Croce e il Concordato del 1929: ‘Parigi non vale una messa’
Nel discorso pronunciato l’11 marzo 1947 all’Assemblea costituente sul progetto di Carta fondamentale della Repubblica italiana (Discorsi parlamentari, con un saggio di M. Maggi, 2002, pp. 183-88), Croce asseriva che «l’opera non è felicemente riuscita» (p. 183). A sostegno di questa affermazione non solo ricordava che in un testo redatto da più persone necessariamente era venuta a mancare l’armonia e la logicità che discendono da quell’unitaria visione sintetica assicurata dall’elaborazione di «un’unica mente di scrittore» (p. 184), ma insisteva soprattutto su un altro argomento: i rappresentanti dei tre partiti al governo, anziché dedicarsi alla redazione di un complesso di norme giuridiche in grado di garantire a tutti i cittadini italiani «la sicurezza del diritto e l’esercizio della libertà» (p. 185), si erano impegnati in negoziati «che hanno messo capo ad un reciproco concedere ed ottenere, appagando alla meglio o alla peggio le richieste di ciascuno» (p. 184). E vedeva la «prova diretta» (p. 185) di questo modo di procedere nella proposta di includere i Patti lateranensi nel testo della Costituzione. In particolare tale proposta gli appariva frutto di un compromesso intervenuto tra comunisti e Democrazia cristiana che giudicava assai negativamente. A suo avviso, infatti, recava in sé una patente contraddizione: non vi poteva essere nulla in comune tra la costituzione di uno Stato e un trattato tra Stato e Stato. Questo «scandalo giuridico» (p. 186) era poi aggravato dall’assunzione da parte italiana di un obbligo unilaterale: l’impegno a non modificare l’articolo in questione del testo costituzionale senza il consenso preventivo del Vaticano.
Tuttavia, per chiarire la sua posizione, Croce subito dopo sosteneva che non era in linea di principio contrario a un’intesa tra la Chiesa e lo Stato. Argomentava questa sua affermazione rievocando l’intervento che aveva pronunciato il 24 maggio 1929 (Discorsi parlamentari, cit., pp. 173-77), allorché, dopo l’approvazione della Camera, erano stati sottoposti all’esame del Senato i disegni di legge che rendevano esecutivi gli accordi firmati il precedente 11 febbraio dal segretario di Stato della Santa Sede, Pietro Gasparri, e dal presidente del Consiglio italiano, Benito Mussolini. Come è noto, essi erano composti da tre documenti: il Trattato con cui la Santa Sede riconosceva lo Stato italiano e quest’ultimo riconosceva la sovranità papale sulla Città del Vaticano, proclamando al contempo il cattolicesimo religione nazionale; il Concordato, che regolava le relazioni dello Stato con la Chiesa italiana, attribuendo a essa in materia matrimoniale, fiscale, educativa e giurisdizionale una serie di privilegi e vantaggi; una convenzione finanziaria con cui il governo italiano versava alla Santa Sede una consistente somma come indennizzo per la conquista della città di Roma avvenuta nel 1870. Il filosofo così ricostruiva il suo atteggiamento nella seduta del Senato che aveva discusso questa normativa:
Parlai io solo in Senato, nel 1929, contro i Patti lateranensi; ma anche allora dichiarai nettamente che non combattevo l’idea delle conciliazioni tra Stato e Chiesa, desiderata e più volte tentata dai nostri uomini di Stato liberali, perché la mia ripugnanza ed opposizione si riferiva a quel caso particolare di conciliazione effettuato non con una Italia libera, ma con una Italia serva e per mezzo dell’uomo che l’aveva asservita, e che, fuori di ogni spirito di religione come di pace, compiva quell’atto per trarne nuovo prestigio e rafforzare la sua tirannia (p. 185).
Il brano costituisce una preziosa introduzione all’intelligenza dell’atteggiamento del filosofo verso la stipula dei Patti lateranensi.
