Croce, Gentile, la guerra
Nella prospettiva sistematica della filosofia dello spirito, il tema della guerra è affrontato da Benedetto Croce principalmente nelle pagine della Filosofia della pratica. Economica ed etica (1909), allorché vengono esaminate – e criticate – le «usurpazioni della filosofia sulla descrittiva pratica e sui derivati di essa» (Filosofia della pratica. Economica ed etica, 1996, p. 96). Tra le «conseguenze dannose» di tali usurpazioni vi è anzitutto la «dissoluzione dei concetti empirici» (p. 100), per esemplificare la quale viene preso in considerazione, tra gli altri, il caso rappresentato dal tentativo, da parte dei filosofi, di risolvere in termini astratti il problema che si pone quando ci si domanda «se la guerra sia un male e se possa abolirsi» (p. 101). Pronunciandosi su questo problema – scrive Croce – il «filosofo» dirà anzitutto che «la guerra è intrinseca alla realtà, e la pace in tanto è pace in quanto, mettendo termine a una guerra, ne prepara un’altra» (p. 102); e aggiungerà che «l’omicidio come omicidio tanto poco è delitto, che in guerra si ha il dovere di compierlo» (p. 103) e che, «nel suicidio», ciò che è riprovevole è «l’uccidere in sé la vita morale», ma non «il fatto materiale del privare sé medesimo della vita fisica», tanto è vero che tale privazione viene attuata «senza biasimo, anzi con lode e gloria, da coloro che sacrificano sé stessi ad altri nelle guerre, nelle epidemie, nei pericoli di ogni sorta» (p. 104). Se, però, tutte le questioni come questa relativa alla guerra nascono «da problemi politici e individuali», cosicché risultano certamente insolubili «in astratto», nondimeno «si possono almeno proporre in termini astratti» e «non solo si possono ma si debbono avere in mente per risolvere più facilmente i casi concreti» (pp. 104-05). Perciò, infine, ritornando al quesito iniziale:
Si può abolire la guerra? Questa domanda si riferisce non già all’abolizione della categoria dialettica ‘guerra’, ma alla possibilità o meno di evitare nel secolo ventesimo, e nei paesi di Europa, quella empirica guerra, che si fa coi cannoni e con le navi corazzate; che costa miliardi, quando non si fa, e decine di miliardi, quando si fa; e da cui il vincitore stesso esce spossato e vinto. S’intende bene che una qualche forma di guerra continuerà sempre, perché la guerra è insita alla vita (p. 105).
Dalla lettura di queste pagine appare evidente che il pensiero di Croce sulla guerra ruota intorno a tre punti fermi. In primo luogo, trattando di un tema come quello della guerra, non bisogna mai dimenticare che essa, così come la politica, appartiene alla sfera pratica dell’economica e non a quella dell’etica, per cui dovrà essere sempre affrontata in termini di utilità e non di giustizia, evitando qualsiasi approccio di tipo moralistico (anche se ciò – come vedremo – non esclude affatto che tra i due diversi ambiti possa esservi un rapporto assai stretto). In secondo luogo, la guerra viene comunque vista, al di là di tutto, come qualcosa di necessario: rappresentando una particolare modalità di quel momento del conflitto che fa parte della realtà dinamica dello spirito, essa è costitutivamente – come appunto scrive Croce – «insita alla vita». In terzo luogo, infine, Croce mostra di avere ben presente la guerra come singolo fatto storico, da considerare di volta in volta nella sua concretezza e nella sua peculiarità, tanto da alludere piuttosto esplicitamente alla guerra che nei primissimi anni del 20° sec. già incombeva sull’Europa. Questi tre punti vengono tenuti fermi da Croce sia quando si trova a dover parlare di guerra prima della stesura della Filosofia della pratica (si pensi agli studi giovanili sulla Rivoluzione napoletana del 1799), sia – e soprattutto – quando si trova, pochi anni dopo, a doverlo fare di fronte al primo conflitto mondiale del Novecento.
Gli scritti crociani relativi alla Grande guerra, riuniti nel 1919 nel volume delle Pagine sulla guerra, si aprono con una serie di interventi del periodo compreso tra la fine del 1914 e l’inizio del 1915, periodo nel quale l’Italia mantiene ancora la propria neutralità, ma è fortemente coinvolta in quello scontro di idee che fu chiamato Krieg der Geister e che ebbe come principali protagonisti molti intellettuali dei Paesi già belligeranti. È dunque anche in relazione a tale dibattito che possono essere letti questi primi testi ‘di guerra’ di Croce, la cui posizione nei confronti della liceità o meno della partecipazione degli studiosi alla propaganda bellica sarà così interpretata, nella prima metà degli anni Trenta, da Antonio Gramsci:
Ciò che importa al Croce è che gli intellettuali non si abbassino al livello della massa, ma capiscano che altro è l’ideologia, strumento pratico per governare, e altro la filosofia e la religione che non deve essere prostituita nella coscienza degli stessi sacerdoti (A. Gramsci, Quaderni del carcere, 2° vol., a cura di V. Gerratana, 1975, p. 1212).
Al di là dell’accostamento – di tipo peraltro metaforico – tra ‘filosofia’ e ‘religione’ e al di là dell’utilizzo di una categoria tutto sommato estranea al pensiero di Croce come quella di ‘ideologia’, queste parole di Gramsci colgono piuttosto bene l’elemento essenziale del punto di vista crociano. Lo stesso Croce, del resto, nell’“Avvertenza” premessa alla seconda edizione delle Pagine sulla guerra individuerà, come motivi salienti che lo avevano spinto a scriverle, da un lato «la difesa del comune patrimonio civile e della comune opera del pensiero e dell’arte tra i contrasti e le lotte politiche e guerresche dei popoli», dall’altro
l’indignazione contro gli uomini di scienza, che presero allora a falsificare la verità sotto pretesto di servir la patria o il partito politico, ma in effetto per loro piccolezza di mente e bassezza d’animo (Pagine sulla guerra, 19282, p. 5).
