Croce e la religione
Il tema della religione è stato tanto poco studiato in modo sistematico e formale quanto costante e significativa ne è la presenza in tutta l’opera crociana, dai primi scritti agli ultimi, dalle opere sistematiche ai contributi più occasionali. Si tratta di un tema che involge questioni centrali della riflessione crociana, a partire da quelle di filosofia, spirito, storia, vita, dialettica, etica ed economia, mito, errore e verità, solo per citarne alcune.
Non mancano saggi e contributi intorno al celebre Perché non possiamo non dirci cristiani del 1942, come non mancano riflessioni e analisi di singoli aspetti del problema religioso nell’amplissima letteratura critica crociana; bisogna tuttavia attendere il lavoro di Antonio Di Mauro del 2001 (Il problema religioso nel pensiero di Benedetto Croce) per avere la prima, e al momento unica, indagine sistematica del problema religioso in Croce. Si tenterà in questo saggio di costruire un profilo essenziale, benché necessariamente sintetico, dei principali aspetti di carattere storico e critico del pensiero crociano sulla religione.
Alcune pagine del Contributo alla critica di me stesso (1918, d’ora in poi Contributo) rievocano l’educazione religiosa che il piccolo Croce ebbe in famiglia, specialmente da parte materna e, a partire dai nove anni (1876), in un «collegio cattolico, non gesuitico in verità, anzi di onesta educazione morale e religiosa, senza superstizioni e senza fanatismi, ma, insomma, collegio di preti» (Contributo, in Etica e politica, 1931, 1967, p. 318).
L’autore ricorda in quegli anni «fuggevoli impeti di ascetismo o piuttosto brevi propositi di vita devota» (p. 318); ma quel che è più rilevante,
qualche tormento per non riuscire a mettere in piena pratica le massime religiose, in particolare quella che mi comandava di “amare” Dio, e non solamente di “temerlo”, perché io lo temevo bensì nelle terrificanti dipinture delle pene dell’inferno, ma non ne abbracciavo l’immagine amabile, troppo astratta (Contributo, cit., pp. 318-19).
A proposito delle confessioni, che era tenuto a fare ogni sabato, ricorda «un penoso studio di esattezza» nell’elencare i ‘peccati’ della settimana e, una sola volta, «un sincero atto di contrizione» per aver contribuito con i compagni a una ribellione per la quale il prefetto era stato congedato dal direttore e per questo caduto in tristi condizioni. Il ragazzo si tormentava per non riuscire ad ‘amare’ Dio a causa dell’immagine astratta che ne riceveva; provava invece sincero pentimento per avere in qualche modo causato del male a un «povero prete».
Durante gli anni del liceo, frequentati nello stesso collegio come esterno, ebbe inizio la sua crisi religiosa,
celata in famiglia, e anche agli amici, come infermità vergognosa. Quella crisi fu provocata non da letture empie, non da insinuazioni maligne, come i devoti sogliono figurarsi e dire, non da parole di filosofi come lo Spaventa, ma dal direttore stesso del collegio, pio sacerdote e dotto teologo, il quale si accinse poco accortamente a somministrare a noi licealisti, per raffermarci nella fede, alcune lezioni di “filosofia” (come le intitolava) “della religione”: lievito gettato nel mio intelletto, sin allora inerte innanzi a quei problemi (pp. 319-20).
Fu dunque una latente disposizione del suo spirito, una naturale inclinazione ancora ignorata verso la filosofia, risvegliata da letture che avrebbero dovuto produrre un effetto contrario, ad avviare la crisi religiosa. «Molta tristezza e vive ansie provai per quel vacillare della fede»; l’adolescente cercò rimedi in varie letture, ma inutilmente.
Poi mi distrassi, preso dalla vita, senza più interrogarmi se fossi o no credente, continuando anche per abito o per convenienze esteriori alcune pratiche religiose; finché, a poco a poco, smisi anche queste, e un
giorno mi avvidi, e dissi chiaro a me stesso, che ero fuori affatto dalle credenze religiose (p. 320).
