Croce ed Einaudi: un confronto su liberalismo e liberismo
Nel 1928 compare uno scritto di Luigi Einaudi, Dei concetti di liberismo economico e di borghesia e sulle origini materialistiche della guerra («La Riforma sociale», sett.-ott. 1928, pp. 501-16, poi, con il titolo Liberismo, borghesia e origini della guerra, in Il buongoverno. Saggi di economia politica, 1897-1954, a cura di E. Rossi, 1° vol., 1954, 19733, pp. 196-218); in tale scritto si recensiscono alcuni interventi di Croce sul liberalismo (Il presupposto filosofico della concezione liberale, Contrasti d’ideali politici in Europa dopo il 1870 e Liberismo e liberalismo, tutti del 1927; Di un equivoco concetto storico: la “borghesia”, del 1928). Einaudi sostiene che
il liberismo non è né punto né poco “un principio economico”, non è qualcosa che si contrapponga al liberalismo etico; è una “soluzione concreta” che talvolta e, diciamo pure, abbastanza sovente, gli economisti danno al problema, ad essi affidato, di cercare con l’osservazione e il ragionamento quale sia la via più adatta, lo strumento più perfetto per raggiungere quel fine o quei fini, materiali o spirituali che il politico o il filosofo, od il politico guidato da una certa filosofia della vita ha graduato per ordine di importanza subordinandoli tutti al raggiungimento della massima elevazione umana (in Il buongoverno, 1° vol., cit., p. 202).
Si direbbe che Einaudi riduca qui la teoria economica a un sapere ‘servile’. Non spetta all’economista – egli dice in sostanza – fissare gli obiettivi da raggiungere, ma al politico o al filosofo-politico. All’economista spetta soltanto il compito di trovare una tecnica adeguata per il raggiungimento degli obiettivi fissati dal politico; deve limitarsi a ‘calcolare’ il modo più idoneo per raggiungere i fini prefissati da altri. Il liberismo non è altro che il metodo più idoneo per trovare tale soluzione. In questo senso, il liberismo non si identifica affatto con la teoria del laissez-faire formulata dall’economista francese Frédéric Bastiat (La liberté, «Jacques Bonhomme», 11-15 giugno 1848, p. 1) e contro cui Croce si accanisce, perché nel calcolo dell’economista liberista può benissimo rientrare l’intervento regolatore dello Stato.
E l’economista piemontese così scriverà pochi anni dopo, in un saggio (Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, «La Riforma sociale», marzo-aprile 1931, pp. 186-94, poi, con il titolo Liberalismo e liberismo, in Il buongoverno, 1° vol., cit., pp. 218-29) dedicato alla memoria di Croce Capitoli introduttivi di una storia dell’Europa nel secolo decimonono («Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche della Società reale di Napoli», 1931, 1, pp. 291-337):
Di fronte ai problemi concreti, l’economista non può essere mai né liberista, né intervista, né socialista ad ogni costo; […] ogni problema darà luogo ad una soluzione sua propria, dettata da un appropriato calcolo di convenienza. Se la soluzione è liberistica essa si impone non perché liberistica, ma perché più conveniente delle altre (in Il buongoverno, 1° vol., cit., p. 222).
Riaffermato che il liberismo non esclude aprioristicamente l’intervento dello Stato, Einaudi si preoccupa di respingere la statolatria che egli vede annidarsi nelle posizioni teoriche di Croce; di un Croce che, al di sopra delle azioni individuali, pone l’attività etica dello Spirito, e allo Stato attribuisce il compito di strutturare questo divenire dello Spirito. Einaudi intende colpire la concezione dello Stato etico, che il fascismo ha fatto propria, e teme che Croce conceda troppo a tale concezione, che aveva trovato una coerente espressione nella filosofia di Gentile e nel pensiero giuridico di Alfredo Rocco.
Gentile aveva già chiuso in sistema la sua teoria dello Stato etico nei Fondamenti della filosofia del diritto (1916). Qui aveva esposto la sua visione dello Stato che vive in interiore homine e non inter omnes, e aveva criticato quel liberalismo atomistico che polverizza gli interessi reali della nazione e nega all’individuo la possibilità di sentirsi parte di un sistema sociale unitario. Il liberalismo – aveva aggiunto nel 1925 nel Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni («Il Popolo d’Italia», 21 aprile 1925, poi in Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, 2° vol., 1991, pp. 5-13) – «dava il popolo in mano ai politicanti di professione, dominati dalla coalizione sempre più potente di interessi particolaristici e perciò antitetici alla Nazione» (in Politica e cultura, 2° vol., cit., p. 10). Il filosofo di Castelvetrano aveva così concluso che, non potendo concepirsi nessuna attività dello Spirito al di fuori dell’Atto puro, questo doveva coincidere con la stessa volontà dello Stato che è, e non può non essere, la stessa volontà del singolo.
Rocco da parte sua, in un discorso pronunciato a Perugia il 30 agosto 1925 in qualità di ministro della Giustizia, aveva compiutamente esposto le sue tesi intorno allo ‘Stato dei produttori’ (La dottrina politica del fascismo, 1925, poi in Scritti e discorsi politici, 3° vol., 1938, pp. 1093-1115):
Per il fascismo il problema preminente è quello del diritto dello Stato e del dovere dell’individuo e delle classi; gli stessi diritti dell’individuo, quando vengono riconosciuti, non sono che il riflesso dei diritti dello Stato (in Scritti e discorsi politici, 3° vol., cit., p. 1103).
