Croce e i giovani
La calma – aveva scritto Croce nel Contributo alla critica di me stesso (scritto nel 1915 ma pubblicato nel 1918) – «in quanto tale, offre scarsa materia di racconto» (a cura di G. Galasso, 1989, p. 69). Molto più narrabile era l’inquietudine, la febbre di vivere. Anche la lettura era stata una passione quieta, un moto ascendente di conquista intellettuale: i libri non dovevano cambiare la vita né la società. Ché, anzi, quei libri e quegli autori sarebbero stati pericolosi e nocivi, adulterando i processi e i tempi di acquisizione intellettuale e maturazione umana degli individui. Croce dislocava da sé, alla Goethe, le sue pedine sulla mappa dell’autobiografia-storia. Quindi, lui nato nel 1866, avrebbe potuto diventare il Nestore generazionale per i nati negli anni Ottanta.
Il rapporto tra Croce e i giovani era cominciato quando, il 27 giugno 1896, il filosofo aveva inviato da Torre del Greco una cartolina postale di ringraziamento a uno studente della Scuola Normale di Pisa, un certo Gentile, che gli aveva in precedenza inviato un estratto (pubblicato negli «Annali della R. Scuola Normale Superiore», 1896, 11, pp. 4-129) della sua ricerca Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca. Gentile si sarebbe rivelato un interlocutore d’eccezione, fin da subito collaboratore e amicissimo, fino alla rottura – fattasi definitiva nel gennaio del 1925, in seguito alla svolta dittatoriale del governo Mussolini –, e poi protagonista della più drammatica vicenda che la filosofia italiana abbia vissuto nel corso del Novecento. Il rapporto con Gentile è testimoniato da una vasta mole di lavoro in comune, che è parte della storia della filosofia italiana, e da un carteggio vastissimo.
Deve essere preliminarmente specificato che i giovani ricordati nel titolo del presente saggio sono in primo luogo quelli (nati tra il 1879 e il 1888) qui elencati: Ardengo Soffici, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Renato Serra, Clemente Rebora, Giovanni Boine, Giuseppe Ungaretti. Ma non sono i soli. Altri nomi, e personalità, sono iscrivibili d’ufficio storico a questa lista di interlocutori, conformi o diversamente orientati rispetto alle prospettive del crocianesimo, inteso come istituzione mentale piuttosto che come persona. Croce stesso fu vissuto più come una istituzione che come un individuo; questo, appunto, spesso capita a personalità che si sono identificate nella propria opera, e nell’opera riconosciute. Si legge nello Schedario bio-bibliografico che accompagna in appendice uno degli epistolari di Ungaretti: «Contro il filosofo idealista, “parruccone passatista” come lo chiama Marinetti, si sono appuntate tutte le critiche e rivolte le opposizioni dell’avanguardia estetica dai primi del Novecento» (Lettere a Soffici, 1917-1930, a cura di P. Montefoschi, L. Piccioni, 1981, p. 152).
Croce – un sapiente, un mentore equilibrato e lungimirante – si trovò di fronte a una generazione di intelletti ardenti, nervosi, animosi, ambiziosi, non di rado velleitari, solisti poco inclini a riverire la bacchetta di un direttore d’orchestra. I temperamenti erano troppo diversi, a volte antitetici. E qualche rara volta l’antitesi, lungi da immiserirsi in polemismi d’accatto, che pure ci furono, riuscì produttiva. Si può immaginare il fastidio di Croce, campione di sobrietà, di fronte all’ostentazione di teatrale sincerità di Papini e alla sua affermazione sulla ‘vita finita’ (Un uomo finito, 1913). Papini e il papinismo erano un sistema, antitetico al crocianesimo, una fantasmagoria di effetti cerebrali, cervellotici, come dirà Prezzolini: «i Ventiquattro cervelli son stati raccolti per far conoscere lui attraverso quello che degli altri pensava» (Quattro scoperte. Croce, Papini, Mussolini, Amendola, 1964, p. 61). Altri ancora parteciparono a questo certame dialogico, che contribuì notevolmente a rinnovare la prosa concettuale italiana, superando lo sbarramento fra prosa critica (meramente letteraria) e prosa filosofica.