Questo è tutto quel che Croce, nella sua filosofica autobiografia (Ciliberto 1992), ci ha consegnato della sua personale esperienza religiosa. Non è molto, ma sufficiente a ritenere che la posizione assunta in seguito nei confronti della religione derivasse dall’emergere della sua natura filosofica e critica, dal bisogno di immergersi nel mondo, amato come Tutto, e quindi dallo svanire impotente del ‘bagno’ di religione ricevuto nell’infanzia e nell’adolescenza. Questo non significa, tuttavia, che egli non continuasse a riflettere, da filosofo, sul fenomeno religioso e sui suoi caratteri.
Nelle pagine crociane emergono con evidenza due concetti di religione: l’uno, vero e fecondo, connesso con l’esercizio e la pratica della stessa filosofia; l’altro, erroneo, espresso dalla natura mitologica delle religioni storiche tradizionali. Il primo concetto è spiegato in vari luoghi e, sinteticamente, nelle prime pagine della Storia d’Europa nel secolo decimonono del 1932 (d’ora in poi Storia d’Europa), a proposito dell’ideale liberale; questo è denominato religione,
quando si attenda all’essenziale ed intrinseco di ogni religione, che risiede sempre in una concezione della realtà e in un’etica conforme, e si prescinda dall’elemento mitologico, pel quale solo secondariamente le religioni si differenziano dalle filosofie (Storia d’Europa, 1972, pp. 20-21).
In tale accezione di religione come ‘filosofia’ innamorata della vita in tutte le sue manifestazioni immanenti, Croce può intitolare i primi due capitoli della Storia d’Europa “La religione della libertà” e “Fedi religiose opposte”, dove, sotto la definizione di «fede religiosa» passa in rassegna il cattolicesimo romano, le monarchie assolute – perché «non v’ha ideale che non si appoggi, in ultimo, a una concezione della realtà e perciò non sia religioso» (pp. 27-28) –, l’ideale democratico, il comunismo, religioni opposte a quella della libertà, che questa, tuttavia, ritiene di poter considerare non semplicemente opposte e respinte da sé, ma anche accolte e inverate e perciò superate nel proprio stesso orizzonte (p. 40). Appare evidente qui l’utilizzo del principio dialettico di ascendenza hegeliana, che consente a Croce di considerare la religione della libertà contrapposta alle vecchie religioni e, al tempo stesso, capace di compendiarle e proseguirle. La religione liberale
raccoglieva, al pari dei motivi filosofici, quelli religiosi del passato prossimo e remoto, accanto e sopra di Socrate poneva l’umano-divino redentore Gesù, e sentiva di aver percorso le esperienze del paganesimo e del cristianesimo, del cattolicesimo, dell’agostinismo e del calvinismo, e quante altre erano state, e di rappresentare le migliori esigenze, e di essere purificazione, approfondimento e potenziamento della vita religiosa dell’umanità (Storia d’Europa, cit., p. 21).
I caratteri della religione filosofica sono chiaramente illustrati in un testo intitolato Religiosità (in Etica e politica, cit., pp. 165-68), che si apre con la seguente limpida dichiarazione: «Il filosofo, nel negare la religione, la nega in quanto forma mitologica, ma non già in quanto fede e religiosità». Anzi, Croce ritiene che sia una necessità della filosofia di convertirsi di volta in volta in fede, ossia «in complesso di verità tenute per ferme e inconcusse, le quali valgano da premessa per l’operare» (p. 165). E qui l’autore espone i principali caratteri della religiosità filosofica, il primo dei quali è dare all’uomo la coscienza della sua unità con il Tutto, «che è la vera e piena realtà» (p. 166). Tale religiosità, nascente dal pensiero dell’uomo, è puramente umana, «antimitologica, libera da ogni residuo naturalistico e utilitaristico» (p. 167). Solo essa è condizione della poesia, promotrice del sommamente umano (ma non sovrumano), matrice di eroismo nella continua sottomissione al Tutto, è armonia intesa come unità del pensare con il sentire e il fare, e, in tal senso, è aristocratica, perché non accessibile ai più. Questa è la religione alla quale Croce pensava quando scriveva, nelle Note autobiografiche (1934) aggiunte al Contributo, che
l’infermità dei nostri tempi, l’infermità da risanare, è proprio questa: che non si riesce a infiammarsi per le pure idee come in altri tempi per la redenzione cristiana, per la Ragione o per la Libertà; e perciò (né questo dico io solo) la crisi salutare della società moderna dovrà essere, presto o tardi, di carattere profondamente religioso (Note autobiografiche, in Etica e politica, cit., pp. 370-71).