Sono, quelle di Rocco e di Gentile, posizioni che si muovono in una prospettiva storica che esigeva una modificazione del rapporto Stato-economia privata e, più esattamente, esigeva una riorganizzazione ‘dall’alto’ dell’economia nazionale. Nel 1932 Ugo Spirito esporrà – nella relazione presentata al II Convegno di studi sindacali e corporativi (Ferrara, 5-8 maggio) – le sue tesi intorno alla ‘corporazione proprietaria’, sostenendo che la crescente quantità di capitali necessari per l’attività produttiva richiedeva un inquadramento dell’iniziativa privata entro una programmazione centralizzata dell’economia (Individuo e Stato nell’economia corporativa, «Nuovi studi di diritto, economia e politica», 1932, 2, pp. 84-93, poi in Il corporativismo, 1970, pp. 351-67).
In presenza di tali prospettive teoriche e politiche, Einaudi era spinto a polemizzare con tutte le tendenze stataliste, che, a suo avviso, conducevano alla costruzione di una «economia a schiavi», ovvero a uno Stato totalitario. E la realtà politica sembrava dargli ragione: l’identificazione tra totalitarismo (sia fascista sia comunista) e interventismo statale appariva evidente. Anche le teorie crociane, con il loro ‘indifferentismo’ di fronte al liberismo e al socialismo, apparivano pericolosamente vicine alla concezione di uno Stato che, in quanto espressione del divenire dello Spirito, subordinava l’attività del singolo individuo alla sua volontà. E, perciò, anche le teorie crociane andavano criticate con fermezza.
Non v’è dubbio che le considerazioni einaudiane in ordine a un possibile slittamento dell’interventismo statale verso il totalitarismo fossero fondate. Sennonché, è da chiedersi fino a che punto la posizione di Croce possa essere assimilata allo statalismo di un Gentile o di un Rocco; fino a che punto la sua idea dell’eticità del divenire dello Spirito possa essere assimilata alla concezione gentiliana dello Stato etico. In verità, com’è stato osservato, tra eticità dello Stato e Stato etico la differenza è grande (cfr. Cotroneo 1986).
Gli interventi di Einaudi hanno contribuito a creare la vulgata secondo cui l’idealismo crociano è pur sempre, come quello di Gentile, di carattere statalistico. Su questa linea si sono mossi studiosi del calibro di Norberto Bobbio (1953 e 1955), Giovanni Sartori (1966) e Luigi Firpo (1986), l’ultimo dei quali è giunto a spiegare la posizione di Croce con il suo essere «un gran signore del Sud» (p. 19). Tuttavia, una simile interpretazione scaturisce da una forzatura dei testi crociani. Vale la pena, allora, guardare da vicino i testi da Einaudi presi in considerazione nella sua recensione del 1928.
Croce aveva criticato il liberismo non in quanto metodo o pratica economica, non nel suo essere espressione della libera iniziativa privata, ma per la sua pretesa di elevare i principi dell’utilitarismo a «regola e legge suprema della vita sociale» (Liberismo e liberalismo, cit., poi in Etica e politica, 1931, a cura di G. Galasso, 1994, p. 368). Che l’attività economica sia orientata da criteri utilitaristici ed egoistici, come la dottrina di Bastiat insegna – sembra dire Croce –, è cosa non discutibile, tuttavia un intero sistema sociale non può fondarsi e reggersi su questi soli criteri. La sfera economica va ristretta, isolata e governata entro una particolare sezione della vita sociale complessiva. Non si possono innalzare a valore etico universale i principi utilitaristici, di cui il liberismo economico si nutre. Né è sufficiente statuire regole e leggi che ci dicano ciò che è lecito fare e ciò che non lo è, perché questo porterebbe semplicemente a fissare una casistica, una infinità di criteri, senza giungere mai a definire un autentico sistema di valori in grado di regolare la vita civile. Dall’utilitarismo non può derivare un sistema di eticità. Occorre, perciò, superare un tale limite dell’utilitarismo. E, aggiunge Croce,
la difficoltà si scioglie col riconoscere il primato non all’economico liberismo ma all’etico liberalismo, e col trattare i problemi economici della vita sociale sempre in rapporto a questo. Il quale aborre dalla regolamentazione autoritaria dell’opera economica in quanto la considera mortificazione delle facoltà inventive dell’uomo, e perciò ostacolo all’accrescimento dei beni […] Ma non può accettare che beni siano soltanto quelli che soddisfano il libito individuale, e ricchezza solo l’accumulazione dei mezzi a tal fine (p. 369).
In Croce non vi è né relativismo né indifferentismo nei confronti dei metodi economici. La sua preferenza va all’iniziativa privata rispetto all’interventismo statale, ma, al di sopra delle finalità puramente economiche e utilitaristiche, egli colloca quel liberalismo etico che guarda allo sviluppo complessivo della vita civile e della persona umana. Il liberalismo si caratterizza per questa sua visione universale ed etica che oltrepassa gli interessi particolari e coincide con la stessa attività dello Spirito e, possiamo dire, con la storia in quanto espressione dell’attività e della creatività umane. L’attività etica dello Spirito non può che guardare l’agire economico come a un segmento parziale del suo svolgimento. E, dal momento che la stessa azione dello Stato ricade entro la categoria dell’economico o utile, viene anche a essere respinta qualsiasi forma di statolatria. Lo Stato, lungi dal riassumere in sé l’attività etica dello Spirito, deve essere considerato per quel che veramente è:
Forma elementare e angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori da ogni banda e trabocca, spargendosi in rivoli copiosi e fecondi; così fecondi da disfare e rifare in perpetuo la vita politica stessa e gli Stati (Elementi di politica, 1925, poi in Etica e politica, cit., pp. 271-72).