Croce stigmatizza insomma l’atteggiamento di coloro che, su entrambi i fronti in lotta ma anche da parte italiana, anziché difendere i più alti valori della civiltà e della cultura (che non appartengono certamente a un unico popolo), volgono il loro sapere a sostegno delle ragioni delle singole nazioni contendenti (che sono, invece, del tutto unilaterali); e, per quanto concerne l’eventualità di un’entrata in guerra dell’Italia, si mantiene inizialmente su una posizione cautamente neutralista, motivandola con argomenti di carattere pragmatico (l’impreparazione italiana al conflitto) e scagliandosi, con veemenza e a più riprese, contro gli interventisti di ogni colore e fede. Di tale posizione sono chiara testimonianza, oltre agli scritti pubblicati, anche i documenti epistolari. Per limitarsi alle lettere a Giovanni Gentile, si legga, per es., quanto Croce scrive a quest’ultimo, da Torino, il 18 settembre 1914:
E, veramente, uscire ora in guerra, perché? E se la guerra generale si prolungasse per mesi e anni, che cosa avverrebbe di un paese come il nostro, non ricco e non preparato? Se si dovrà partecipare alla lotta, meglio che questo accada nella sua ultima fase (Lettere a Giovanni Gentile. 1896-1924, a cura di A. Croce, 1981, p. 478);
e successivamente, da Napoli, il 14 dicembre dello stesso anno:
Io ho raccolto informazioni e giudizii tali che mi hanno persuaso che l’eccitare l’Italia alla guerra è un vero delitto contro la nostra patria. […] Ma gli allegri giovinotti vogliono la guerra come i bambini un giocattolo del quale si sono imbizziti (p. 482).
Se poi non può proprio evitare di farlo, l’Italia – ritiene Croce – dovrebbe entrare in guerra al fianco di Austria e Germania, sia per fedeltà agli accordi presi (in quanto Paese membro della Triplice alleanza), sia per semplice convenienza. Da una lettera inviata ancora a Gentile, da Roma, il 15 marzo 1915:
Io spero sempre che avvenga un’intesa con l’Austria e che l’Italia resti così col gruppo degli Imperi centrali, conforme ai trattati e conforme ai suoi interessi politici ed economici. Così ho veduto la situazione sin dal principio della guerra, e così la vedo ora (p. 491);
e da un’altra, scritta da Napoli, quando è già il 17 maggio seguente:
Il punctum saliens è questo: che l’interesse dell’Italia, cioè del suo avvenire, stia nell’unione con gli imperi centrali, e che si sia pronti ad aiutarli in un avvenire più o meno prossimo, e anche imminente, se non si è potuto farlo nel luglio scorso (p. 494).
La scelta di schierarsi dapprima per la neutralità e in seguito per una partecipazione al conflitto dalla parte di Austria e Germania, però, non impedisce a Croce, quando l’Italia entra in guerra e lo fa al fianco della Triplice intesa, di dimostrare – anche nei fatti – una dedizione alla patria e una preoccupazione per le sue sorti che, da un lato, furono una risposta inequivocabile alle accuse di scarso patriottismo che da più parti gli venivano mosse ma, dall’altro, potrebbero apparire incoerenti rispetto alla condanna – da lui formulata e di cui si è detto – degli intellettuali pronti a ‘scendere in campo’ per perorare la causa delle rispettive nazioni.
In realtà, in questo atteggiamento di Croce non vi è alcuna incoerenza o contraddizione. Come uomo di studio, infatti, egli si sentiva tenuto a impegnarsi per affermare gli universali valori della cultura, al di là di ogni confine o differenza di carattere nazionale; ma, in quanto cittadino, si sentiva al tempo stesso tenuto a difendere quei valori empirici – come lo Stato o la patria – che non hanno minore dignità e che, anzi, rappresentano la realizzazione particolare e concreta – anche se parziale o imperfetta – di quei valori universali e, in virtù di ciò, incarnano l’essenza stessa dello spirito nel suo farsi storico. Già in un articolo del 1912 (ripubblicato nel 1915) scriveva:
Se è doveroso difendere i valori di cultura, non è meno doveroso […] difendere quelli storici; come, del resto, tutti sentono e fanno, perché tutti, senza che sia uopo di troppi ragionamenti, sono portati a difendere il loro patrimonio familiare, la loro patria, la loro chiesa, le istituzioni tutte, alle quali appartengono (Pagine sulla guerra, cit., p. 32).
La difesa delle istituzioni [...] è il dovere prossimo; e non vi sono, che si sappia, altri doveri effettivi se non quelli prossimi. E il complesso dei valori di cultura […] non si attua praticamente se non attraverso queste gagliarde difese ed offese, perché i doveri generali non si attuano se non con lo scendere da quell’astrattezza, che ha nome di cielo, sulla terra, nello spazio e nel tempo, e farsi a noi prossimi. Noi siamo, nella vita, come guarnigioni e sentinelle poste qua e là dallo Spirito del mondo: al quale mal serviremmo abbandonando i posti che ci ha affidati, per rendergli un omaggio astratto e inerte, a lui non gradito (p. 34).
