Croce e Gentile storici della filosofia
Alla luce della comune ispirazione hegeliana, congiunta all’interesse (di matrice risorgimentale) per la tradizione filosofica nazionale, l’atteggiamento di Benedetto Croce e Giovanni Gentile verso la storia della filosofia, intesa come pratica storiografica e non solo come riferimento culturale, potrebbe apparire a prima vista consimile. In realtà questi due ‘pensatori paralleli’ presentano una notevole asimmetria nella loro produzione storico-filosofica, sia sul piano quantitativo (la produzione di Gentile è assai più ampia) sia, e soprattutto, sul piano delle premesse teorico-metodologiche e degli esiti interpretativi. Al fondo di tale differenziazione vi è, in Croce, la centralità del rapporto filosofia/storia, per cui l’indagine strettamente speculativa sfocia (anzi ‘deve’ sfociare) in un articolato programma culturale nonché politico, giungendo a quella «religione della libertà» che è, a ben vedere, un hegelismo filtrato attraverso le idealità filosofico-politiche di Victor Cousin e del liberalismo ottocentesco. Invece in Gentile l’idea di una preminenza del «pensiero pensante» sul «pensiero pensato» si traduce nell’assoluta centralità del momento speculativo rispetto alle altre manifestazioni culturali, rendendo più esclusivo e fondante il nesso hegeliano filosofia/storia della filosofia, mediato oltretutto dal forte influsso di Bertrando Spaventa.
A distinguere i due dioscuri del neoidealismo italiano vi è anche un modo diverso di rapportarsi (e di reagire) a quella scuola storica che nell’Italia di fine Ottocento aveva rinnovato in profondità gli studi umanistici e in particolare storico-filosofici, grazie a figure come Francesco Fiorentino (1834-1884) e Felice Tocco (1845-1911). Pur assumendo un atteggiamento critico nei riguardi della Weltanschauung sottesa a tale scuola e del suo filologismo, sia Croce sia Gentile non ne rifiutano tuttavia la lezione di metodo, ma anche qui in maniera diversa: Croce è un appassionato frequentatore di archivi e biblioteche, però queste sue indagini, anche se di argomento storico-filosofico, attengono per lui alla storia letteraria o alla storia culturale e non alla storia della filosofia ‘propriamente detta’; laddove in Gentile il rigore storico e filologico acquisito alla scuola di Alessandro D’Ancona (1835-1914) è posto al servizio della sua prospettiva filosofica sino a fare tutt’uno con essa, traducendosi in giudizi storiografici a volte impietosi, ma – occorre riconoscerlo – lucidi e appropriati, e non prevalentemente polemici come sovente è dato di riscontrare in Croce.
Il saggio su Il concetto filosofico della storia della filosofia esprime nella forma più compiuta la prospettiva storiografica di Croce. Il saggio apparve su «La Critica» nel 1940, ma parrebbe scritto all’inizio del secolo, in quanto prende subito posizione contro le false pretese oggettivistiche e l’approccio afilosofico della scuola storica. Croce distingue così, in progressione, quattro livelli nell’accostarsi al passato della filosofia: a) «una storia pratica, sociale, politica, morale, magari fisiologica e patologica dei filosofi», non ‘della filosofia’, che richiede ben altro approccio (B. Croce, Il concetto filosofico della storia della filosofia, in Id., Il carattere della filosofia moderna, 2a ed. riveduta, 1945, p. 54); b) una «disamina» che programmaticamente non affronta «il contenuto delle dottrine e dei sistemi», ma si limita a valutare la «coerenza e incoerenza logica di ciascuna dottrina e sistema» (p. 55); il che è però possibile solo muovendo da un preciso concetto di «verità», dal quale si vorrebbe invece prescindere; c) un’analisi che mira a «determinare la maggiore o minore “fecondità spirituale” dei varî sistemi»; ma anche in questo caso la «fecondità» di una tesi filosofica «coincide con la sua verità», per cui è giocoforza «esercitare quel giudizio filosofico del quale, per partito preso, non si vuol sentir parlare» (p. 56); d) a queste inadeguate metodologie viene contrapposta «la hegeliana storiografia della filosofia», che si regge invece su un «principio di verità», il quale
afferma che storia della filosofia è filosofia, filosofia che ha piena coscienza di se stessa e perciò del modo nel quale si è svolta e si è formata e i cui varî stadî, ripercorrendoli, giudica e definisce. Per aver posto questo principio Hegel merita di esser celebrato vero fondatore della storiografia della filosofia (p. 57).