In primo luogo mette in luce un dato di fatto: la sua era stata l’unica voce a levarsi in quella sede contro gli accordi. La prima giornata di dibattito, il 23 maggio 1929, aveva visto sfilare una serie di esponenti del mondo cattolico da tempo aderenti al fascismo – Carlo Santucci, Carlo Ottavio Cornaggia Medici Castiglioni, Alessandro di Rovasenda, Edoardo Soderini – i quali avevano esaltato in termini celebrativi il raggiungimento di un obiettivo – la fine del dissidio tra lo Stato unitario e la Chiesa – da lungo atteso dai credenti italiani. Nella giornata successiva un altro senatore cattolico, Filippo Crispolti, aveva svolto un ampio intervento che aveva redatto in accordo con la curia vaticana. Vi intendeva mostrare che era possibile trovare nella lettera dei Patti una piena convergenza tra il discorso tenuto da Mussolini alla Camera il 13 maggio precedente – in cui questi aveva sostenuto, con un linguaggio aggressivo e sprezzante verso la religione cattolica, che l’intesa raggiunta con la Chiesa non metteva in questione il volto totalitario dello Stato fascista – e la ferma replica con cui il giorno successivo il pontefice, Pio XI, manifestando disappunto per l’inaspettata sortita di Mussolini, aveva puntualmente rivendicato l’insieme delle libertà che il Concordato assicurava all’istituzione ecclesiastica. Aveva poi preso la parola il giurista Vittorio Scialoja, figlio di Antonio Scialoja, il ministro delle Finanze che nel 1866 aveva firmato, assieme a Francesco Borgatti, un celebre progetto di legge tendente a risolvere nell’ottica del separatismo cavouriano la condizione della Chiesa nello Stato unitario. Tipico esponente di quel settore della classe dirigente liberale che aveva ben presto aderito al fascismo, questi, pur manifestando insoddisfazione per i Patti lateranensi, aveva chiuso il suo discorso asserendo che, per disciplina, avrebbe espresso un voto favorevole. Il dibattito sembrava dunque portare verso una votazione unanime a favore della proposta governativa.
L’intervento di Croce mostrò che tale speranza era vana. Il rilievo di tale dissenso è ben testimoniato dal tentativo di interrompere il suo dire che si palesò sia attraverso vivaci proteste elevate da un gruppetto di senatori fascisti, sia attraverso i clamori di qualche spettatore presente nelle tribune. Nei suoi Taccuini di lavoro (3° vol., 1927-1936, 1987, p. 133) il filosofo avrebbe registrato, non senza compiacimento, il fallimento di quel tentativo: «Ma io ho ripetuto le parole che coprivano con le loro voci e ho rinforzato la mia voce, sicché ho detto intero, e in modo comprensibile, il mio discorso». La rievocazione compiuta nel 1947 non costituiva dunque solo la rivendicazione di una coerenza di fondo – la sua costante contrarietà ai Patti si era accompagnata a un altrettanto costante favore verso una soluzione pattizia del dissidio che aveva lacerato la costruzione dell’Italia unita e i primi decenni della sua storia – ma voleva anche sottolineare la solitaria opposizione che il filosofo aveva espresso nell’ostile aula di un Senato fascistizzato. Tuttavia, senza nulla togliere al coraggio e al significato politico dell’intervento del 1929, appare oggi evidente che questa sottolineatura semplificava una più complessa realtà.
Occorre infatti ricordare che, pur essendo stato il solo oratore contrario all’accordo, il filosofo aveva concordato l’allocuzione insieme con alcuni colleghi – Francesco Ruffini, Luigi Albertini, Alberto Bergamini – che con lui condividevano, sia pur con varietà di accenti, la cultura liberale. Egli stesso lo aveva precisato fin dall’esordio del suo discorso: «parlo a nome mio e di pochi colleghi i quali, non potendo dare il loro assenso al presente disegno di legge, non hanno voluto, d’altro canto, astenersi dalle sedute del Senato o allontanarsi dall’aula» (Discorsi parlamentari, cit., p. 173). L’esito della votazione, avvenuta per appello nominale sull’o.d.g. che, ritenendo conclusa la discussione generale, prevedeva il passaggio all’esame dei singoli articoli, lo avrebbe del resto confermato: su 323 votanti, si ebbero ben 317 voti favorevoli. Ai voti contrari di Croce e dei tre senatori di cui era stato il portavoce, si aggiunsero quello del chimico siciliano Emanuele Paternò di Sessa e dell’umbro Tino Sinibaldi. Senza dubbio il filosofo era stato il solo a manifestare in aula contrarietà ai Patti, ma il suo discorso raccoglieva anche gli orientamenti di altri, per quanto pochissimi, senatori.
Inoltre Croce non si era fatto interprete soltanto delle istanze dei colleghi liberali. Ne troviamo traccia proprio nelle parole con cui aveva espresso il suo favore verso un accordo tra potere temporale e spirituale. Dopo aver proclamato che «nessuna ragionevole opposizione potrebbe sorgere da parte nostra all’idea della conciliazione dello Stato italiano con la Santa Sede» (pp. 173-74), aveva ricordato che il Concordato era in contraddizione con la politica ecclesiastica dell’Italia unita sostenuta nel corso del Risorgimento anche dal «partito nazionale-liberale-cattolico», di cui indicava in Alessandro Manzoni un insigne esponente, e aveva concluso: «quel partito, giova rammentarlo, non venne respinto e condannato dai liberali, ma dalla chiesa» (p. 174). Esponenti del pensiero laico vicini al filosofo, in particolare Guido Calogero, vedendo in queste frasi una contraddizione rispetto alle posizioni che aveva da tempo maturate, le ritennero una concessione «ai suoi amici cattolico-crociani» (G. Calogero, Mussolini, la Conciliazione e il Congresso filosofico del 1929, «La Cultura», 1966, 4, p. 445). È vero che Croce collocava il raggiungimento di un accordo all’interno dei parametri dell’ordinamento liberale: lo presentava, infatti, come il completamento di quella legge delle guarentigie che aveva dato buona prova di sé durante la grande guerra in quanto aveva consentito al pontefice l’esercizio di una piena libertà. Ma la recente ricerca storica ha messo in rilievo che, pur giudicando il cattolicesimo liberale intrinsecamente contraddittorio, egli manteneva una fraterna amicizia con suoi rappresentanti, come Alessandro Casati o Stefano Jacini, con cui asseriva di non voler mai discutere il valore speculativo delle loro concezioni religiose per il rispetto che nutriva verso di esse. E ha avanzato la ragionevole ipotesi che, introducendo nella sua orazione al Senato quella nota conciliatorista, egli intendesse rappresentare anche la posizione di quei senatori cattolici che, pur avendo un giudizio positivo su un accordo che scioglieva l’annosa questione romana, non presero parte alla votazione per evitare che si potesse interpretare il loro voto come una forma di consenso sia al regime sia all’insieme dei documenti compresi nei Patti.