Posto allora che per ‘patriottismo’ non si dovrà certo intendere – come invece facevano i partecipanti al Krieg der Geister – la fedeltà alla propria nazione sulla base di una sua presunta e variamente fondata superiorità, bensì il semplice compimento di un dovere nei confronti dello spirito, si può senz’altro riconoscere e comprendere, senza fraintenderlo, il ‘patriottismo’ di Croce. Il quale, dunque, in un articolo del 27 dicembre 1914, elogia i socialisti tedeschi per il sostegno fornito al governo del loro Paese impegnato nella guerra (cfr. p. 22); in uno del 31 gennaio 1915 può scrivere:
C’è la guerra europea? Ebbene, procuriamo di esser serî: aiutiamo tutti gli sforzi per il migliore possibile armamento e addestramento della nostra armata di terra e di mare, e seguiamo gli avvenimenti, pronti ad operare con circospetta energia, e nel solo nome della patria, perché solo la patria è ora in questione (p. 27);
e – per passare dalle parole ai fatti – all’inizio di maggio del 1915 assume la presidenza del Comitato napoletano per la preparazione civile in vista dell’ormai imminente entrata in guerra dell’Italia (cfr. pp. 45-48). Sennonché questo vivo sentimento patriottico si fa ancora più intenso a partire dal fatidico 24 maggio e accompagna Croce lungo tutta la durata del conflitto, conferendo un’impronta caratteristica a quasi tutti i suoi testi in cui l’argomento della guerra viene in qualche modo affrontato, siano essi scritti pubblici, dichiarazioni ufficiali o lettere private. Per fare solo qualche esempio, il 27 maggio 1915 confessa a Gentile di essere «troppo patriota da non accettare subito il fatto compiuto e pensare ad altro che alla salvezza della patria» (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 495); nello stesso periodo scrive sulla «Critica»: «Ci batteremo fino all’ultimo, e faremo ogni sacrifizio per la nostra patria, qualunque cosa debba accadere. Altro ora non c’importa, né vogliamo sapere» (Pagine sulla guerra, cit., p. 61); e, tra il 1916 e il 1918, pubblica alcune recensioni o prefazioni di volumi intrisi di spirito patriottico (cfr. pp. 133-35, 143-50, 176-77) e redige alcuni manifesti nei quali esorta gli italiani al senso del dovere verso il loro Paese e a un impegno costante per il bene comune (cfr. pp. 229-32, 242-44). Peraltro – va anche detto – subito dopo la vittoria, di fronte alle «piaghe aperte» e alle «debolezze pericolose» che la guerra ha lasciato nella «carne» dell’Italia, alle «centinaia di migliaia» di caduti «del nostro popolo», alla «stessa desolazione» che è «nel mondo tutto», un Croce profondamente turbato si chiede da ultimo: «Far festa perché?» (p. 289).
Sul versante, poi, squisitamente teorico, ritroviamo nelle Pagine sulla guerra, variamente declinati, i principi generali di riferimento che già emergevano – come si è visto – dalla lettura della Filosofia della pratica. Anzitutto, viene riaffermata l’idea della guerra come fatto necessario:
La storia (nonché la logica stessa della vita) mostra che gli stati e gli altri aggruppamenti sociali sono tra loro perpetuamente in lotta vitale per la sopravvivenza e per la prosperità del tipo migliore; e uno dei casi acuti di questa lotta è ciò che si chiama la Guerra (pp. 90-91).
Assolutamente centrale, poi, è il perentorio richiamo – fondato sul principio della distinzione delle forme dello spirito e sostenuto dalla ripresa della rivendicazione ‘machiavelliana’ dell’autonomia della politica – all’impossibilità di considerare la guerra al di fuori del suo ambito proprio di appartenenza, che è appunto quello politico ossia economico; basti pensare alle tante pagine dedicate alla difesa dei concetti di «Real-Politik» e «Stato come potenza» (cfr. in partic. pp. 74-101), o anche solo a un passo come il seguente (che si conclude, tra l’altro, con un accenno a quella «forza» che Croce ritiene essere l’unica arma che può – e deve – venir utilizzata in politica e in guerra):
Bisogna stare attenti a non trascurare il momento della differenza tra le varie forme spirituali; e, nel caso presente, rendersi chiaro conto, e non perdere mai di vista, che le lotte politiche […] non sono lotte scientifiche o morali, ma politiche, o, come io le chiamo generalizzando, economiche. Ora, la cosa sta proprio così: che nelle lotte politiche ed economiche, a differenza di quelle morali o scientifiche, non è concepibile altra fede se non nella propria forza o capacità (p. 112).
Infine, non manca neppure la piena consapevolezza della peculiarità storica della Grande guerra, una consapevolezza che si traduce da un lato – per es. – in un auspicio specificamente riferito alla situazione italiana: «Usciremo dalla guerra con un sentimento più alto, più grave, più tragico della vita e dei suoi doveri; e distruggeremo nelle sue fiamme molte miserie della nostra politica degli ultimi decenni» (p. 74); dall’altro – ma si tratta di uno scritto che è già del 1926 e non compare quindi nella prima edizione dell’opera – nella constatazione che nella «guerra dei giorni nostri […] la natura della guerra è esaltata e, si direbbe, esasperata al massimo grado» (p. 328).
Per quanto riguarda il pensiero crociano sulla guerra negli anni Venti e Trenta, va anzitutto segnalata la messa a punto critica e storiografica – operata nei due grandi testi dedicati, rispettivamente, alla storia d’Italia e a quella d’Europa – di diversi aspetti concernenti, ancora, la Prima guerra mondiale. Nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), nel quadro di una prospettiva calibrata sulle vicende interne del nostro Paese, Croce ritorna da un lato, precisando e puntualizzando, sulla contrapposizione tra neutralisti e interventisti; dall’altro, sulla questione delle effettive ragioni dell’entrata in guerra dell’Italia, per concludere che tutti i singoli motivi contingenti, per quanto «fondamentali e determinanti», non sono sufficienti
a spiegare quella volontà che era sorta, e che, nell’accogliere quelli e altri simili, li oltrepassava tutti, avendo il suo unico motivo in sé stessa, come opera di ispirazione, come parte assegnata allora all’Italia nel dramma umano dalla riposta logica della storia o [...] dalla “fatalità” (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1967, p. 269).