Questa esaltazione di Georg Wilhelm Friedrich Hegel si accompagna però al riconoscimento che in lui vi è un che di «sforzato ed artificioso», frutto del suo «persistente abito metafisico» e della «congiunta tendenza mitologizzante», da cui derivano due tipi di «astrattezze»: «le categorie logico-metafisiche e le epoche cronologiche», ovvero «l’arbitrario ordinamento sistematico e l’arbitraria determinazione dei gradi dello svolgimento storico» (pp. 57-58). Ne consegue, erroneamente, la «visione di tutte le dottrine non già nella individualità e varietà dei problemi a cui ciascuna risponde, ma come soluzioni che si susseguono sempre meno unilaterali di un unico e medesimo problema, il quale mette capo e si riposa nella soluzione onnilaterale e definitiva» (pp. 58-59). Per Croce la relazione tra filosofia e storia della filosofia va invece intesa come un «atto filosofico che si compie individualmente e sempre vario, il quale è distinzione e insieme unità di soggetto e oggetto», dove
il soggettivo è qui il pensiero mio, di me uomo vivente e praticamente operante; e lo storicamente oggettivo è la concretezza e interezza stessa di questo pensiero, nel suo rapporto con gli altri pensieri da esso contrastati e spinti più in alto, e cioè con la propria storia (p. 59).
L’atto del giudicare è quindi intrinseco all’operare del vero storico della filosofia, il quale «ha il dovere di esser filosofo per suo conto, e perciò filosofo che ha fatto un passo innanzi sul filosofo e sulla dottrina o sul concetto che prende a interpretare e a intendere» (p. 61), così come
il critico e storico della poesia è poeta che rifà in sé l’opera del poeta, poetando con lui, sebbene diverso e distinto da lui, e lo supera nel giudizio che il superiore grado raggiunto dal pensiero estetico richiede (p. 62).
Giova qui ricordare l’influenza esercitata dal «carissimo amico Giovanni Gentile» sulla ‘conversione’ di Croce alla visione hegeliana del rapporto tra filosofia e storia della filosofia. Lo stesso Croce lo riconosce apertamente nella Logica come scienza del concetto puro del 1909, salvo distinguersi subito da Hegel (e da Gentile) per l’allargamento della prospettiva al «rapporto tra filosofia e storia in genere» (Logica come scienza del concetto puro, 1996, p. 235). D’altronde il problema dell’unità della filosofia e della sua storia era stato oggetto di un serrato dibattito epistolare tra Croce e Gentile, svoltosi fra dicembre 1906 e gennaio 1907 e occasionato da un articolo di quest’ultimo su Il circolo della filosofia e della storia della filosofia (Sasso 1975, pp. 897-906). Né va dimenticata la terza appendice (intitolata “Filosofia e metodologia”) di Teoria e storia della storiografia (1917), dove Croce «alla filosofia del “problema fondamentale”» (che ha il suo corrispettivo in una «storia della filosofia schematica e scheletrica») contrappone la «filosofia come metodologia», cui corrisponde un’indagine storico-filosofica «assai più ricca, varia e pieghevole, che consideri come filosofia non solo ciò che si attiene al problema dell’immanenza e della trascendenza, […] ma tutto ciò che è valso ad accrescere il patrimonio dei concetti direttivi e l’intelligenza della storia effettiva, e a formare la realtà di pensiero nella quale viviamo»: una chiara differenziazione da Hegel, da Spaventa e soprattutto dall’«idealismo attuale» di Gentile (Teoria e storia della storiografia, a cura di G. Galasso, 1989, pp. 180-81; cfr. in proposito G. Cotroneo, Benedetto Croce storico della filosofia, in Croce filosofo, 2003, pp. 209-12).
Ma torniamo al saggio crociano del 1940. Dopo aver ribadito la distinzione fra storia e pseudostoria (o «raccolta di fatti»), il pensatore napoletano segnala il libro primo della Metafisica di Aristotele e l’introduzione della hegeliana Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1817) quali «nobili antenati» di una «vera storia del pensiero», in cui l’attenzione alle dottrine precedenti si fonde con l’elaborazione di «un nuovo e individuato concetto di cui il nuovo pensatore [che coincide quindi con il vero storico della filosofia] indaga e ritrova la genesi» (B. Croce, Il concetto filosofico, cit., pp. 64-65)
Di qui la contrapposizione fra l’indagine monografica, che «è il simbolo della genuina storia della filosofia come di ogni altra storia» (p. 65), e le storie «universali» o «esposizioni panoramiche» della filosofia (ma anche dell’arte e della letteratura), frutto di un lavoro compilativo che ha «l’odore della carta scritta e stampata» e non quello della «selvaggia e ferace terra» (pp. 67-68). Di qui un diverso modo di concepire il rapporto fra storia della filosofia e filosofia: nel comune sentire lo studio della prima precede la seconda, ma questo vale solo su un piano strettamente informativo; infatti,
se l’interpretazione storica della filosofia si genera unicamente in relazione di un nuovo filosofare e in unità con esso, come uno dei suoi aspetti o momenti, è chiaro che essa non può precederlo, non può essere il suo punto di partenza, e non può esistere per sé prima di quello (pp. 65-66).
