Croce e il liberalismo
La teoria liberale di Croce ha sempre sollevato, fin dal primo delinearsi, la giustificata diffidenza dei sostenitori del liberalismo classico, di coloro che guardavano al grande modello dell’empirismo e dell’utilitarismo, di John Locke, di Jeremy Bentham, di John Stuart Mill e degli autori del Federalist; e che perciò assegnavano le sorti della libertà ai postulati fondamentali della protezione dell’individuo, dell’equilibrio dei poteri, del mercato economico. Così come, per altro verso, ha destato la reazione critica di tutti coloro che desideravano combinare la libertà con la giustizia e con l’eguaglianza, o anche con gli ideali del socialismo.
Dissensi, come si diceva, comprensibili e ben motivati, non solo per la premessa idealistica ed hegeliana che fin dall’inizio segnò la riflessione di Croce, ma soprattutto per il tentativo, esplicito e conseguente, di un complessivo ripensamento della tradizione liberale, di un rinnovamento e di una riforma del suo impianto classico, a cominciare da quei principi – individuo, divisione dei poteri, mercato – che ne avevano caratterizzato la vicenda moderna.
Il profilo peculiare della sua teoria liberale apparve subito chiaro, d’altronde, a Gentile, che già nel 1925, di fronte alla posizione antifascista ormai conseguita dal vecchio collega di studi, ne contestò la legittimità, obiettando che non poteva lui, discepolo di Niccolò Machiavelli e di Karl Marx e critico degli ideali giusnaturalistici, definirsi «liberale» (Il liberalismo di Benedetto Croce, «L’educazione politica», 1925, 2, pp. 49 e segg., poi in Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, 1° vol., 1990, pp. 144-50); e ricevendone la pronta replica di Croce, il quale osservò che una cosa era il rifiuto, da lui espresso fin dall’inizio, dei princìpi egualitari e democraticisti, altra e diversa cosa era l’idea liberale, a cui, per parte sua, non aveva mai rinunciato (Risposta superflua, «Il giornale d’Italia», 30 luglio 1925, poi in Pagine sparse, 2° vol., 19602, pp. 496-97).
Per quanto paradossale possa apparire, la critica di Gentile (che proveniva da un intellettuale ormai schierato con il regime fascista) venne ripresa e, con molte varianti, ripetuta innumerevoli volte da pensatori liberali che, in un modo o nell’altro, rifiutavano il carattere ‘eterodosso’ del liberalismo crociano, opponendovi questo o quell’aspetto della tradizione classica. Per ricordare solo gli esempi più notevoli, forti obiezioni vennero con la Difesa del liberalsocialismo (1945) da Guido Calogero, il quale sottolineò la distinzione – a suo parere soppressa a torto da Croce – tra la libertà trascendentale, che vi è sempre e non può non esservi, e la libertà in senso empirico e politico, che costituisce invece il perenne sforzo della volontà umana. Osservazioni che vennero riprese un decennio dopo da Norberto Bobbio nel saggio Benedetto Croce e il liberalismo («Rivista di filosofia», 1955, 3, pp. 262-86), sia pure con argomenti che, a differenza di quelli di Calogero, non nascevano più dal tronco dell’idealismo ma da quello dell’empirismo di scuola anglosassone. Né mancarono, tra coloro che pure si richiamavano alla filosofia di Croce, tentativi di correzione anche radicale, come quello che operò Carlo Antoni con La restaurazione del diritto di natura (1959), cercando di riabilitare il significato speculativo di quelle figure dell’individuo e del liberismo economico che Croce, come vedremo, aveva ricondotto al valore di mezzi o ad astrazioni.
Il primo giudizio di Croce di fronte all’ascesa al potere del fascismo, tra il 1922 e il 1924, fu incerto e ambiguo: da un lato, il 2 marzo 1923, scriveva una lettera al «Giornale d’Italia» in difesa dell’amico Francesco Saverio Nitti, che era stato calunniato dalla stampa fascista; ma poi, in una serie di interventi successivi, auspicava per il governo di Benito Mussolini una compatta maggioranza parlamentare, fino a definirlo, in un’intervista del 9 luglio 1924 al «Giornale d’Italia», un «ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale nel quadro di uno Stato più forte».
Era un giudizio, quello che abbiamo ora ricordato, che non derivava da un’adesione alla nascente dittatura, tanto meno alla sua ideologia, ma che neanche potrebbe definirsi occasionale, perché discendeva dal modo in cui, fin dalla prima giovinezza (quando aveva vissuto nella casa romana dello zio e tutore Silvio Spaventa), aveva sentito e percepito la propria appartenenza alla visione liberale: a un liberalismo, come è stato scritto, «posseduto piuttosto per istinto e per abitudine che non per ragioni profonde, filosoficamente connesse in un sistema» (Sasso 2004, 2007, p. 586); a un liberalismo che considerava come un bene solido e irreversibile, conseguito una volta per tutte dal pensiero moderno nella secolare battaglia contro le visioni trascendenti della vita. Ecco perché persino il fascismo, che pure si presentava con il volto nemico della dittatura, poteva essere ritenuto un espediente transitorio, al fine di riaffermare il carattere inconvertibile del mondo libero. Più precisamente, il liberalismo non riusciva ad acquistare i tratti di una teoria filosofica e di un vero e proprio pensiero politico perché Croce, in quel momento della sua riflessione, non ne concepiva il possibile decadimento, così come, d’altronde, non poteva consentire che nella storia si dessero effettive epoche di decadenza.