Nella Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), nel quadro di una prospettiva incentrata sul progressivo affermarsi, in via per così dire ‘transnazionale’, di quell’«ideale» della «libertà» – o «umanità» – che è «l’unico che resista alla critica e rappresenti per la società umana il punto intorno al quale, nei frequenti squilibri, nelle continue oscillazioni, si ristabilisce in perpetuo l’equilibrio» (Storia d’Europa nel secolo decimonono, a cura di G. Galasso, 1991, pp. 433-34), Croce si concentra, da un lato, sulla critica del «falso ideale» dell’«attivismo» come «perversione dell’amore per la libertà» e come causa decisiva del precipitare dell’Europa intera verso il baratro della Grande guerra (cfr. pp. 412-20) mentre, dall’altro, si pronuncia contro coloro che, osservando solo superficialmente, vedono «una profonda diversità» tra l’Europa che precede la Prima guerra mondiale e quella a essa posteriore, sostenendo che chi «dall’esterno e dal secondario passa all’intrinseco» vede invece
la continuità e omogeneità tra le due Europe, in apparenza diverse, e […] ritrova nei due aspetti i medesimi tratti, se anche, dopo la guerra e quel che le ha tenuto dietro, esasperati; tra le mutate condizioni politiche, le medesime disposizioni e i medesimi contrasti spirituali, se anche aggravati da quella pesantezza ed ottusità che la guerra, uccidendo milioni di vite, abituando alla violenza e disabituando dall’alacre lavoro critico e costruttivo della mente, e dall’esercizio dell’attenzione e della finezza, non poteva mancar di produrre insieme con gli effetti severi della sua alta tragedia (p. 426).j
E in parole come queste non è difficile cogliere un sentimento di profonda disillusione rispetto all’immagine, a suo tempo delineata, della Grande guerra come occasione «per maturare più alta forma di civiltà», per raggiungere «il maggior bene possibile», per godere di «una vita spirituale superiore a quella di prima» (Pagine sulla guerra, cit., pp. 46-47, 132, 293).
Ma, soprattutto, di questo periodo bisogna ricordare la sempre più decisa rivendicazione delle esigenze di tipo etico, pur a fronte della comunque ribadita dignità e ineludibilità delle ragioni dell’utile e della politica. In Etica e politica (1931), per es., così viene ripreso e riformulato il motivo della necessità della guerra:
Il genere umano non rinuncia alla sua brama e alla sua domanda di un mondo più giusto e più mite e più civile, ossia più umano [nel quale] sia abolita la guerra, non la guerra che è intrinseca e necessaria al vivere stesso, ma la guerra che continua il costume barbarico del sangue, delle stragi, delle crudeltà e dei tormenti (Etica e politica, a cura di G. Galasso, 1994, pp. 402-03).
E così vengono subito illustrati i presupposti teorici di tale riformulazione:
Il momento dello Stato e della politica è un momento necessario ed eterno bensì, ma un momento e non il tutto; e la coscienza e l’operosità morale è un altro momento, non meno necessario ed eterno, che segue al primo, dispiegandosi dall’unità e nell’unità spirituale. Certo, se il secondo è indistruggibile, non meno è indistruggibile il primo; ma ciò importa solamente che il secondo non distrugge il primo, sì invece riopera perpetuo sopra esso, batte in perpetuo alla sua porta e in perpetuo si fa ascoltare e accogliere, pur conformandosi alla legge che regna in quella sfera (pp. 403-04).
Di questa proficua ‘contaminazione’ tra «momento» politico e «momento» etico (che non rappresenta certo una novità nel panorama complessivo della filosofia crociana, ma rimane per molti versi in ombra durante e di fronte alla Prima guerra mondiale, cfr. Cingari 2003, pp. 219 e segg.) abbiamo anche testimonianza nelle pagine della Storia come pensiero e come azione (1938), dove viene istituito un nesso costitutivo tra la «forza» (che non deve essere confusa con la pura «violenza») e la «libertà» (e, dunque, la stessa moralità): se infatti la violenza «non è forza ma debolezza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna ma soltanto distruggitrice», la forza, invece,
è sempre costruttrice, anche nella sua forma più semplice, che è quella che si suol chiamare di dominio; e s’innalza alla sua maggiore espressione nella libertà morale, la quale nell’atto stesso è forza continua e costante, sebbene diventi più visibile in tal suo aspetto, ossia più facilmente attiri l’attenzione in quanto forza, nei momenti in cui è condotta a farsi severità, rigore, castigo, guerra, abbattimento del nemico (La storia come pensiero e come azione, 2002, p. 230).
Nelle pagine di quest’opera, peraltro, viene ancora proclamata l’‘eternità’ della guerra (cfr. p. 251); viene bollata come asserzione puramente retorica l’affermazione dell’«impossibilità di una ricaduta del mondo nella barbarie, che invece è tanto possibile che la civiltà consiste in una continua vigilanza e lotta armata contro cotesto pericolo» (p. 252); viene anche assegnato all’«uomo morale» il dovere di
sempre fronteggiare quello che ben si suole chiamare il “preconcetto delle razze”, combatterlo incessantemente e ristabilire di continuo la coscienza dell’unica umanità, che la divisione secondo le razze, tramutata di classificatoria in reale, turba e, se potesse, distruggerebbe (p. 302).
E questi due ultimi motivi – il rischio costante del ritorno alla «barbarie» e la condanna del pregiudizio della «razza» – ci introducono direttamente agli scritti crociani degli anni della Seconda guerra mondiale.