In breve, niente Stato etico ma eticità del divenire dello Spirito, eticità della prassi umana nella sua capacità di creare e ricreare continuamente gli istituti e le forme di vita che assicurano e generalizzano la libertà.
Il reale punto di distanza tra la posizione di Einaudi e quella di Croce è, allora, da ricercare nella diversa visione del ruolo che svolge la sfera dell’economico, o, meglio, nel diverso modo di concepire il rapporto tra l’economico e l’intero sistema sociale. E, in verità, negli scritti appena ricordati, Croce riprende temi che, agli inizi del secolo, lo avevano occupato nella discussione con Vilfredo Pareto, Vittorio Racca ed Eugen von Böhm-Bawerk. In quegli anni egli si era sforzato di revisionare il marxismo, avendo come obiettivo fondamentale quello di dimostrare che il marxismo, pur avendo valide ragioni politiche (Karl Marx è «il Machiavelli del proletariato» aveva scritto nel 1907, nella nuova versione della memoria Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, pubblicata in origine su «Atti dell’Accademia pontaniana», 1897, 27, inserita nella seconda edizione della raccolta Materialismo storico ed economia marxistica, 19072, p. 134), non poteva presentarsi come una scienza (né della politica né della storia), perché il principio dell’economico come determinazione fondamentale dello svolgimento storico non aveva alcun fondamento scientifico.
Negli anni Venti, in presenza di una profonda crisi della tradizione liberale, che era stata intrinsecamente connessa all’opera delle classi dirigenti italiane e il cui fallimento aveva portato la nazione al fascismo, diveniva indispensabile ridare a quella cultura una nuova prospettiva teorica e una nuova funzione. Si trattava di revisionare il liberalismo. E ciò era possibile, separando la concezione liberale dagli interessi politici ed economici immediati e ridefinendola come una visione etica della vita. Era necessario togliere dal liberalismo qualsiasi connotazione che potesse farlo pensare come ideologia interessata alla difesa della proprietà e degli interessi privati. Si trattava, altresì, di eliminare dalla concezione liberale l’idea di un primato dell’economia nell’organizzazione della vita sociale. Errore in cui cadeva il liberismo economico. Croce, invece, non poteva accettare l’idea che il liberalismo etico potesse macchiarsi di questo peccato teorico: l’economico non poteva essere dominante nella vita dello Spirito.
L’economico è da Croce ridotto a un momento specifico del divenire dello Spirito. Esso non può essere determinante e, nello stesso tempo, non può essere separabile dalle altre sfere dello Spirito. È da queste distinto, ma a queste legato e, per così dire, dipende dallo svolgimento complessivo della vita dello Spirito. Per tale ragione (cioè, per i legami che l’economico ha con le altre sfere dello Spirito) è possibile ammettere e concedere parziali riforme di tipo socialistico, perché esse – in quanto limitate e chiuse in una particolare sfera – non possono minare la logica complessiva del libero divenire dello Spirito.
Nella polemica con i teorici dell’‘economia pura’ (Böhm-Bawerk, Pareto, Racca) Croce aveva escluso che il ‘fatto economico’ potesse essere isolato da altri ‘fatti’ (cfr. Montanari 1987, pp. 36-49). L’economico – egli diceva – è da pensare come la stessa attività umana sub specie utilitatis, ma essa non può essere separata (ritagliata) dagli altri atti di volontà. A sua volta, l’etica non è un astratto ‘dover essere’, ma è potenza attiva. Essa si incarna in quella opinione pubblica o spirito collettivo che penetra nelle coscienze individuali, le orienta e le spinge ad agire unitariamente. Per queste ragioni, l’agire economico non è un sapere tecnico-servile, che si limita a calcolare i procedimenti più idonei per raggiungere pre-determinati obiettivi, come immaginerà Einaudi, ma si intreccia con le forme di vita che i singoli individui vivono e da queste dipende.
È l’idea della impossibilità di ritagliare uno spazio autonomo e determinante dell’economico che Croce – negli anni Venti – torna a ribadire. L’uomo economico non è separabile, per Croce, dell’uomo storico. L’economico non è separabile dall’insieme dei rapporti storici e sociali. Scegliere un determinato tipo di produzione e un determinato tipo di consumi dipende dalle molteplici relazioni che strutturano la società.
Della complessa riflessione di Croce, Einaudi coglie la separazione tra libertà e proprietà. E questo lo impaurisce, perché egli vede nella proprietà il fondamento stesso della libertà. Egli è convinto che togliere o limitare la proprietà e l’iniziativa privata comporti una sostanziale limitazione delle garanzie di libertà. Il che apre la strada a un regime politico totalitario.
