Croce: Hegel e Francesco Sanseverino
In due lettere della fine del novembre 1898, Benedetto Croce annuncia a Giovanni Gentile di essersi messo a studiare sistematicamente la filosofia. Nella prima si limita a comunicare all’amico la notizia di aver iniziato a impegnarsi con metodo in questo studio. Nella seconda spiega il senso del proposito di applicarsi all’approfondimento di una disciplina che, oltre a rappresentare il campo in cui esercitava la propria particolare competenza il suo più giovane interlocutore, costituiva, in misura crescente, l’oggetto primario del loro scambio epistolare:
Vi ho detto che studiavo filosofia. Ecco di che si tratta. Io mi sono occupato finora di questioni filosofiche spintovi da un irresistibile bisogno intellettuale, ma un po’ occasionalmente: sicut canes ad Nili fontes bibentes et fugientes. Ora vorrei bere con un po’ di agio: ho perciò sinora lavorato a procacciarmi l’ozio necessario; e per un anno o più potrò occuparmi solo di filosofia. Vi confesso che vorrei tra l’altro menare a termine un trattato di estetica, e perciò mi occorre di approfondire tutte le questioni filosofiche che hanno relazione con l’estetica, ossia tutta la filosofia (B. Croce, G. Gentile, Carteggio, 1° vol., 1896-1900, a cura di C. Cassani, C. Castellani, 2014, p. 185).
Dalla lettera risulta chiaro il motivo per il quale Croce, che alla filosofia si era accostato fino a quel momento, per sua esplicita ammissione, in maniera occasionale – spintovi, cioè, dagli studi volta a volta affrontati –, aveva deciso di dedicarsi in modo specifico e regolare allo studio sistematico delle diverse correnti di pensiero, e questo motivo era rappresentato dal progetto di redigere un «trattato di estetica». Un secondo motivo, che nella lettera non viene menzionato ma che il quadro tracciato dall’epistolario lascia intuire, deve essere stato quello di poter dibattere i temi, sui quali il suo dialogo con Gentile lo induceva a soffermarsi e a riflettere, con piena cognizione di causa dal punto di vista filosofico e con la stessa padronanza del suo interlocutore. Questo ci deve far pensare che, nel programma di ampliamento dei propri orizzonti speculativi che Croce si era imposto, un certo spazio, non marginale, doveva essere riservato a Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Da un serio confronto con il pensatore di Stoccarda Croce era stato, sino ad allora, distolto dalla sua diffidenza (in parte alimentata da Antonio Labriola, che ne parlava come di cosa di altri tempi) nei confronti degli hegeliani di Napoli della seconda metà del 19° sec., compreso il maggiore di essi, Bertrando Spaventa, con il quale, pure, Croce era, dal lato paterno, imparentato. Ora, Spaventa era stato il maestro di Donato Jaja, di cui Gentile era allievo, e a Spaventa Gentile faceva costante riferimento, professandosi hegeliano, e sostenendo, con un acume e un’abilità che Croce non poteva non riconoscere, delle posizioni spesso diverse e contrapposte rispetto a quelle che quest’ultimo avvertiva istintivamente come più consone al proprio modo di pensare. Croce, inoltre, convinto dall’amico a finanziarne il progetto, si era indotto a farsi promotore dell’edizione, curata da Gentile, di alcuni testi filosofici di Spaventa, ormai pressoché irreperibili. Insomma, il rapporto di amicizia e di scambio intellettuale con Gentile non solo non poteva essere estraneo al desiderio di Croce di dotarsi di una strumentazione filosofica più organica e articolata, ma non poteva, allo stesso tempo, non indurlo a uno studio più metodico, meno pregiudicato e soprattutto più approfondito delle opere di Hegel.
