Croce e la Spagna
Del suo primo incontro con la Spagna il giovane Benedetto Croce lasciò un taccuino di viaggio, in cui annotò con precisione itinerari, scoperte, attrazioni e viscerali ripulse. Era il maggio 1889, Croce aveva ventitré anni e insieme all’amico Francesco Capece Galeota attraversò la penisola per salpare poi da Genova alla volta di Barcellona. A Napoli si era già avvicinato alla Spagna e alla sua cultura: nel 1885 aveva pubblicato il suo primo lavoro su Lucrezia d’Alagna, amante e musa di Alfonso V, l’anno seguente la sua prima edizione di poemetti spagnoli. Come avrebbe poi commentato nel suo Contributo alla critica di me stesso (datato Napoli, 8 aprile 1915, ma pubblicato nel 1918), anche in quel primo viaggio giovanile, più che il divertimento di un giovane alla scoperta di un Paese nuovo, o la passione incontenibile che avrebbe acceso, in quello stesso anno, il suo collega ispanista Arturo Farinelli, prevalse il suo accostarsi «come erudito e letterato» (B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, 1918, p. 25) a un mondo che sentiva insieme estraneo e tuttavia parte di una cultura condivisa.
E se Croce ammirò la semplicità castiza della cattedrale di Burgos e del romanico spagnolo, di un’avemaria cantata all’alba nella spoglia abbazia di Montserrat, liquidò con sprezzo l’architettura araba, il mudéjar sempre uguale, il barocco ridondante ed eccessivo. Ogni elemento folklorico, vagamente esotico venne da lui allontanato con disprezzo. Nulla di più freddo nel suo diario della descrizione di Siviglia, o dello spettacolo di flamenco, un battito ritmico di mani che lo lasciò del tutto indifferente, o di più biasimevole e ripugnante dello spettacolo barbarico delle corride. Ma non era solo la Spagna multietnica ed esotica ad allontanarlo. Era anche quella soffocante e barocca della Controriforma teatralmente esposta sugli altari spagnoli straboccanti di statue e Cristi sanguinanti, quasi feticci di una religiosità superstiziosa, eccessiva, vuota e irrazionale allo stesso tempo.
Si è spesso detto che quello di Croce con la Spagna – o meglio con la storia, la letteratura e la cultura spagnola – fu un rapporto lungo, che attraversò l’intera sua esistenza, non privo di un certo pathos (cfr. Galasso, in Croce e la Spagna, 2011, p. 1). Il taccuino di viaggio ne rivela in controluce diffidenze e idiosincrasie, le stesse che caratterizzarono buona parte del suo percorso letterario e intellettuale. Era una Spagna lontana, eppure parte, nel bene e nel male, di una storia napoletana che stava al centro, allora come alla fine della sua vita, dei suoi interessi.
Di quegli appunti di viaggio Croce dovette preparare, attorno al 1926, un’edizione ripulita e pronta per la pubblicazione, che tuttavia non arrivò mai alle stampe. La pubblicò nel 1961 l’amico e sodale Fausto Nicolini, con il titolo di Nella Penisola Iberica. Taccuino di viaggio (1889).
L’impressione di freddezza e distacco, in alcuni punti quasi di disprezzo per alcuni aspetti della cultura spagnola, dovette indurre il curatore della traduzione spagnola Félix Fernández Murga a pensare che la scelta di Croce di non pubblicare un manoscritto pronto per la stampa potesse essere uno strascico della lunga polemica a partire da un altro giudizio pesantemente negativo sul provincialismo e la scarsa cultura filosofica della «sempre sventurata Spagna», che a Croce era sfuggito tra le pagine dell’Estetica, nel 1902. Secondo Murga Croce non avrebbe voluto riannodare la polemica, che aveva opposto, con pacatezza ed equilibrio ma in maniera netta, Croce e Miguel de Unamuno (Fernández Murga 1993, pp. 16-17).
Fu Alda Croce, ispanista anch’essa e curatrice delle memorie del padre, a rettificare l’ipotesi di Murga, ancora nel 1991, giustificando i tentennamenti e insistendo sul vincolo profondo che legò per tutta la vita il padre alla Spagna e alla cultura spagnola. La non pubblicazione del Taccuino da parte dello stesso Croce si doveva non tanto ai giudizi taglienti sulla Spagna e sul folklore barbarico spagnolo ma al fatto che Croce lo considerasse uno scritto di gioventù, riposto, scrisse la stessa figlia, «in un armadio insieme con altri ricordi giovanili» (Fernández Murga 1993, p. 24).