Non si trattava, perciò, di un atteggiamento psicologico o di un semplice aspetto biografico, ma di un pensiero profondamente radicato nella filosofia – la filosofia dello spirito – che allora, tra il 1902 e il 1909, aveva elaborato una filosofia dove la libertà coincide con lo spirito, in maniera tale che «l’uomo la possiede nella sua qualità di uomo» (Revisione filosofica dei concetti di «libertà» e «giustizia», «La Critica», 1943, 41, p. 276, poi in Discorsi di varia filosofia, 1° vol., 19592, p. 262); e dove la non-libertà rappresenta un momento interno, per quanto ineliminabile, della libertà stessa, sempre dominato, vinto e superato dall’attualità positiva dell’azione. Il che non significa che Croce concepisse poi la storia, alla maniera di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, come una «storia della libertà», perché il progresso, nella visione che ne aveva definito, non apparteneva ai contenuti empirici o alle epoche, ma coincideva con l’atto stesso del superamento del negativo, della non-libertà: quell’«iniziarsi, crescersi e perfezionarsi della libertà» che Hegel aveva immaginato – spiegò in un tardo scritto, nel 1949 – non è affatto storia, perché la libertà «non è storia, ma creatrice di storia» (Parità degli uomini nella libertà, conferenza tenuta all’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli, «Quaderni della “Critica”», 1949, 15, p. 74, poi in Terze pagine sparse, raccolte e ordinate dall’autore, 1° vol., 1955, p. 62).
A questo momento strutturale della sua filosofia, che escludeva la possibilità della decadenza, si aggiungeva, nel primo pensiero di Croce, un secondo elemento, che certo condizionò l’immagine del liberalismo: consisteva, in una parola, nel realismo politico che aveva assorbito non solo da Hegel, ma anche da Machiavelli e da Marx, e che trovava una precisa espressione nella categoria dell’utile, che aveva posto alla base del sistema dello spirito, risolvendo in essa l’intero universo della politica. Scriveva nel 1924:
L’azione politica non solo è azione utile, ma questi due concetti sono coestensivi, né si sarà mai in grado di addurre alcun carattere che distingua la prima nell’orbita della seconda (Politica “in nuce”, «La Critica», 1924, 22, p. 130, poi in Etica e politica, 19813, p. 173).
Fino al 1924, Croce offrì, di questo realismo politico, una versione assai dura, ispirata ai criteri della Realpolitik, con la riduzione degli Stati a «magnifici animali, poderosi, colossali» (L’antieroicità degli Stati, in Frammenti di etica, 1922, p. 151, poi in Etica e politica, cit., p. 144) e con l’esclusione dalla vita politica di ogni riferimento etico, o anche – come scrisse in una celebre pagina del 1917 – delle «alcinesche seduzioni […] della Dea Giustizia e della Dea Umanità» (Prefazione alla 3a ed. di Materialismo storico ed economia marxistica, 1918, p. XIV, poi nell’ed. 2001 a cura di M. Rascaglia, S. Zoppi, 1° vol., p. 13).
Erano parole dure quelle con cui determinava la sfera politica, ma non per questo prive di relazione con il suo sentimento liberale, come si vedeva soprattutto nel modo di considerare lo Stato, ricondotto alla natura «antieroica», e quindi nella precoce critica di ogni accezione dello «Stato etico». Ma certo erano parole in cui si annidava il rischio di qualche equivoco, che toccava non soltanto le corde del presente politico e del giudizio che doveva darsene, ma anche delicati aspetti della sua filosofia. Croce era rigoroso, e coerente con i princìpi fondamentali del sistema, quando riportava l’azione politica alla sfera economica, tuttavia nel risalto che conferiva al tema machiavelliano dell’«autonomia» sembrava in parte smarrirsi la verità, altrettanto necessaria nel circolo dei distinti, per cui l’«autonomia» è un concetto di relazione e, perciò, implica il nesso che, nella sfera pratica, l’utile intrattiene, e non può non intrattenere, con il volere etico.
Così, quando doveva indicare la moralità propria dell’azione politica, la riconosceva nell’azione economica stessa, nel suo successo, perché – spiegava – «l’onestà politica non è altro che la capacità politica» (L’onestà politica, 1931, in Etica e politica, cit., p. 134): la riconosceva, insomma, nel perseguimento del proprio utile, senza interferenze di carattere etico, nella persuasione che ciò generasse l’armonia dell’intero, il piano provvidenziale della storia, dove l’espressione di ogni forma garantisce l’equilibrio e la circolazione del tutto. Gli sfuggiva ancora il possibile contrasto tra l’«esuberanza» della singola attività categoriale – specie di quella utile-vitale – e le superiori esigenze della vita etica.