Da allora la vera critica, quella degna di questo nome, non poté che fregiarsi di un attributo speculativo, fu quindi anche critica filosofica. Parlarono per questi giovani, e del loro rapporto con il filosofo – rapporto intenso e tormentato ma ineludibile –, i carteggi, veri monumenti della testimonianza pressoché quotidiana. Monumenti anche di trasmissioni di modelli culturali, talora in sincronica sintonia, più spesso in contrapposizione. Croce visse un’intera stagione della sua vita rappresentando un esempio di lavoro intellettuale, nel senso che fu assunto a modello, venerato, vilipeso come exemplum d’inarrivabile lucidità e calcolata potenza strategica. Anche Serra, in una pagina dell’Esame di coscienza di un letterato («La Voce», 30 aprile 1915, pp. 610-32), parlò del «pedagogo fra astioso e untuoso» (ed. 1994 in volume separato, a cura di V. Gueglio, p. 15). Ma se andiamo avanti nel tempo, al Croce vecchio, vedremo che il rapporto continuava e si rinnovava. In una lettera a Giustino Arpesani, Federico Chabod scriveva da Napoli il 12 aprile 1947 di essere stato chiamato nel febbraio di quell’anno ad assumere la direzione dell’Istituto italiano per gli studi storici, fondato da Croce e tempio operativo del crocianesimo (le dieci conferenze di Croce agli studenti dell’Istituto, pronunciate negli anni accademici 1948-49 e 1949-50, saranno raccolte nel libro Storiografia e idealità morale. Conferenze agli alunni dell’Istituto per gli studi storici di Napoli, e altri saggi, 1950): «più fortunato di così non avrei potuto essere: qui vivo la mia vera vita, che è quella dello studioso, e fra i libri, le conversazioni con Croce» (cit. in Angelini, Grippa 2015, p. 337). Croce, le sue conversazioni, i suoi libri, la sua casa divenuta istituzione-bottega di istruzione per gli studi storici: la sua presenza magnetica aveva toccato la sponda di un’altra generazione.
Sì, come ha scritto nel 1966 Gianfranco Contini in un saggio (L’influenza culturale di Benedetto Croce, «L’approdo letterario», 1966, 12, pp. 3-32) a tutt’oggi capitale per interpretare il dosaggio psicologico generazionale fra Croce e gli anticrociani, il sentimento divenuto araldico del nostro secolo è stato l’angoscia e la disperazione (ed. 1989 in volume separato, con il tit. La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, pp. 6-7). Un altro grande critico di oggi, George Steiner, ha sostenuto (My unwritten books, 2008; trad. it. 2008, p. 210) che, date le minacce incombenti da ogni parte (e in lui parlano anche la storia e l’esperienza della Shoah, assenti nella storiografia crociana), solo lo spazio della vita domestica può garantire alla psiche la sua sopravvivenza, uno spazio di accasamento, di accudimento. Croce argomentò propriamente la teoresi del conforto in un articolo intitolato De consolatione philosophiae («La Voce», 10 giugno 1909): «se il pensiero è tanto utile che, senza di esso, il Reale non sarebbe, non si può accettare il comune concetto di una filosofia sconsolante» (p. 105). Pertanto la dimensione di affinità, su cui si sono misurate le solidarietà più intime ed elettive, si è costituita – a ragione o a torto – nell’ambito di quei sentimenti e di quelle emozioni. Per stare alla specificità biografica plutarchea del nostro tema: massima vicinanza al Croce intimo e confidente, all’umano e domestico, del Contributo; distanza ed estraneità dal Croce divenuto simbolo di salute mentale e di un astratto illimitato progresso; il progresso, questa salute della storia, che faceva il paio con la salute mentale dell’interprete e del teorico di quella storia. Ha scritto uno dei biografi di Croce, Fausto Nicolini: «tra i molti e grandi doni elargiti da Dio al Croce era quello di una salute di ferro» (Benedetto Croce, 1962, p. 434).