Negli anni immediatamente successivi al viaggio in Spagna e Portogallo, tra il 1892 e il 1894, Croce iniziò a lavorare a una serie di saggi sui rapporti culturali e letterari tra Spagna e Italia. L’idea era quella di un progetto complessivo, in più tomi, dal titolo Gli Spagnuoli in Italia nei secoli XV e XVI. Così spiegava in una delle prime lettere al suo corrispondente spagnolo Marcelino Menéndez Pelayo (1856-1912), inviandogli tre ‘opuscoli’ (La corte spagnuola di Alfonso d’Aragona a Napoli; Versi spagnuoli in lode di Lucrezia Borgia; Di un antico romanzo spagnuolo relativo alla storia di Napoli: la “Question de Amor”) che si sommavano alla memoria Primi contatti fra Spagna e Italia, letta all’Accademia pontaniana nella tornata del 19 novembre 1893 e già inviatagli pochi mesi prima:
No son más que ensayos de un largo trabajo en el cual yo estoy ocupado. Yo tengo esperanza de publicar, hacia la fin del año, el primero tomo de la obra completa, que será titulado: Gli Spagnuoli in Italia nei secoli XV e XV (Croce a Menéndez Pelayo, 14 marzo 1894, in Menéndez Pelayo 2009, v. 12, 595).
Era il nucleo da cui sarebbe nata La Spagna nella vita italiana della Rinascenza (1917).
Della corrispondenza con il poligrafo ed erudito di Santander, forse l’intellettuale più influente nella Spagna di quel momento, sono rimaste nove lettere, che vanno dal 1894 al 1903, ma il rapporto tra i due dovette continuare almeno fino al 1908, come si evince da alcune lettere di Menéndez Pelayo ad altri corrispondenti e dal continuo scambio di rassegne e citazioni di libri corrispettivi. Croce, in quegli anni dedicati quasi esclusivamente allo studio della letteratura spagnola e del rapporto culturale tra Spagna e Italia, aveva costruito una rete di rapporti piuttosto consolidata con alcuni dei maggiori intellettuali spagnoli del tempo: Ramón Menéndez Pidal, Francisco Rodríguez Marín, Armando Cotarelo Valledor.
È proprio al 1894 che possiamo datare l’inizio vero e proprio di un ispanismo italiano. La Spagna diventò grazie a Croce e all’ispanista Arturo Farinelli (1867-1948), e al rapporto misto di scambio e competizione che si instaurò tra i due, oggetto privilegiato delle ricerche italiane. In quello stesso anno i due decisero di trascorrere insieme le vacanze estive a Innsbruck, dove Farinelli insegnava, come scrisse quest’ultimo in una lettera a Menéndez Pelayo, senza far mancare un’allusione malevola alle notevoli disponibilità di denaro di Croce, e alla sua ignoranza in materia ispanistica (Gargano, in L’apporto italico alla tradizione degli studi ispanici, 1993, p. 56). Ma i segnali di una sostanziale dissonanza, metodologica, prima ancora che caratteriale, sono evidenti nelle lettere che i due scrissero agli stessi corrispondenti spagnoli, lamentandosi reciprocamente della superficialità degli studi ispanisti dell’altro. E se Farinelli più volte segnalò all’erudito spagnolo la conoscenza superficialissima della letteratura spagnuola di Croce (Farinelli a Menéndez Pelayo, 6 maggio 1894, in Menéndez Pelayo 2009, v. 12, 649), questi non lesinò i giudizi negativi sull’irruenza romantica di Farinelli, sul suo scarso rigore, sulla mancanza di un’impostazione teorica che ne sostenesse l’argomentazione e rifiutò più volte l’ambigua profferta di usarne schede e appunti.
Menéndez Pelayo si districò abilmente tra le ambizioni e le richieste di attenzione dei suoi due giovani corrispondenti italiani, ma fu con Croce che le consonanze di interessi e argomenti si rivelarono più forti. E di tutti i corrispondenti spagnoli fu Menéndez Pelayo a diventare per Croce uno dei principali punti di riferimento. Lo fece conoscere in Spagna attraverso le pagine della sua «La España moderna», con recensioni piuttosto elogiative degli ‘opuscoli’ sulle cose di Spagna che il filosofo napoletano via via gli inviava. Croce – ammettendo di sentirsi in letture spagnole ancora uno «scolare» (Croce a Menéndez Pelayo, 27 maggio 1894, in Menéndez Pelayo 2009, v. 12, 664) – riconosceva il ruolo magisteriale di Menéndez Pelayo, di cui condivideva gli interessi sui rapporti tra Spagna e Italia e sulla storia delle idee estetiche, e nondimeno rivendicava nel fondo il rigore di una posizione teorico-metodologica meditata, che l’eclettico e poliedrico Menéndez Pelayo sembrava non cogliere. Significativa è la lettera del 27 maggio 1884, in cui Croce ringraziava per la benevola recensione alla sua prima memoria (Primi contatti tra Spagna e Italia). Nella prima parte, grato, riconosceva la chiarezza espositiva della recensione e ringraziava per i suggerimenti di possibili integrazioni; tuttavia si difendeva dalle singole accuse di non avere incluso questo o quel personaggio nella sua memoria spiegando che, nell’abbozzare una storia dei rapporti letterari e culturali tra Italia e Spagna, non aveva inteso dar conto di ogni singolo personaggio, se non in quanto rappresentativo di un’attitudine comune e condivisa. Non dunque eclettismi e originalità individuali ma atteggiamenti che potessero in qualche modo essere rappresentativi dell’influenza del popolo spagnolo:
La mia precisa intenzione è di studiar l’influenza del popolo spagnuolo, non dei singoli individui. E quando un individuo non rappresenta l’influenza del popolo, lo lascio da banda (Croce a Menéndez Pelayo, 27 maggio 1894, in Menéndez Pelayo 2009, v. 12, 664).