Questa prima visione del liberalismo entrò in crisi, e in una crisi profonda, tra il 1924 e il 1925, di fronte al manifestarsi del volto tirannico del fascismo e all’emergere, nella vecchia Europa, di segni sempre più evidenti della futura catastrofe. La consapevolezza della chiusura di un’epoca, e del bisogno della critica corrispettiva, affiorò non solo negli scritti che in modo diretto, a partire dal 1925, Croce dedicò al tema del liberalismo, ma anche nelle grandi opere storiografiche, dove il vecchio mondo liberale, che aveva trascinato, con i suoi ritardi e le sue insufficienze, verso la crisi morale del presente, era chiamato alle proprie responsabilità: a cominciare dalla Storia d’Italia dal 1871 al 1915, pubblicata nel 1928 ma scritta tra il 1926 e il 1927, che certo salvava dall’accusa le figure di Giuseppe Zanardelli e Giovanni Giolitti, ma che era rivolta, dalla prima fino all’ultima pagina, a eseguire la diagnosi impietosa di un liberalismo che, di fronte alle sfide dei tempi, aveva smarrito la propria anima, la capacità di rinnovarsi e di generare una storia nuova.
Erano pagine che avevano un chiaro profilo autobiografico e che delineavano perciò, oltre la critica, anche l’autocritica; e che Croce ribadì e chiarì in modo suggestivo nel 1929 quando, a proposito di quella vicenda, affermò: «quel che, leggendo le storie, si vedeva, per così dire, a due dimensioni, ora si vede a tre, con solidità e profondità prima non sospettate» (Intorno alle condizioni presenti della storiografia in Italia, «La Critica», 1929, 27, p. 3, poi, con il titolo di “Appendice”, in Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 2° vol., 19302, 19473, p. 168). Il passaggio dalle due alle tre dimensioni era quello che si era prodotto nel suo animo, e che andava sviluppandosi nel suo pensiero, dinanzi ai nuovi accadimenti. Ma sul piano della filosofia ciò significava che quella decadenza e quel regresso, che la logica aveva allontanato dallo sguardo, riuscendo a concepire il negativo solo come l’ombra della forma positiva, ora spiccava nella trasparenza di un fatto, innegabile come ogni fatto, nella sua semplice presenza fenomenologica: in quella corrispondenza, che Hegel aveva teorizzato, tra la negazione logica e la negazione operata dal tempo, si insinuava il germe di una frattura, e questo fu, negli anni a seguire, il principale impulso speculativo per la riforma del liberalismo classico. Un’aporia, quella che si apriva in tal modo, ormai riconosciuta e guardata in volto, che riportava ai grandi nodi del sistema, in particolare al rapporto tra economia ed etica, tra l’utilità dell’azione politica e la superiore esigenza della forma morale.
La nuova riflessione sulla teoria liberale emerse soprattutto in due scritti del 1925. Nel primo di essi, intitolato Liberalismo, Croce affrontava il diffuso sentimento di una crisi irreversibile dei princìpi di libertà, l’idea che «l’ufficio del liberalismo è ormai esaurito», di fronte al duplice attacco del «socialismo o comunismo da una parte» e del «reazionarismo o “fascismo” dall’altra» («La Critica», 1925, 23, p. 125, poi in Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, 19553, rist. 1993 a cura di M.A. Frangipani, p. 271). Riconosciuta una certa legittimità a entrambi gli indirizzi, in quanto espressione di «verità eterne dei bisogni umani», l’uno di giustizia e l’altro di disciplina, sollevava sopra di essi il significato ideale del liberalismo, che solo «guarda all’intero» ed è pertanto capace di attenuare i contrasti e di regolarli in modo che riescano fecondi, garantendo «libero giuoco alle forze spontanee e inventive degli individui e dei gruppi sociali», perché – concludeva – «solo nel libero giuoco si disegna il cammino che la storia deve percorrere» (p. 272). Ma nelle ultime righe del breve scritto la polemica si volgeva decisa contro il nazionalismo e il fascismo, contro i «regimi autoritari», che parlano tanto di nazione restando «estranei» alla «tradizione nazionale italiana, della quale in effetti non si sono nutriti» (p. 275).
E questo tema del contrasto irredimibile tra fascismo e tradizione nazionale risuonò con forza anche maggiore nel famoso Manifesto degli intellettuali antifascisti che, su invito di Giustino Fortunato, Croce scrisse e fece pubblicare il 1° maggio 1925 sul quotidiano «Il Mondo», per rispondere al Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le Nazioni, redatto da Gentile e pubblicato il 21 aprile (in occasione del ‘Natale di Roma’) su «Il Popolo d’Italia», organo quotidiano del Partito nazionale fascista. Nel suo scritto Croce non solo ripeté le ragioni del contrasto tra l’assurda dottrina reazionaria della «sottomissione degl’individui al Tutto» e quella, liberale e «sommamente storica», della «libera gara e dell’avvicendarsi dei partiti al potere, onde, mercé l’opposizione, si attua, quasi graduandolo, il progresso storico», ma soprattutto insisté sulla rottura che il fascismo stabiliva con il senso della tradizione nazionale, con «la fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, dell’Italia moderna», con il valore insomma del Risorgimento, il quale, «sebbene opera di una minoranza», aveva saputo espandere le basi sociali dello Stato, fino alla «largizione del suffragio universale» (v. La protesta contro il “Manifesto degli intellettuali fascisti”, in Pagine sparse, 2° vol., cit., p. 490).