Einaudi riprende la sua polemica con un articolo del 1937 (Tema per gli storici dell’economia: dell’anacoretismo economico, «Rivista di storia economica», giugno 1937, pp. 186-95, poi in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di P. Solari, 1957, 19882, pp. 134-50), in cui, superata la falsa opposizione sulla liceità e opportunità o meno dell’intervento dello Stato nell’economia, mette in luce l’impossibilità di separare la libertà dalla pratica di una politica liberista, una volta che questa sia correttamente intesa come creazione delle condizioni per una ‘libera concorrenza’.
Non pare accettabile senza qualche riserva la tesi che la libertà possa affermarsi qualunque sia l’ordinamento economico ed anche nell’economia a schiavi od a servi. Perché lo schiavo od il servo si senta pienamente libero occorre da un lato che egli affermi l’inesistenza delle differenze giuridiche che lo distinguono dagli uomini liberi, ossia neghi, occorrendo colla forza, l’ordinamento economico vigente. L’esigenza universale della libertà che implica l’esigenza del riconoscimento della dignità umana altrui pare d’altro canto incompatibile colla affermazione del diritto proprio a disporre, come di cosa, di un altro uomo (in Liberismo e liberalismo, a cura di P. Solari, cit., p. 137).
Da qui segue l’individuazione nella Russia comunista di un «esempio stupendo della incompatibilità fra pieno conformismo economico e pienezza di libertà morale» (p. 138).
L’organizzazione economica di tipo socialista o comunista è, per l’economista piemontese, intrinsecamente coercitiva. Essa non è conciliabile con l’idea di libertà neppure se tutti i membri della società decidessero liberamente di giungere a una gestione comunitaria delle risorse. Un simile sistema di «anacoreti» – osserva Einaudi – fallirebbe non appena qualcuno decidesse di voler mutare il modo di organizzare la produzione. La qual cosa – egli riconosce – vale sia per la società comunista sia per quella a «capitalismo monopolistico».
Comunismo e capitalismo monopolistico tendono a uniformizzare a conformizzare le azioni le deliberazioni il pensiero degli uomini, a distruggere la gioia di vivere, che è gioia di creare, che è sensazione di aver adempiuto un dovere, che è anelito verso la libertà, che è desiderio di vivere in una società di uomini ugualmente liberi di compiere la propria missione (p. 144).
Ciò che, dunque, quei sistemi economici impediscono è la possibilità che un qualsiasi individuo possa decidere di scegliere autonomamente il proprio stile di vita, il modo con cui produrre risorse e svolgere la propria attività. Ciò che essi impediscono è che gli uomini si sentano – in ogni momento e circostanza – liberi di poter decidere come realizzare la propria vita.
Io guardo con scetticismo alla ipotesi, che ho fatto sopra per chiarezza di ragionamento, della compatibilità della libertà con un ordinamento comunistico non coercitivo: “se il sistema fosse consapevolmente voluto…”. Che cosa vuol dire volere consapevolmente un dato ordinamento economico? Vuole consapevolmente il monaco il quale fa voto di vivere tutta la vita dentro un convento, ossia dentro un ordinamento, del quale non saprebbe concepirsi altro più squisitamente comunistico? Sì, se egli conferma ogni giorno il voto, rinunciando a tornare nel mondo che gli offre tante altre diverse maniere di vita; no, se la norma legale gli vieta di rinnegare il voto non più suo. La società comunistica, della quale si tratta, offre modo, a chi voglia di uscirne? (p. 149).
La conclusione è, quindi, netta:
La mia tesi torna dunque sempre al medesimo punto: l’idea della libertà vive, sì, indipendente da quella norma pratica contingente che si chiamò liberismo economico; ma non si attua, non informa di sé la vita dei molti e dei più se non quando gli uomini, per la stessa ragione per cui vollero essere moralmente liberi, siano riusciti a creare tipi di organizzazione economica adatti a quella vita libera (p. 150).
Einaudi è, dunque, disposto a seguire Croce non soltanto nell’idea che l’intervento dello Stato nell’economia sia accettabile e compatibile per la teoria economica liberista, ma segue Croce anche nell’idea che – in punto di principio e per ipotesi – possa darsi una economia comunistica liberamente voluta. Sennonché, egli osserva, ciò che una economia comunistica non permette è la possibilità di poter scegliere una diversa organizzazione, un diverso modo di produrre: di poter ritornare sulle proprie decisioni. E, ai limiti, anche il capitalismo monopolistico costruisce vincoli sociali che impediscono questo ritornare sulle proprie decisioni.
È, dunque, vero che liberismo o comunismo, in quanto programmi economici, sono da considerarsi delle scelte ‘strumentali’ rispetto ai fini sociali da realizzare. Ma la libertà può realizzarsi solo e unicamente entro un sistema di regole economiche, giuridiche e politiche che consentono, in ogni momento, di poter ridiscutere e mutare le decisioni che si ritengono più utili alla comunità. La libertà non è separabile dalla possibilità di auto-correggersi. In breve, ciò che decide della natura di un sistema economico-sociale (se, cioè, in essa è compiutamente realizzata la libertà come valore morale) non è immediatamente l’opzione per un determinato sistema economico, liberista o comunistico, ma l’opzione per un sistema giuridico-politico che consenta di attuare scelte economiche, sia anche di tipo socialistico, su cui, però, sia sempre consentito ritornare a deliberare. E, sotto questo profilo, la proprietà privata e la libera concorrenza sono il baluardo (il katèchon, potremmo dire) che garantisce, in ogni caso, la libertà delle proprie decisioni.