Era una dichiarazione metodologica estremamente lucida, che ci può dire molto anche delle idee più tardi alla base della Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza. La sua storia è anzitutto una ricostruzione a senso unico. Suo unico scopo è rintracciare «soltanto ciò che la Spagna ha dato all’Italia, non il viceversa». Il progetto di Croce non era quello di proporre un catalogo di scambi intellettuali disomogenei anche se geniali, ma di mirare a ricostruire un’influenza che credeva rappresentativa di un popolo, quello spagnolo, sull’Italia. Ciò che proponeva era dunque «una ricerca sul modo come gl’Italiani hanno conosciuto, giudicato e usufruito la Spagna» (Croce a Menéndez Pelayo, 27 maggio 1894, in Menéndez Pelayo 2009, v. 12, 664).
Era un intento programmatico che molto doveva all’idea di influsso di culture e soprattutto alla certezza che l’identità culturale di un popolo fosse concetto ben chiaro e definibile. Croce avrebbe attenuato le sicurezze metodologiche di quelle pagine diventando sempre più scettico sulla categoria di influsso – di transfert culturale, diremmo oggi – via via che ne ripubblicava edizioni riviste e ampliate. Nel prologo che costituisce una sorta di ‘autorecensione’ alla 3a ed. della Spagna nella vita italiana chiariva così il suo percorso:
Negli anni dal 1892 al 1894, nacque sotto lo stimolo di un genere di lavori allora molto richiesto, molto raccomandato e molto pregiato, che era quello degli “influssi”, delle “fonti” o come altro si chiamassero, e specialmente degli influssi degli scrittori stranieri sulla letteratura, sull’arte e su ogni parte della vita italiana («La Critica», 1941, 39, pp. 254-55).
L’altra grande passione in comune con Menéndez Pelayo fu senza dubbio lo studio dell’estetica. Menéndez Pelayo aveva pubblicato tra il 1883 e il 1891 un’imponente Historia de las ideas estéticas en España, che si spingeva dal Medioevo al 18° sec., non limitandosi alla Spagna ma allargandosi a una prospettiva europea. E se Croce, all’epoca dei primi contatti con Menéndez Pelayo, ignorava la sua giovanile Historia de los heterodoxos españoles (1880-1882) – una delle più influenti storie dell’eresia spagnola, cui rimarrà consegnata la netta prospettiva conservatrice dell’erudito di Santander –, aveva invece letto con avidità la sua storia delle idee estetiche. Accanto agli studi ispanistici rivendicava di «essersi occupato per qualche tempo di studii d’estetica» (Croce a Menéndez Pelayo, 20 apr. 1894, in Menéndez Pelayo 2009, v. 12, 630).
Anche più tardi, a partire dalla pubblicazione della sua Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), Croce avrebbe riconosciuto la validità della Historia de las ideas estéticas, sottolineando tuttavia la scarsa compattezza teorico-filosofica della sua prospettiva. Ammetteva la grandezza del maestro spagnolo nel delineare una storia dell’estetica a partire da autori ed episodi spesso dimenticati, ma non poteva non constatarne la sua debole impalcatura teorica, l’«incertezza dal punto di vista teorico dell’autore», che ora inclinava a un certo «idealismo metafisico», ora verso «altri sistemi, finanche delle teorie empiriche» (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 19083, p. 559).
L’Estetica di Croce venne tradotta in spagnolo nel 1912 ed ebbe un influsso lungo e duraturo nella storia dell’estetica spagnola. Il prologo fu affidato dallo stesso traduttore, José Sánchez Rojas, a Unamuno (1864-1936), già allora il più brillante e originale filosofo spagnolo, massimo punto di riferimento della generazione del ’98. Nel 1895 aveva pubblicato il suo primo libro En torno al casticismo, una serie di saggi che penetravano nel profondo della complessità della società spagnola. Critico sulla lunga storia spagnola e sulle sue possibilità di riscatto, aveva accolto la riflessione, che si trascinava ormai da più di un secolo, sulla decadenza spagnola e sul grande impero spagnolo a brandelli. Al secolare problema dell’Inquisizione spagnola e del suo impatto sulla storia intellettuale del Paese dedicava pagine intense e insuperate, additandone la presenza continua e soffocante, che aveva schiacciato e deformato il pensiero costretto a riadattare parole e idee al clima di continui sospetti e delazioni. Aveva parlato di una sorta di ‘inquisizione immanente’, un modus vivendi ormai introiettato nell’identità spagnola, fatto di acquiescenza, soggezione all’autorità, senso critico represso.