Così, in un saggio intitolato La crisi italiana del Cinquecento e il legame del Rinascimento col Risorgimento («La Critica», 1939, 37, pp. 401-11, ora in Filosofia, poesia, storia, 1951, 19963, pp. 877-88) può considerare essenzialmente ‘religioso’ il Rinascimento, come il Risorgimento e il conseguente liberalismo perché animati da profonda forza razionale capace di trasformarsi in azione e motrice di storia e di vita. In questo scritto Croce considera la ragione «il principio eterno che regge e governa e conduce sempre più in alto la vita dell’uomo»; una dichiarazione tipicamente illuministica, che non respinge tuttavia astrattamente da sé l’elemento religioso, considerandolo invece essenziale alla stessa filosofia, depurato dell’elemento mitologico, affinché questa sia alimento di vita. Subito dopo, in prospettiva storica, il filosofo ritiene che
le religioni stesse, nei loro elementi vitali, nei loro concetti fecondi, nelle loro parti positive, non [sono] altro che lumi della ragione operante entro le forme mitiche fino a poi corroderle e a rifulgere nella sua forma propria (La crisi italiana, cit., pp. 879-80).
Nelle Note autobiografiche del 1941 aggiunte sempre al Contributo, Croce può considerare «guerra di religione» l’intervento inglese e americano nel secondo conflitto mondiale, perché determinato, in definitiva, da una ragione filosofica che s’identifica con la stessa religione della libertà (Note autobiografiche, in Etica e politica, cit., pp. 373-74). Tuttavia, anche la guerra del nazionalsocialismo tedesco sarebbe, nella stessa accezione, guerra di religione (sui dubbi e aporie di Croce riguardo alla Seconda guerra mondiale, cfr. Di Mauro 2001, pp. 303-12). Se, dunque, ogni autentica filosofia non può che essere ‘religiosa’, nel senso qui sopra chiarito, da ciò non segue, ovviamente, che ogni espressione religiosa storica sia razionale, perché, per lo più, essa è invece alimentata e avvolta dal mito.
Nella parte terza della Logica come scienza del concetto puro del 1909 (d’ora in poi Logica), esaminando «le forme degli errori e la ricerca della verità», Croce descrive la forma di errore che va sotto il nome di mitologismo. Esso consiste nella pretesa di una rappresentazione puramente storica o fattuale di ergersi a concetto e pensiero effettivamente pensato, oppure esso si ha quando «la storia vuotata di pensiero si atteggia a filosofia» (Logica, 1996, p. 302). In altro luogo (Gl’idoli, in Etica e politica, cit., pp. 107-09) Croce sostiene che «la mitologia è una concezione del reale che personifica i concetti e invece delle pure idee assume un complesso d’immagini a spiegare la genesi, la legge e il fine dell’universo» (p. 107). Ciò che caratterizza il mito è dunque un’affermazione o giudizio logico infondato e usurpato che acquista «pretesa di verità», essendo invece incapace di dimostrare se stesso (Logica, cit., p. 303).
Nel saggio del 1911 sulla filosofia di Giambattista Vico, il mito è un «universale fantastico», ossia «concetto che vuol essere immagine e […] immagine che vuol essere concetto» (La filosofia di Giambattista Vico, 1997, p. 69). Possiamo ritenere che proprio nella precoce, assidua e profonda frequentazione di Vico e della sua opera Croce abbia maturato e definito la sua dottrina del mito, fino a quando, entrato in contatto con le antropologie contemporanee, in particolare con gli studi di Ernesto De Martino (1908-1965), fu sollecitato e considerare, accanto ai miti riconducibili a superiori implicite verità, anche forme di mito irriducibili a esse.