Ci si potrebbe persino chiedere se nel brano del discorso del 1947 prima citato, il filosofo non avesse solo semplificato una realtà più articolata e complessa, ma l’avesse anche sottoposta a una reinterpretazione attualizzante. Come si ricorderà, in quell’occasione egli aveva indicato la ragione profonda della sua opposizione nel fatto che i Patti erano stati stipulati con una «Italia serva» e dall’«uomo che l’aveva asservita». Apparentemente tali espressioni non trovano espliciti riferimenti nel discorso del 1929. Non vi è dubbio che, a queste date, la sua posizione fosse ormai nettamente antifascista. Come è noto, dopo la fine della grande guerra, Croce, davanti alla crisi del sistema liberale e al pericolo rappresentato dal biennio rosso, aveva guardato positivamente al fascismo, giudicandolo un salutare cambiamento politico in grado di restituire ordine alla società e autorità allo Stato. Ancora nel giugno 1924, dopo la crisi seguita all’assassinio di Giacomo Matteotti, aveva votato la fiducia al governo Mussolini, ritenendo che occorresse dare tempo all’esecutivo per consolidare i risultati positivi che aveva conseguito – ai suoi occhi la riforma della scuola promossa da Gentile ne era un esempio rilevante – e procedere, anche attraverso temporanee restrizioni delle libertà, alle trasformazioni che avrebbero riportato alla normale vita costituzionale. Non interessa qui notare che tale interpretazione mostrava scarsa attenzione ai documenti con cui Mussolini, fin dalla marcia su Roma, aveva sottolineato che la ‘rivoluzione’ fascista rappresentava tutt’altro che una parentesi momentanea; il dato saliente, emerso chiaramente nei mesi successivi, stava nel fatto che egli non intendeva percorrere la strada da Croce auspicata. Il filosofo ne prese atto, giungendo alla pubblica manifestazione della sua opposizione al regime.
Ne furono inequivocabile testimonianza nell’aprile 1925 l’iscrizione al Partito liberale, nel mese successivo la redazione del Manifesto degli intellettuali antifascisti (in risposta a quello redatto da Gentile, con il quale la rottura divenne così irrecuperabile), e tra il dicembre 1925 e l’aprile 1926 il voto contrario alle ‘leggi fascistissime’. Tanto che nel novembre 1926 Croce ebbe a subire l’invasione della sua casa da parte di una squadra fascista. In seguito alla riprovazione internazionale suscitata da questa aggressione, il filosofo, pur strettamente sorvegliato, venne lasciato libero di svolgere la sua attività intellettuale. Da questo momento apparve come il capo dell’‘antifascismo legale’. Si trattava, come egli stesso ricordò, di una mera testimonianza morale che, senza speranza di concreti effetti politici, si proponeva di rammentare le premesse intellettuali necessarie per una ripresa nel Paese di una dignitosa vita politica. In ogni caso, nel maggio 1929, non vi potevano essere incertezze sui suoi orientamenti antifascisti; ma nel suo intervento manca un diretto e chiaro richiamo a quel nesso tra stipulazione dei Patti e tirannia messa in opera da Mussolini che sarà invece sottolineata nell’intervento del 1947. Croce si limitava a indicare, in termini generali, che i motivi del suo dissenso non stavano in un rifiuto, in via di principio, dell’idea della conciliazione, «ma unicamente nel modo in cui è stata attuata, nelle particolari convenzioni che l’hanno accompagnata e che formano parte del disegno di legge» (Discorsi parlamentari, cit., p. 174).