Era un punto che avrebbe potuto enormemente arricchire la riflessione teorica di Croce sulla decadenza italiana, la Controriforma e l’influsso della cultura spagnola in Italia, così come le sue inflessibili e moralizzanti riflessioni sul barocco. Ma Croce non sembrava essere a conoscenza delle profonde riflessioni di Unamuno sulla decadenza spagnola, né delle pubbliche posizioni che prese, in quegli stessi mesi, nell’incandescente polemica fra l’europeista José Ortega y Gasset e Azorín, difendendo con decisione sulle pagine dell’«ABC» le peculiarità dell’identità spagnola dalle accuse di scarsa apertura a una riflessione moderna ed europea.
Il rapporto con il grande filosofo spagnolo è un rapporto mancato, dove il sostanziale conservatorismo di Croce gli impedisce di penetrare nelle pieghe del complesso pensiero di Unamuno, cogliendo tratti di convergenza o spunti di critica e riflessione. Croce non apprezza, ma soprattutto non legge Unamuno e la corrispondenza tra i due, che mai arriveranno a conoscersi di persona, assume le forme di un balletto formale, educato e di maniera, senza mai arrivare a decollare veramente.
Il 23 maggio 1911 Unamuno mandava a Croce – prima ancora che a Sánchez Rojas, che glielo aveva commissionato – il prologo scritto appositamente per la traduzione spagnola della sua Estetica a partire dalla lettura dell’originale italiano. Con una certa umiltà, lo ringraziava per avergli fatto conoscere Francesco De Sanctis, ammetteva di non avere ancora letto abbastanza dell’opera crociana, e si presentava con un evidente richiamo alla polemica sul ruolo della Spagna in Europa e sulla decadenza spagnola che l’aveva opposto a Ortega y Gasset, come ‘artista’ più che ‘filosofo’ e come ‘spagnolo’ più che ‘europeo’ (García Blanco 1959, p. 2). Erano categorie singolarmente vicine a quella che sarà la successiva riflessione crociana, che il filosofo italiano però sembra non cogliere.
Anche nel prologo le considerazioni sul rapporto e l’interazione tra Spagna ed Europa acquistavano un ruolo centrale, a partire da una provocazione di Croce, che a proposito dei filosofi minori tedeschi aveva notato come un pensatore di minima rilevanza come Karl Christian Friedrich Krause fosse appena conosciuto in Europa tranne nella «sempre sventurata Spagna» (Estetica, cit., p. 385). Unamuno sottolinea il malcelato disprezzo di Croce, «razionalista e idealista italiano» (prologo a Estética como ciencia de la expresión y lingüistica general. Teoria é historia de la Estética, trad. J. Sánchez Rojas, 1912), nei confronti di una Spagna che sembra non conoscere alcuna riflessione filosofica di una qualche rilevanza nella sua lunga storia, digiuna di filosofia al punto da lasciarsi abbagliare da un pensatore insignificante. Sull’onda delle riflessioni del 1895, rivendica la necessità di capire quanto un pensatore come Krause, con la sua vena mistica e religiosa, possa invece essere vicino e adattarsi alla peculiare identità ispanica, che è lontana dal pensiero sistematico francese e tedesco e dai paradigmi razionalistici europei, chiusa in un’anima mistico-religiosa che vale almeno quanto i grandi castelli filosofici del razionalismo secentesco francese o della filosofia analitica tedesca.
La risposta di Croce non entra nel merito del problema, né coglie o discute le critiche di Unamuno alle sue teorie, ma è volta a minimizzare la boutade – che scomparirà poi del tutto nelle edizioni successive – ricordando al filosofo spagnolo la sua traiettoria di ispanista erudito e di ‘ispanofilo’:
L’Estetica è, relativamente, un libro giovanile. È il mio primo libro di filosofia, perché per molti anni io mi sono occupato di storia; e tra l’altro delle relazioni storiche dell’Italia con la Spagna, su di che scrissi una ventina di memoriette (in quel tempo fui in cara corrispondenza col Rodríguez Marín, col Rodríguez y Villa, col Cotarelo, col Menéndez Pidal, etc.). Nei libri posteriori il mio pensiero si è maturato. Anche in fatto di Estetica, nel volume Problemi di Estetica, e propriamente nella conferenza letta a Heidelberg Ella troverà un progresso nel concetto di intuizione. Ma ciò che duole è che una boutade che mi sfuggì nella foga della prima stesura del mio libro, e che ho poi dimenticato di togliere, le abbia recato dispiacere, e le sia parsa più importante che non è. Quando scrissi, scherzando, a proposito del Krausismo spagnolo, la “sempre sventurata” Spagna, pensavo alle correnti del peggiore positivismo europeo, che allora la percorrevano, come all’inoculazione del peggiore sistematismo tedesco che aveva subito alcuni decenni prima. E quella frase era rivolta piuttosto contro la pedanteria filosofica e la goffaggine positivista che contro la Spagna, la cui letteratura e arte, e il cui popolo e la cui storia hanno sempre avuto su di me un fascino grande. Nella nuova edizione italiana che ora si prepara dell’Estetica, toglierò quella frase; ma non mi è possibile toglierla dalla traduzione spagnuola, perché Ella dovrebbe sopprimere parecchie pagine della sua bella introduzione. Preferisco dunque che resti agli occhi di tutti il mio peccato perché non manchino quelle pagine di castigo. La pregherei soltanto di aggiungere una nota avvertendo per conto dell’autore che si tratta d’una frase scherzosa, detta per incidente e senza darle troppo peso; che il Croce prima di diventare scrittore di filosofia e di estetica, era noto come ispanofilo e aveva pubblicato molti studii di erudizione spagnuola. Questo per la verità. Io Le sarò molto grato se Ella vorrà favorirmi alcune delle sue opere, e specialmente la Vida de don Quijote y Sancho, che da un pezzo mi proponevo di cercare e di leggere (García Blanco 1959, p. 4).