I motivi che affioravano nei due scritti del 1925 erano gli stessi che, negli anni appena successivi, costituirono il cuore pulsante delle due storie – quella, citata, sull’Italia e la Storia d’Europa nel secolo decimonono – a cui Croce, dopo averne delineato i tratti essenziali nel saggio Contrasti d’ideali politici dopo il 1870 («Atti della Reale Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», 1927, 51, pp. 3-17), veramente affidò la diagnosi sulla decadenza dell’idea liberale e sul dilagare dell’autoritarismo. Due storie, l’una pubblicata, come detto, nel 1928 e l’altra nel 1932, che nella mente dell’autore nacquero insieme, l’una interna all’altra, se è vero – come si legge nel Contributo alla critica di me stesso (scritto nell’aprile del 1915 ma pubblicato nel 1918) – che all’inizio avrebbero dovuto costituire una sola opera (in Etica e politica, cit., p. 354).
Due storie, vale aggiungere a rettifica di tanti fallaci giudizi interpretativi, che non prospettarono affatto una celebrazione dell’età liberale, ma piuttosto l’indagine del suo tracollo – nelle istituzioni e negli ideali –, ormai compiuto nella vicenda italiana e imminente in quella europea. Per quanto, nel 5° capitolo e in quelli successivi della Storia d’Italia, Croce parlasse di «decadenza» a proposito del «pensiero» e dell’«ideale», non vi è dubbio che l’origine della crisi era individuata nella svolta del 1870, quando, portando «l’Italia a compimento la sua unità con l’acquisto della capitale», accadeva che «la politica europea mutava indirizzo», e, «come scrisse il De Sanctis nell’ultima pagina della Storia della letteratura italiana [...], pareva come se, “formata l’Italia, si fosse sformato il mondo intellettuale e politico, da cui essa era nata”» (19773, p. 106). Il centro della crisi – come risulterà più distesamente nella Storia d’Europa – stava dunque nel peculiare realismo di Ottone von Bismarck, nella differenza che lo divideva da Camillo Benso, conte di Cavour, e dall’intera tradizione politica italiana: in quella idea della «forza», slegata dalla morale e dall’etica liberale, che affondava radici nella nuova economia capitalistica, che «rispondeva agli interessi e alla psicologia degli uomini d’affari, perché lasciava prorompere e potenziare l’impeto produttivo della ricchezza» (p. 108).
La decadenza dell’idea di libertà, e, con essa, della civiltà europea, era ormai riconosciuta, fin dai suoi più intimi motivi, nell’analisi storica, anche se il discorso filosofico continuava a negarne la possibilità, perché la storia è sempre storia del positivo, e il negativo, che in essa si manifesta, è interno alla dialettica che ne ordina il progresso. Ma proprio in tale frattura, tra ciò che la logica stabiliva e il fatto che sul piano fenomenologico veniva ad assumere il centro della scena, si aprì anche lo spazio per un ripensamento profondo della teoria liberale, che in effetti si presentò, in questi anni, come un tentativo di rendere conto di quella crisi e della correlativa insufficienza della visione classica del liberalismo europeo.
In uno degli scritti più sistematici che Croce abbia dedicato al liberalismo, pubblicato in inglese con il titolo The roots of liberty (in Freedom: its meaning, 1940, pp. 24-41) e in italiano con il titolo Principio, ideale, teoria. A proposito della teoria filosofica della libertà, ribadì che l’ideale liberale
si ritrova in tutte le età; e non si può trattarlo come un fatto storico, nato in un certo tempo, vissuto per un certo tempo e, al pari di tutti i fatti storici, destinato a trapassare e morire (in Il carattere della filosofia moderna, 1941, 1991, a cura di M. Mastrogregori, p. 110).
Ma aggiunse che, se eterno è il motivo della libertà, non altrettanto deve dirsi della «coscienza del suo carattere essenziale, del suo valore di supremo principio», la cui scoperta è «affatto moderna» e può, nel corso della storia, oscurarsi o persino scomparire, al punto che spesso «vacilla, si vela, si confonde, e l’azione o s’infiacchisce o si trae indietro, rinunziando, o rinnega il suo ideale e si abbandona alla corrente che prima avversava» (p. 115).
Questa distinzione, che operava tra la libertà, per sé eterna e inestinguibile, e la coscienza che di essa, nella storia, se ne può avere o meno, corrispondeva perfettamente a quello che si leggeva nel 6° capitolo (“Le categorie della storia e le forme dello spirito”) di La storia come pensiero e come azione (1938), dove Croce, a proposito delle forme spirituali, aveva affermato che le categorie, «essendo le operatrici dei cangiamenti», non possono affatto mutare, ma tuttavia «cangiano e si arricchiscono […] i nostri concetti delle categorie» (2002, p. 31), che mutano e progrediscono con il mutare e progredire della storia.