Se l’atteggiamento di Croce di fronte alla Prima guerra mondiale è strettamente legato a un pieno riconoscimento del governo nazionale che del coinvolgimento italiano in quel conflitto era formalmente responsabile, nel caso della Seconda guerra mondiale lo scenario è completamente diverso. Dopo l’8 settembre 1943 Croce prende apertamente le distanze dalla guerra voluta e combattuta dallo Stato fascista e partecipa in prima persona al processo di liberazione dell’Italia (sia ricoprendo vari incarichi politici, sia attraverso un’ampia attività diplomatica non ufficiale, svolta in virtù della sua fama e autorevolezza). Ben chiara, in lui, è anzitutto la consapevolezza che l’Italia sia impegnata in due guerre distinte (e non solo a partire dalla data dell’armistizio). Dichiara, infatti, il 10 ottobre 1943:
C’era in Italia, nell’anima degli italiani, già in corso una dualità di guerre; una guerra condotta dal fascismo e un’altra che proseguiva tenace lo spirito del Risorgimento: la prima, in apparenza legale ma odiosa, l’altra cara al cuore d’ogni vero italiano. […] La seconda guerra, che era prima nei nostri cuori, è ora fatta legale, rendendo illegale e delittuosa quella dichiarata dal fascismo, che vanamente si argomenta oggi, dopo il concluso armistizio, di ripigliare sotto gli ordini dei tedeschi, devastatori e carnefici del popolo italiano (Scritti e discorsi politici. 1943-1947, 1° vol., 1963, p. 5).
Ed è altresì ferma la convinzione, in una prospettiva globale in cui le sorti dell’Italia si intrecciano con quelle degli altri Paesi, che la guerra attuale presenti caratteri del tutto peculiari e appaia, più precisamente, come una «guerra di religione» (ossia, in altri termini, una guerra in cui l’istanza morale prevale nettamente sulle esigenze politiche ed economiche). Da un discorso tenuto il 28 gennaio 1944:
A poco a poco la luce si fece in noi: cominciammo a udire intorno a noi il giudizio che la presente guerra […] non era una semplice guerra di interessi politici ed economici, ma una guerra di religione; e per la nostra religione, che aveva il diritto di comandarci, ci rassegnammo al penoso distacco dalla brama di una vittoria italiana, di una vittoria che sarebbe stata non solo la rovina del restante mondo ma quella dell’Italia resa schiava della Germania, e, direi, della stessa Germania resa a sua volta indefinitamente schiava di una fazione di prepotenti, schiavi essi stessi della propria sfrenata ed ebbra animalità, giacché solo le idee legano gli uomini, serbandoli liberali, e la Germania oggi non ha idee ma cupidità ed istinti brutali (p. 51).
L’evento della guerra si colora ora, dunque, di tinte squisitamente etiche, come non avveniva – o avveniva in misura assai minore – nelle riflessioni crociane in margine al primo conflitto mondiale. E il secondo conflitto mondiale si profila infine, nel suo complesso, come una guerra combattuta da alcuni popoli contro altri per il trionfo della libertà.
Si sarà notato, peraltro, che nei due testi ora citati Croce si riferisce ai tedeschi e alla Germania usando toni particolarmente duri. Ed è vero che egli distingue, almeno nel secondo testo, tra la Germania come nazione e la «fazione di prepotenti» che la domina; ma non si può negare che – qui e, più in generale, negli scritti di questo periodo – il suo giudizio pesantemente negativo investa, di fatto, il popolo tedesco tout court, con una radicalità e un’accentuazione dei suoi caratteri deteriori che erano del tutto assenti, invece, negli scritti sulla Grande guerra. Discorrendo, per es., della propria tanto criticata «germanofilia» in un’intervista del 1° ottobre 1915, Croce, da un lato, chiedeva una sospensione del giudizio – in attesa di prove certe – sulle presunte atrocità compiute dall’esercito prussiano nei primi mesi di guerra; dall’altro, sembrava quasi volerle giustificare – se effettivamente dimostrate – individuandone la causa nel ben noto «difetto nazionale» dei tedeschi, la «pedanteria», che li avrebbe portati a esagerare e a eccedere (Pagine sulla guerra, cit., pp. 71-72). E una tale presa di posizione è veramente emblematica del pensiero crociano a questa altezza cronologica.
Negli anni del secondo conflitto mondiale la prospettiva muta però sensibilmente. In un’ottica nella quale, evidentemente, gioca un ruolo determinante la consapevolezza delle conseguenze nefaste dell’avvento del nazismo, Croce parla, riferendosi ai tedeschi, non più solo di «cervello pedantesco», ma anche di «cuore barbarico» (Scritti e discorsi politici, 1° vol., cit., p. 197), recuperando, per così dire, una categoria – quella di ‘barbarie’ – il cui utilizzo veniva decisamente rifiutato all’epoca del Krieg der Geister; parla altresì di «folle prepotenza» (e non, stavolta, solo da parte di una singola «fazione») nonché di «fredda volontà […] di schernitrice distruzione» (2° vol., 1963, pp. 256, 276); ma, soprattutto, adotta una nuova, terribile categoria, quella di «disumanità», per spiegare il comportamento attuale della Germania (cfr. Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, 1944, p. 58; si veda Conte 2013). Ed è pur vero che egli non cede, neppure adesso, alla tentazione di ricorrere all’idea di ‘razza’:
Non ho mai creduto […] al mito dei popoli e delle razze e dei loro caratteri indelebili e continuerò ad attenermi al concetto […] che quei caratteri non sono dati naturalistici e deterministici ma formazioni storiche, di più o meno lunga perduranza (p. 59);
ma è anche vero che il nazismo, principale se non unico responsabile di quella sorta di ‘mutazione antropologica’ che ha trasformato la Germania (la quale ormai non è più quella che Croce ‘aveva amato’, per riprendere il titolo di un suo celebre articolo del 1936), viene visto come «una crisi terribile che covava nella secolare storia tedesca», mentre il fascismo (secondo la famosa tesi crociana della «parentesi storica») non sarebbe che «una superfetazione estranea alla secolare storia italiana» (p. 21). L’aspetto sinistro del volto presente della Germania, quindi, affonda le sue radici nel passato stesso di quel Paese, assumendo una consistenza e una connotazione negativa che certamente non possedeva la semplice «pedanteria» tedesca sottolineata a suo tempo; e, d’altra parte, la solida «coscienza dell’unica umanità» di cui ancora si diceva nella Storia come pensiero e come azione sembra incrinarsi, adesso, di fronte alla «disumanità» manifestata dai tedeschi, in un quadro storico complessivo nel quale molte delle precedenti certezze crociane sono venute meno. Questo è, del resto, il Croce che – per tornare infine al tema della guerra in senso stretto – dubita ora che possa risorgere «un mondo […] continuazione di quello in cui già vivemmo per più decenni, prima della guerra del 1914, di pace, di lavoro, di collaborazione nazionale e internazionale»; e che sente invece di dover prevedere
una sequela a perdita di vista di scotimenti e rivolgimenti e rovine per rivoluzioni e per guerre, che prenderanno un mezzo secolo, se non più, e potranno anche non raggiungere qualcosa di positivo, ma condurre alla finis Europae (Scritti e discorsi politici, 1° vol., cit., p. 276).