In uno scritto successivo (Intorno al contenuto dei concetti di liberismo, comunismo, interventismo, «Argomenti», dic. 1941, pp. 18-34, poi, con il titolo Liberismo e comunismo, in Il buongoverno, 1° vol., cit., pp. 278-303), il ragionamento di Einaudi si precisa ulteriormente. Ribadito che il liberismo non coincide con il laissez-faire, egli aggiunge che esso richiede un intervento costante e considerevole dello Stato, perché si realizzi un sistema di libera concorrenza. E l’intervento dello Stato
si distingue in due grandi specie: rivolta la prima a rimuovere gli ostacoli creati dallo stato medesimo e l’altra intesa a porre limiti a quelle forze, chiamiamole naturali, le quali per virtù propria ostacolerebbero l’operare pieno della libera concorrenza (p. 284).
Il liberismo, aggiunge Einaudi, muove da un «supponiamo che…». Supponiamo che esistano tutte le condizioni perché un singolo produttore e/o consumatore possa produrre o acquistare un determinato bene in condizioni egualitarie, e allora può dirsi che si sia realizzata una situazione di libera concorrenza. In una tale situazione prevale chi, obiettivamente, dimostra capacità produttive più elevate. Per realizzare una simile situazione di libera concorrenza, l’intervento dello Stato non è affatto ‘limitato’. Al contrario, esso deve intervenire con una corposa legislazione. Parafrasando Antonio Gramsci, potremmo dire che il liberismo è un ‘programma politico’, il cui obiettivo principale è assicurare la proprietà e l’iniziativa privata. La differenza tra lo statalista e il liberista, secondo Einaudi, sta nel fatto che, mentre «il legislatore interventista dice all’uomo; tu farai questo o quello; lavorerai od opererai così e così», il legislatore liberista dice: «io non ti dirò affatto o uomo quel che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio liberamente muoverti» (p. 288).
In definitiva, possiamo dire che il liberismo di Einaudi si muove sullo stesso registro della visione tocquevilliana della ‘uguaglianza di condizioni’, poiché la sua idea di ‘interventismo liberista’ vuole promuovere tra i produttori una situazione paritaria nell’esplicazione delle loro attività.
Seguendo questa linea. che pone come proprio obiettivo principale la formazione di una società fondata sulla difesa della libera concorrenza e sulla uguaglianza di condizioni, Einaudi esclude la possibilità che possa esistere una ‘terza via’ tra socialismo-comunismo e liberismo, perché una simile ‘terza via’ sarebbe fondata sulla pianificazione, cioè su un tipo di intervento statale che impone ai singoli produttori le forme e gli obiettivi della loro produzione. Nell’articolo La terza via sta nei piani? («Corriere della sera», 15 apr. 1948, p. 1, poi in Il buongoverno, 1° vol., cit., pp. 378-83), in cui si discutono le tesi che erano state sviluppate e diffuse soprattutto da Wilhelm Röpke (Die Gesellschaftskrisis der Gegenwart, 1942; trad. it. 1946), egli attacca direttamente il concetto di ‘pianificazione’. Tentare di conciliare pianificazione e libera impresa significa, a suo avviso, «fracassare il meccanismo esistente senza mettere nulla al suo posto. La pianificazione o è collettivistica o non esiste; essa non può essere parziale e, per agire, deve essere totale» (in Il buongoverno, 1° vol., cit., p. 379). E ancora:
La caratteristica dei Paesi occidentali non è, come si favoleggia negli imparaticci di una storia economica deteriore, quella entità mitica astratta detta capitalismo; ma sono invece quelle cose vive che si chiamano economia di mercato o ad impresa libera; dove gli uomini creano e contrattano fra di loro e non ubbidiscono né al monopolista privato che essi, ove non ne siano impediti a forza della legge, ogni giorno combattono e distruggono; né all’unico datore pubblico di lavoro (p. 381).
Dunque, è l’economia di mercato – definita da norme e istituzioni che garantiscono la libera concorrenza – l’unico luogo in cui è possibile che la libertà degli individui si realizzi pienamente. Solo in questo spazio garantito da rigide leggi si crea
l’humus fecondo per la creazione, per il progresso, per l’emulazione, per l’ascesa spontanea dei più operosi, dei più meritevoli e per la discesa dei neghittosi e degli incapaci. Le società dei monopolisti privati e dei monopolisti collettivi sono parimenti società nelle quali si sale non per virtù propria, non per il consenso spontaneo altrui; ma in virtù delle arti, moralmente degradanti ed economicamente distruttive, del favore cercato dall’inferiore presso il superiore (p. 380).
Il liberismo si scopre in tal modo un’anima profondamente morale. Esso non è affatto il bellum omnium contra omnes, ma la definizione di un sistema sociale in cui le competenze possono prevalere e in cui possono, invece, essere sconfitte quelle azioni che non soltanto risultano antieconomiche, ma degradano la stessa persona umana.
Einaudi ribadisce, così, la sua concezione etica, e non puramente economica, del liberismo. Ma stringe in un rapporto organico economia ed etica. L’idea di libertà, a suo avviso, non può in nessun modo realizzarsi da un tipo di organizzazione economica che non sia quella retta dalla libera concorrenza. Etica ed economia, idea morale della libertà e organizzazione economica, risultano, così, essere legate in maniera organica.