La legge del perpetuo progresso sanciva nel suo sistema non esserci in senso assoluto nella storia mai decadenza alcuna, la quale, qualora fosse stata, sarebbe stata sempre relativa (emotiva e personale, il piagnisteo irriso negli stereotipi del peior avis e del nequior), e a sua volta germe di formazione di nuova vita e pertanto nuovo progresso. Sapeva Croce che quel portentoso divenire, tutto lineare e progressivo, di drammi che conoscevano solo soluzioni, era stato messo in forse, fortemente revocato in dubbio anche dalle filosofie, oggetto di satira e di scherno. Anche la successione delle opere, nel Contributo e in ogni altra agenda-riepilogo di opere e giorni, veniva descritta come una irresistibile avanzata:
E potei dar fuori nel 1905 un primo disegno di Logica, nel 1906 il saggio sullo Hegel, nel 1907 l’abbozzo della mia Filosofia del diritto come Economica, nel 1908 la completa Filosofia della pratica, nel 1909 in forma sviluppata la Logica (Contributo, cit., pp. 48-49).
E altri titoli e conquiste teoriche seguivano, senza pause né tregua, con l’orgoglio della progettualità rispettata e della laboriosità esaudita. L’arte dell’imparare e del realizzare era stata appresa senza dissipazioni di energia. Quale fecondità a fronte dei vuoti, della sterilità che potevano incidere negativamente in altre biografie, tutte più o meno contrassegnate da una crisi. Chi mai avrebbe potuto competere, tra pigrizie, angosce esistenziali, oggettive difficoltà di trovare uno spazio e un ruolo nella società culturale e nella società tout court? Questo fu il crocianesimo, un modello inarrivabile e pertanto, come ogni virtuosa esemplarità, fastidiosa e osteggiata.
Nell’ambito del conflitto generazionale fra il maestro e i discepoli, di qualcuno di questi Croce avrà sicuramente avuto opinioni meno che lusinghiere, soprattutto quando più vertiginose ne erano state le manifeste ambizioni (il leonardismo, il superomismo, gli uomini che si dichiaravano finiti a trent’anni). E, d’altra parte, Croce e il suo magistero furono intesi da una generazione acclimatata al dramma come una sedimentazione nel tempo senza pathos, un frigido database. Si legga il profilo crociano Ibsen, che costituisce la decima delle sue Note sulla poesia italiana e straniera del secolo decimonono («La Critica», 1921, 19, pp. 1-11), per respirare quell’aura di dramma – i personaggi di Hendrik Ibsen (Edda Gabler, il costruttore Solness, il pastore Brand, Rita Allmers) non sono certo «animali a sangue freddo» (p. 10) – e sentirla sì riconosciuta ma anche protocollata, e respinta, come la «brama dello straordinario, dell’intenso, del sublime, dell’inconseguibile» (p. 1). Quel tempo, nell’agonia dell’Ottocento, fu ibseniano, case di bambola che si frantumavano, grandi uomini che fallivano le loro mete e precipitavano, e una quota di ibsenismo si trasferì al vocianesimo (si pensi a Scipio Slataper, interprete nel 1912 del drammaturgo norvegese nella sua tesi di laurea a Firenze, pubblicata postuma nel 1916 con il titolo Ibsen).
Non solo. Anche la liquidazione di un fenomeno storico e politico che aveva coinvolto intere masse europee, il marxismo, riportato da Croce al suo fondo utopistico, fu sentito e respinto come un’astrazione superba da dottrinario. Dopo che Croce pubblicò, sotto lo pseudonimo di Falea di Calcedonia, l’articolo La morte del socialismo (Discorrendo con Benedetto Croce) («La Voce», 9 febbraio 1911, pp. 501-02), le reazioni si estesero su una varia gamma; alcune, stimolate dal semplicismo del dotto, anche satiriche (Claudio Treves affermò che «il filosofo è quella persona che non sa se esiste o non esiste», La flanella del filosofo, «La battaglia», 18 febbraio 1911). Croce metteva in conto l’onda d’urto delle sue teorie, e non se ne adontava.