Con queste parole il filosofo intendeva certo manifestare il suo netto disaccordo nei confronti del Concordato e della convenzione finanziaria, senza invece avanzare obiezioni di principio sul Trattato. Tuttavia esprimeva anche un chiaro dissenso rispetto al «modo» in cui si era giunti alla firma dei Patti. Nello svolgere questo aspetto Croce non giungeva a una pubblica ed esplicita denuncia della cancellazione della libertà compiuta dal ‘tiranno’, ma metteva in luce la contraddizione tra l’operazione compiuta da Mussolini e le fondamentali strutture politiche e culturali della convivenza civile dell’età liberale. In tal modo si può comprendere l’intervento del 1947: indicando nell’asservimento cui il fascismo aveva sottoposto il Paese la ragione fondante della sua opposizione ai Patti, Croce, più che sottoporre le sue parole del maggio 1929 a una risemantizzazione dovuta al nuovo contesto politico, ne esplicitava il senso ricorrendo al vocabolario corrente nell’epoca postfascista. Una più puntale analisi dell’allocuzione al Senato lo mostra in maniera inequivocabile.
In primo luogo, avviandosi alla conclusione dell’intervento, il filosofo avanzava un’osservazione densa di implicazioni. Asseriva infatti che una forte spinta all’approvazione dell’intesa era venuta, sia pure con aspettative assai diverse a seconda dei vari ambienti che avevano «salutato lietamente l’avvenimento», dalla convinzione che comunque da essa scaturissero «insperati ottimi effetti per l’avvenire» (p. 176). A questa prospettiva replicava in maniera sferzante: «chi tutta la vita ha fatto professione di studi storici» non poteva che elevare una ferma protesta «contro la violenza e l’abuso che è di moda esercitare nel nome della “storia”», dal momento che la trasposizione di una «congetturata ed immaginata storia dell’avvenire al presente» mirava soltanto a uno scopo meschino, «sottrarsi al fastidioso compito, e pieno di responsabilità, di ricercare e fare semplicemente, nel presente, il proprio dovere» (p. 176). Non fu certo un caso se Mussolini si sentì chiamato in causa in prima persona da questa notazione.
In tal modo, infatti, il filosofo non riproponeva soltanto una delle sue concezioni generali, ribadendo la primazia dell’indagine conoscitiva sul passato rispetto al ricorso alla storia come giustificazione per la prassi politica presente; sottolineava anche che l’insistenza sui grandiosi esiti storici cui avrebbe in futuro portato la conciliazione costituiva soltanto il mascheramento di una devianza etica. Quell’insistenza mirava in realtà a nascondere l’abbandono di un concreto dovere politico cui era chiamato chi guidava il Paese: mantenere l’eredità delle istituzioni laiche dello Stato risorgimentale. Ai suoi occhi non ne era ragione l’esigenza di evitare il pericolo di un ritorno allo Stato confessionale «che porga il braccio secolare al Sant’Uffizio e riaccenda i roghi o che dia validità all’Indice dei libri o risottometta l’educazione della gioventù a concetti gesuitici» (p. 175), perché il mondo moderno aveva ormai irrimediabilmente travolto questi aspetti dell’Italia preunitaria. Era invece compito ineludibile dei governanti impedire quelle «sterili lotte su fatti irrevocabili» (p. 175), che portavano a versare nelle anime i veleni del clericalismo e dell’anticlericalismo, introducendo nella vita civile e culturale del Paese polemiche, tensioni, scontri resi ormai obsoleti dall’ordinamento laico costruito nell’età liberale.
Naturalmente Croce non poteva prevedere che alla richiesta da parte di autorevoli ambienti ecclesiali di trarre le conseguenze del fatto che, in virtù dei Patti, l’Italia era divenuta uno ‘Stato cattolico’ avrebbe risposto l’intensa campagna anticlericale di settori del fascismo intransigente. Croce aveva colto perfettamente che la soluzione pattizia dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia – secondo peraltro una caratteristica intrinseca a ogni accordo concordatario – costituiva soltanto un momentaneo punto di equilibrio, a partire dal quale ciascuna delle due parti avrebbe cercato di massimizzare i vantaggi conseguiti per puntare alla subordinazione dell’altra. Ne derivava inevitabilmente una dannosa conflittualità, che proprio la laicità delle istituzioni pubbliche era in grado di evitare. Per questa ragione un responsabile della cosa pubblica, all’altezza dei suoi compiti, avrebbe avuto il dovere di mantenere il separatismo liberale, giungendo a una conciliazione senza la pattuizione concordataria.
Mussolini reagì duramente alla tesi che, dietro alla celebrazione del rilievo epocale dei Patti, si celasse il mancato adempimento del dovere politico di assicurare lo sviluppo civile della penisola attraverso il mantenimento dell’assetto liberale circa la reciproca indipendenza di Stato e Chiesa. Nella sua replica ai vari oratori pronunciata nella seduta del Senato del 25 maggio 1929, riprese in primo luogo un’espressione («imboscato») con la quale già l’anno precedente Romolo Murri – il fondatore della prima Democrazia cristiana che, in seguito alla condanna per modernismo nel 1909, aveva abbandonato il sacerdozio e dopo varie esperienze politiche era approdato al fascismo – in una polemica recensione alla Storia d’Italia dal 1871 al 1915 aveva definito il filosofo. Mussolini apostrofò infatti Croce con la qualifica di «imboscato della storia»:
Nessuna meraviglia, o signori, se accanto agli imboscati della guerra vi possono essere degli imboscati della storia, i quali non potendo per ragioni diverse e forse anche per la loro impotenza creatrice, produrre l’evento, cioè fare la storia prima di scriverla, si vendicano dopo, diminuendola spesso senza obiettività e qualche volta senza pudore (Opera omnia, a cura di E. Susmel, D. Susmel, 24° vol., Dagli accordi del Laterano al dodicesimo anniversario della fondazione dei Fasci: 2 febbraio 1929-23 marzo 1931, 1958, p. 105).
