, Omodeo aveva dato vita a una rivista mensile, «L’Acropoli», informata ai nuovi principi, culturali e politici, che nel frattempo aveva, in discordia con l’amico, precisato: e certo fu per lui motivo di grande dolore il rifiuto che Croce, nonostante ogni tentativo di convincerlo, oppose all’invito di collaborarvi con uno scritto, perché – spiegò con una certa durezza – «non credo possibile che una rivista politica si faccia fuori del punto di vista di un partito» (Carteggio Croce-Omodeo, cit., p. 220).
Ancora durante la malattia, e subito dopo la precoce morte di Omodeo, l’animo di Croce restava turbato per «i dispiaceri» che gli aveva procurato: «Il suo contegno politico – annotava amaramente – mi ha assai addolorato in questi ultimi due anni» (Taccuini di lavoro, 6° vol., cit., p. 31) e la sua opera «pratica e politica temo che sarà tutta o in gran parte disfatta» (Croce a Eva Zona, 12 settembre 1946, in Carteggio Croce-Omodeo, cit., p. 235); ma tutto ciò, concludeva, «non interferiva nella sfera degli studii, nella quale eravamo all’unisono» (Taccuini di lavoro, 6° vol., cit., p. 31). Nella nota umanissima del rimpianto, il suo giudizio restava diviso, senza ipocrisie o infingimenti, come diviso era rimasto, fino agli ultimi giorni, il giudizio dell’amico scomparso, che in lui aveva visto la potenza del pensiero e, nondimeno, il limite di una fatale esitazione.
A. Garosci, Adolfo Omodeo, articoli su «Rivista storica italiana», 1965-1966 (1. La storia e l’azione, 1965, 1, pp. 174-98; 2. La guerra, l’antifascismo e la storia, 1965, 3, pp. 640-86; 3. Guida morale e guida politica, 1966, 1, pp. 141-83), poi riprodotti in facsimile in Id., Adolfo Omodeo, a cura e con una prefazione di M. Griffo, Roma 2013.
G. Galasso, Personalità e spiritualità di Adolfo Omodeo, «Nord e Sud», 1966, 83, pp. 117-28, poi in Id., Croce, Gramsci e altri storici, Milano 1969, pp. 302-15.
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D. Cantimori, Storici e storia. Metodo, caratteristiche e significato del lavoro storiografico, Torino 1971, pp. 51-75, e 19782, pp. 18-48.
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