Ma torniamo alla Logica. Per l’elemento logico presente nel mito, questo «va soggetto alla critica, che lo tratta come verità semifantastica o errore» (Logica, cit., p. 302). La natura di tale errore viene meglio riconosciuta se al mito si dà un altro nome, quello di religione e in tal senso il mitologismo si identificherà con l’errore religioso (p. 305).
La religione mitologica deve considerarsi errore perché in essa è essenziale l’uso dell’affermazione o della negazione, ossia del giudizio, che la rende, nel suo esercizio attuale, forma teoretica dello spirito, e non pratica, anche se la sua genesi, come si vedrà, è nell’ordine della pratica. Quando «il cristiano dice che Dio padre inviò Gesù suo figliuolo a redimere gli uomini dalla perdizione in cui erano caduti pel peccato di Adamo» (p. 276) formula una vera e propria affermazione, la quale, tuttavia, non potendo in alcun modo essere dimostrata, o non potendo assurgere alla dignità di pensiero, è per Croce, in quanto giudizio affermativo, un vero e proprio errore.
D’altra parte, Croce rifiuta il privilegio che la religione attribuisce a se stessa di essere «affermazione sui generis», ossia tale da oltrepassare i confini della scienza umana: cosa vera, se per scienza umana si intendono le scienze empiriche, ma non vera se per scienza umana si intende la filosofia, che anch’essa «è fuori delle astrattezze delle scienze empiriche» (p. 305). Inoltre, la religione non ha il diritto di presentarsi come sintesi di tutte le forme dello spirito, perché in tal modo non si offre una teoria della religione, «ma una nuova denominazione dello spirito stesso, problema inesauribile della speculazione filosofica» (p. 305).
Due sembrano essere, nella prospettiva crociana, i principali elementi mitologici delle religioni: l’idea di una realtà trascendente fondatrice e destino ultimo dell’unico mondo della nostra esperienza, e l’idea di rivelazione come fondamento stesso della religione.
La critica crociana del trascendente attraversa, si può dire, tutte le sue pagine, dai primi scritti di carattere filosofico fino all’ultima appendice al Contributo, intitolata Agli amici che cercano il ‘trascendente’. Nella Filosofia della pratica. Economica ed etica del 1909 (d’ora in poi Filosofia della pratica), a proposito del trascendente religioso, Croce usa parole forti:
Dove s’introduce l’ombra del trascendente, si fa il buio; e nel buio si può introdurre di tutto. E, in prima, nient’altro che il buio stesso (Filosofia della pratica, 1996, p. 295).
Nell’appendice appena ricordata al Contributo, datata 8 maggio 1945, con tono più affettuoso ma non meno netto, Croce ricorda le due lotte da lui compiute per una conquista del trascendente, distinguendo due accezioni di questo e un elemento comunque comune alla nozione stessa di trascendenza. La prima lotta avvenne tra l’adolescenza e la giovinezza per la conquista fallita di un mondo celeste altro da quello terreno; la seconda, intorno ai trent’anni, «quando il trascendente mi si ripresentò avvolto in veste terrena e laica» (Agli amici che cercano il ‘trascendente’, in Etica e politica, cit., p. 378) come «regno della libertà» da costruire con i manuali del marxismo. Ambedue i tentativi fallirono perché erronea è la comune loro pretesa di separare definitivamente il bene dal male ricacciando il male nel profondo inferno o annientandolo,
laddove la vera catarsi non si effettua se non in costante congiunzione col male che supera ma di cui, nel superarlo, prepara la rinascita in nuovi modi. L’uomo, lo spirito umano, non uscirà mai da questo circolo (o corso e ricorso vichiano), da questo circolo che è la vita (Agli amici che cercano il ‘trascendente’, cit., p. 379).