La guerra, nel periodo della neutralità e dell’interventismo, lo vide assumere una posizione impopolare presso la generazione dei giovani; la sua posizione era giudicata onesta e coraggiosa ma era avvertita come segno di pedanteria e di freddezza d’animo, come una forma di dottrinarismo. A raccontare quel tempo fu L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra (1919). Croce si schierò per una ‘neutralità condizionata’, e fu avverso a ogni declinazione dell’interventismo ideologico (prevalentemente democratico e rivoluzionario) e a ogni forma di propaganda; convinto che la guerra fosse un male estremo senza riscatto, cercò fin che poté di tenere l’Italia fuori dal conflitto. Poi, a guerra dichiarata, aderì con appassionata lealtà al patriottismo. Il lealismo alla ‘Triplice alleanza’ (il patto militare difensivo stipulato nel 1882 da Italia, Germania e Austria) contribuì a determinare un altro periodo cruciale nei rapporti di Croce con la cultura italiana. Quelli che lo attaccarono come germanofilo furono i giovani entusiasti della guerra (mussoliniani, sindacalisti rivoluzionari, seguaci di Georges Sorel educati alla filosofia della violenza – Croce aveva scritto nel 1909 la prefazione a Considerazioni sulla violenza, traduzione di un libro del filosofo francese, Réflexions sur la violence, 1908 – ma anche democratici), i giovani che avevano abbracciato l’ideale della guerra in sé o quello della guerra antigermanica.
Il tema generazionale apre il varco anche alla vita individuale di Croce, di cui oggi sappiamo qualcosa di più. Altri resoconti di esponenti di quella generazione deposero più sul versante del pettegolezzo – non esente talvolta da interessi corporativi – che del dolente confronto o dell’esame di coscienza, e imputarono a Croce ottusità e soprusi. Non era così, naturalmente, ma tale era il crocianesimo percepito. Come avveniva nei “Peccati di pensiero” («La Critica», 1915, 13, pp. 67-69) – una delle sue note periodiche intitolate Frammenti di etica, pubblicate sulla sua rivista tra il 1915 e il 1920 e raccolte nel volume omonimo nel 1922 –, il rigorismo si faceva prescrittivo di elementi della vita profonda, ed era respinto come inquisitorio, allorché Croce scriveva che anche il «sogno» di un desiderio «infiacchisce» il carattere ed è da giudicarsi come «una mancanza al dovere» (p. 68).
Questa non compatibilità caratteriale, dovuta a un abito mentale di distinzioni, puntualizzazioni, classificazioni, alla pretesa nella contingenza specifica di enunciare la verità (come si dice in un altro dei Frammenti, quello su Dire la verità, «La Critica», 1915, 13, pp. 157-60), si sommava anche a un altro elemento di eventuale distanza, nel senso che copriva di fatto una diversa concezione del fare intellettuale. Croce rappresentava il binomio della grande erudizione settecentesca e l’eredità della filosofia germanica, che significava lingua e cultura tedesca, qualcosa di profondo e per molti, i più, inaccessibile. Il carico dei saperi della nuova generazione era assai più lieve, per quanto potesse in taluni casi essere ricco di lieviti, più luccicante (ma «il luccicore – chiosava Nicolini a proposito delle alzate d’ingegno di Papini – è cosa ben diversa dalla profondità», Benedetto Croce, cit., p. 439), ma sprovvisto di quella ponderalità di dottrine. In verità si poteva convergere sull’anticrocianesimo o seguendo l’ispirazione del pathos o quella assai diversa della scepsi (il pirronismo agnostico), la recusazione in forma di protesta della razionalità storiografica. Si poteva cioè essere contro Croce o per passione o per diffidenza verso le sue salvifiche formule di teoria e storia della storiografia. Sulla storia il confronto fu aspro e incomponibile.