Mussolini non si era però limitato, rivolgendo al filosofo quell’epiteto ingiurioso, a ricordare la continuità tra il fascismo e il Risorgimento che la periodizzazione del libro di Croce sulla storia italiana aveva evidentemente negato; intendeva anche ribadire il privilegio riservato dal fascismo al fare sul conoscere.
Ma la reazione del capo del governo al rimprovero del filosofo si manifestò soprattutto con l’enfasi posta su un punto apparentemente debole della sua argomentazione. Mussolini infatti sottolineò la contraddizione tra il suo auspicio di una conciliazione e il rifiuto del modo in cui era stata realizzata:
Nella prima parte [del discorso di Croce] si dice che la conciliazione era ovvia e che si doveva fare, ma successivamente si dice: è con dolore che noi costatiamo la rottura dell’equilibrio che si era stabilito. Ora delle due l’una: o voi siete sinceri quando auspicate alla conciliazione, e allora non dovete dolervi se un determinato equilibrio dovrà essere per fatalità di cose rotto; o vi dolete della rottura, e non siete sinceri quando invocate la conciliazione (p. 105).
Era poi passato a sottolineare i vantaggi che l’accordo, così come era stato concretamente raggiunto, comportava: da un lato, la soluzione definitiva della questione romana per mezzo del Trattato, che costituiva un’acquisizione irrevocabile: il riconoscimento dello Stato italiano non sarebbe più stato posto in discussione dal cattolicesimo universale; dall’altro lato, una regolamentazione dei rapporti fra Stato e Chiesa tramite un Concordato che poteva certo essere oggetto di dissidi, ma per i quali non vedeva problemi irresolubili. Alla luce del precedente discorso tenuto alla Camera era chiarissima la soluzione che Mussolini prevedeva in caso di controversie: la superiorità dello Stato, reso invincibile e intrattabile dal fascismo, sulla Chiesa. Senza dubbio il duce aveva messo in luce una criticità intrinseca al discorso di Croce: come invocare un trattato senza essere disposti a quel Concordato che la Chiesa chiedeva come corrispettivo? Non a caso Pio XI avrebbe ribadito, nelle convulse trattative che precedettero lo scambio delle ratifiche dei Patti, quel nesso tra i due documenti che già all’indomani della firma dei Patti aveva indicato come tratto essenziale dell’intesa: simul stabunt aut simul cadent (insieme staranno o insieme cadranno).
Tuttavia, nelle battute finali del suo intervento – che sono rimaste famose, assurgendo a paradigma emblematico della sua opposizione – Croce aveva in realtà posto la questione in termini che sfuggivano alla logica della mediazione politica invocata da Mussolini. Aveva infatti notato che un giudizio positivo sui Patti poteva derivare dalla considerazione che essi rappresentavano «un tratto di fine arte politica, da giudicare, non secondo ingenue idealità etiche, ma come politica, giusta [il] trito detto che Parigi val bene una messa» (Discorsi parlamentari, cit., pp. 176-77). A questa possibile obiezione il filosofo aveva formulato la sua risposta: egli non negava «la [sua] ammirazione all’arte politica» e conosceva tanto bene quel detto da sapere che era stato leggendariamente attribuito «a un grand’uomo, un eroe della storia di Francia» (p. 177) per interpretarne il riposto pensiero senza che in effetti questi avesse mai pronunciato quelle parole. In ogni caso, concludeva,
accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza […]. E il nostro voto […] ci è imposto dalla nostra intima coscienza alla quale non possiamo rifiutare l’obbedienza che ci domanda (p. 177).
Al di là della sottile ironia sui grandi uomini, che, sottoposti al vaglio della critica storica, rivelavano il loro vero volto, indipendentemente da quanto loro attribuito dai contemporanei per esaltarne il profilo, le parole di Croce toccavano un punto cruciale del «modo» con cui si era giunti all’accordo lateranense.