Il saggio si conclude opponendo al Dio trascendente il Dio della virtù che immane in noi:
Perciò i miei cari amici, ansiosi ricercatori di “trascendenze” – così di quella delle religioni rivelate come delle illuministiche, anch’esse e a lor modo non pensate ma rivelate – mi vorranno perdonare se non mi unisco al loro coro e mi tengo stretto alla virtù che “immane” in noi e mi serbo assoluto immanentista. Può darsi che in questa virtù si possegga un Dio che ci dirige e ci comanda, un Dio che s’invoca dal fondo del cuore intensamente e che è più soccorrevole all’uomo del Dio o dell’idea trascendente (Agli amici che cercano il ‘trascendente’, cit., pp. 383-84).
Quanto alla fondazione di diverse religioni storiche su una pretesa rivelazione, Croce ritiene che questa idea,
in quanto non è quella dello spirito come pensiero, esprime per l’appunto la contradizione logica del mitologismo: l’affermazione dell’universale come mera rappresentazione, e questa asserita come verità universale per virtù di un fatto, di una comunicazione, che dovrebbe essere provata e pensata, e invece è assunta arbitrariamente a principio di prova, equivalente o superiore a un atto di pensiero (Logica, cit., p. 305).
Per parte nostra, potremmo addurre a esempio e riprova di questo ragionamento crociano la pretesa ‘dimostrazione’ della necessità di una dottrina sacra accanto e sopra le discipline filosofiche, data da Tommaso d’Aquino nel primo articolo della prima quaestio della Summa Theologica, dove la necessità della rivelazione viene argomentata a partire da fatti enunciati nella rivelazione stessa, ossia il peccato di Adamo, l’esigenza di salvezza per il genere umano e l’incapacità (non dimostrata, ma semplicemente asserita sulla base di un fatto) della ragione o degli strumenti naturali di assicurarla. Non so se Croce avesse in mente questo luogo; ma qui si dà esattamente quel circolo vizioso di un demonstrandum assunto a fondamento della dimostrazione, al quale egli allude. E si può anche toccare con mano il fenomeno di rappresentazioni immaginative che si tenta di trasportare nell’ambito del pensiero attraverso l’uso di concetti vuoti o puramente formali, che Croce chiama «filosofismo» e che, applicato alla religione, coincide propriamente con la teologia.
La teologia è filosofismo, perché opera con concetti vuoti di ogni contenuto storico ed empirico e trasforma il mito in domma: il mito della cacciata dal
Paradiso diventa il domma del peccato originale; quello del figlio di Dio, il domma dell’Incarnazione e della Trinità (Logica, cit., p. 307).
La teologia è dunque la pretesa di attribuire forma di pensiero a pure rappresentazioni empiriche e pertanto costituisce la sublimazione dell’errore mitologistico, ossia dell’errore religioso. Ma quali implicazioni contiene la concezione della religione come errore?
L’intera parte terza della Logica è dedicata alla questione dell’errore e alla ricerca della verità. Qui mi limito a indicare alcuni caratteri della dottrina logica dell’errore e le loro implicazioni nella dottrina della religione.
a) L’errore è negatività e non lo si può trattare come qualcosa di positivo: in quanto l’errore è pensiero falso, essendo affermazione difforme dal suo oggetto, esso è «privazione o negatività» (p. 275), dove per privazione si intende assenza di verità. Si tratta tuttavia di distinguere nell’errore tra enunciato in quanto affermato e la proposizione che enuncia, la quale, di fatto, coincide con l’enunciato stesso; l’errore è negatività o privazione in quanto l’enunciato non esiste semplicemente o non esiste così come viene enunciato; ma la proposizione che enuncia, benché enunci il falso, è qualcosa di reale e appartiene con necessità alla storia dello spirito. Se, per usare l’esempio crociano già ricordato, diciamo che «Dio padre inviò Gesù suo figliuolo a redimere gli uomini dalla perdizione in cui erano caduti pel peccato di Adamo», pronunciamo un enunciato erroneo in quanto esso afferma come esistente qualcosa che non è mai avvenuto ed è del tutto inesistente; tuttavia la proposizione che enuncia quella falsità e l’immagine enunciata, prescindendo dalla sua affermazione, è reale e appartenente all’ambito dell’esistente, al punto da poter essere scambiata per vera da moltissimi individui. Osserva Croce in proposito: «Quell’errore che ha esistenza [o forse, meglio, ciò per cui l’errore si dice esistente] non è errore e negatività, ma qualcosa di positivo, un prodotto dello spirito» (p. 276).