Centralità, dunque, dell’atto filosoficamente innovativo. Difatti, avviandosi alla conclusione, Croce pone l’accento sul «momento in prevalenza inventivo dei concetti», in assenza del quale anche il «momento in prevalenza ragionante e sistematizzante» (che per altro contraddistingue l’«ingegno filosofico») «cadrebbe nel vuoto». Ne consegue che pure personaggi come san Paolo, Niccolò Machiavelli o Ludovico Zuccolo (1568-1630, autore di La Repubblica di Evandria), i quali «non furono filosofi nel senso accademico perché non composero sistemi», «tuttavia tali furono nella realtà come ritrovatori ed enunciatori di nuovi concetti e perciò entrano con pieno diritto nella storia del pensiero e della filosofia». Qualora fosse così intesa e praticata – conclude Croce con un afflato quasi religioso – «la storia della filosofia sarà storia viva di ciò che è eternamente vivo» (pp. 69-70).
Un esempio significativo del modo in cui Croce si accostò al passato della filosofia è offerto dal Saggio sullo Hegel, seguito da altri scritti di storia della filosofia (1913), nella cui prima parte egli ripropose il celebre scritto Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel (1907) insieme con altri studi sul pensiero hegeliano; la seconda parte ospita una serie di sedici contributi, già apparsi in varie sedi fra il 1902 e il 1912 e ora raccolti sotto il titolo “Scritti vari di storia della filosofia”, vertenti su differenti autori: da Leonardo da Vinci a Giambattista Vico e Ferdinando Galiani, da Johann Georg Hamann a Immanuel Kant, Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Johann Friedrich Herbart, Francesco De Sanctis, Arthur Schopenhauer, Friedrich Wilhelm Nietzsche, Wilhelm Wundt, sino a Luigi Martinotti, una singolare figura di libero pensatore che in quegli anni intrattenne con Croce un rapporto epistolare e che ha di recente ispirato il romanzo La vocazione (2010) di Cesare De Marchi.
I primi tre capitoli del Saggio sullo Hegel esaltano la grandezza speculativa del filosofo tedesco, cui si riconosce il merito di aver posto per primo la filosofia stessa come oggetto specifico del pensiero e di avere quindi formulato una «logica della filosofia» (B. Croce, Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, 2006, p. 11), incentrata sul «concetto universale concreto» e sulla dialettica quale soluzione del «problema degli opposti» (pp. 14-15). A questi elogi segue però una critica serrata al sistema hegeliano, che muove dalla denuncia di aver confuso il «nesso dei distinti» (ossia la distinzione/unità fra i diversi gradi dello spirito) con la «dialettica degli opposti», ossia l’opposizione dialettica che si coglie all’interno di ogni grado dello spirito (bello-brutto, vero-falso, bene-male, utile-inutile). Di qui «l’errore di far la dialettica dei distinti» (la religione, per es., vista come «il non-essere dell’arte»), da cui sono fatti derivare tutti gli altri errori del sistema hegeliano (p. 71). Di qui, in particolare, il mancato superamento del dualismo Natura-Spirito, che secondo Croce è all’origine della divisione fra la destra hegeliana (che ricondusse la posizione di Hegel al teismo tradizionale) e la sinistra hegeliana, che abbracciò il materialismo filosofico.
Del pari significativa è La filosofia di Giambattista Vico (1911), che segna l’apice di un virtuosismo interpretativo incentrato non sulla contestualizzazione di un pensatore, bensì sulla sua proiezione in avanti, ovvero sulla ‘spiegazione’ di Vico con il ‘dopo Vico’. L’isolamento in cui visse e operò Vico viene così riscattato e sublimato accostando questo pensatore a uno stuolo svariato di autori a lui successivi (da David Hume a Hamann, Kant, Johann Gottfried Herder, Hegel, De Sanctis, Theodor Mommsen, Johann Jakob Bachofen, Friedrich Karl von Savigny, Karl Marx, Georges Sorel, Nietzsche) e facendo di lui il precorritore di «quasi tutte le idee capitali della filosofia idealistica del secolo decimonono, che si possono considerare ricorsi di dottrine vichiane». E là dove il «ricorso» non è filosoficamente sostenibile subentra un’altra categoria, quella del «progresso del secolo decimonono sopra di lui»; sicché
la distinzione vichiana dei due mondi dello spirito e della natura, a entrambi i quali era applicabile il criterio gnoseologico della conversione tra vero e fatto, ma al primo applicabile dall’uomo stesso perché quel mondo è opera dell’uomo, e perciò da lui conoscibile, e al secondo da Dio creatore, e perciò inconoscibile all’uomo, non fu accettata dalla nuova filosofia, che, più vichiana del Vico, dell’uomo semidio fece Dio, sollevò la mente umana a spirito universale o Idea, e la natura spiritualizzò e idealizzò e, come prodotto anch’essa dello spirito, tentò d’intendere speculativamente nella “Filosofia della natura” (B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, 1997, p. 229).