«Parigi val bene una messa» è un’espressione attribuita fin dalla fine del Cinquecento a Enrico di Navarra, il quale avrebbe con quella locuzione manifestato la piena disponibilità ad abbandonare la fede ugonotta e convertirsi al cattolicesimo pur di salire sul trono di Francia, diventando in tal modo Enrico IV, iniziatore della dinastia dei Borbone. L’espressione era ben presto assurta a simbolo dell’applicazione al rapporto tra religione e politica del principio per cui il fine giustifica i mezzi. Equivaleva ad asserire che, davanti al conseguimento di concreti vantaggi politici, le questioni religiose perdevano rilevanza: quella stessa appartenenza confessionale – che nelle lotte seguite alla Riforma protestante aveva costituito un fattore identitario tanto potente da insanguinare l’Europa per decenni – poteva essere abbandonata in vista dell’accesso al potere di governo.
L’intervento di Croce metteva in rilievo il suo rifiuto di questo principio: le questioni religiose non potevano essere subordinate al raggiungimento di obiettivi politici, dal momento che avevano un valore immensamente più grande rispetto al conseguimento di qualsiasi potere. In questa chiave i risultati positivi che Mussolini poteva vantare come ragione sufficiente a giustificare la rottura del separatismo risorgimentale venivano valutati all’interno di una ben definita gerarchia di valori. Secondo il senatore la conciliazione rappresentava un auspicabile traguardo, ma non si poteva approvarla se il «modo» in cui era stata raggiunta, pur portando, attraverso il superamento delle lacerazioni indotte dalla questione romana, al rafforzamento dello Stato unitario sul piano internazionale come sul piano interno, implicava però il sacrificio di quelle supreme esigenze a cui attribuiva una dimensione religiosa e di cui proclamava la coscienza individuale giudice insindacabile.
Si apre così il problema di capire le ragioni per cui il positivo esito politico cui si era giunti con il Trattato non poteva essere un motivo sufficiente per approvare un accordo nel quale con il Concordato si violava un’istanza di fondo, che Croce considerava religiosa. È noto che una linea rilevante nella riflessione del filosofo fu segnata da una forte preoccupazione per quel secolarismo che nell’età contemporanea aveva cancellato ogni fondazione soprannaturale della convivenza sociale: riteneva infatti che per questa via si rischiasse di cancellare dal consorzio civile la dimensione etica. A questa tendenza egli contrappose lo sforzo di riproporre i valori morali della tradizione cristiana inserendoli in un quadro religioso che fosse adeguato a quel pensiero moderno in cui si era espresso un ormai irrevocabile superamento della trascendenza. A suo avviso solo una religione puramente umana, senza il riferimento a Dio, all’immortalità dell’anima, a un premio e un castigo eterni, poteva salvaguardare quel patrimonio etico del cristianesimo che ancora costituiva la sostanza della vita civile dell’uomo contemporaneo.
In questo patrimonio rientrava in particolare l’atteggiamento sintetizzato nel passo di Matteo, 22, 21, che, come scriveva Croce nella nuova avvertenza alla seconda edizione delle Pagine sulla guerra uscita nel 1928, «sopra Cesare innalza la coscienza religiosa e morale, la quale solamente eticizza di volta in volta l’azione politica, pur riconoscendone e rispettandone e adoperandone la logica che le è propria» (L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, 1919, 19282, pp. 5-6).
Nell’ottica di un tale recupero si capiscono le ragioni per cui, già nel discorso parlamentare del 6 luglio 1920 (Discorsi parlamentari, cit., pp. 76-77), pronunciato in qualità di ministro della Pubblica Istruzione, aveva fatto ricorso a un’espressione – «tutti siamo cristiani» (p. 76) – che in qualche modo anticipava il titolo di uno dei suoi più famosi saggi, Perché non possiamo non dirci “cristiani” («La Critica», 1942, 6, pp. 289-97). Si tratta di una concezione complessa di cui conviene qui ricordare soltanto che implicava una presa di distanza dalle chiese cristiane, considerate portatrici di una filosofia inferiore, temporanea e incompiuta che lo svolgimento della storia aveva ormai svuotato di ogni significato. Senza soffermarci sulla valutazione crociana delle confessioni protestanti, basta ancora ricordare la sua critica alla religione cattolica. Essa si indirizzava tanto verso la versione che ne presentava l’esistente istituzione ecclesiastica, perché il filosofo riteneva che il suo messaggio a partire dalla Controriforma, e in particolare dopo la Rivoluzione francese, avesse assunto una veste meramente politica, abbandonando quel carattere morale che ai suoi occhi formava il tratto costitutivo di un’autentica fede religiosa; quanto verso la versione aggiornata che ne proponevano i modernisti, incapaci di cogliere, a suo giudizio, l’insanabile antitesi tra cattolicesimo e pensiero moderno, tra scienza e fede, tra dogmi e spirito critico.