Qualche testimonianza di diversa natura la si raccoglie nei carteggi. Per es. quella di Guido Mazzoni, il quale, in una cartolina da Firenze del 24 giugno 1912, scriveva a Croce: «Tu sei mirabilmente capace di stare in cielo e in taverna, coi santi e coi fanti!» (B. Croce, G. Mazzoni, Carteggio 1893-1942, a cura di M. Monserrati, 2007, p. 103). E certo Croce era meno accademico di Mazzoni, bersaglio di uno scatenato Papini stroncatore (Il Professore Guido Mazzoni, «La Voce», 19 maggio 1913, pp. 1085-86).
Un’altra testimonianza – questa volta sul Croce dei primi anni Novanta dell’Ottocento, quando esordiva negli studi storici – viene da Francesco D’Ovidio, in una lettera a Pasquale Villari del 25 dicembre 1894. Villari si era sorpreso e risentito della risposta aggressiva di Croce quando gli aveva esposto le tesi contenute nel suo saggio La storia è una scienza? («Nuova antologia», 1891, 31, pp. 409-36, 32, pp. 609-36, e 33, pp. 209-25), cui Croce aveva opposto la memoria del 3 marzo 1893 La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte («Atti dell’Accademia pontaniana», 1893, 23, pp. 13-32, poi, 3a ed., in Primi saggi, 1918, 19513, pp. 1-41), punto dirimente nella vicenda del suo pensiero e dell’intero sistema. D’Ovidio rispondeva spiegando che Croce era un «temperamento singolare» (cit. in Giammattei 1999, p. 977), e la singolarità, il tratto disadorno del carattere, venivano in parte dall’essere un rampollo di salde fortune patrimoniali, nonché un solitario, abituato a dettarsi lo spartito, e poco propenso a corrispondere in umiltà alle diplomazie dei rapporti sociali. Così lo descriveva: «Non suol essere aggressivo, ma non si sente mai in dovere d’essere amabile, e riesce troppo spiccio anche quando non è propriamente brusco».
In realtà Croce era amabile (e generoso). Serra, insieme a Luigi Ambrosini, aveva raccolto la sua viva voce in un’intervista (Con Benedetto Croce, «Il Marzocco», 11 ottobre 1908, poi, con il titolo Discorrendo di sé stesso e del mondo letterario, in Pagine sparse, 1° vol., Letteratura e cultura, 1943, pp. 206-13), che all’interessato non era dispiaciuta, pur tra perplessità e più di una rettifica. Il tema era quello della storia, se scienza o arte. Rapportarsi con Croce significava un impegno, un patto d’azione intellettuale, e la memoria, l’etica di Croce non dimenticavano quel patto. Nessuna pressione solitamente discendeva da lui, non era uomo da imporre alcunché, e tuttavia aveva accumulato una sufficiente autorità per imporsi, pur senza la necessità di imporre. Diretto, non simulava stati d’animo e opinioni, e teneva distinta la «critica» dalla «cortesia» (Critica e cortesia, «La Critica», 1905, 3, pp. 535-36).
Molte partite di biografie personali, in rapporto a Croce e quindi al suo magistero, si giocarono entro quello spazio psicologico, occupato anche dalla sensazione di dominio nonché da quegli atteggiamenti della persona, insofferente di pause ingiustificate nel lavoro, cultore del lavoro ben fatto, né troppo incline a scusare negligenze e interruzioni dovute a crisi non bene identificate («Mi ascolti, lavori», era un suo abituale auspicio, una clausola, nelle lettere private ad alcuni di quei giovani). In anni di avanguardie, in tempi di parricidi, innovazioni a tutti i costi, abiure violente del passato e idolatrie del nuovo, il pathos fu un atteggiamento mentale, un priapismo emotivo, una filosofia. A esso, al nuovo che avanzava come una minaccia, a quelle velleità intenzionali, che stentavano a tradursi in opere o più semplicemente nell’etica dell’onesto lavoro, il filosofo, innamorato sinceramente del passato – in questo amore genuino stava il suo primo istinto di storico – corrispose coerentemente, con un’attenzione partecipe sì, ma dosata e finalizzata, vale a dire con un credito erogato in vista dei risultati (il lavoro culturale individuale e comunitario), e dalla parte dei suoi interlocutori fu vissuto a fasi alterne, e giudicato per gli esiti contraddittori, talora illuminanti, anche per l’effetto di contrasto, spesso deludenti, con un residuo di rancore.
