Croce e le scelte del secondo dopoguerra
L’intransigenza antifascista dopo il 1925 colloca Benedetto Croce in un empireo a cui guardano tutte le forze politiche, dai liberali ai comunisti, dai rivoluzionari a quelle vaste parti delle istituzioni e dell’opinione pubblica che individuano in lui la migliore garanzia di un cambiamento che non metta in discussione l’ordine sociale.
Dopo l’8 settembre, lo studioso ricostituisce il Partito liberale, divenendone presidente. È ministro senza portafogli del secondo governo Badoglio e, per alcuni mesi, del primo governo Bonomi. Una delle sue più importanti battaglie riguarda la formazione di un corpo di volontari italiani, dipendente, appunto, dal CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) e non dal re, che avrebbe potuto combattere assieme agli alleati, contribuendo a risollevare il credito nazionale in prospettiva futura. Dopo i contatti positivi con gli americani, il progetto fallisce per l’opposizione della monarchia, timorosa che la nuova formazione possa mettere a rischio il proprio ruolo; e degli inglesi che, con in testa Winston Leonard Spencer Churchill, sostengono Vittorio Emanuele III.
Croce si adopera per far abdicare il re e istituire una reggenza in attesa della maggiore età del nipote, dato che anche il principe Umberto è considerato compromesso con il regime. Fedele all’istituto monarchico, come garanzia dell’unità e dell’interesse generale, il filosofo lamenta la perdita completa di aura della corona, resasi subalterna a un dittatore, a cui ha aperto le porte, rifiutando di firmare lo stato di assedio deliberato dal suo ministero. Ma anche dopo il 25 luglio, il re appare a Croce protettivo verso istituzioni e interessi legati al fascismo. Il filosofo vota per la monarchia al referendum del 1946, ma tiene a che il PLI (Partito Liberale Italiano) lasci libertà di voto ai propri iscritti: dato che nella storia ci sono state repubbliche tiranniche e monarchie liberali, non è, quella, una questione che investe il principio politico per lui fondamentale.
Nel Partito liberale assume una posizione ‘centrista’ fra l’ala sinistra dei Leone Cattani, Mario Pannunzio, Niccolò Carandini e Panfilo Gentile (con cui dialoga intellettualmente, ma della quale stigmatizza la tendenza scissionistica) e la destra monarchica e conservatrice di Roberto Lucifero.
Il liberalismo, disgiunto dalla democrazia, inclina sensibilmente verso il conservatorismo [...] la democrazia, smarrendo la severità dell’idea liberale, trapassa nella demagogia e, di là, nella dittatura (Scritti e discorsi politici 1943-1947, 2° vol., 1993, p. 284).
Questo, con implicita polemica verso l’azionismo, Croce scrive nell’aprile del 1946, all’unisono con Vittorio Emanuele Orlando, Ivanoe Bonomi, Francesco Saverio Nitti, all’atto dell’alleanza dei liberali con demolaburisti e altri raggruppamenti liberaldemocratici, per creare un argine allo strapotere dei partiti di massa, la cui «democrazia progressiva» pare al filosofo criptototalitaria. L’Unione si sfalda due anni dopo, a seguito anche dell’insoddisfacente risultato elettorale.