La critica di Croce nei confronti della Chiesa di Roma si svolge però nel tempo, assumendo, in relazione alle varie circostanze, accentuazioni diverse. Si inasprisce certamente a partire dalla metà degli anni Venti, in particolare nel corso della redazione della Storia dell’età barocca in Italia. Pensiero, poesia e letteratura, vita morale (1929), composta in connessione con il maturare della sua posizione antifascista. Qui infatti la Controriforma, che ha plasmato il volto attuale dell’istituzione ecclesiastica, non appare più soltanto, come nelle opere precedenti, mera difesa conservatrice di un’organizzazione ormai incapace di muoversi al passo con la storia, ma diventa il luogo in cui la teocrazia papale ha elaborato istituti e metodi di dominio sugli uomini, cui possono attingere per i loro fini politici i contemporanei Stati autoritari e totalitari. Senza dubbio incidevano su questa concezione gli interventi degli esponenti dell’ala radicale del fascismo che in quel torno di tempo lo descrivevano come una rivoluzione antimoderna che restaurava la Controriforma. Ma Croce generalizzava la prospettiva: le coeve religioni secolari della nazione, della razza, della classe gli apparivano tendenze politico-culturali che nella Controriforma cattolica trovavano un arsenale da cui derivare le armi per ridurre gli uomini a meri strumenti, incapaci di pensiero e di libera iniziativa. In quest’ottica il filosofo coglieva elementi di convergenza e sovrapposizione tra cattolicesimo e fascismo: la sua presa di distanza dalla Chiesa ne veniva per questa ragione confermata e rafforzata.
Ma egli era anche pronto a rilevare gli scarti del governo ecclesiastico rispetto a questa linea. Nel 1928 appariva su «La Critica» (26, pp. 182-86) una breve nota, Un detto di Leopoldo Ranke sullo Stato e la Chiesa – già pubblicata qualche mese prima negli «Atti della Reale Accademia di scienze morali e politiche di Napoli» –, in cui Croce mostrava un vivo apprezzamento per un passo dell’allocuzione natalizia al Sacro collegio (erroneamente definita enciclica) tenuta da Pio XI il 20 dicembre 1926. Qui il pontefice prendeva le distanze dalla formula con cui Mussolini, in un discorso tenuto a Milano nell’ottobre del 1925, aveva fissato la natura dello statalismo fascista: «tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato» (Opera omnia, cit., 21° vol., Dal delitto Matteotti all’attentato Zaniboni: 14 giugno 1924-4 novembre 1925, 1956, p. 425). Si trattava, asseriva Pio XI, di «una concezione dello stato che non può essere la concezione cattolica, mentre fa dello stato il fine e del cittadino e dell’uomo un mezzo, tutto in quello monopolizzando e assorbendo» («La civiltà cattolica», 1927, 78, 1, p. 19).
Nella sua nota Croce ricordava che, quali che fossero gli scopi pratici che intendeva raggiungere, Pio XI aveva pienamente ragione «perché quella che da lui, nel simbolo della Chiesa, viene rivendicata contro lo Stato è né più né meno che la coscienza morale» (Un detto, cit., p. 183). E aggiungeva che era merito storico dell’istituzione ecclesiastica aver sostenuto «questa esigenza contro il crudo e unilaterale machiavellismo, cioè contro la mera politica che si dava per il tutto» (p. 183). Croce, anche attraverso la rivalutazione della Controriforma, di cui sottolineava in questo testo l’efficace contributo portato nel combattere il machiavellismo, sembrava insomma individuare il terreno di un possibile lavoro comune con la Chiesa. In quella nota, infatti, i sacerdoti della religione cattolica e gli uomini di Chiesa che «nella società moderna e laica sono rappresentati dai cultori del vero, dagli educatori di sé e degli altri, dai custodi degli ideali» (p. 185) parevano convergere in un compito che il filosofo non esitava a qualificare come l’annuncio e la preparazione delle vie del Signore: insieme «rimbrottano e condannano e anatemizzano gli oppressori» (p. 185).
Si trattava però di una linea di cui proprio la vicenda dei Patti lateranensi avrebbe mostrato l’impraticabilità. Con la stipula dell’accordo la Chiesa, rinunciando «alla superiorità che spetta alla religione e alla morale, discende al livello di uno stato tra gli stati» e ritorna a operare sul piano politico e con i mezzi tipici della politica come le «astuzie» e le «menzogne» (Stato e Chiesa (a proposito dell’art. 7), articolo per il quotidiano del Partito liberale «Risorgimento liberale», 21 marzo 1947, poi in Scritti e discorsi politici, 2° vol., 1963, pp. 373-74). In una lettera scritta a Gabriele Pepe nel settembre 1945 per chiarire il suo atteggiamento a proposito dell’anticlericalismo, Croce rievocava il mutamento che in seguito all’intesa concordataria si era prodotto in lui. Vi ricordava che chiunque avesse letto i suoi scritti nei primi anni del fascismo sapeva che «non solo non mi affannavo a far l’anticlericale, ma combattevo e irridevo il fastidioso e vacuo anticlericalismo della massoneria» (Scritti e discorsi politici, cit., pp. 231-32, nota). Ma aggiungeva che aveva cambiato questo atteggiamento in un preciso momento: «la corda anticlericale vibrò per la prima volta nei miei scritti quando la Chiesa entrò in caldi amori col fascismo e il “Duce” fu da essa proclamato “l’uomo della Provvidenza”, “privo di pregiudizi liberali”». Il riferimento al cedimento anticlericale andava con ogni probabilità alla Storia d’Europa nel secolo decimonono, pubblicata nel 1932, in cui il filosofo sottolineava a più riprese l’antitesi irriducibile tra cattolicesimo e libertà, fornendo una rappresentazione fortemente negativa di una Chiesa ottocentesca in preda a un anacronistico oscurantismo. Non a caso il Sant’Uffizio nel luglio di quello stesso anno condannava l’opera, decretandone l’inserimento nell’Indice dei libri proibiti e avviava il procedimento che avrebbe portato alla censura dell’intera sua produzione. Ma quel che più qui interessa è il richiamo di Croce al discorso con cui Pio XI il 13 febbraio 1929, rivolgendosi a professori e allievi dell’Università cattolica del Sacro Cuore, aveva commentato la sottoscrizione dei Patti.