«Lui è Croce ed io sono un pulcino. Dico che è generoso e coraggioso quello di schiacciarmi o tentar di schiacciarmi a questo modo», scriveva Boine a Prezzolini il 4 aprile 1912 (Carteggio, 1° vol., Giovanni Boine, Giuseppe Prezzolini, 1908-1915, a cura di M. Marchione, S.E. Scalia, 1971, p. 71). Questo lamento è per molti aspetti negativamente esemplare di una relazione di cultura, e di un patimento generazionale di egemonia culturale: Croce è il gigante, e i giovani appaiono pigmei di fronte a questo Gulliver benevolo ma anche autoritario e schiacciante.
Si veda un altro scambio epistolare, rivelatore di analoghi stati d’animo, covati nel tempo e che aspettavano solo l’occasione per esternarsi: una lettera che Vincenzo Cardarelli inviò a Croce da Roma, il 18 ottobre 1919. Il letterato della «Ronda» coglieva il momento per dichiarare all’interlocutore una modesta quanto assoluta solidarietà, quella con l’antipascolismo di Croce, che la rivista romana condivideva; ma poi si lasciava andare a questa confessione:
Una benemerenza di questo genere giustifica ai miei occhi tutti i dispiaceri che ha voluto darci in questi ultimi tempi esercitandosi, con un metodo di cui Lei solo è capace, a sgonfiare molte nostre generose e indispensabili ammirazioni per questo o quel poeta (in Epistolario, 2° vol., 1916-1932, a cura di B. Blasi, 1987, pp. 657-58).
Croce il disillusionista per professione, o forse vocazione, magistrale. Aldo Palazzeschi aveva ormai 46 anni ma certo si ricordava solidalmente del suo passato lacerbiano-futurista e di quello analogo di alcuni colleghi, quando, il 28 ottobre 1931 – rispondendo a un’intervista della «Gazzetta del popolo» di Torino facente parte di una serie di articoli intitolata Inchiesta mondiale sulla poesia –, esternò con una certa foga da antichi risentimenti:
Bisognerebbe intanto poter dire che cos’è la poesia. Benedetto Croce ci ha messo trent’anni per farci sapere che di poesia non aveva capito niente, e in un paese dove le cose si capiscono al volo (cit. in A. Palazzeschi, Ritratti nel tempo: interviste 1934-1974, a cura di G. Colli, 2014, p. 53).
Croce, divenuto istituzione, ispirava la satira che sugli uomini delle istituzioni, detentori in quanto tali di una qualche rendita d’autorità, solitamente si esercita.
Soffici, autore nel 1911 della monografia Arthur Rimbaud, reagì sempre scompostamente al magistero di rito partenopeo. Serra, in un passo delle Lettere (1914, a cura di U. Pirotti, 1989, p. 194), gli obiettò che quel poco di chiarezza metodologica che Soffici aveva racimolato la doveva a Croce. L’estetica della intuizione lirica, e la concezione individualistica e personalistica della storia letteraria, risultarono contigue. L’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902) di Croce fu un viatico (per Prezzolini e Papini) allo studio di Henri Bergson. Vi furono anche questi cortocircuiti, imprevedibili contiguità teoriche, nei rapporti di generazione con la personalità crociana. Croce fu rimosso anche in seguito, come padre nobile dell’antifascismo, dalla generazione degli ermetici (Bo 1994, p. 201).