Del tutto contrario, per altri versi, ad aperture a destra, con ambienti reazionari e nostalgici, rifiuta anche l’alleanza con il nazionalpopulismo del qualunquista Guglielmo Giannini, che guarda inizialmente a Croce come a un punto di riferimento e, dopo l’insuccesso elettorale dell’aprile 1948, passa all’opposizione, contribuendo a far cadere, alcuni mesi dopo, il leader della destra del partito Lucifero. Croce, del resto, è chiaro nel rifiutare per il PLI la qualifica di ‘destra’, facendo un paragone con la destra storica cavouriana, che era tutt’al più moderata o di centro. Anzi, scrive il 27 ottobre del 1945, se «centro destro» indica maggior «conservazione» e «centro sinistro» maggior «innovazione» e «progresso», egli si diceva pronto a definirsi di «centro sinistro» e a «scongiurare e fugare con l’acqua benedetta» qualsivoglia «centro destro» (Scritti e discorsi politici, cit., p. 213). Tutte le forze politiche del Comitato di Liberazione, dice, sono dell’idea che vadano effettuate riforme politiche, economiche e sociali, sebbene poi ci si possa dividere riguardo al «metodo di attuarle». Tuttavia, si tratta di una posizione legata a una fase in cui la critica del comunismo non ha assunto il carattere polemico e unilaterale degli ultimi anni, e, ancora, i comunisti sembrano a lui più compatibili con il liberalismo degli stessi cattolici. L’inassimilabilità delle posizioni di Croce all’anticomunismo più conservatore era stata del resto testimoniata anche dal suo appoggio alla Repubblica spagnola contro il franchismo (cfr. Setta 1979).
Il Partito liberale, negli auspici di Croce, si pone come un «pre-partito» che finisce per sottrarsi agli interessi contingenti di soggetti concreti, per incarnare i valori eterni della libertà e dello spirito: le condizioni, cioè, affinché sussistano «conservazione» e «progresso». Quel che è certamente cambiato, in Croce, rispetto al periodo prefascista è l’utilizzo della parola democrazia. Da termine politicamente negativo, indicante soggetti politici avversari, nemici del liberalismo, e teorie fallaci, sebbene rispondenti a tendenze legittime, la democrazia diventa ora compagna della libertà, anche se in un’accezione di elitismo schumpeteriano: favorevole al suffragio universale inclusivo delle donne, esso è, a suo avviso, il giusto riconoscimento dell’eguaglianza di tutti i soggetti nella libertà, ma è, nondimeno, una fictio iuris. A governare sono sempre le classi dirigenti e non il ‘popolo’ mazziniano o socialista, né la ‘massa’.
Le polemiche politiche più aspre sono però con il Partito d’azione. Infatti sin da Etica e politica (1931) e dalla Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), Croce parla di un adeguamento del liberalismo alla questione sociale, addirittura facendo riferimento al socialismo liberale di Leonard Trelawney Hobhouse, e, dopo la guerra, insiste spesso sulla necessità di riforme sociali. Hanno pesato, dunque, sul suo dissidio con il Partito d’azione, le incomprensioni, anche psicologiche, con Guido Calogero, di cui dà conto il loro epistolario? Non può certo essere l’unica spiegazione. Da un lato, va tenuto conto che l’apertura sociale di Croce non corrisponde, in realtà, a sue concrete prese di posizione politiche di stampo progressista. Egli non va mai, cioè, oltre le dichiarazioni di intenti: per es., lo troviamo fra gli oppositori della riforma agraria di Fausto Gullo del 1944. Dall’altro, gli azionisti, più dei comunisti togliattiani, rappresentano una visione politica giacobina, un radicalismo democratico cui il suo storicismo da tempo si sente estraneo: i soggetti, a suo avviso, non devono imporre nulla alla storia, ma è la storia a imporre ai soggetti i limiti entro cui essi devono muoversi.
L’idea poi di contaminare liberalismo e socialismo pare a Croce un ircocervo. Croce è disposto a sostenere che in determinate circostanze storiche sia necessario aprirsi a provvedimenti politici socialisti, ma questi devono essere, comunque, considerati ‘secondari’ rispetto al primato assiologico dell’idea di libertà. La giustizia sociale non può condividere con la libertà il luogo di fondazione della vita politica e sociale. La libertà stessa produrrà il grado storicamente possibile di giustizia, che non si identificherà mai con un’utopia egualitaria.