La visione teorica sottesa al lavoro storiografico di Gentile si può cogliere nella prolusione palermitana del 10 gennaio 1907, data alle stampe l’anno successivo sulla «Rivista filosofica» di Carlo Cantoni (1840-1906). Qui Gentile muove dal presupposto che «chi fa la storia della filosofia, deve sapere che cosa è la filosofia, di cui vuol fare la storia: deve saperlo in modo da averne determinato un concetto unico» (Il concetto della storia della filosofia, in Id., La riforma della dialettica hegeliana, 19543, p. 100; poi in Id., Il concetto della storia della filosofia, a cura di P. Di Giovanni, con contributi di G. Cacciatore, C. Cesa, G. Cotroneo et al., 2006). Tale concetto (a differenza di quanto sosteneva Croce) è collegato a una domanda fondamentale, che rappresenta «il principio eterno della filosofia: quel momento, in cui il contrasto della morte con la vita, la differenza tra il non-essere e l’essere, spinge l’uomo a proporsi il problema: Che è l’essere?» (Il concetto della storia della filosofia, in Id., La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 102); ed è questo il momento in cui «l’essere, che si è spiegato attraverso la serie delle forme naturali, torna a se stesso, e diventa consapevole di se medesimo, nella sua astratta identità e nella concreta differenza di tutte le forme in cui s’è dispiegato» (p. 105), facendosi così «spirito» e dando storicamente luogo alle diverse religioni e alle diverse filosofie. Pertanto la domanda su cosa sia l’‘essere’ «riassume tutta la storia del pensiero umano». Essa ebbe una risposta fondamentale in Aristotele, che ne rilevò con chiarezza la pluralità di significati e concepì la filosofia prima o metafisica come «scienza dei principii», cui si connettono tutte le filosofie «speciali». Come il naturalista Georges Cuvier (1769-1832) affermava che partendo da un osso si può ricostruire l’intero scheletro di un animale, così è possibile risalire da una filosofia speciale (per es., una dottrina gnoseologica o etica) al suo principio metafisico (p. 110).
Ma dopo Aristotele la metafisica ha compiuto un lungo percorso e occorre riconoscere «la radicale trasformazione dello spirito filosofico moderno rispetto all’antico», giacché è tale trasformazione che «ha reso possibile il concetto di una storia vera e propria della filosofia» (p. 112), tramite il passaggio dall’idea platonico-aristotelica di ‘scienza’, statica e «oggettiva», fondata su un complesso di verità a priori esterne alla mente umana, a un concetto dinamico che intende la verità come una progressiva «produzione della mente» attraverso la kantiana sintesi a priori, che sostituì il tradizionale metodo dell’analisi (p. 116). Per Gentile
l’età moderna è appunto la conquista lenta, graduale del soggettivismo; la lenta graduale immedesimazione dell’essere e del pensiero, della verità e dell’uomo: è la fondazione, celebrata nei secoli, del regnum hominis, l’instaurazione dell’umanesimo vero (p. 114).
Ed è tale processo, impersonato da Vico e poi da Kant e Hegel, che rende possibile una storia della filosofia che non sia soltanto una «storia delle aberrazioni della mente umana dalla verità» (pp. 115-16). Dalla «scienza fatta», fondata sul principio di identità, si passa così, con Hegel, alla «scienza in fieri», basata sul «principio dialettico dell’unità dei contrari», così come «alla verità estraumana, estratemporale, estramondana, succede la verità umana, temporale, mondana: la verità che è storia» (p. 117). Filosofia e storia sono pertanto tutt’uno, e la storia considerata sul piano speculativo (ovvero come «graduale conquista che lo spirito fa di se stesso come attività dell’essere, o come essere che diviene») coincide con la storia della filosofia, in quanto «la filosofia non è una direzione determinata dell’attività dello spirito, ma è la stessa attività dello spirito, considerata in ciò che ha di essenziale davvero e assoluto». Accanto alle storie «speciali», che corrispondono alle molteplici forme dell’umana attività, vi è allora «una storia generale, una storia che è l’unità di tutte le storie speciali» e che ha «per oggetto la produttività dello spirito in generale», e il cui «centro unificatore» è costituito dal «progresso dell’umanità nel tempo» (p. 118). Richiamandosi a Hegel, ma anche a Wilhelm Windelband e a Theodor Gomperz, Gentile insiste sulla «riduzione di ogni forma dell’attività spirituale alla filosofia», per cui
nella storia della filosofia si riassume tutta la storia dell’umanità. […] In breve, la storia è il progresso dell’uomo verso la libertà, come un solo sguardo fugace al corso della medesima ci attesta. E ogni passo verso la libertà vera e propria, nell’individuo e nella storia, è un passo innanzi della filosofia. Libertà è risoluzione e conservazione dell’individualità nella universalità. Libero è chi si sente uno con la legge, e nella legge vede la forma e il valore della propria volontà. […] Ma la libertà non si esaurisce nell’unificazione dello spirito con la legge pratica, perché al di là di questa c’è una legge superiore, che lo spirito non ha minor bisogno di rendere intrinseca a se medesimo: che è la legge dell’essere, la logica, la verità. E questa ulteriore, questa estrema unificazione dello spirito con la verità è la filosofia: la filosofia quale l’abbiamo vista sorgere profondamente umana dal lavoro della riflessione moderna, segnatamente dal criticismo (pp. 123-24).