Così come avviene in quelli crociani, anche negli scritti gentiliani del periodo della Prima guerra mondiale (poi raccolti nel volume Guerra e fede. Frammenti politici, del 1919) si concentra un’ampia riflessione, di carattere sia generale sia particolare, sul tema della guerra. E per molti versi il punto di vista di Gentile appare in sintonia con quello di Croce, sia per quanto concerne la dimensione teorica, sia sul piano pratico, sia in relazione a diversi aspetti minori o marginali.
Anzitutto, Gentile condivide con Croce l’idea della guerra come momento costitutivo della realtà spirituale. Nel testo della conferenza dell’autunno del 1914 sulla Filosofia della guerra – un testo dal valore quasi programmatico, che non a caso apre la raccolta di Guerra e fede – egli distingue tra concetto «metafisico» e concetto «storico» della guerra. In base al primo concetto (di matrice eraclitea) la guerra è appunto
un principio metafisico, immanente eternamente non pure alla vita dell’umanità nella sua organizzazione sociale, ma alla vita dell’universo nelle sue cosmiche vicende e nella perpetua lotta di forze che s’annida e si agita in ogni molecola del mondo (Guerra e fede, a cura di H.A. Cavallera, 19893, p. 3),
ossia una guerra «che non solo non è nata per volontà degli uomini, ma che nessuno sforzo mai di volontà umana potrà menomamente rimuovere» e che si configura come «l’interno principio attivo della natura» (p. 3); con il secondo concetto (che rinvia, per es., alle Reden an die deutsche Nation di Johann Gottlieb Fichte) ci si riferisce invece alla guerra intesa come «fatto storico concreto, in atto» (p. 4). Senonché, Gentile rielabora questi due concetti alla luce dei propri presupposti filosofici. Da una parte,
la guerra vera [cioè la guerra in senso ‘metafisico’, che Eraclito sarebbe riuscito a «vedere» solo «superficialmente»] non è quella che ci apparisce fuori di noi nel contrasto armonico della natura, in cui tutto si divide e tutto si unifica; ma quella che si combatte nell’atto stesso che la si avverte dentro l’animo nostro: è quell’unità di contrari in cui consiste il ritmo dello spirito (p. 6).
Ed è proprio dall’individuazione delle radici della guerra, pensata in senso ‘spirituale’, in tale «unità» dei «contrari» che deriva la necessità di essa:
Questa grande guerra dell’universo è guerra necessaria, perché non nasce dall’incontro di principii opposti, ciascuno dei quali sia indipendente dall’altro, ma piuttosto dalla loro originaria unità, fuori della quale non è possibile che alcuno di essi sia concepito (p. 7).
Al fondo vi è, evidentemente, la concezione gentiliana, rigorosamente dinamica, della vita dello spirito:
La realtà spirituale non è acqua stagnante, ma fiamma ardente: niente che si possa a un tratto pensare come già tutto attuato e definito: ma un processo incessante, un diversificarsi continuo, un essere sempre, sì, quel medesimo, ma anche sempre altro (p. 7).
Dall’altra parte, la guerra come fatto concreto non può essere concepita se non come manifestazione reale e attuale della guerra come principio metafisico: il conflitto in corso,
questo immane schianto dell’umanità, che infuria attorno a noi, questa tremenda tempesta che s’addensa sul nostro cielo […] è la guerra viva e concreta; la realtà in atto, si può dire, del principio metafisico dell’unità dei contrari (p. 7).
Ma, al tempo stesso, di essa viene rivendicata con forza la dimensione squisitamente storica, insieme con l’ineludibile esigenza di interpretarla in modo adeguato e conseguente:
Se questa crisi [Gentile ha appena presentato la Prima guerra mondiale come una «crisi che attraversa tutta l’umanità: la più faticosa crisi che la abbia mai travagliata»] noi volessimo definire nei suoi termini ideali, essa smarrirebbe ad una ad una tutte quelle caratteristiche che ne costituiscono la storicità, e si dileguerebbe nell’unità indistinta, puramente ideale, del concetto metafisico della guerra, della legge dialettica universale della realtà; di modo che alla domanda: – Che cos’è questa guerra, in cui tutti ora cerchiamo di fissare lo sguardo per trovare il nostro orientamento? – il filosofo non potrebbe rispondere se non con una sola risposta, che non è una risposta: questa guerra è la guerra; cioè quello che è stato e che sarà sempre; è la eterna storia dell’uomo e di tutto. – Essa, invece, non è la guerra, ma questa guerra, individuata per determinazioni ciascuna delle quali è unica nel suo genere. Intenderla perciò è rappresentarla nella sua concretezza: compito non di artista, ma di storico (p. 8).
E, parlando allora di «questa guerra» in termini non astrattamente ideali, ma strettamente storici, tenendo cioè ben presenti la sua unicità e la sua peculiarità, Gentile ne afferma con decisione la necessità, anche con specifico riferimento al coinvolgimento italiano. Sebbene la guerra attuale – scrive il 24 maggio 1918 – non sia «un fenomeno naturale, in cui gli uomini non abbiano avuto parte alcuna», pure essa, se
guardata dal punto di vista dell’uomo individuale, si presenta una fatalità ineluttabile, alla quale si può essere andati incontro con entusiasmo o dalla quale si può essere stati raggiunti e trascinati; ma che, in un modo o nell’altro, era la legge della nostra vita (p. 90).