Nelle edizioni spagnole successive il riferimento alla ‘sempre sventurata Spagna’ verrà tolto. Quanto alle impressioni che gli diede la lettura della Vida de don Quijote y Sancho, speditogli da Unamuno dietro sua richiesta in quell’occasione, non dovettero essere entusiasmanti. Ne abbiamo un’eco lontana ancora nel 1948. Il giudizio stizzito di Croce, a decenni di distanza, stigmatizza una volta di più l’incompatibilità di fondo tra il ‘misticismo’ di Unamuno e il razionalismo crociano:
Ma come si possono sopportare libri della sorta della Vida de don Quijote y Sancho según Miguel de Cervantes explicada y comentada dall’Unamuno, che dal poema cervantino ricavó un particolare ed esemplare sistema morale: quasi gareggiando con quello scrittore francese suo contemporaneo, che dalla dolorosa e palpitante creatura del Flaubert, Emma Bovary, estrasse un’intera filosofia, che intitolò «le bovarisme»? [...] Tuttavia codeste fantasie sono perlomeno bizzarre e curiose: ma semplicemente noiose mi tornano le altre che attribuiscono ogni sorta di intenzioni e sottosensi al Cervantes, il quale a detta loro, avrebbe praticato, come già tra i primi trovatori provenzali, una sublime estetica platonico-agostiniana-scolastica, una estetica della età moderna ignorata, sebbene sia di gran lunga superiore a quella “empirica” che ci siamo venuti costruendo con grandi fatiche [...] (B. Croce, Cervantes: “Persíles y Sigismunda”, 1948, ora in Id., Letture di poeti e riflessioni sulla storia e la critica della poesia, 1950, p. 53).
Nell’anno dello scambio con Unamuno, Croce in realtà era già tornato ai suoi studi letterari. Tra il 1911 e il 1917 raccolse all’interno di tre monografie i saggi che, tra il 1894 e il 1898, aveva pubblicato in maniera dispersa. Nel 1911 pubblicò i Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, nel 1916 I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo e nel 1917 – come già ricordato – l’opera cui continuò a lavorare fino alla fine dei suoi giorni, ripubblicandola con edizioni aumentate e aggiornate, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza.
La Spagna e il suo influsso sulla cultura italiana, il problema della decadenza e del malgoverno spagnolo, quello del cattivo gusto e della letteratura barocca e secentesca costituiscono una sorta di filo rosso che lega le tre monografie e giunge, attraverso approfondimenti importanti pubblicati per la maggior parte sulla «Critica», fino alla Storia dell’età barocca del 1929, che chiude in un certo senso il ciclo dedicato ai problemi storico-letterari dell’Italia spagnola e alla sua decadenza.
Croce fu costantemente in bilico tra la spontanea e irrefrenabile avversione per il barocco e la letteratura secentesca italiana e spagnola privi di dimensione etica (la letteratura francese faceva naturalmente eccezione, con i suoi grandi scrittori morali) e l’urgenza di capire il senso e le ragioni di una decadenza – nello specifico, una letteratura di decadenza –, vista come fenomeno storico che, pur riprovevole, meritava di essere approfondito. Nell’introduzione ai Saggi, in una dichiarazione programmatica che poteva valere in generale per tutta la sua produzione erudito-letteraria, Croce spiegava:
Anche rispetto a questo periodo storico [il Seicento], bisogna farla finita con le accuse e le difese, e mettersi a considerarlo nella sua oggettività, come un’epoca storica che, in quanto tale, non poté essere priva di qualche valore positivo. Età di decadenza, sia pure; ma importa non dimenticare che il concetto di decadenza è affatto empirico e relativo: se qualcosa decade, qualche altra nasce o germina: una decadenza totale e assoluta non è concepibile (Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, 1911, p. XIII).
I Saggi si snodavano, con un andamento lento ed erudito, scoprendo autori meno noti o dimenticati, singole eccezioni che permettevano di pensare a un giudizio meno netto di quello implacabilmente negativo che la critica desanctisiana imponeva. Andavano in tal modo accumulandosi eccezioni e predilezioni per singoli autori dell’epoca barocca, in una rosa che andava via via allargandosi, da Giambattista Basile a Miguel de Cervantes a Luis de Góngora y Argote, cui Croce dedicò, anche in saggi successivi, pagine di grande finezza.