La diversa valutazione dell’opera di Röpke sulla ‘terza via’ può essere assunta come metro per misurare la distanza tra Einaudi e Croce nell’ultima fase della loro polemica.
Nella sua recensione a Röpke (La “terza via”, «La Critica», 1943, 41, pp. 109-12, poi in Discorsi di varia filosofia, 2° vol., 1945, pp. 194-99), Croce ricorda di aver egli stesso cercato una terza via tra liberismo e socialismo, ma subito aggiunge di aver respinto i principi etici sottesi a quelle due concezioni economiche, perché l’una si muoveva su «uno sfondo di religione materialistica mal dialettizzata», l’altra su «uno sfondo di religione della “bontà della natura”» (in Discorsi di varia filosofia, cit., p. 195). Perciò, pur apprezzandone le proposte economiche – da valutare secondo le opportunità e le necessità storiche –, egli aveva criticato i presupposti teorici ed etici di quelle due concezioni, perché una ‘terza via’ non andava ricercata in una commistione delle due etiche, ma «nell’ascesa a un principio superiore» (p. 195), che egli avrebbe individuato nel concetto di libertà che «non è già un carattere accidentale, e neppure un attributo della coscienza morale, ma è questa coscienza morale stessa, intesa nella sua dinamica concretezza» (pp. 195-96).
Su questa linea egli si era già mosso, rispondendo (in Liberalismo contro il duplice dommatismo liberistico e comunistico, «Rivista di storia economica», marzo 1941, 6, poi in Pagine sparse, 3° vol., 19602, pp. 39-42) ad alcune osservazioni rivoltegli da Aldo Mautino in La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce (1941). In questa occasione aveva scritto:
Quanto alla base di cui il liberalismo avrebbe bisogno nel liberismo, la risposta è che la libertà come moralità non può avere altra base che sé stessa, e morale non sarebbe se fosse legata a un dato economico, che in questo caso sarebbe materiale, e per questa via si tornerebbe al deplorato materialismo storico (in Pagine sparse, cit., p. 41).
Al fondo delle critiche che venivano mosse alla sua idea di ‘terza via’, Croce ritiene che vi sia una concezione organicista della società che non distingue tra etico-politico ed economico; una concezione che immagina la società come un sistema unitario in cui la sfera economica predomina e determina tutti i vari livelli. «La società umana – egli osserva – è bensì un’unità, ma con distinzioni, opposizioni e processi di unificazione» (La “terza via”, cit., p. 196).
La differenza tra Croce ed Einaudi si manifesta pienamente su questo punto: Einaudi, legando la libertà all’iniziativa privata (alla ‘libera concorrenza’), torna a mettere l’economico come base dell’intera società. Il liberismo einaudiano, non separando la proprietà dalla libertà, inconsapevolmente riapre la strada all’organicismo del materialismo storico, che non sa distinguere tra ‘base economica’ e ‘sovrastrutture etico-politiche’. Per Croce, invece, lo spirito liberale non può in alcun modo lasciarsi legare e dipendere dalle scelte economiche. La ‘società a schiavi o a servi’, di cui parla Einaudi, non può imporsi, se continua a esistere lo spirito liberale. In breve, non è la libera concorrenza (la proprietà o l’iniziativa privata) il fondamento della libertà, ma, al contrario, è lo spirito liberale a fondare e legittimare la proprietà e la concorrenza. E tale concetto egli aveva affermato con chiarezza anche nella recensione («La Critica», 1936, 34, pp. 458-60, poi in Conversazioni critiche, serie V, 1939, pp. 287-90) al libro di Harold J. Laski The rise of European liberalism: an essay in interpretation (1936; trad. it. 1962). Qui, Croce aveva aspramente criticato l’identificazione che il pensiero politico inglese aveva stabilito «tra liberalismo e liberismo, tra concetto etico e concetto economico, come nel manchesterismo», e aveva aggiunto:
L’idea liberale può avere un legame contingente e transitorio, ma non ha nessun legame necessario e perpetuo, con la proprietà privata della terra e delle industrie […]. L’ideale liberale ha natura religiosa, e la storia della libertà è storia religiosa che di continuo giudica e domina la storia economica, e non è già storia economica che della religione si serva di maschera, come immaginava Carlo Marx (in Conversazioni critiche, cit., p. 289).
Croce è ben lungi dal ritenere che una ‘economia a schiavi’ costituisca l’habitat naturale per la realizzazione della libertà, ma non accetta di far dipendere la libertà dalla struttura o base economica; non vincola la realizzazione della libertà al sistema economico ma all’esistenza di una eticità collettiva (o volontà generale o opinione pubblica) che ‘impone’, come se fosse una legge di natura, la pratica della libertà e, quindi, consente anche che si possano scegliere i metodi economici più opportuni e di poter ritornare a riconsiderare le decisioni già prese. Tuttavia, non è l’esistenza di uno specifico sistema normativo o di specifiche istituzioni a garantire la libertà, ma lo spirito collettivo, perché la libertà – proprio perché è una religione – si garantisce da sola. Essa ha in sé, in quanto potenza storica, la forza per difendersi e affermarsi da sola. Essa è la stesso movimento storico dello Spirito che istituisce legami e interdipendenze tra gli individui. E, di fronte a tale movimento, non è necessario ipostatizzare o feticizzare istituzioni particolari e storicamente determinate, come la proprietà privata o la libera concorrenza.