Nelle pagine successive Gentile trae dall’unità di storia e filosofia alcune indicazioni di metodo per una «storia vera», proclamando che il criterio «filologico e deterministico» (ossia «oggettivo») di «chi guarda alla storia» deve necessariamente coniugarsi con il criterio «logico, speculativo e teleologico» (ossia «soggettivo») di «chi guarda alla filosofia». Impresa non certo facile, e di ciò lo stesso Gentile si mostra consapevole all’inizio del breve paragrafo conclusivo: «Difficile ideale, la storia vera! E nessuna storia mai sarà questa storia ideale, come nessun fatto mai, – ed è fortuna! – tradurrà in atto, puro atto, nessun ideale» (p. 136). Al di là di queste ammissioni, va rilevato che la concezione gentiliana del rapporto tra il «far filosofia» e il «fare storia della filosofia» è permeata da una forte e, diciamolo pure, seducente valenza speculativa, che si è tradotta in una «storiografia fatta di precorrimenti, che “procede a rovescio” dal presente al passato, […] interpretando il presente come lo sbocco fatale e necessario di tutta la storia umana», per cui
tutta la storia della filosofia si riduce a una specie di marcia verso la conquista del concetto di immanenza, a una continua lotta fra trascendenza e immanenza, e questo schema viene applicato anche a periodi, come quello medievale, che meno si prestano a questa riduzione (Rossi 1969, 20023, pp. 34-35).
L’attività storico-filosofica di Gentile, il cui periodo più intenso arriva fino all’inizio degli anni Venti, si presenta assai variegata. L’interesse per il pensiero antico si manifesta negli Studi sullo stoicismo romano del primo secolo d.C. (1904) e nella traduzione (dall’edizione critica di Hermann Diels) della vita e dei frammenti di Eraclito, eseguita nel 1908, ma data alle stampe solo in tempi recenti (a cura di H.A Cavallera, 1995). Al pensiero medievale si riferiscono gli Studi su Dante, compresi fra gli anni 1904-1939, e quattro «letture» sulla scolastica tenute nel 1911 e pubblicate nel volume I problemi della Scolastica e il pensiero italiano. Sulle orme di Spaventa, Gentile si soffermò a lungo sul pensiero del Rinascimento (in particolare su Leonardo, Bernardino Telesio, Giordano Bruno, Galileo Galilei, Tommaso Campanella) e poi su Vico. Varia attenzione è riservata al pensiero dell’Ottocento, da Vincenzo Cuoco. Studi e appunti (1909) alla silloge di studi Manzoni e Leopardi (1928), da La filosofia di Marx (1899) a Il modernismo e i rapporti fra religione e filosofia (1909). Gentile concepì anche il progetto di una storia generale della filosofia (differenziandosi in ciò da Croce, che detestava, come s’è visto, le trattazioni di insieme), ma l’attuazione di tale progetto fu troncata dalla morte: questa Storia della filosofia. Dalle origini a Platone apparve postuma (a cura di V.A. Bellezza, 1964).
In tale quadro complessivo risulta predominante l’interesse per la tradizione filosofica italiana, che funge da elemento unificante di indagini a prima vista slegate fra loro. Uno schizzo storico della filosofia italiana a partire da Dante Alighieri e soprattutto da Francesco Petrarca («uomo intero», in cui si compenetrano religione e filosofia, arte e politica, ma anche precursore di quel «letterato italiano» di cui De Sanctis aveva evidenziato i limiti e i vizi) è tracciato da Gentile nella prolusione del 10 gennaio 1918 al corso di storia della filosofia nell’Università di Roma, ov’era stato appena chiamato. Nelle considerazioni iniziali viene definito il rapporto fra il «carattere nazionale» di ogni filosofia, in quanto storicamente situata, e l’universalità e sovrannazionalità della filosofia in quanto tale; un rapporto che rinvia alla distinzione tra la filosofia colta «nell’atto onde si libera dalle angustie del particolare» (presentandosi così «quale universalità attiva o realizzazione dell’universale») e la filosofia intesa come «fatto nel quale essa apparisce come soluzione solidificata, sistema costituito, […] corrispondente allo spirito d’un certo tempo o d’un certo popolo» (G. Gentile, Il carattere storico della filosofia italiana, in Id., I problemi della Scolastica e il pensiero italiano, 19633, pp. 212-13).