Nella Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza Croce partiva in fondo dallo stesso presupposto, rendendolo però ancora più esplicito. Non era sua intenzione schierarsi nella lotta che aveva opposto spagnolismo e antispagnolismo, e che tanta parte aveva avuto nella critica ottocentesca e nella formazione di un paradigma identitario italiano, né dare giudizi di merito sulla decadenza italiana e sull’oppressione spagnola, quanto piuttosto cercare di comprendere una simbiosi – quella tra Spagna e Italia – che aveva potuto imporsi in maniera pacifica e tanto a lungo. Spagna e Italia, come spiegava nella sua introduzione, avevano vissuto «due secoli di vita quasi comune» (La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, 19494, p. 1).
Il suo più grande merito fu quello di avere guardato all’influsso spagnolo in Italia senza pregiudizi di sorta, cercando di prendere le distanze dalla vecchia prospettiva identitaria che voleva la Spagna, e il suo malgoverno, unica responsabile della lunga decadenza italiana. Non si trattava più di scegliere tra spagnolismo o antispagnolismo, bensì di riflettere sul perché di un governo e un’egemonia di così lunga durata, di dare ragione della sostanziale fusione di vita sociale e culturale che aveva legato Spagna e Italia, di capire una «decadenza che s’abbracciava ad una decadenza» (p. 267). Ma il continuo oscillare di Croce tra dimensione etico-morale e riflessione storica era evidente anche in quest’opera. E la decadenza italo-spagnola non poteva che essere spiegata alla luce di una constatazione che molto prendeva dalle riflessioni ottocentesche sulla mancata Riforma luterana in Italia e sullo spirito oppressivo della sua Controriforma: «mancava […] lo spirito etico e religioso necessario ai tempi nuovi che si inauguravano con la riforma religiosa e dovevano poi essere religione di libero pensiero» (p. 263). Una riflessione che sarà poi ulteriormente sviluppata nella Storia del Regno di Napoli (1925).
I saggi raccolti nel libro ripercorrevano aspetti centrali dell’influenza spagnola in Italia, con approfondimenti sull’aspetto linguistico letterario, la storia delle traduzioni, la storia letteraria. Una sorta di abbozzata storia della vita quotidiana e materiale faceva capolino di tanto in tanto, grazie all’attenzione di Croce agli usi linguistici dello spagnolo nell’italiano, ai cerimoniali, o alle pagine sugli stereotipi e le immagini degli spagnoli in Italia. Non era solo la storia letteraria, ma anche la ‘vita italiana’, come suggeriva il titolo stesso dell’opera, che il filosofo voleva mettere al centro dell’attenzione, in uno dei più riusciti e innovativi aspetti del libro. Tuttavia molto è possibile dire anche dei silenzi e delle mancanze di un libro cui Croce ripensò e ritornò nel corso della sua intera esistenza.
Come nota Alberto Varvaro, la Spagna in Italia è solo Napoli, non la Milano spagnola, la Sardegna o la Sicilia (Varvaro, in Croce e la Spagna, 2011): questo pareva suggerire Croce mettendo in appendice al volume il suo Una passeggiata per la Napoli spagnola. Erano le strade di Napoli, le sue chiese, le lapidi, i monumenti che nascondevano storie e invogliavano a cercare le tracce di un influsso profondo e pervasivo. Più tardi, nella premessa a Storie e leggende napoletane (1919), Croce avrebbe ricordato come la sua memoria e il suo primo impulso alla storia nascesse attorno al quadrilatero urbano tra San Domenico e Santa Chiara, tra le strade, i palazzi e i simboli affastellati entro pochi metri. Erano i luoghi amati, spiegava Croce, che evocavano storie: San Domenico e le prediche di Bernardino Ochino, Santa Chiara e Giulia Gonzaga. Il palazzo stesso in cui scriveva, un tempo del principe di Bisignano, aveva accolto Carlo V nel suo passaggio trionfale dopo la spedizione di Tunisi: nelle sue stanze, che avevano ospitato feste e balli in onore dell’imperatore, Croce rievocava i loro fasti e le loro storie di speranze e tradimenti.
I consapevoli vuoti del volume spiegano molte delle posizioni successive di Croce e delle difficoltà a riconoscere il posto della Spagna nella storia d’Europa. Nulla della prospettiva imperiale o della proiezione globale dell’impero spagnolo tra Quattro e Seicento sfiorava il filosofo: l’America, il Nuovo Mondo, le scoperte americane non rientravano nella sua ricognizione. La più grande rivoluzione in età moderna, la scoperta di un mondo nuovo e il vivace ed eclettico adattarsi a nuove conoscenze e nuove coordinate, l’aprirsi al mondo dell’Europa parevano non sfiorare la sua Napoli sonnacchiosa. E scarsa è anche la sensibilità sul problema dei conversos (cioè sugli ebrei spagnoli convertiti al cristianesimo) e sulla diaspora sefardita in Italia. Allo stesso modo, il volume non reca traccia del vasto mondo del dissenso ispano-italiano – cui pure Croce era arrivato attraverso la figura di Juan de Valdés –, quasi come se la rigida impostazione di Menéndez Pelayo, la sua immagine di una Spagna essenzialmente cattolica e inesorabilmente tridentina e controriformistica, fosse penetrata anche nelle sue pagine.