Allo stesso modo, la decadenza della libertà non era un declinare dell’idea della libertà, ma della storica consapevolezza che, nel tempo e nello spazio, gli uomini ne acquistano, potendola smarrire ed entrando, così, nell’oscurità di un’epoca autoritaria. Per questo, nella Storia d’Europa e in altri scritti, Croce insisteva sul carattere «religioso» della libertà: configurandola, appunto, come una «religione della libertà», dotata di propri miti e simboli, capaci di penetrare nell’immaginazione dei popoli e di guadagnarne il consenso; un’«ideale pratico» dunque, al pari di ogni religione, che – scriveva – «intende a creare nella società umana la maggiore libertà, e perciò ad abbattere tirannie e oppressioni e a porre costumi, istituti e leggi che valgano a garantirla» (Principio, ideale, teoria, cit., p. 109).
Restava il fatto che la dottrina classica del liberalismo, con le sue istituzioni e i suoi valori – l’individuo, la divisione dei poteri, il mercato –, si era rivelata incapace, in Italia e in Europa, di arrestare la marcia distruttiva dell’autoritarismo: non perché quelle istituzioni fossero per sé sbagliate, o non avessero un senso nel contesto storico che le aveva generate, ma perché, di fronte a radicali trasformazioni nell’economia e nella cultura, si erano ridotte a un guscio vuoto, incapaci di rinnovarsi. L’errore capitale del vecchio liberalismo consisteva nel perenne tentativo di definire l’essenza della libertà sul fondamento delle istituzioni che, via via, l’avevano incarnata, smarrendo così tanto il valore della libertà quanto quello (sempre empirico e provvisorio) delle sue forme.
Nel 1° capitolo (“La religione della libertà”) della citata Storia d’Europa, Croce chiarì che la libertà «non si adegua mai e non si esaurisce in queste o quelle delle sue particolarizzazioni, negli istituti che ha creati»; e perciò, concludeva, «non si può definirla per mezzo dei suoi istituti, ossia giuridicamente», e «non bisogna porre un legame di necessità concettuale tra essa e questi, che essendo fatti storici, le si legano e se ne slegano per necessità storica» (19814, p. 15). Per spiegare il crollo dell’antica Europa, occorreva invertire quella logica, non dedurre l’idea della libertà dalla figura oggettiva delle sue istituzioni, ma, viceversa, giudicare le istituzioni sulla base della presenza, in esse, dell’«animo libero», del «genio liberale», capace di sostenerle e di vivificarle. Come Croce scriveva in un passo cruciale del citato saggio del 1940, lo stesso Montesquieu,
non era in grado di sostenere che con questo meccanismo istituzionale [la divisione dei poteri] si generasse e mantenesse libertà e si impedisse servitù, perché, se manca l’animo libero, nessuna istituzione serve, e se quell’animo c’è, le più varie istituzioni possono secondo tempi e luoghi rendere buon servigio. Le concrete istituzioni liberali le crea di volta in volta il genio politico ispirato dalla libertà o (che è lo stesso) il genio liberale fornito di prudenza politica. E tener vivo questo genio in un popolo è il supremo dovere (Principio, ideale, teoria, cit., p. 120).
L’idea di libertà costituisce, perciò, la forma che conferisce vita alla materia delle figure istituzionali, l’anima di quel corpo, la enèrgeia che non si esaurisce in nessun ergon, la fiamma che arde in ogni suo prodotto e che, quando si spegne e abbandona il mondo, nessun artificio istituzionale può davvero tenere in vita. Risuonava, in questa critica del vecchio liberalismo, il motivo che era rimasto al fondo della filosofia dello spirito, cioè la distinzione – operata nei Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro («Atti dell’Accademia pontaniana», 1905, 10, pp. 1-140, poi, in una «seconda edizione interamente rifatta», Logica come scienza del concetto puro, 1909) – tra il concetto e gli pseudoconcetti, e soprattutto la spiegazione che, nella Filosofia della pratica. Economica ed etica (1909), aveva delineato della legge, come «un atto volitivo che ha per contenuto una serie o classe di azioni», e che perciò, «come volizione di una classe di azioni», è «volizione di un astratto» (1° vol., a cura di M. Tarantino, 1996, p. 317). Anche la legge infatti, come le istituzioni della libertà, appariva come prodotto astratto del «genio pratico», della volizione, capace di trovare realtà solo nell’esecuzione, nell’attuazione nella concreta prassi.
Erano situazioni analoghe, che evocavano entrambe i nodi più spinosi e tormentati della costruzione speculativa, dove le determinazioni dello spirito (la legge appunto, o le istituzioni) risultavano tanto come il prodotto necessario dell’energia che le generava, e senza il quale lo spirito non avrebbe conseguito autentica realtà, tanto come il limite astratto in cui esso, lo spirito, decadeva e si fissava, alla maniera degli έργα che il «genio liberale» creava con la sua inesauribile ενέργεια, pronto tuttavia ad abbandonarli e a sostituirli con forme più efficaci. Nella teoria del liberalismo, insomma, si insinuava la medesima trama logica che aveva dettato i luoghi essenziali del sistema, ripresentandone difficoltà e questioni aperte.