Celebre la querelle con Ferruccio Parri che, nelle vesti di capo del governo, nella tornata del 26 settembre 1945 della consulta, nega la natura democratica dell’Italia preliberale. All’azionista Parri Croce, nella seguente tornata del 27 settembre, risponde con fermezza, riprendendo la sua tesi sul progressivo incivilimento delle masse italiane dopo l’Unità. Non solo la condizione sociale delle plebi va migliorando, ma anche il grado di cultura: si configura, cioè, un insieme di «liberi cittadini», riuniti in associazioni e camere del lavoro, fino al conseguimento del suffragio universale. Una democrazia ‘liberale’, precisa tuttavia Croce, in evidente polemica nei confronti della connotazione ‘socialista’ che Parri gli conferisce. Il senso che il partigiano Maurizio dà al termine democrazia, è quello della «democrazia progressiva» di stampo sovietico, che il filosofo ritiene dittatoriale e totalitaria. E, infatti, Croce e i liberali provocheranno, dopo pochi mesi, la caduta del governo, ritirando i ministri.
Che Croce veda gli azionisti come avversari, va inoltre compreso anche dissipando un equivoco che spesso ha condizionato l’immagine ‘politica’ del filosofo. Quella, cioè, di un liberale non liberista e, quindi, a differenza di Luigi Einaudi, aperto, all’occorrenza, alla necessità di interventi statali in economia e ardite riforme sociali.
E tuttavia, al di là di tali questioni di tipo filosofico, nel corso della sua lunga vita, Croce mantiene una posizione coerentemente liberista, nel momento in cui deve prendere una posizione concreta e, appunto, storicamente determinata. La stessa sua vicinanza ai socialisti avviene in una fase in cui fra socialisti e liberisti vi è un’intesa antiautoritaria e antiprotezionistica e in cui si matura una concezione conflittuale della società, di individui e di gruppi, che fa convergere posizioni diverse nel senso dello svecchiamento della società italiana, incrostata di feudalismo e monopolismi.
Ma quando si tratta di criticare il corporativismo attualistico di Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli, Croce mostra di essere negativamente colpito dal loro anti-liberismo. E, così, lo troviamo a sintonizzarsi con le posizioni di Friedrich von Hayek e di Wilhelm Röpke, a livello ‘empirico’, sebbene non dal punto di vista delle premesse filosofiche. Nel secondo dopoguerra, lo studioso dichiara che, circa la preferenza da dare al liberismo o allo statalismo, «quel che solo si può dire è che questa considerazione non è più scientifica ma di politica pratica». E continua:
E che quando accade che una società o un’età si sia impoverita e minacci gravi rovine per l’eccesso delle statizzazioni e delle “pianificazioni” – e in tale condizione è la società nostra e l’età presente – il liberismo sopravviene benefico correttore e risanatore (Scritti e discorsi politici 1943-1947, cit., p. 421).
Per quanto concerne la questione delle epurazioni, per Croce esse sono necessarie proprio per consentire alla macchina amministrativa di riprendere agilmente il proprio corso, ma non possono interessare una larga fetta del corpo della nazione, come l’intransigenza azionista avrebbe auspicato. Bisogna inoltre evitare qualsiasi connotazione di punizione morale che – spiega Croce – non è affare di competenza degli uomini, ma di Dio (metafora religiosa dello Spirito), come peraltro ribadirà a proposito delle relazioni fra Stati vinti e Stati vincitori.
Insomma, se è vero che Croce ha dialogato con i membri di Giustizia e Libertà negli anni dell’oppressione, ora, nella libera gara politica, gli azionisti sono i più diretti concorrenti del Partito liberale nel campo del ceto intettellettuale e della borghesia illuminata.
Indicativa dell’antigiacobinismo del filosofo è la polemica con Umberto Terracini sulle celebrazioni del 1948. Quasi perpetuando la rimozione caduta su quegli eventi nell’Italia postunitaria, attenta a rimuovere il potenziale mobilitante del volontariato democratico e popolare, Croce prova «ritrosia» verso le celebrazioni centenarie, per paura che esse diventino pretesto per alimentare tensioni di rivoluzione sociale, quando invece il 1848, in Italia, è esclusivamente votato a una rivoluzione «politica e nazionale» (pp. 422, 424).