Alla riflessione sul barocco e al suo valore artistico-letterario, e inevitabilmente al giudizio sull’apporto spagnolo alla storia della cultura italiana ed europea, Croce tornò nel corso degli anni successivi. La sua riflessione più lucida e tagliente è interamente contenuta in una conferenza tenuta a Zurigo il 2 febbraio 1925, che Croce pubblicò nello stesso anno sulla «Critica». Qui definiva la categoria di barocco, individuandone l’origine nella parola usata per indicare un sillogismo medievale, e spiegava:
La parola e il concetto di ‘barocco’ nacquero con intento reprobativo e per contrassegnare non già un’epoca della storia dello spirito o una forma d’arte, ma un modo di bruttezza artistica; e gioverà, a mio avviso, che serbino nell’uso rigoroso e scientifico quest’ufficio, sia anche stendendolo e dandone migliore determinazione logica (Il concetto del barocco, «La Critica», 1925, 23, p. 129).
Il barocco era dunque una sorta di «brutto artistico» e come tale non rientrava nel campo dell’arte o nei suoi canoni, li aveva anzi «frodati», ingannati, non obbedendo alla legge della coerenza artistica ma a quella del «libito individuale, del comodo, del capriccio» (p. 132). Era un atto gratuito, dietro cui non intravvedeva alcuna scelta morale.
Il prevalere di questo giudizio morale sul barocco era destinato a prendere sempre più piede nell’ambito della riflessione crociana. L’anno successivo Croce pubblicava Cultura spagnuola in Italia nel Seicento, dove dichiarava senza mezze misure quanto la cultura spagnola non segnasse nella vita europea, e quindi neanche in Italia, «una spiccata fase ideale della storia» (Cultura spagnuola in Italia nel Seicento, «La Critica», 1926, 24, p. 334). Mentre nella storia dell’Europa moderna, le culture francese e inglese, da un lato, quella tedesca, dall’altro, e quella italiana del Rinascimento
furono, a volta a volta, rappresentanti e simboli di nuovi concetti e di nuovi ideali di forme progressive della mente umana, l’umanesimo, il razionalismo o illuminismo, il liberalismo e il romanticismo o storicismo […] quella spagnuola non apportò una nuova idea e non dié un nuovo avviamento spirituale (p. 328).
Era soprattutto l’assenza di un originale e autoctono pensiero filosofico, scriveva Croce, riprendendo il filo interrotto di una riflessione che datava almeno alla sua Estetica, ma le cui radici erano ben più profonde, a impedire alla cultura e alla letteratura spagnola di potersi elevare al rango di Germania o Inghilterra:
Per la medesima ragione dell’assenza o debolezza di un originale pensiero filosofico, di una concezione della vita morale e religiosa, neppur la poesia e l’arte spagnuola segnarono un solco profondo nella cultura italiana, sebbene fossero sovente cose piene di grazia e di freschezza popolaresca, e talvolta capolavori poetici (p. 331).
La grande letteratura spagnola del barocco scompariva sotto il pesante giudizio etico-morale crociano (cfr. Profeti, in Croce e la Spagna, 2011). Rimaneva la fresca e spontanea letteratura dei cancioneros, l’aspetto più profondamente popolare che Croce riusciva a ravvisare in pochi e apprezzati casi e che, paradossalmente, «rimaneva nascosta e inefficace». Ciò insomma che della letteratura spagnola veniva accolto e conosciuto in Italia, «non era nuovo ed originale; e quel che era originale e nuovo non poteva facilmente attecchire e si sarebbe presto disseccato sul nostro terreno» (Gargano, in Croce e la Spagna, 2011, pp. 176-77).
Erano riflessioni che avrebbero animato il profondo scambio di idee con lo stimato amico e collega ispanista tedesco Karl Vossler (1872-1949), che Croce conobbe a Perugia nel 1899 e a cui dedicò la Storia dell’età barocca in Italia. Quattro anni dopo, nell’agosto 1933, il filosofo napoletano chiariva ancora una volta le sue posizioni:
Sta di fatto che la cultura spagnola non ha dato alla Europa moderna nessuno dei concetti e dei sentimenti che le hanno dato l’Italia, la Germania e l’Inghilterra. Perché, scrissi io, è una letteratura senza filosofia (Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, 1983, p. 368)
Vossler, nella lettera di risposta del 25 agosto 1933, suggeriva di guardare oltre la mera produzione letteraria o filosofica della Spagna, considerando il suo ruolo storico imponente ed egemone tra Cinque e Seicento. Gli spagnoli avevano dato all’Europa «un continente nuovo, un nuovo concetto dell’autorità e della disciplina, molta poesia, molte forme di vita». Tutto questo, spiegava Vossler, «modificò profondamente la fisionomia spirituale dell’Europa moderna» (p. 368).