b) Tali prodotti dello spirito si danno in forme necessarie e perciò deducibili dalla natura e storia stessa dello spirito. Il mitologismo o religione, ossia l’affermazione di una rappresentazione immaginativa come concetto, è una delle forme necessarie di errore deducibile dal concetto puro come concetto, o filosofia (p. 280).
c) L’errore considerato come prodotto dello spirito e quindi annoverabile nell’esistente, essendo privo di verità,
non può essere opera dello spirito teoretico; e poiché, oltre la forma teoretica dello spirito, non vi ha da
considerare se non la forma pratica, l’errore che incontriamo come qualcosa di esistente dev’essere prodotto, a suo modo razionale, dello spirito pratico (p. 276).
Si tratta, si badi bene, non di un errore pratico, ma di un atto pratico, del tutto razionale e necessario in quanto atto, che tuttavia è erroneo sotto il profilo teoretico. Si osservi tuttavia che, essendo la sfera della pratica distinguibile in etica ed economia, l’atto pratico razionale, implicante errore teoretico, non appartiene alla sfera dell’etica ma a quella dell’economia, «perché la moralità richiede che l’uomo pensi il vero, e a quel dovere i produttori di errori si sottraggono o, per dir meglio, non ancora s’innalzano» (p. 277).
d) Rimane da precisare in che senso Croce possa considerare positivo anche il negativo dell’enunciato erroneo. Ovviamente non è possibile considerare positivo il negativo in quanto tale, perché si tratterebbe di contraddizione in termini. Si può invece considerare positiva la negatività dell’errore solo in quanto «è momento della sintesi dialettica e fuori della sintesi è nulla» (p. 275). Questo equivale a dire che soltanto la verità, che in sé accoglie e supera l’errore, rende positiva la negatività dell’errore.
Se passiamo alle implicazioni di questa dottrina generale dell’errore su quell’errore che si chiama religione mitologica, possiamo svolgere le osservazioni seguenti.
a) La religione mitologica è, per sé, negatività e non può essere considerata come qualcosa di positivo. Questo significa che essa, in quanto tale, non dispensa verità e non produce verità. E se non è nella verità non è neppure nella moralità, poiché, come si è visto, la moralità esige verità. Essa dunque non insegna né verità né moralità. Questo accade perché si produce una scissione incolmabile tra la pretesa universalità delle sue rappresentazioni e l’origine economica dell’atto che le produce (pp. 277-78). Nella Filosofia della pratica (cit., pp. 109-11), dopo aver sottolineato l’indipendenza della morale e della ragion pratica dalla religione, Croce descrive la natura della forma economica dello spirito come «affatto individuale, edonistica, utilitaria», sempre determinata da un preciso punto del tempo e dello spazio (pp. 219-21). L’errore religioso nasce dall’economia perché è mosso dalla ricerca dell’utile individuale per sé, in questa o nell’altra vita. E anche quando sembri che in questa vita non si cerchi l’utile individuale, ciò dipende dal fatto che non si considera la vita oltremondana,
nella quale Dio premia o castiga chi ha ubbidito o disubbidito alla sua volontà nella vita mondana. Onde colui che, in questa, sembra resistere all’impulso dell’utile personale compiendo sacrifici di ogni sorta, perfino della propria vita, ubbidisce in realtà anche lui al suo utile personale; e, avendo fede in Dio, nell’immortalità dell’anima e nel premio e nella pena che lo aspettano, regola la sua azione secondo queste credenze, che entrano come dati di fatto nel suo calcolo economico (Filosofia della pratica, cit., pp. 233-34).
Altrove, considerando i principi materiali della pratica, Croce esamina quelli che si dicono ‘religiosi’ in quanto ripongono la moralità nel conformarsi alla volontà di Dio o degli dèi.