Un’altra celebre querelle contrappone Croce a Palmiro Togliatti. Nel primo numero di «Rinascita», il compagno Ercoli firma un pezzo in cui si dice che Croce ha goduto di un trattamento privilegiato sotto il fascismo e che anzi fra Croce e il regime vi è stato un tacito accordo, con cui egli ricambiava la libertà concessagli, con la serrata polemica anticomunista e antimarxista, rispetto a cui la critica al regime diventava di ben minore entità. Croce reagisce intervenendo alla consulta con un vibrante discorso, in cui rivendica le privazioni a cui è stato costretto, fra cui l’espulsione dalle varie accademie in cui aveva per decenni svolto la sua alacre attività. A differenza di Togliatti, Croce è duramente critico dell’inclusione in Costituzione dei Patti lateranensi.
In questo quadro, egli cerca di evitare che il ministero dell’Istruzione dei governi di unità nazionale vada a partiti confessionali. Alla DC (Democrazia Cristiana), quindi, ma, nella visione crociana, anche al Partito comunista. Dopo i dicasteri azionisti di Adolfo Omodeo e di Guido De Ruggiero e quello liberale di Vincenzo Aràngio-Rùiz, Croce deve capitolare con il primo governo di Alcide De Gasperi, in cui l’istruzione è affidata al democristiano Guido Gonella. Il problema non è – spiega allo stesso De Gasperi – negare che la DC, nella libera gara politica, ottenendo la maggioranza, possa dirigere quel ministero con l’opposizone dei liberali, ma è che, dovendo i sei partiti, al momento, essere coalizzati, il dovere dei liberali è quello di difendere il «principio laico» di derivazione risorgimentale rispetto al «principio confessionale».
Ma, alla fine, i democristiani stessi sembrano a Croce gli unici possibili decisi alleati contro una deriva socialcomunista. Croce insiste infatti sulle affinità fra i totalitarismi, sul comunismo come parte integrante dell’irrazionalismo: una nuova ondata di barbarie dopo quella nazifascista. L’idea di uguaglianza sociale e pianificazione dell’economia presuppone una limitazione della libera creatività dei soggetti, attraverso cui si dispiega la libertà dello spirito. Egli vede ormai incarnata la crisi della civiltà in un «complesso di tendenze» con il chiaro volto dell’economicismo di tipo sovietico: il ‘nemico’ da sconfiggere nell’incombente guerra fredda. La scelta di Croce è chiaramente a favore del Patto atlantico, in cui vede rivivere la civiltà liberale che ora volentieri associa al concetto di democrazia. Il suo sguardo sull’Unione Sovietica non è mai quello del volgare anticomunista, dato che gli sono ben presenti gli sforzi di modernizzazione ed emancipazione rispetto all’epoca zarista: ma egli non può non registrare come lo stesso regime autoritario e diversamente disegualitario non sia stato un progresso per l’Occidente, che ha attraversato l’epoca, appunto, dello splendore liberale e democratico.
La posizione critica rispetto alla concezione ‘sociale’ della democrazia e la questione della laicità, emergono, insieme, nel celebre discorso all’Assemblea costituente dell’11 marzo 1947 sul ‘nuovo disegno’ costituzionale. Croce inaugura qui una serie di topoi critici che sarebbero poi riemersi carsicamente nella storia italiana a partire soprattutto dagli anni Novanta del Novecento. È chiara la contrarietà di Croce verso gli articoli che accennano a una «democrazia progressiva». Si è andati oltre la missione originaria e, cioè, quella di
dare al popolo italiano un complesso di norme giuridiche che garantissero a tutti i cittadini, di qualsiasi opinione politica, categoria economica e condizione sociale la sicurezza del diritto e l’esercizio della libertà, che porta con sé come logica sua conseguenza [...], con la crescente civiltà, la giustizia sociale che le si lega (Scritti e discorsi politici 1943-1947, cit., p. 352).