Ma Croce non era disposto a cedere su questo punto. Il suo traballante amore per la civiltà spagnola passava decisamente in secondo piano di fronte al prevalere di un giudizio morale e a una scissione tra arte e filosofia che non lasciava scampo neanche a Velázquez o Cervantes:
Sta di fatto che alla civiltà europea che vuol dire alla mentalità europea, non ha contribuito con idee, come altri popoli [...] Cervantes, Velázquez, ecc. sono geni artistici, ma non sono Cartesio o Hegel (p. 369).
Ugualmente significativo a tale proposito era quanto rinfacciava all’amico Américo Castro (1885-1972), alla luce di un punto fermo metodologico – filosofia e creazione artistica come campi cognitivi distinti e inattingibili – da cui non voleva in alcun modo derogare. Castro, la cui prospettiva, a partire dall’esilio repubblicano del 1939 e dalla pubblicazione del suo controverso capolavoro España en su historia. Cristianos, moros y judíos nel 1948, ribalterà la questione sull’identità spagnola, aveva pubblicato nel 1925 un rivoluzionario saggio su Cervantes in cui, capovolgendo la prospettiva di Unamuno, trasformava Cervantes in un raffinato spirito europeo, uno scettico che avrebbe potuto gareggiare con Erasmo da Rotterdam e Michel de Montaigne.
Croce non colse l’originalità della prospettiva di Castro, che avvicinava la Spagna alla cultura europea attraverso il simbolo stesso della «hispanidad», e lo criticava per avere utilizzato, a conferma della propria teoria, le sue parole in modo sbagliato. Nelle conclusioni del suo saggio su Cervantes, Croce così si esprime:
Voglio piuttosto aggiungere che bisogna stare in guardia anche verso indagini ben altrimenti serie, come è quella di Américo Castro sul pensiero di Cervantes e il suo ricongiungimento col rinascimento italiano e spagnuolo: non perché il Cervantes non risentisse quella viva cultura o perché le si opponesse, ma perché, come ho più volte detto, in quanto poeta, non poté sentire mai veramente altro che l’universale ed eterna umanità (Cervantes, in Poesia antica e moderna. Interpretazioni, 1949, 19664, p. 257).
E prosegue in una nota che scende ancora più nei dettagli:
L’amico Castro, accettando un mio detto che materia dell’arte non sono le cose ma i sentimenti del poeta, scrive: “yo añadiría y las ideas” (A. Castro, El pensamiento de Cervantes, Madrid, 1925, p. 19). No, le idee no, perché esse, in quanto idee, son cose dei filosofi e non dei poeti. Che se poi si chiarisce che si vuol intendere delle idee diventate sentimenti, è evidente che in questo caso non han più luogo idee ma solo sentimenti, come appunto suonava il mio detto, il quale non patisce un’aggiunta che gli è contraria, se anche, come questa volta, fatta con benevola intenzione (p. 257).
Era il 1936 e la prospettiva etico-politica aveva in un certo senso scavalcato e messo decisamente in ombra ogni altro possibile giudizio sul barocco, sulla letteratura del Seicento e anche sulla Spagna e la sua influenza all’interno della cultura europea. I tempi sempre più critici non avrebbero riportato Croce alla flessibilità dei suoi anni giovanili: al suo sferzante giudizio su una letteratura senza filosofia e sull’assoluta inconsistenza della cultura spagnola all’interno della grande tradizione europea sarebbe tornato anche in seguito, nel 1942, sempre in uno scambio epistolare con Vossler, ammettendo che la sua idea non cambiava rispetto alla posizione del 1926 e a quella del 1933.
G.M. Bertini, Benedetto Croce ispanista, in Benedetto Croce, a cura di F. Flora, Milano 1953, pp. 475-93.
M. García Blanco, Benedetto Croce y Unamuno. Historia de una amistad, «Annali dell’Istituto universitario orientale», 1959, 1, pp. 1-29.
F. Fernández Murga, Benedetto Croce y España, «Filología moderna», 1971, 42, pp. 194-97.
F. Fernández Murga, Introducción a B. Croce, En la Península Ibérica. Cuaderno de viaje (1889), ed. F. Fernández Murga, Sevilla 1993.
L’apporto italiano alla tradizione degli studi ispanici. Nel ricordo di Carmelo Samonà, Atti del congresso, Napoli, 30 gennaio-1 febbraio 1992, Roma 1993 (in partic. A. Gargano, Arturo Farinelli e le origini dell’ispanismo italiano, pp. 55-69; C. Segre, Benedetto Croce e l’ispanistica, pp. 103-07).
G. Galasso, Benedetto Croce e la Spagna, «Rivista storica italiana», 2008, 2, pp. 656-93.
M. Menéndez Pelayo, Menéndez Pelayo digital: obras completas, epistolario y bibliografía, Fundación Ignacio Larramendi, Fundación MAPFRE, Madrid 2009.
Croce e la Spagna, a cura di G. Galasso, Napoli 2011 (in partic. G. Galasso, Croce e la Spagna, pp. 1-50; A. Gargano, “Una letteratura senza filosofia”: Benedetto Croce e la poesia spagnola, pp. 167-90; M.G. Profeti, “Secentismo e spagnolismo”: le antinomie di Croce, pp. 103-20; A. Varvaro, Benedetto Croce: la Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, pp. 73-88).