I numerosi studi di Gentile sul pensiero italiano vennero in buona parte riuniti, a cura di Eugenio Garin, in due grossi volumi dal titolo Storia della filosofia italiana (1969). Quest’opera è divisa in sei sezioni: la prima comprende la Storia della filosofia italiana fino a Lorenzo Valla, uscita in fascicoli dal 1904 al 1915 nella collana Storia dei generi letterari italiani dell’editore Vallardi (in effetti il titolo originario era La filosofia, ma la pubblicazione dei fascicoli si arrestò al 15° sec.). La seconda sezione, Il pensiero italiano del Rinascimento, è una raccolta di saggi apparsi nell’arco di un trentennio, in particolare nel periodo 1905-12, nel quale l’interesse si concentrò su Bruno (di lui Gentile pubblicò per Laterza, nel 1907-1908, le Opere italiane in due volumi). La terza sezione comprende gli Studi vichiani, avviati sin dal 1901, ma particolarmente fecondi e incisivi negli anni 1912-14, per poi prolungarsi nel 1938 con la relazione su Cartesio e Vico, tenuta all’Accademia dei Lincei. La Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi – apparsa in prima edizione a Napoli nel 1903 con il titolo Dal Genovesi al Galluppi: ricerche storiche – occupa la quarta sezione, nella quale un posto di rilievo è assegnato a Cuoco (1770-1823) e a Vittorio Alfieri (1749-1803), due personaggi che non vengono situati e valutati nel loro contesto storico e culturale, «ma proiettati tutti verso il Risorgimento, come momento dialettico della negazione della Rivoluzione francese» (E. Garin, introduzione a G. Gentile, Storia della filosofia italiana, 1° vol., 1969, p. 449). Al 1898 risale il volume Rosmini e Gioberti. Saggio storico sulla filosofia italiana del Risorgimento, nato dalla tesi di laurea presentata alla facoltà filosofica di Pisa e che costituisce la sezione quinta. Segue l’ultima sezione, ovvero il vasto studio su Le origini della filosofia contemporanea in Italia, che occupa da solo il secondo volume ed è articolato in quattro libri (“I platonici”, “I positivisti”, “I neokantiani”, “Gli hegeliani”). Tale studio, apparso originariamente su «La Critica» a partire dal 1903 fino al 1914, e poi stampato a parte in tre volumi (1917-1923), «doveva costituire il parallelo ideale de La letteratura della nuova Italia del Croce» (E. Garin, introduzione a G. Gentile, Storia della filosofia italiana, 2° vol., cit., p. 3).
Impossibile, in questa sede, illustrare il puntuale lavoro di analisi su cui si regge la ricostruzione storica di Gentile, pervasa da un disegno unitario che mira a collegare la tradizione filosofica nazionale (in particolare il pensiero del tardo Rinascimento e di Vico) al Risorgimento. Semmai è il caso di citare, a mo’ di esempio, alcuni di quei giudizi icastici quanto lucidamente impietosi, veri e propri epigrammi, cui si è sopra accennato e che riguardano in particolare gli spiritualisti, ovvero i «platonici» italiani dell’Ottocento, a partire da Terenzio Mamiani (1799-1885): «Mediocre in tutto, una volta che gli riuscì di mettersi in vista, trovò nella varietà delle sue occupazioni il modo di conservarsi la fama e non perdere mai il credito» (G. Gentile, Storia della filosofia italiana, 2° vol., cit., pp. 61-62). Quanto ad Augusto Conti (1822-1905), la sua «pseudofilosofia» arrecò «gravissimo danno» alla cultura italiana «per la profonda indifferenza e quasi insensibilità filosofica» che caratterizza le sue opere, superando persino Mamiani «in questa mirabile arte di comporre sistemi sul nulla o quasi» (p. 202). Con Francesco Acri (1834-1913) «il platonismo italiano giunge alla conclusione solita, e necessaria: quella forma di misticismo, che è il naufragio della filosofia» (p. 228). «Positivista in tempo di positivisti ma con tutto un bagaglio addosso di vecchia metafisica» (p. 338): così viene presentato il medico-filosofo siciliano Simone Corleo (1823-1891). Liquidatorio è il giudizio teoretico su Alessandro Chiappelli (1857-1931): «Neokantiano quando neokantiani erano i più accreditati scrittori di filosofia, egli è diventato idealista ora che il neokantismo è fallito: ed è rimasto sempre vigile, alla finestra, a guardare il vento che spirava» (pp. 501-02). L’insofferenza per la tradizione spiritualistica e per il suo modesto livello speculativo spinge così Gentile a valutare positivamente il «grande errore» di Roberto Ardigò (1828-1920), ossia l’aver proclamato che «il fatto è divino, il principio è umano», laddove anche il principio deve essere divino se si vuole salvaguardare la divinità del fatto. Un errore, certo, ma hegelianamente «provvidenziale», perché consentì di «sgombrare la via» dalla «funesta» filosofia spiritualistica in Italia e quindi – ma questo Gentile non lo dice apertis verbis – di preparare dialetticamente il terreno all’avvento della filosofia attualistica. Di qui il benevolo, ma efficace ritratto di Ardigò, il quale nella sua lotta per l’affermazione del positivo e dell’immanente
spese tutto se stesso, con fede invitta, con forza, con costanza instancabile, non indietreggiando innanzi alle più arrischiate e talvolta, bisogna pur dirlo, ridicole affermazioni; senza vani scrupoli, senza esitazioni […]: come si deve, quando si adempie una missione storica (p. 388).