L’incontro dei giovani con Croce fu anche uno scontro e un conflitto. Tuttavia riuscì qualcosa di più significativo e sensibile per le storie e le biografie di ciascuno. Di molti intellettuali del primo Novecento si può raccontare una biografia, o un suo segmento, partecipati da Croce o a quella di Croce contigua e partecipe. Ci fu un tempo crociano della loro vita. Questo intreccio, depositato in varie lettere, fu fenomeno raro, che depone a favore dell’umanità di Croce. Esso designò uno dei temi centrali della biografia intellettuale e affettiva del filosofo, poiché coinvolse, spesso suo malgrado, l’uomo Croce, chiamandolo le rare volte a parlare di sé – allergico com’era all’autobiografismo, ma non alla storicità di se stesso e all’autobiografia dell’opera – o a esporre parole sempre misurate di una più intima confidenza. Croce è stato un uomo letteralmente formatosi nella sventura. La salvezza era stata conquistata, non era stata data in natura. Nulla era dato in natura, e questa era anche la sua filosofia. L’angoscia, che lo portava a letto la sera nella speranza di non destarsi al mattino, fu materia di vita, una prima vita, non rimossa ma superata, quindi materia del pensiero.
Nel rapporto con l’altro da sé, con i giovani – una generazione stürmer, romanticamente assillata dal sé – Croce ebbe modo di dolersi di un fraintendimento che lo offendeva, essere un animo freddo, povero di emozioni. A Boine, nel corso della polemica sull’estetica del 1912, aveva mandato a dire che ormai erano assodate «la mia frigidità psichica e la mia impotenza sentimentale!» (Amori con le nuvole, «La Voce», 4 aprile 1912, p. 789, poi in Polemica Boine-Croce, appendice a G. Boine, Carteggio, 1° vol. cit., p. 163). Immagine che era divenuta una vulgata.
Il filosofo – per quanto non ci abbia mai dato «la rappresentazione del suo caos» (G. Debenedetti, Sullo “stile” di Benedetto Croce, «Primo tempo», 1922, 4-5, poi in Saggi critici. Serie prima, 1929, a cura di C. Garboli, 1969, p. 46) – bene conosceva il suo passato (la morte dei genitori, il cataclisma, la rovina, l’improvvisa e apparentemente irredimibile catastrofe), sapeva come la sorte potesse mutare volto repentinamente (la morte di Angelina Zampanelli, sua compagna di vita – «d’imperiale bellezza», la definì in varie occasioni Prezzolini –, spirata quasi all’improvviso all’alba del 25 settembre 1913), e sapeva altresì di averle sconfitte, le ombre, sul cammino. Ai giovani amici raccomandava: mai indulgere a pose dolenti, a sofferenze coltivate oltre il lecito, all’inerzia delle emozioni negative, e reagire, recusando le filosofie da maleficio (il leopardismo ‛arimanico’) e i miraggi agnostici (il Lev N. Tolstoj di Guerra e pace). Il lavoro, la redenzione operativa, erano l’unica terapia che conoscesse. Nessun vitalismo, ma una vitalità concreta, pragmatica, un’operatività salvifica.
L’idealismo fu l’uomo intero – Croce ebbe orrore dei detriti e rifiuti tanto apprezzati dall’area analitico-medica – e in quella interezza, nella vigile integrità e intensità dell’umano, cercò e credette di trovare sempre la personalità e la sua storia. Nella costellazione delle relazioni biografiche crociane, si riscontra una metodica diffidenza nei confronti dell’approccio personale basato sulla psicologia, e, se non l’assenza di questa (e di psicologismi), si constata la tendenza ad assestare i rapporti e a consolidarli su un piano di consapevolezza reciproca, di condivisione progettuale. Per Croce l’uomo era un microcosmo, non in senso naturalistico ma storico, un compendio di storia universale. Ogni rapporto che l’essere umano stabilisse, muoveva l’intera storia. Il filosofo aveva – o si era trovato a sviluppare, data la posizione acquisita di leadership intellettuale – un’indole dialogica e maieutica, che era avvertita (e subita) come pedagogica, e mal tollerata. Croce non era un accademico, ma il crocianesimo poté ammantarsi nel tempo – per accumulata sapienza, prestigio, potere – di un’istituzionalizzata accademia di ritorno (auctoritas), entrando allora in rotta di collisione con le libertà personali di ciascuno, bene di cui ogni individualità di quella consorteria era gelosissima, al limite dell’eccessiva valutazione di sé. Croce fu sentito, e temuto, come colui che spegneva le fiamme dell’esaltazione, il pompier.