Ed è vero che, dapprima, «la guerra c’era; ma non era la nostra»; però poi «rapidamente incrudì; e ben presto creò tali condizioni mondiali, in cui nessuno dei grandi Stati […] poteva più limitarsi alla parte di spettatore indifferente. […] La nostra via era segnata» (p. 91).
In Guerra e fede sono numerose le opinioni generali e le considerazioni particolari che risultano in sintonia con le posizioni assunte da Croce. Anche Gentile, infatti, si esprime in maniera assai critica nei confronti dell’atteggiamento di coloro che prendono parte attiva al Krieg der Geister (e – si può anche ricordare – in uno scritto del 13 ottobre 1918 difende esplicitamente Croce dall’accusa di «germanofilia», cfr. pp. 148-53); si pronuncia a più riprese contro le astratte professioni di pacifismo, contro ogni orientamento di tipo pessimistico, contro le varie contraddizioni dei socialisti italiani e, in una specifica occasione, contro il «razionalismo astratto del secolo XVIII» e contro la mobilitazione internazionale per la creazione della Società delle nazioni, che da quello deriverebbe direttamente (cfr. pp. 227-32); dichiara ripetutamente di attendersi, come risultato degli enormi sacrifici e degli orrori inenarrabili che la guerra richiede e porta con sé, l’avvento di una nuova stagione storica caratterizzata da un più stabile equilibrio politico mondiale. Soprattutto, anche in Gentile sono costanti, da un lato, l’esortazione a impegnarsi per il bene e le sorti della patria, intesa in particolare «non solo come la realtà delle grandi occasioni, ma come la realtà di tutti i giorni» (pp. 172-73); dall’altro, l’insistenza sul concetto di dovere, che tale esortazione sistematicamente accompagna. Aspetti, questi che abbiamo richiamato, che sembrano avvicinare, sia sul piano teorico sia sul piano pratico, il ‘pensiero sulla guerra’ di Gentile a quello di Croce. È significativo, del resto, che il filosofo napoletano, in una lettera scritta all’amico da Napoli il 19 dicembre 1914, si dica «affatto d’accordo […], salvo in qualche inezia di particolari», con il contenuto della conferenza gentiliana sulla Filosofia della guerra (cfr. Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 483). Ma, accanto alle molte analogie, vi sono almeno due differenze essenziali. In primo luogo bisogna ricordare che, a fronte del neutralismo della prima ora di Croce, Gentile si attestò, abbastanza presto, su una posizione nettamente interventista: una posizione che difese anche dopo la disfatta di Caporetto, in uno scritto del 15 dicembre 1917 dai toni particolarmente sentiti e dal titolo, assai eloquente, di Esame di coscienza (cfr. Guerra e fede, cit., pp. 45-48). In secondo luogo – e soprattutto – il pensiero di Gentile si distingue da quello di Croce per la forte intonazione di natura morale che esso dà alla trattazione del tema della guerra. Guerra che, sempre nelle pagine della conferenza-programma dell’autunno del 1914, viene definita – al di là dell’immediata apparenza e di ogni elemento contingente – un «atto assoluto»:
La guerra non è il conflitto d’un certo numero di Stati. Questo è bensì un carattere necessario, ma uno solo dei caratteri di essa; e non è né anche l’urto di due tendenze o forze della politica mondiale, possenti forze disciplinatrici del diritto del mondo. Non è adunque, soltanto, una crisi economica, giuridica e politica dei popoli europei, o di tutti i popoli della terra, accompagnata da sacrifizi proporzionati all’immane sforzo. È qualche cosa di più. È un dramma che dovrei dire divino, se la parola non suonasse enfaticamente; è il cimento, per dirlo con parole più ordinarie, di tutte le forze che si sono organizzate sulla faccia della terra, ossia nell’universo guardato dal nostro centro di osservazione. Si tratta, si badi, come sempre, di uno sforzo in cui tutto, il Tutto, è impegnato: di un atto assoluto (pp. 11-12).
E subito a tale «atto» che è la guerra viene attribuita la qualifica, oltre che di «assoluto», anche di «morale», in un brano di impronta decisamente ‘attualistica’:
Atto assoluto, chi ben rifletta, è il dovere: quell’atto che non ci è imposto soltanto in rapporto a certe condizioni, ma categoricamente. Quello che nell’istante del nostro operare ci è dettato dalla nostra coscienza morale. È ciò che assolutamente deve farsi: un atto, che è l’unico atto che si possa compiere dallo spirito conscio della propria universalità, e però consapevole di non aver nulla fuori di sé: né natura, né altra volontà, né umana né divina. Il mondo è tutto lì: nell’atto morale; checché differisse da questo atto, per la coscienza morale sarebbe assurdo (p. 12).
La conseguenza del significato morale di cui viene investito l’evento bellico – e della piena collocazione di quest’ultimo nella prospettiva dello spirito – è che Gentile può dunque utilizzare liberamente, trattando della guerra, la categoria di ‘giustizia’: «Ogni vita recisa sul campo di battaglia è un anello infranto nell’aurea catena dello spirito» e la «coscienza della delicata situazione dello spirito nella lotta delle armi» che ne deriva «ci fa, o ci deve far andare incontro alla guerra, quando suoni la sua ora, con lo stesso animo alto e giusto, con cui colpisce il giudice, che senta tutta la maestà della legge che rappresenta» (p. 19). Da qui ad arrivare a richiamare, di fatto, l’antica idea di ‘guerra giusta’ – con tutte le risonanze di carattere religioso che essa reca con sé – il passo è breve:
Se si ha fede nella giustizia della causa, che ci fa scendere in campo, la nostra battaglia deve essere castigo di Dio; le nostre armi, lo strumento di un’assoluta giustizia; la quale, severa e spietata quanto si voglia, non si amministra con l’odio, ma con l’amore (p. 20).