Questo senso di una precisa «missione storica» ispira a maggior ragione il capitolo su “Bertrando Spaventa e la riforma dello hegelismo”, che si chiude con il richiamo alla ben nota (e discutibile) tesi spaventiana sulla «circolazione europea» del pensiero italiano, da Gentile fatta propria e da lui ampiamente diffusa. Di Spaventa viene così esaltato il
vigoroso sforzo di riprendere e rannodare il filo della tradizione nazionale di Bruno, Campanella, Vico e poi dei grandi pensatori nostri dell’età romantica, di rifare criticamente tutto il corso della filosofia europea senza nulla rifiutarne e di porre storicamente il problema più maturo del pensiero moderno. Poiché questo problema era sorto attraverso gli stessi sforzi speculativi dei nostri filosofi, e da esso chi continuerà l’opera di Bertrando Spaventa dovrà muovere (p. 727).
Di tale opera Gentile si fece per l’appunto continuatore, tracciando «una storia degl’intellettuali italiani dal Rinascimento al Risorgimento, nelle loro sconfitte e nei loro esilii, nelle loro affermazioni e nei loro ritorni»: una ricostruzione
fatta di scelte consapevoli, fra cui, forse, la più vistosa è la condanna dell’illuminismo a favore del romanticismo, il sì a Rosmini e il no a Cattaneo. Ma, va aggiunto, scelte operate sempre con grande finezza, si tratti di Bruno o di Vico, di Alfieri o di Leopardi, di Spaventa o di De Sanctis (E. Garin, introduzione a G. Gentile, Storia della filosofia italiana, 1° vol., cit., p. LI).
Il «concetto» neohegeliano di storia della filosofia, così com’era stato sviluppato e applicato da Croce e Gentile, fu fatto proprio da una schiera di fedeli seguaci che, come spesso accade, finì con il far risaltare maggiormente i limiti intrinseci dell’orientamento professato dai loro maestri: limiti che nascevano anzitutto dalla pretesa di assolutizzare il nesso tra la filosofia e la sua storia, e quindi tra il ‘far filosofia’ e il ‘fare storia della filosofia’. Ma in tal modo,
dopo aver a lungo esaltato il circolo necessario della filosofia con la storia della filosofia, come diceva Gentile, o della filosofia con tutta intera la storia del mondo, come preferiva dire Croce, l’idealismo giungeva all’implicita dissoluzione del circolo. Non la filosofia, infatti, è intelligibile nella storia, nella sua storia, bensì la storia è intelligibile nella filosofia, in quella salda e luminosa e netta dimora del pensiero pensante, nella quale essa, la storia, può raccogliere in unità i suoi momenti molteplici (Sasso 1967, p. 48).
Nel secondo dopoguerra e fino agli inizi degli anni Sessanta si assiste pertanto a un’opera di critica radicale della storiografia di ispirazione sia crociana sia gentiliana, che ha i suoi momenti emblematici nella fondazione nel 1946, da parte di Mario Dal Pra, della «Rivista storica della filosofia» (divenuta nel 1950 «Rivista critica di storia della filosofia»), nel convegno fiorentino dell’aprile 1956, presieduto da Nicola Abbagnano, e nella pubblicazione di La filosofia come sapere storico (1959) di Eugenio Garin. E così,
mentre di Gentile […] si sottolineò con acume il singolare e mai risolto contrasto tra il gusto filologico-erudito ereditato dai maestri del metodo storico […] e la “prepotenza” degli interessi filosofici […]; i libri di Croce, ed essenzialmente il saggio hegeliano del 1906 e la monografia vichiana del 1911, furono indicati come esempi di un metodo violentatore, che faceva a pezzi il passato per poi ricomporlo ad immagine e somiglianza del filosofo-interprete, con abilità pari all’arbitrio (Sasso 1967, p. 49).
Ciò non significò tuttavia la totale messa in mora della prospettiva neohegeliana e il ritorno, sic et simpliciter, del metodo e delle idealità della scuola storica di fine Ottocento. Non è un caso che lo stesso Dal Pra, tracciando nel 1951 un bilancio dei primi cinque anni di vita della sua rivista, abbia ripreso il concetto gentiliano del «circolo di filosofia e di storia della filosofia», sottolineando che «il vero punto di partenza resta sempre la filosofia» (Dal Pra 1996, p. 22); e non è un caso che lo stesso Garin, nel sostenere l’idea di una «filosofia come sapere storico», abbia alla fine non accantonato bensì rovesciato la prospettiva gentiliana, salvo conferire alla sua visione storiografica una legittimazione teorica che muoveva dal pensiero gramsciano. Per altro verso, sia la scuola filosofica napoletana sia quella messinese hanno fatto proprie, sebbene in varia forma, talune istanze di fondo della prospettiva storiografica di Croce e Gentile. Né va alfine dimenticato quanto rilevò a suo tempo Gennaro Sasso, e cioè che l’uscita dal neoidealismo e l’approdo al filologismo, quale reazione alla «troppa filosofia» di Croce e Gentile, non hanno risolto l’irriducibile «problematicità» della connessione fra storia e teoresi (Sasso 1967, p. 11), generando un «disagio» che non ha trovato un’adeguata risposta sul piano speculativo. Una risposta – aggiungiamo sommessamente dopo quasi mezzo secolo – che neppure la filosofia ermeneutica affermatasi negli ultimi decenni ha saputo dare.