Per la generazione delle avanguardie, Croce presidiava i territori del passato e accampava un’idea di ragione che si specchiava egemone sugli spazi che quella generazione intendeva ancora perlustrare. La distinzione era la categoria sotto tiro: che significato poteva avere la filosofia dei distinti se l’uomo si sentiva, e di fatto era, un amalgama in fusione, estetico e concettuale insieme? La filosofia crociana, la filosofia di sistema, quella più condizionata dalla totalità teoretica di riferimento, giungeva ai giovani compagni di strada come filosofema sdrammatizzante, un placebo su problematiche e drammi ai quali nessuno intendeva rinunciare.
Croce si pose all’ascolto di alcune voci dell’avanguardia, e cercò di acquisirne alcune a una comune ricerca (Casini 2002, pp. 58-65). Benché critico di quello che lo psicanalista Charles Baudouin chiamò, nel titolo di un suo libro, Le mythe du moderne (1946) – come di ogni altro mito –, gli va riconosciuto che l’ascolto iniziale non fu mai oscurato e negativamente condizionato da un pregiudizio antigenerazionale e antigiovanilistico. Al «Leonardo», alla sua vena di esplorazione nel mondo delle idee, aveva guardato con qualche interesse, non foss’altro che per l’intelligenza di Papini, che non era sfuggita alla sua attenzione (cfr. B. Croce, G. Papini, Carteggio 1902-1914, a cura di M. Panetta, 2012, pp. 21-65). Tuttavia l’intelligenza era certamente un valore, una risorsa, conditio sine qua non, ma non era, per Croce, sempre e comunque un merito. Si deve tener conto di questa sua metodica cautela nel valutare gli effetti del mero potenziale intellettivo, quando non fosse sostenuto, equilibrato e finalizzato da un’articolata dotazione di altri benefici teorici e pratici: fra tutti, l’etica. Senza etica, o la responsabilità delle parole e delle idee, l’intelletto slittava sul pedale della sofistica.
Nelle nuove generazioni Croce osservava intelligenze fiacche, intelligenze oscure e di torbido acume, intelligenze troppo accese e devianti. Ai suoi occhi, la prima poté apparirgli in certi momenti l’intelligenza di Serra, su cui pure aveva fatto affidamento, corrosa da acidi esistenziali rovinosi. La seconda gli sembrò quella di Boine, nel corso della polemica innescata dal giovane intellettuale sull’estetica dell’ignoto (cfr. Un ignoto, «La Voce», 8 febbraio 1912, pp. 750-52; L’estetica dell’ignoto, «La Voce», 29 febbraio 1912, p. 766, cui Croce aveva risposto con il già citato Amori con le nuvole). La terza fu vista in Papini, rapporto – dopo l’attenzione iniziale – presto troncato. Questi legami non erano stati pure e semplici amicizie, e anche quando fossero state amicizie (come tra Croce e Gentile), amicizie soltanto non erano, né potevano essere, ma qualcosa di più complesso, stratificato, storico, afferente all’evoluzione mentale ed etico-politica di ciascuno dei contraenti nel contesto di una relazione che chiedeva impegno, confronti continui, ed era anche una variabile dipendente dalla storia stessa della nazione. L’amicizia era stata anch’essa una relazione storica. Le affinità psicologiche, la naturale empatia emozionale che si potevano stabilire fra alcune persone indubbiamente erano presenti anche in questi intrecci di biografie, ma non sarebbero bastate ad arginare i disaccordi cresciuti su altri territori, che non erano le reciproche individualità ma piuttosto il confronto delle moralità, le proprie responsabilità di intellettuali nel decorso degli eventi politici. La guerra prima e il fascismo poi misero a cimento la tenuta di queste relazioni e molte non resistettero alle dure prove della storia italiana del Novecento.
Bibliografia
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