La religiosità diventa attaccamento a un essere o a un ordine di esseri, individui immaginari ma individui; e l’attaccamento che loro si porta è amore o timore, simpatia o paura del male che possono recare, e tendenza a evitarlo col propiziarseli mercé preghiere, adulazioni, doni, servigi, culto. I princìpi religiosi adunque, intesi come princìpi materiali, si convertono anch’essi in utilitari, come tutti sanno, e sanno, diremmo, fin troppo; perché, fermando lo sguardo su questo aspetto della religione, obliano sovente di guardarne altri non meno importanti e assai più nobili (Filosofia della pratica, cit., p. 296).
b) Per cogliere questi aspetti di nobiltà è necessario riconoscere che l’errore sorge spesso nel tentativo di ricerca della verità e che, se il tentativo non è errore, «l’errore contiene sempre in sé, voglia o non voglia, un tentativo. Lo spirito errante, pur senza averne intenzione, prepara materia alla ricerca della verità» (Logica, cit., p. 323). In queste verità in nuce, confuse e coperte, che la filosofia è in grado di riconoscere, svolgere e condurre alla piena luce, risiede quel che di importante e nobile è celato nell’errore della religione o del mitologismo. In tale prospettiva Croce giunge ad affermare che
in ciò che si delimita come religione o come corpo di dottrine religiose, per esempio nel Cristianesimo, nei suoi miti e nella sua teologia, c’è copia così grande di verità e di suggestione alla verità da potersi, in senso relativo, affermare la superiorità di quella religione sopra una filosofia ben ragionata ma povera, corretta, ma sterile (Logica, cit., p. 326).
E dichiara persino: «Per nostro conto siamo persino d’avviso che l’eredità delle religioni non è stata ancora bene e tutta sfruttata» (p. 327), ovviamente da una consapevole e matura filosofia.
c) Se, dunque, ogni fenomeno è parte e manifestazione della storia dello spirito e della storia del mondo, pervasi da un dinamismo dialettico che trae positività da negatività per preparare nuova negatività e così all’infinito, non sorprende trovare in Croce sincero rispetto per le religioni pur accanto alla denuncia netta della loro falsità. Sono false e da trasformare in autentica filosofia e religione; ma in quanto esistono vengono rispettate per i semi di verità che comunque nutrono in sé. Il rispetto è tale da tramutarsi talvolta in aperta e vibrante difesa dell’etica religiosa e cristiana,
così misconosciuta e bistrattata oggi, per angusta passione di parte o per manco di finezza mentale, dai volgari razionalisti e intellettualisti, dai cosiddetti liberi pensatori o da simile genìa, frequentatrice di logge massoniche. Non c’è quasi verità dell’Etica (e abbiamo avuto già occasione di fare altri accenni in proposito), che non si possa esprimere con le parole, che abbiamo apprese da bambini, della religione tradizionale, e che spontanee ci salgono alle labbra come le più alte, le più appropriate, le più belle: parole, certo, ombrate ancora di mitologia, ma gravi insieme di un contenuto profondamente filosofico (Filosofia della pratica, cit., p. 306).
Appare superfluo sottolineare che la difesa della religione per Croce è possibile soltanto sotto la garanzia di un processo dialettico che permetta alla filosofia di riconoscere con animo sereno il mito da cui si è svolta e che conserva, negato, dentro di sé. In tal senso e con questi limiti, è da assumere la famosa formula crociana dell’impossibilità di non dirci in qualche modo cristiani (pp. 275-76; per l’assorbimento da parte della religione della libertà dei motivi essenziali delle religioni storiche, che supera e conserva in sé fuori dalla loro dimensione mitologica, cfr. Storia d’Europa, cit., pp. 20-21; per i rapporti con la Chiesa cattolica, considerata istituzione essenzialmente politica, pp. 22-27 e 84-87; sul modernismo, pp. 258-59).
Per almeno tre ragioni filosofia e religione non sono separabili. Anzitutto per il nesso tra tentativo o ricerca della verità ed errore; anche laddove la ricerca della verità decada nell’errore, può racchiudere in questo semi di verità: «Per questa ragione, anche ciò che sotto un aspetto è stato rigettato e biasimato come falsità, sotto un altro dev’essere accolto e onorato come avviamento alla verità» (Logica, cit., p. 326). In secondo luogo per l’inscindibilità degli opposti: diritto e rovescio non sono separabili. Infine perché l’errore è riconoscibile soltanto alla luce della verità e non può darsi fenomenologia dell’errore fuori dal sistema filosofico, cioè fuori dalla dottrina delle categorie (p. 329).