D’altronde la critica del liberalismo classico, e i tratti peculiari che la nuova teoria venne assumendo, s’intrecciavano con trasformazioni più profonde, che, assieme all’idea di libertà, chiamavano in causa il profilo dello storicismo assoluto e il rapporto tra sfera economica e sfera etica. Già nell’11° capitolo (“L’attività morale”) della citata Storia come pensiero e come azione, Croce aveva insistito sullo speciale statuto della volizione etica nella vita dello spirito, la quale, di fronte alla «tendenza al disorganismo» e all’«esuberanza» delle altre categorie, a cominciare da quella economica, «le mantiene nei loro confini» e «ne garantisce la libertà», perché «le comprende tutte e tutte le converte, in quanto adempiono al loro fine speciale, in azione etica» (p. 53).
Una tendenza, quella ad assegnare al momento morale un ruolo di contenimento e di armonizzazione del divenire della totalità, che si accentuò e precisò negli scritti successivi e più tardi, dove parlò della morale come della «potenza unificante dello spirito», «moderatrice e governatrice» delle altre forme, sopra cui esercita «imperium e non tyrannidem» (Filosofia e storiografia, 1949, a cura di S. Maschietti, 2005, p. 65).
Ora, questa forma morale, custode e madre dell’armonia del reale, si identificava pienamente con l’idea di libertà; e come la morale tendeva a coincidere con lo spirito, così il liberalismo assumeva l’aspetto della totalità. In certo modo, il circolo di pensieri che, a partire da Antistoricismo (lettura tenuta il 3 settembre 1930 al VII Congresso mondiale di filosofia di Oxford e pubblicata in «La Critica», 1930, 28, pp. 401-09) e poi nella Storia d’Europa, aveva innescato, riconoscendo le origini della decadenza europea nel diffondersi di quella «malattia morale» (come scrisse nel citato Manifesto del 1925) che era romanticismo morboso e culto della forza per la forza, qui si chiudeva e si compiva, configurando la crisi della libertà come l’esuberanza dell’utile-vitale, dell’energia elementare della vita pratica, sfuggita al controllo della libertà e della moralità: e il liberalismo, al modo stesso dell’attività morale, assumeva il compito supremo di «potenza unificante dello spirito» (La “mia” filosofia, «Quaderni della “Critica”», 1945, 2, p. 7), di eterna riaffermazione, attraverso le forme e gli istituti adeguati, dell’unità e dell’armonia della vita.
Nello scritto Il presupposto filosofico della concezione liberale («Atti della Reale Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», 1927, 50, pp. 3-12, poi, con il titolo La concezione liberale come concezione della vita, in Aspetti morali della vita politica: appendice agli “Elementi di politica”, 1928, pp. 7-19), Croce precisò – per fugare il senso di disorientamento o di meraviglia che poteva sorgere per l’assenza della teoria liberale nella considerazione della filosofia politica – che il liberalismo non costituisce, in senso stretto, una dottrina politica:
Perché, in verità, questa concezione è metapolitica [in corsivo nel testo], supera la teoria formale della politica e, in certo senso, anche quella formale dell’etica, e coincide con una concezione totale del mondo e della realtà (in Etica e politica, cit., p. 235).
Il liberalismo non si colloca sullo stesso piano delle posizioni liberiste, democratiche o socialiste, ma in «una sfera diversa e superiore», perché coincide con la concezione moderna e immanentistica della realtà, e trova perciò come avversario «irremissibile» l’opposta dottrina autoritaria, che necessariamente esprime la contraria concezione trascendente e dualista, la quale «giudica che la vita umana debba essere plasmata e regolata da una sapienza che la trascende e per fini che la trascendono» (p. 236).
Lo stesso concetto ribadì, negli ultimi anni della sua vita, quando si trovò a riorganizzare e presiedere il Partito liberale, ricordando nel 1949 che il liberalismo non è un partito, ma un «prepartito», «perché senza di esso non vi sarebbero partiti, cioè mancherebbero nervi e muscoli al sistema sociale» (Parità degli uomini nella libertà, cit., p. 67); e che risorge ogni volta che, di fronte alla libertà e contro di essa, si leva la minaccia autoritaria, con la speranza di ridiventare presto superfluo e di lasciare il campo ai partiti propriamente politici.
Il carattere «metapolitico», o di «prepartito», che Croce continuò ad attribuire al liberalismo discendeva dalla posizione che vi era assegnata nella filosofia dello spirito e, in ultimo, dalla sua identificazione con la forma morale; ma certo ebbe importanti conseguenze anche sul piano del dibattito ideologico, oltre che su quello filosofico, perché contribuì a forgiare la precisa fisionomia della posizione liberale, distaccandola da tutti gli altri indirizzi politici e, soprattutto, rendendone impraticabile il collegamento non solo, come è ovvio, con la contrapposta dottrina autoritaria, ma anche con principi diversi (quali il socialismo, la democrazia, il liberismo) che nel corso della storia vi erano stati variamente unificati. Il che non significa che Croce escludesse, sul terreno storico e politico, incontri fecondi o alleanze, bensì che escludeva, sul piano teorico, la contaminazione del principio liberale (metapolitico e prepartitico) con altri princìpi, appartenenti a una sfera diversa.