Questa visione della libertà come una religione o un valore assoluto, che non si accontenta di avere per sé il presente o l’avvenire perché «ha l’eterno», Croce la ribadisce in un importante saggio scritto nel dicembre del 1939 (pubblicato in inglese, con il titolo The roots of liberty, in Freedom: its meaning, ed. R.N. Anshen, 1940, pp. 24-41, e in italiano, con il titolo Principio, ideale, teoria: a proposito della teoria filosofica della libertà, in Il carattere della filosofia moderna, 1941, pp. 104-24), dove si legge:
L’assenso morale che si dà a particolari istituzioni non si riferisce alla loro astratta forma, che il giurista propriamente considera, ma alla loro efficacia pratica in dati tempi e luoghi e circostanze e situazioni e perciò, per duraturo che sia, è sempre condizionato e transeunte: tanto che congegni di libertà che paiono perfetti giuridicamente possono essere effettivamente strumenti di illibertà, e all’inverso. Anche il Montesquieu, che assai si travagliò in questi problemi e formulò la famosa teoria dei tre poteri, esecutivo, legislativo e giudicante, che si fanno ostacolo a vicenda e, costretti a muoversi col movimento delle cose, sono costretti a procedere d’accordo, non era in grado di sostenere che con questo meccanismo istituzionale si generasse e mantenesse libertà e si impedisse servitù, perché, se manca l’animo libero, nessuna istituzione serve, e se quell’animo c’è, le più varie istituzioni possono secondo tempi e luoghi rendere buon servigio. Le concrete istituzioni liberali le crea di volta in volta il genio politico ispirato dalla libertà o (che è lo stesso) il genio liberale fornito di prudenza politica (in Il carattere della filosofia moderna, 19633, a cura di M. Mastrogregori, 1991, pp. 119-20).
Dove, liquidata ogni pretesa di assicurare la libertà attraverso la sua giuridicizzazione o attraverso il solo sistema delle leggi, veniva riconosciuta al solo ‘animo libero’, ovvero alla formazione culturale e politica delle ‘genti’, l’ufficio di garantire la vita della libertà.
Che, poi, Croce concedesse assai poco alle correnti politiche social-comuniste appare evidente nel saggio Per la storia del comunismo in quanto realtà politica («La Critica», 1943, 41, pp. 100-08, poi in Discorsi di varia filosofia, 1° vol., 1945, pp. 277-90), dove viene operata una chiara distinzione tra il comunismo come realtà storica e il marxismo come teoria politica. Marx, egli osserva, parlò solo di una generica ‘dittatura del proletariato’ e affermò di non avere alcuna ricetta per la cucina del futuro. E, mentre al ‘comunismo reale’ oppone la religione della libertà come ‘perpetuo divenire’, di fronte al marxismo teorico Croce si pone con la consapevolezza che esso ha suscitato e organizzato un movimento di masse sociali che occorre inglobare e integrare entro lo spirito liberale. La concezione liberale, egli scrive,
sa che la vita è divenire e perciò perpetuo contrasto e perpetua soluzione, perpetua soluzione e perpetuo rinascente contrasto, continua tendenza all’eguaglianza e alla pace e continua rinascente ineguaglianza e turbamento e distruzione di pace e di benessere (in Discorsi di varia filosofia, cit., p. 279).
La distinzione tra il ‘comunismo reale’ e il marxismo è, così, finalizzata al riconoscimento di una forza vitale da inglobare nel divenire stesso dello spirito liberale. Questa forza è solo un momento, un aspetto particolare, del perpetuo e sempre rinascente contrasto sociale che attraversa il mondo moderno. Tesi questa che il filosofo napoletano aveva sostenuto anche nella recensione Le considerazioni di un non-politico («La Critica», 1920, 18, pp. 181-83, poi in Pagine sparse, 2° vol, cit., pp. 185-87) alle Betrachtungen eines Unpolitischen di Thomas Mann (1918, 19222; trad. it. 1967).
E, in piena coerenza con queste sue posizioni teoriche, e non ignorando l’esperienza del laburismo inglese, nella fase finale della sua vita, si sentirà in dovere di dichiarare che il liberalismo contiene in sé un programma di «centro sinistro». In una lettera indirizzata al direttore del quotidiano «Risorgimento liberale» (Ancora centro destro e centro sinistro. Una questione di linguaggio, 27 ott. 1945, poi in Scritti e discorsi politici, 1943-1947, 1° vol., 1963, a cura di A. Carella, 1993, p. 213), scriverà:
Non vedo difficoltà veruna, discorrendo di politica, a parlare di un ‘centro destro’ e di un ‘centro sinistro’ per dare rilievo a un’ispirazione o a un proposito di maggiore ‘conservazione’, o di più alacre ‘innovazione’ e ‘progresso’. His fretus, sono pronto anche io a chiamare il nostro liberalismo un ‘centro sinistro’ e a scongiurare e a fugare con l’acqua benedetta il ‘centro destro’.
E alcuni anni dopo, in occasione del Congresso di unificazione delle forze liberali (svoltosi a Torino il 7-8 dicembre 1951), Croce, nel messaggio inviato al Congresso il giorno 8 (Per l’unificazione liberale, pubblicato il giorno successivo sul «Giornale» di Napoli, e in seguito in Terze pagine sparse, raccolte e ordinate dall’Autore, 1° vol., 1955, pp. 306-10), faceva la seguente raccomandazione:
Il Partito liberale esaminerà e discuterà sempre provvedimenti di sinistra e di destra, di progresso e di conservazione, e ne adotterà degli uni e degli altri, e, se così piace, con maggiore frequenza quelli del progresso che quelli della conservazione (p. 308).