Ne consegue che «ogni filosofia si sente avversa al mito e nata dal mito, nemica e figlia delle religioni» (p. 326). Da qui deriva la diversa ciclica disposizione della filosofia nei confronti della religione con il mutare dei secoli, a seconda del diverso accento che si pone sull’inimicizia o sulla figliolanza ed eredità (pp. 326-27). Il passaggio dalla religione alla filosofia si compie soltanto
mercé un rivolgimento spirituale, onde la volontà si purifica di ogni residuo materiale, egoistico o eudemonistico, i pensieri e le immagini religiose si dispogliano del loro carattere trascendente e mitologico, rinunziano all’attrattiva sensibile di questa loro veste, e si trasfigurano in idee, non fredde, come si crede, ma limpide bensì e serene, e fonti di gioia serena (Gl’idoli, cit., p. 109).
Il vantaggio della filosofia sulla religione si ha anche riguardo alla «consolazione» che da essa l’animo umano può trarne. Croce dedica a questo tema l’ultimo capitolo della terza parte della Logica, in particolare contro «il comune concetto di una filosofia sconsolante» (Logica, cit., p. 339). L’unica autentica consolazione è quella che ci rende la conoscenza vera della realtà e anche quando si consideri consolatrice l’illusione, questo è possibile soltanto nella persuasione soggettiva che quella illusione sia vera. Anche per ciò che concerne i concetti di Dio e di immortalità, la filosofia, elaborandoli meglio e fugandone le ombre fantastiche, «li ha liberati da dubbi e angosce e li ha resi più e non meno consolatori» (p. 340). Si deve però avvertire che, se la filosofia ha un maggior potere consolatorio rispetto alla religione, essa non è né l’unica né la suprema consolatrice,
perché il pensiero, se per un verso supera la vita, per l’altro è solo un modo della vita stessa, la quale in tutte le sue forme risana con l’attività i mali dell’attività e con la vita consola la vita (p. 441; si veda anche Religione e serenità, in Etica e politica, cit., pp. 20-23).
Le considerazioni sin qui svolte mostrano che l’idea crociana di religione, nella duplice accezione in cui è assunta, è tutta fondata sulla pensabilità e coerenza di quel processo di relazione dei distinti che, se non si vuol dire dialettico nel senso proprio di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, consente all’errore di essere sussunto sotto la verità mantenendo tuttavia la sua valenza di negazione, e al male di coesistere con il bene senza che questo ottenga mai un definitivo superamento:
E questo dell’unità della vita nel bene e nel male è il vero peccato originale che non ha redenzione per sangue che si versi dagli dèi o dai figlioli di Dio, almeno nella vita che noi conosciamo e che sola possiamo concepire (Il peccato originale, in Storiografia e idealità morale, 1950, p. 122).
La storiografia critica ha mostrato tuttavia le difficoltà di questo processo (in particolare Sasso 1975), capaci di compromettere anche la coerenza della dottrina di una religione filosofica. Si deve precisare inoltre che Croce stesso, specialmente nei suoi ultimi anni, non sembrava ignaro di questa difficoltà del sistema e, al tempo stesso, si mostrava preoccupato per i fenomeni storici che sembravano preludere alla fine della civiltà. I Taccuini di lavoro testimoniano la dedizione drammatica di Croce a una speculazione diuturna e sempre rinnovata sui concetti di storia e di vita (Sasso 1989). Per quanto concerne il tema della religione, non sembra tuttavia che quest’ultima ricerca abbia prodotto variazioni significative sui cardini della dottrina qui sopra esposta.
A. Caracciolo, L’estetica e la religione di Benedetto Croce, «Giornale di metafisica», 1946-1948, poi Genova 19883.
C. Antoni, Commento a Croce, Venezia 19642.
G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975.
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