Sulla storiografia neoidealistica in Italia:
G. Sasso, Intorno alla storia della filosofia e ad alcuni suoi problemi, in Id., Passato e presente nella storia della filosofia, Bari 1967, pp. 9-67.
P. Rossi, La storiografia filosofica dell’idealismo italiano, in Id., Storia e filosofia. Saggi sulla storiografia filosofica, Torino 1969, 20023, pp. 17-69.
G. Cotroneo, Il dibattito sulla storia della filosofia nel Novecento, in Id., L’ingresso nella modernità. Momenti della filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Napoli 1992, pp. 251-92.
M. Dal Pra, Storia della filosofia e della storiografia filosofica. Scritti scelti, a cura di M.A. Del Torre, Milano 1996.
Su Croce storico della filosofia:
A. Bausola, Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano 1965, pp. 153-69.
A. Corsano, Croce e la storia della filosofia, in Id., Interpretazioni crociane, Bari 1965, pp. 153-69.
G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975.
E. Bocca, «Filosofia dello Spirito» e storia della filosofia nel pensiero di Benedetto Croce, «Giornale critico della filosofia italiana», 1980, 59, pp. 286-96.
A. Negri, Croce e la storia della filosofia, in Ritorno a Croce a trent’anni dalla morte, a cura di M. Fabris, Manduria-Bari-Roma 1984, pp. 15-25.
Croce filosofo, Atti del Convegno internazionale di studi in occasione del 50° anniversario della morte, Napoli-Messina 2002, a cura di G. Cacciatore, G. Cotroneo, R. Viti Cavaliere, Soveria Mannelli 2003 (in partic. G. Cotroneo, Benedetto Croce storico della filosofia, pp. 207-20; G. Piaia, Noterelle su Croce storico della filosofia, pp. 723-31).
Su Gentile storico della filosofia:
Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, 14 voll., Firenze 1948-1972 (in partic. E. Garin, Giovanni Gentile interprete del Rinascimento, 1° vol., pp. 207-20; B. Nardi, La filosofia del Medio Evo nel pensiero di Giovanni Gentile, 1° vol., pp. 255-84; A. Corsano, Giovanni Gentile e gli studi sul Rinascimento, 2° vol., pp. 19-26; M.F. Sciacca, Gentile interprete di Rosmini, 2° vol., pp. 151-67; A. Negri, Il concetto attualistico di storia della filosofia, 10° vol., pp. 171-206; P. Piovani, Gentile e la storia della filosofia italiana dal Genovesi al Maturi, 10° vol., pp. 429-43 [rist. in Id., Indagini di storia della filosofia. Incontri e confronti, a cura di G. Giannini, Napoli 2006, pp. 159-80]).
V.A. Bellezza, La molteplicità delle filosofie nella concezione storiografica del Gentile, «Giornale critico della filosofia italiana», 1975, 54, pp. 363-74 (rist. in Id., La problematica gentiliana della storia, Roma 1983, pp. 265-79).
E. Garin, Gentile, storico della filosofia, «Giornale critico della filosofia italiana», 1975, 54, pp. 330-41.
F. Tessitore, Storia della filosofia e storia della cultura in Giovanni Gentile, in Id., Comprensione storica e cultura. Revisioni storicistiche, Napoli 1979, pp. 297-325.
C. Vasoli, Gentile e la filosofia del Rinascimento, in Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, a cura di M. Ciliberto, Roma 1993, pp. 267-308.
A. Savorelli, Gentile storico della filosofia italiana, «Giornale critico della filosofia italiana», 1998, 77, pp. 15-32 (rist. in Id., L’aurea catena. Saggi sulla storiografia filosofica dell’idealismo italiano, Firenze 2003, pp. 201-19).
A. Scazzola, Giovanni Gentile e il Rinascimento, Napoli 2002.
Giovanni Gentile. La filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo, a cura di P. Di Giovanni, Milano 2003 (in partic. E. Berti, Giovanni Gentile e il pensiero antico, pp. 11-21; V. Sorge, Giovanni Gentile, storico del Medioevo, pp. 22-30; D. Bigalli, Gentile, storico del Rinascimento, pp. 31-40; A. Savorelli, Gentile e la storia della filosofia moderna, pp. 41-53 [ora in Id., L’aurea catena, cit., pp. 255-70]; R. Faraone, Kant e la filosofia italiana del Risorgimento nell’inter-pretazione di Giovanni Gentile, pp. 54-69; F. Rizzo, Gentile e “Le origini della filosofia contemporanea in Italia”, pp. 70-93).
B. Haddock, Gentile as historian of philosophy. The method of immanence in practice, «Collingwood and British idealism studies», 2014, 1-2, pp. 17-43.