Pio XI non aveva esattamente parlato dell’‘uomo della Provvidenza’, bensì «dell’uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare», né lo aveva caratterizzato come «privo di pregiudizi liberali», bensì come privo «delle preoccupazioni della scuola liberale»; tuttavia aveva presentato il separatismo degli uomini del Risorgimento in termini assai grevi: essi avevano costruito «ordinamenti o piuttosto disordinamenti [che ai loro occhi costituivano] altrettanti feticci e, proprio come feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi» (Parole pontificie sugli accordi del Laterano, 1929, pp. 29-30). Era un discorso che si poneva in radicale antitesi con quanto lo stesso Croce avrebbe rivendicato, nell’intervento del maggio 1929, come storica acquisizione della politica ecclesiastica dei governanti dell’età liberale: privando la Chiesa del sostegno del braccio secolare fornito dal potere civile, ma garantendole la libertà, essi le avevano permesso di svolgere un’azione apostolica basata esclusivamente sulla capacità di attrattiva del suo sistema spirituale e morale e le avevano così assicurato un prestigio prima inimmaginabile. Ma quel discorso del pontefice implicava anche l’abbandono della possibile convergenza sul terreno antitotalitario che Croce aveva intravisto nell’allocuzione papale del Natale 1926: la Chiesa di Roma non manifestava opposizione verso chi mirava all’assolutizzazione dell’autorità dello Stato a detrimento della libertà del cittadino; anzi stringeva con il regime un vincolo concordatario, che a ragione Croce poteva presentare come l’incunabolo di futuri «caldi amori» tra cattolicesimo e fascismo, perché, nonostante le molteplici tensioni successive, le convenienze dell’intesa prevalsero sempre sui motivi di rottura fino alla fine del regime.
In quest’ottica appare in tutta la sua densità il richiamo alla preferibilità della «messa» rispetto alla conquista di «Parigi» con cui Croce aveva chiuso il suo discorso del 24 maggio 1929. Non vi era soltanto la pur significativa rivendicazione che il criterio di misura di un’azione politica non stava solo nei vantaggi che essa portava. Questo elemento era ben presente e aveva una duplice valenza. Da un lato, consentiva di contrapporre ai risultati concreti che Mussolini poteva vantare come esiti della negoziazione politica con la Santa Sede un criterio di giudizio morale sul suo operato che ne misurava il rilievo sui doveri che le acquisizioni dello Stato liberale imponevano agli uomini di governo. Dall’altro lato, permetteva di ricordare alla Chiesa – avrebbe fortemente sottolineato questo aspetto Gaetano Arfè nel dibattito parlamentare del dicembre 1976 sul rinnovo del Concordato – che i successi politici conseguiti con il ricorso a un realismo ispirato alla ragion di Stato sarebbero stati messi alla prova delle idealità cristiane che pure avrebbero continuato a operare nella storia successiva.
Tuttavia dietro al richiamo al valore incommensurabile della «messa» rispetto a «Parigi» c’era anche dell’altro. Vi si esprimeva la sostanza della visione di Croce: la proiezione sul piano religioso dei suoi convincimenti politici. Il Concordato aveva dimostrato che non era possibile collaborare con l’istituzione che nella penisola gestiva il religioso per attribuire alla libertà quel carattere sacro che l’avrebbe resa il fondamento incrollabile della convivenza civile. Anzi, l’accordo concordatario, anche se frutto della ricerca di vantaggi mondani per le parti contraenti, finiva per riverberare sul regime totalitario una legittimazione religiosa. In questa situazione equiparare il rifiuto dell’intesa al momento in cui la fede cattolica individua il rinnovarsi dell’incarnazione del divino sulla Terra aveva un’implicazione precisa: affermava che, almeno per alcuni uomini, anche la libertà aveva il valore assoluto della religione. L’opposizione ai Patti si basava sul fatto che di tale valore sancivano la negazione.
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