Qui Croce, nonostante la coeva riflessione sulla fine della civiltà e sul pratico-vitale, sembra mantenere intatta la sua fede, per cui la civiltà stessa, non discostandosi dai parametri liberali della sicurezza del diritto e dell’esercizio della libertà, avrebbe dispiegato un progresso espansivo per tutte le classi. In effetti lo studioso, nonostante il suo rifiuto di escludere a priori l’interventismo dello Stato, ove la contingenza lo richieda, rimane un difensore della spontaneità della società civile rispetto a una politica come artificio ‘giacobino’. Lo Stato non esiste per dare ‘benessere’ ai soggetti: anzi, questi, tanto più valgono moralmente, quanto più son capaci di sacrificare tale benessere per un ideale più alto. La moralità e la giustizia di un provvedimento si misurano perciò sul grado di capacità di promuovere una maggiore libertà o creatività umana, per quanto possibile nelle condizioni date. Il soggetto è lo Spirito, cioè l’umanità nel suo complesso e, dunque, niente può dirsi su come tali condizioni di libertà e creatività si distribuissero fra i vari soggetti, il cui senso, per questo, può essere riempito da qualsiasi contenuto.
Anche la Dichiarazione dei diritti dell’uomo pare del resto a Croce filosoficamente infondata, nella misura in cui fa riferimento all’idea dei diritti naturali, ma, dal punto di vista ‘pratico’, essa non può attuarsi per la mancanza di accordo fra i Paesi liberaldemocratici e quelli socialcomunisti, da lui ritenuti totalitari. Rispetto all’intervento sul nuovo disegno costituzionale, va notato come, sul discorso della laicità, il suo disappunto per il divieto di eliminare l’indissolubilità del matrimonio sia legato alla convinzione dell’inopportunità di inserire in Costituzione questa norma: essa, per altro verso, gli continua a sembrare adeguata ai bisogni correnti della vita sociale italiana, seppure, ovviamente, in futuro, suscettibile di essere modificata in base ai cambiamenti che quest’ultima avrebbe manifestato. La ‘rigidità’ della Costituzione contrasta peraltro con l’idea crociana di un diritto come fatto eminentemente pratico, meglio rispecchiato dalla flessibilità dello Statuto albertino. In realtà, è proprio lo Statuto che Croce rimpiange: troppo vi si distacca la nuova Costituzione, che, almeno sulla carta, marca una forte discontinuità con il mondo di ieri. La stessa istituzione delle regioni sembra a Croce contravvenire all’eredità unitaria che da Niccolò Machiavelli passa per i giacobini e arriva a Giuseppe Mazzini.
Alcune ultime notazioni vanno dedicate alle questioni internazionali e alla posizione particolarmente dura assunta da Croce nei confronti del Trattato di pace di Parigi. La sua interpretazione ‘parentetica’ del fascismo è legata anche al tentativo di accreditare l’Italia presso gli alleati come Paese ‘invaso’ dal fascismo, che ne ha interrotto il cammino liberale e democratico. Il trattato del 10 febbraio del 1947 è, per Croce, un
giudizio morale e giuridico sull’Italia e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi e innalzarsi e tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano, coi vincitori, gli altri popoli, anche quelli del continente nero (p. 387).
L’Italia ha, del resto, conquistato con il sangue e portate a vita «civile ed europea» le colonie, che ora le vengono tolte. Rispetto agli altri popoli occidentali, però, l’Italia «possedeva un ideale umano e conduceva una politica estera comparativamente generosa» (p. 390).