La libertà si sollevava al di sopra degli altri valori che pure, insieme a lei, avevano formato l’uomo moderno, abbassandoli a materia e contenuto della propria energia, a prodotti condizionati e resi possibili da una premessa più alta e comprensiva. Così, evocando il celebre trinomio che aveva armato la borghesia rivoluzionaria francese – liberté, égalité, fraternité –, dichiarava che esso andava «disfatto», lasciando la sola libertà come «principio unico e supremo», come la «dea superstite» (disse, parafrasando il verso di Giosue Carducci, «ultime dee superstiti, giustizia e libertà», in Avanti! Avanti!, 1872 ) che sola fosse degna di tali onori (Principio, ideale, teoria, cit., p. 58).
Nell’articolo che nel 1943 dedicò all’idea di giustizia affermò, pertanto, che quei due termini – libertà e giustizia – non potevano essere assimilati o contaminati, come pretendevano i vari sostenitori del binomio «giustizia e libertà» o del liberalsocialismo, non perché la giustizia non meritasse i più caldi elogi, ma perché appartenevano a due ordini diversi, l’uno significante «la spiritualità stessa dell’uomo, la sua attività che è la sua realtà» (Revisione filosofica, cit., p. 276, poi in Discorsi di varia filosofia, 1° vol., cit., p. 262), l’altro differenti classi dell’organizzazione sociale. Con la parola giustizia, spiegò, si intendono cose differenti, che meritano di essere distinte e non confuse: «giusto» viene definito il bene morale, duplicando, in maniera ambigua e imprecisa, un concetto per sé chiaro, che trova un posto determinato nel circolo delle forme spirituali; oppure si vuole indicare, con quel termine, il diritto e la legalità, che non coincide con il volere morale, ma ne costituisce la condizione e la materia economico-utilitaria. Ma soprattutto, ci si richiama alla giustizia per affermare un’esigenza di eguaglianza, e qui sorgono gli equivoci maggiori e più resistenti: perché l’eguaglianza ha due sensi ben diversi, l’uno, legittimo e qualitativo, che indica «il riconoscimento della dignità spirituale di ogni essere umano» (p. 118), la «parità degli uomini nella libertà» (come recitava il titolo della citata conferenza del 1949), con la giusta esigenza di superare i privilegi e di affermare diritti comuni; l’altro invece quantitativo, astratto e matematico, che si converte nell’utopia illiberale di un mondo dove siano soppresse le differenze individuali, e dove, perciò, la stessa libertà viene offesa e annullata. Se, nella parte positiva, il concetto di giustizia era risolto nell’idea di libertà, in quella negativa – l’eguaglianza intesa come negazione della varietà – andava invece respinto: in ogni caso, la giustizia si mostrava subordinata al principio della libertà, e perciò da esso distinta, perché, scrisse con molta chiarezza, la libertà non si lascia condizionare dalla giustizia ma è «regolatrice di giustizia» (Principio, ideale, teoria, cit., p. 266).
Da questa critica dell’idea di giustizia, e soprattutto dell’eguaglianza astratta, derivava il giudizio che Croce formulò, nel corso degli anni, sulla democrazia. Un giudizio articolato, complesso, che non è lecito semplificare in formule sbrigative. E che forse, dopo le analisi della Storia d’Italia e della Storia d’Europa, trovò la migliore e più comprensiva espressione nel breve articolo che, nel 1943, dedicò al pensiero politico di Alexis de Tocqueville (Intorno al Tocqueville, «La Critica», 1943, 41, pp. 54-56, poi, con il titolo Liberalismo e democrazia, in Scritti e discorsi politici: 1943-1947, 1963, 1° vol., a cura di A. Carella, 1993, pp. 115-19).
Qui, indicando il limite di Tocqueville nella scarsa fiducia che arrivò a nutrire nella «intrinseca virtù creatrice» della libertà, al punto da cercarne «fragili sostegni e infidi» fuori di lei, distinse con ogni cura i due sensi, l’uno filosofico l’altro «pratico e politico», in cui la questione andava considerata. Sul piano teorico, spiegò, liberalismo e democrazia «per un verso coincidono, e per l’altro divergono tra loro; e sono identici e diversi» (p. 116): si identificano, anzi tutto, perché entrambi respingono «domini dell’alto, teocratici o assolutistici che siano», e cercano e affermano la libertà; ma si distinguono, al tempo stesso, per il diverso concetto che possiedono di quella libertà, che per la democrazia è «un concetto astratto, naturalistico e intellettualistico» (p. 117), che deriva dal Settecento, mentre per il liberalismo è «concetto storico e concreto», sorto nel cuore dell’Ottocento e dal suo spirito storico e romantico. L’ideale democratico rinviava pertanto, come la nozione di giustizia, al principio astratto dell’eguaglianza, intesa non come «parità degli uomini nella libertà» ma, viceversa, quale negazione della differenza: e per questo si distingueva dall’ideale liberale, che
non si lega mai a nessuna particolare condizione di fatto, istituzione e costume, sistema economico o altro che sia, ma tutti questi adopera secondo la situazione delle cose ossia il corso della storia, come mezzi pratici dell’opera sua (p. 116).