E il ruolo centrale svolto dall’amore, «che è volontà energica e fattiva di bene in tutta la sfera delle nostre relazioni», fa sì che di esso possa parlare «il filosofo», che dell’amore dirà infine che «non sospira la comoda pace dei neghittosi, ma instaura nel mondo, anche col sangue e con la morte, il regno della giustizia, il regno dello spirito» (p. 20). Viene quindi del tutto superata la distinzione crociana tra ambito etico e ambito politico (rientrando in quest’ultimo, anche per Gentile, ogni problema inerente alla guerra concretamente intesa): «la questione politica è questione morale», come si legge in uno scritto del 24 gennaio 1918 (p. 61). E viene respinto con forza il rifiuto crociano della concezione dello Stato etico, alla quale invece Gentile aderisce totalmente, come si comprende molto bene – ma è solo uno dei tanti riferimenti possibili – dal seguente passo di uno scritto del 10 aprile 1918:
Lo Stato è certamente forza, così all’interno come all’esterno […]. Ma è forza spirituale: meccanismo che suppone la libertà e termina nella finalità etica, a cui, come forza spirituale, volontà umana, o personalità che voglia dirsi, lo Stato non può non subordinarsi (p. 132).
Sia il superamento della distinzione tra etica e politica («una delle distinzioni su cui la recente filosofia italiana più ha voluto insistere, salvo a trascurarla strada facendo per fare intervenire il criterio etico nella politica», con un’evidente allusione polemica a Croce), sia l’adesione all’idea di Stato etico vengono ribaditi da Gentile nella sua ultima opera, Genesi e struttura della società, composta nel 1943 e uscita postuma nel 1946. La «base» della suddetta «distinzione» viene individuata «nell’astratta considerazione de’ vari momenti che si possono infatti distinguere nella vita dello spirito»; una considerazione che viene però immediatamente contestata: «Volere semplice, economico, pura forza, – e operare morale? Ma la forza del volere, in quanto forza che si chiama diritto (dura lex sed lex) è il volere voluto, che si pone come limite della libertà. Questo limite è necessario, e non può mancare». Si tratta del «momento del diritto, dello Stato come autorità, che è volere potente, innanzi a cui deve cedere l’arbitrio»; e «lo Stato è lo stesso individuo nella sua universalità. Impossibile quindi che non gli competa la stessa moralità dell’individuo, quando nell’individuo lo Stato non sia un presupposto – limite della sua libertà – ma la stessa attualità concreta del suo volere». Infine, «lo Stato come volere ha una legge universale, un imperativo categorico, che non può essere altro che moralità» (Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, 1987, pp. 66-67). In quest’opera, peraltro, viene anche ribadita la necessità della guerra, sia in senso filosofico, sia in senso storico. «Il momento dell’alterità – scrive Gentile – è essenziale come il momento della pura oggettività nel ritmo dell’autocoscienza». È un’alterità, questa, che «ci dev’essere», ma che «va superata» (p. 103); e tra i vari modi di superarla vi è, appunto, la guerra,
della quale il filosofo non può ignorare che ci sono mille forme, e si vengono moltiplicando col moltiplicarsi dei modi in cui si esplica l’espressione del pensiero umano e la volontà si sforza di farsi valere. C’è la guerra a punte di spillo, e c’è la guerra a colpi di cannone. Le punte di spillo sono parole; parole però che tendono a scopi sostanzialmente affini a quelli perseguiti dal cannone: l’annientamento dell’avversario. Ma la guerra propriamente detta è quella che gli Stati combattono con tutte le armi più micidiali per aver ragione l’uno dell’altro, quando l’uno sia d’impedimento all’altro nel raggiungimento di fini essenziali alla sua esistenza (p. 104).
In queste pagine – si deve però osservare – l’idea di guerra come «atto assoluto», precedentemente affermata, rimane sullo sfondo, mentre si insiste sul tema della pace: «Il concetto della sintesi importa che la guerra sia necessaria, ma per salire ai fastigi della pace, dove l’uomo troverà mai sempre l’appagamento del bisogno più profondo della sua natura» (p. 124). E, d’altro canto, non si può dimenticare, in conclusione, che Genesi e struttura della società è un’opera che viene scritta durante la Seconda guerra mondiale, nei confronti della quale l’atteggiamento di Gentile ricalca solo in parte quello assunto di fronte al conflitto degli anni Dieci. Al momento dell’entrata in guerra dell’Italia e negli anni immediatamente successivi, infatti, egli non interviene pubblicamente e ripetutamente, come aveva fatto dal 1915 al 1918, per difendere la causa della patria; lo farà, invece, nel momento più difficile, quando cioè le vicende belliche volgeranno al peggio e avvertirà l’esigenza di far sentire la propria voce. Lo farà tenendo il famoso Discorso agli italiani del 24 giugno 1943, nel quale la nazione è esortata a un estremo impegno morale, indipendentemente dall’esito del conflitto; e lo farà nei mesi seguenti, attraverso un costante richiamo alla concordia e all’unità nazionale che non prescinde però dalla fedeltà intransigente al fascismo e dall’invito a continuare a combattere al fianco dell’alleato tedesco, fino al tragico epilogo del 15 aprile 1944.
S. Romano, Giovanni Gentile, Milano 1984, 19902.
M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di Benedetto Croce, Milano 1987, pp. 57-85.
G. Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna 1989.
G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995, Torino 2006.
F. Lolli, Croce polemista e recensore (1897-1919), Bologna 2001, pp. 183-216.
M. Maggi, L’Italia che non muore. La politica di Croce nella crisi nazionale, Napoli 2001.
S. Cingari, Benedetto Croce e la crisi della civiltà europea, Soveria Mannelli 2003, pp. 219-81.
D. Conte, Dalla «germanofilia» alla «disumanità». Benedetto Croce e la Germania, «Archivio di storia della cultura», 2013, 26, pp. 201-20.