Egli ribadiva, così, la natura centrista del partito, ma di un centro disponibile a votare riforme progressiste, con l’intento di inglobare nello spirito liberale le istanze democratiche.
Questo modo di concepire il rapporto tra democrazia e liberalismo è esplicitato nella recensione Intorno al Tocqueville («La Critica», 1943, 41, pp. 54-56, poi, con il titolo Liberalismo e democrazia, in Scritti e discorsi politici, 1° vol., cit., pp. 114-18). Qui, analizzando alcune opere di Charles-Alexis-Henri Clerel de Tocqueville appena apparse in traduzione italiana, Croce mostra come, proprio per realizzare l’«uguaglianza di condizioni», non ci si può limitare a giuridicizzare la libertà. La libertà non può essere chiusa in norme e istituzioni particolari, il cui destino è di nascere e di morire. La libertà trascende norme e istituzioni specifiche, perché essa coincide con lo stesso movimento della storia. E la democrazia e i movimenti sociali – come aveva mostrato nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928) e nella Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932) – sostengono la realizzazione della ‘religione della libertà’, ma è solo questa l’autentico spirito del mondo moderno.
Nei primi capitoli della Storia d’Europa, infatti, Croce aveva identificato religione della libertà e movimento storico, e aveva mostrato come fuori dal movimento storico che si sviluppa nei primi decenni dell’Ottocento la libertà non poteva esistere. In quelle pagine, richiamando alla mente le spinte sociali che domandavano una crescita civile dell’intera Europa dopo la caduta di Napoleone Bonaparte, aveva scritto:
In tutti i popoli si accendevano speranze e si levavano richieste d’indipendenza e di libertà. […] Varie d’importanza e varie nell’ordine di successione in cui si presentavano, tutte queste richieste si legavano tra loro, e le une tiravano prima o poi con sé le altre, e ne facevano sorgere altre ancora, che si profilavano in lontananza; e su tutte sormontava una parola che le compendiava e ne esprimeva lo spirito animatore: la parola “libertà” (a cura di G. Galasso, 1991, pp. 11 e 13).
La concretezza e la novità di quella parola (in sé, certo, non nuova) stavano – dice ancora Croce nello stesso libro – proprio nel suo essere legata a processi storici, a movimenti reali che venivano ridisegnando la struttura della società europea. La stessa distinzione tra libertà politica e libertà civile, libertà degli antichi e libertà dei moderni, correva il rischio di scadere in disquisizioni astratte, come accade quando
si cerca di definire l’idea della libertà per mezzo di distinzioni giuridiche, le quali hanno carattere pratico e si riferiscono a particolari e transeunti istituti, e non a quell’idea superiore e suprema che tutti li comprende e tutti li supera (p. 15).
Sia nelle opere maggiori sia negli interventi politico-culturali, Croce torna costantemente a riaffermare l’idea che la democrazia rappresenta quelle forze vitali che devono essere incluse nello spirito liberale. E tuttavia, è allo spirito liberale che spetta il compito di indirizzare e dirigere il divenire storico, perché esso è in grado di inglobare e trascendere anche le istanze sociali democratiche, in quanto – a differenza del liberismo – non si lascia identificare con particolari forme giuridiche e istituzionali (proprietà, iniziativa privata ecc.). Nello stesso tempo, la distinzione tra liberalismo e liberismo non è la distinzione tra una filosofia contemplativa, che guarda a un valore assoluto (la libertà trascendentale) fisso e lontano dai mutamenti storici, e un agire pratico, che guarda alle concrete forme di realizzazione della libertà, ma è la distinzione tra la potenza costruttiva dell’agire umano, che attraverso infiniti contrasti continuamente riprogetta la struttura della vita sociale, e gli apparati istituzionali, destinati a divenire ‘spirito coagulato’, organismi che espellono fuori da sé le forze vitali. Quegli apparati non hanno (e non possono avere) dalla loro parte alcuna pretesa di eternità, perché, appunto, l’eterno spetta solo alla ‘religione della libertà’, nella misura in cui essa non è ‘egolatria’, autoaffermazione del Sé, ma è una cosa sola con l’eticità dello Spirito, con il divenire della spiritualità collettiva.
N. Bobbio, Croce e la politica della cultura, «Rivista di filosofia», 1953, 3, pp. 247-65, poi in Id., Politica e cultura, Torino 1955, pp. 100-20.
N. Bobbio, Benedetto Croce e il liberalismo, «Rivista di filosofia», 1955, 3, pp. 261-83, poi in Id., Politica e cultura, Torino 1955, pp. 211-68.
G. Sartori, Stato e politica nel pensiero di Benedetto Croce, Napoli 1966.
G. Cotroneo, introduzione a B. Croce, La religione della libertà. Antologia degli scritti politici, a cura di G. Cotroneo, Milano 1986, pp. 72-88.
L. Firpo, Einaudi e Croce, introduzione al Carteggio fra Luigi Einaudi e Benedetto Croce (1902-1953), «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», 1986, 20, pp. 1-24.
M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di Benedetto Croce, Milano 1987.