Se tale era la distanza che, sul piano teorico, divideva le due idee di libertà, quella liberale e quella democratica, l’una storica l’altra «astratta, naturalistica e intellettualistica», diversamente andavano le cose «nel campo pratico e politico», quando lo sguardo si volge non più ai concetti, ma ad «aggruppamenti o partiti di uomini»: qui non si trattava più di adoperare «lo schema dell’inferiore e del superiore», indicando la conciliazione nella «risoluzione» della democrazia nel liberalismo, ma di osservare determinazioni diverse che «si compiono a vicenda e che sono necessarie, le une e le altre, alla vita sociale e politica» (p. 117). Da un lato, infatti, la politica liberale ha il suo difetto nel «procedere cauto, che tende a farsi timido», d’altro lato il democratismo eccede «nel suo radicalismo e semplicismo», in modo che debbono incontrarsi e completarsi, riconoscendosi nel comune principio della libertà: che era poi quanto effettivamente accaduto nei momenti più fecondi della storia d’Italia, dal connubio cavouriano ad Agostino Depretis e Giolitti, fino alla resistenza che entrambi, liberali e democratici, avevano opposto alla dittatura fascista: «L’Italia – poteva concludere –, e generalmente allora l’Europa, prosperò, in questa concordia discors di liberalismo e democrazia» (p. 117).
Il carattere essenziale del liberalismo di Croce, come emergeva anche nel confronto con la democrazia, consisteva nell’idea che la libertà non può essere definita sul fondamento delle istituzioni che via via ne incarnano l’esigenza, perché quelle istituzioni decadono e muoiono se, e quando, lo spirito liberale, che di esse si serve come di mezzi e strumenti, le abbandona: per questo era crollata la civiltà liberale in Europa, sotto la spinta dell’irrazionalismo e del romanticismo morboso, nonostante l’apparente solidità dei suoi istituti. Questo principio, che rimase al fondo di tutte le riflessioni crociane, trovava un riscontro speculativo nella struttura della filosofia dello spirito, soprattutto della sua sezione pratica, immedesimandosi con la dialettica della forma morale (la libertà, appunto) e della forma economica e utilitaria, considerata come materia e contenuto di quella.
Ma le conseguenze di tale riforma del liberalismo classico riguardavano non solo la critica del giusnaturalismo e dell’antica dottrina dei diritti naturali, ma anche il rapporto tra il principio liberale e la concreta configurazione dell’ordine economico, al punto che Croce, con pieno rigore, poteva affermare che la politica liberale «dev’essere economicamente affatto spregiudicata» (Revisione filosofica, cit., p. 284, poi in Discorsi di varia filosofia, 1° vol., cit., p. 275), adottando i provvedimenti più idonei al «civile progresso», anche quelli «comunistici» dell’economia pianificata. In questo modo si spezzava, sul piano teorico, il legame che la dottrina liberale aveva istituito con il liberismo, spesso facendo di questo, del liberismo, il connotato essenziale della propria posizione; quel legame si spezzava, occorre chiarire, dal lato della teoria, ma non sul piano pratico e politico, perché Croce continuava comunque a ritenere che l’economia di mercato fosse preferibile, e più prossima all’orientamento liberale, di quella pianificata. Il problema riguardava, perciò, la natura del liberalismo: l’errore che, scambiando il principio della libertà con una forma economica determinata, si continuava a produrre, disconoscendo il prevalere dell’etica sul momento utilitario.
Questa posizione, che Croce ribadì e cercò più volte di chiarificare, suscitò la reazione critica di chi (come Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises, Wilhelm Röpke) riteneva che senza liberismo non potesse darsi autentico liberalismo: reazione, per altro, comprensibile e giustificata, perché la rottura di quel legame delineava, non come presupposto ma come esito conclusivo di una filosofia, il profondo rinnovamento che la teoria liberale aveva qui subito. Di queste perplessità si fece interprete l’economista italiano Luigi Einaudi, che in diverse occasioni obiettò a Croce che, per quanto distinti sul piano dei principi, libertà morale e libertà economica non potevano poi essere separati nella costruzione di una società effettivamente liberale. Fin dall’articolo Liberismo e liberalismo («Atti della Reale Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», 1927, 51, pp. 75-79, poi in Aspetti morali della vita politica, cit., pp. 39-45), Croce replicò che i due termini, di cui la lingua italiana, a differenza di altre lingue europee, conserva la distinzione, hanno certo una «comune radice ideale» e condividono «l’operare di un medesimo principio» (in Etica e politica, cit., p. 265), tuttavia esprimono due diverse esigenze, l’una etica e l’altra politica, che devono essere non solo distinte ma concepite in modo che l’una sia subordinata all’altra, come la materia alla sua forma.
E in un saggio pubblicato vent’anni dopo, tirando le somme delle discussioni che riguardo questo tema lo avevano a lungo impegnato, Croce ricordava che la storia porta sempre con sé «un residuo d’imprevedibilità», che la «forza creatrice della volontà» è «sempre più ricca dei nostri schemi e dei nostri calcoli» (Ancora di liberalismo, liberismo e statalismo, settembre 1947, in Due anni di vita politica italiana: 1946-1947, 1948, poi in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di P. Solari, 1957, p. 89), e che perciò quanto oggi appare inattuale o dannoso può diventare, in un altro momento, risorsa e strumento della politica liberale.
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