Qui va notata un’idealizzazione della storia nazionale: gli italiani nelle guerre, rispetto agli altri, avevano mostrato «temperanza e umanità», frutto di un «popolo carico di storia e di tante glorie e di tanti dolori» (p. 254). Tale sublimazione del mito del ‘bravo italiano’ si lega a una aproblematica rievocazione del colonialismo, che viene visto come del tutto estraneo alle derive imperialiste e nazionalitarie di tipo fascista. Anzi – lamentando la perdita delle colonie a seguito del trattato di pace – Croce afferma chiaramente che fin dalla spedizione di Massaua, l’Italia ha partecipato alla missione di «chiamare l’Africa alla civiltà» e che su quelle sponde non ci hanno portato «ragioni di preda e di arricchimento» (p. 338). Quest’interpretazione idealizzante della storia d’Italia e del colonialismo europeo non trova riscontro nel robusto realismo politico che, all’inverso, caratterizza la sua analisi della politica alleata: gli alleati stessi non sono più, infatti, i liberatori, nel quadro di una guerra di religione, ormai di altra natura rispetto ai conflitti fra contrapposti e legittimi interessi, che hanno caratterizzato la storia d’Europa fino a quel momento. Gli alleati tornano a essere portatori di bruti interessi, mascherati da quella logica ‘democratica’ già stigmatizzata al tempo della Prima guerra mondiale. Croce, infatti, fa notare che sottoporre le guerre a «criteri giuridici […] cela l’utile, ancorché egoistico, del proprio popolo o Stato sotto la maschera del giudice imparziale» (p. 387). Il diritto è, sempre, forza e i tribunali istituiti dai vincitori sono senza alcun fondamento di legge. Essi consentono ai vincitori di «giudicare, condannare e impiccare, sotto nomi di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti». Consentono loro di «calpestare i popoli che hanno perduto una guerra, con l’entrare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e pretendere che le riconoscano e promettano di emendarsi» (p. 387).
Sono particolarmente gli inglesi nel mirino di Croce: egli sottolinea la loro storica tendenza ad ammantare di ragioni universali i propri interessi imperiali. Come altri Paesi antifascisti, essi hanno sostenuto Benito Mussolini e il suo regime, guardando all’Italia con occhi ‘coloniali’. Già in un articolo del 13 settembre 1945, egli ricorda come la dittatura di Francisco Franco abbia potuto affermarsi grazie all’indiretto appoggio dei conservatori inglesi e possa mantenersi in piedi anche dopo la caduta di Adolf Hitler, per la posizione non interventista dei laburisti, ora al governo, per i quali ogni Paese deve scegliersi il proprio regime.
La riflessione di Croce va certo oltre la contingenza in cui è maturata, per il modo con cui essa disvela la natura ‘ideologica’ che possono assumere le ragioni universali in politica estera. E tuttavia, al contempo, finisce per sottrarre l’Italia all’esame di coscienza collettivo a cui tutti i popoli sono chiamati di fronte alle rovine della guerra, proprio nel momento in cui egli osserva come gli altri se ne tirino fuori a loro volta. Il filosofo nota che
certamente noi accettiamo da parte nostra la responsabilità di aver lasciato impiantare il regime fascista e di non aver avuto la possibilità di buttarlo via con una scossa quando dichiarò la stolta guerra (p. 185).
«I debiti» continua Croce «si debbono pagare», ma a «creditori onesti e ragionevoli», non a «spietati e esosi usurai» (p. 185).
Lo stesso realismo va a suo avviso applicato alla questione del rischio di autodistruzione dell’umanità a seguito della disgregazione dell’atomo. Diffondendosi fra i vari popoli la scoperta, si determinerà un effetto di deterrenza che «raffrenerà» il suo potenziale distruttivo (pp. 186-87). All’Europa, soggetta al rischio di diventare terra bruciata nel conflitto fra le due superpotenze globali, augura di unirsi in unità politica, come già preconizzato nella Storia d’Europa, ma vede il cammino in salita. Nega invece la possibilità di redimere l’anarchia internazionale con uno Stato mondiale. La guerra, infatti, non potrà essere mai abolita se non nella sua forma di conflitto armato – magari attraverso la deterrenza atomica –, ma non come conflitto di interessi che, eracliteo-hegelianamente, egli vede alle origini del ritmo della storia. Ogni disegno di superstato mondiale finisce, perciò, per diventare un’alleanza o gruppo di alleanze fra potenze che dominano altri popoli, vietando loro il ricorso alla guerra.
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