Se le cose stanno in questo modo, dobbiamo riconoscere che l’esperienza filosoficamente decisiva di un incontro ravvicinato e sistematico con il pensiero hegeliano Croce, diversamente da Gentile, non inizia a farla che verso la fine del 19° sec. quando è uno studioso già affermato in diversi campi e un uomo ormai adulto. Tuttavia, se si eccettuano le poche pagine dedicate a Hegel nella seconda parte (la parte storica) della ‘grande Estetica’ crociana (quella del 1902), sarebbe stato necessario aspettare il 1906 perché l’opera di approfondimento e meditazione condotta da Croce sui testi del filosofo tedesco desse pubblicamente i primi frutti. In quell’anno, infatti, oltre alla traduzione, per sua cura, della ‘piccola Enciclopedia’, vale a dire dell’opera hegeliana (Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, pubblicata nel 1817, poi in edizione accresciuta nel 1827 e nel 1830) in cui si trova esposto in sintesi tutto il sistema speculativo del fondatore della dialettica, vede la luce il saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, nel quale Croce presenta e riassume il risultato delle sue riflessioni su questo tema. Il «vivo» del pensiero hegeliano era rappresentato per lui dalla concezione della realtà come svolgimento spirituale. Il «morto», innanzitutto dalla contaminazione fra concetti opposti (come bene/male, bello/brutto, vero/falso, essere/non essere) e concetti distinti (come, per es., arte e filosofia). I primi davano luogo, secondo Croce, a una dialettica solo in senso ‘polemico’, vale a dire che in questo caso la dialettica doveva servire solo a chiarire che i due termini non potevano essere pensati l’uno indipendentemente dall’altro e che la loro realtà era rappresentata dal concetto concreto in cui entrambi convergevano. Con la conseguenza che né l’uno né l’altro poteva essere reale se considerato ‘astrattamente’, ossia per sé, ma entrambi potevano esserlo solo nel concetto concreto, anche se non allo stesso modo, visto che il concetto concreto era il positivo, il valore, non però nella sua astratta identità o purezza e separazione dal disvalore, bensì nel suo essere già sempre affermazione di sé come rifiuto del disvalore. I concetti distinti, invece, erano due concetti entrambi reali, cioè concreti, non astratti, e connessi, certo, ma in modo tale che quello che volta a volta prevaleva, riassorbendo l’altro entro il proprio orizzonte formale come suo mezzo o materia (al modo, per es., della filosofia che, per affermarsi, doveva negare l’arte, pur servendosene come strumento espressivo), non prevaleva mai definitivamente o del tutto, e se lo spirito, insoddisfatto di limitarsi alla contemplazione estetica, si faceva spirito filosofico, ciò non avrebbe impedito che questo stesso spirito filosofico, successivamente, insoddisfatto di sé e dell’universalità della propria visione teoretica, con cui contemplava dall’alto le cose, bramoso, perciò, di contatto con la vita pratica e sentimentale dell’agire o dell’immaginazione sognante, tornasse a farsi spirito estetico o trascorresse a farsi spirito pratico (Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, poi in Saggio sullo Hegel, a cura di A. Savorelli, 2006, pp. 66-68).
Avere confuso questi due ordini di concetti e questi due generi di dialettica (il secondo dei quali sarebbe più esatto definire ‘rapporto dei distinti’ o dei ‘gradi dello spirito’) facendone uno solo aveva comportato, poi, a cascata, una serie di ulteriori errori filosofici da parte di Hegel che erano andati a incrementare l’insieme degli aspetti del suo pensiero che per Croce dovevano ritenersi «morti»: l’arte considerata come una forma imperfetta di filosofia, la filosofia della natura e la filosofia della storia, nell’ambito delle quali Hegel non si era trattenuto dal «trattare dialetticamente» cose che, come «i fatti individuali e i concetti empirici» (p. 117), non erano suscettibili di un simile trattamento.
Questa breve e sintetica esposizione dei motivi essenziali in cui si riassume il senso dell’adesione critica di Croce alla filosofia hegeliana ci dice molto del ruolo che l’approfondimento del pensiero di Hegel e la meditazione della sua logica hanno avuto nell’elaborazione della filosofia dello spirito di Croce, e in particolare della Logica come scienza del concetto puro (1909): la divisione dei concetti in «opposti» e «distinti» che campeggia in questo volume (ma che era già stata introdotta da Croce nell’Estetica, segno del fatto che la sua riflessione su Hegel si era fin dall’inizio concentrata su questo punto specifico e, ai suoi occhi, capitale, della filosofia del pensatore tedesco), la sostituzione della sintesi hegeliana degli opposti con la sintesi a priori kantiana di materia e forma, il giudizio storico o individuale come unità di intuizione e concetto (di arte e filosofia), tutto questo mostra con sufficiente chiarezza che l’esame critico delle categorie hegeliane e la costruzione della filosofia dello spirito hanno proceduto di pari passo.
Ma il confronto con Hegel non si esaurisce con la traduzione della ‘piccola Enciclopedia’ e con la pubblicazione del saggio del 1906. Intanto, questo saggio verrà arricchito, nelle edizioni successive, di un’ampia appendice – contenente un contributo sul Concetto del divenire e l’hegelismo e quattro Noterelle di critica hegeliana, dedicate, rispettivamente, al problema del «cominciamento», a quello della «forma logica della Logica», a quello della «filosofia della natura» e a quello della «triade dello Spirito assoluto» (arte, religione, filosofia) –, cosa che giustificherà il titolo complessivo di Saggio sullo Hegel. Poi, Hegel resterà, con Giambattista Vico e Francesco De Sanctis – spesso anche intrecciato con questi due autori – un termine di riferimento essenziale e costante nel pensiero crociano. Rimarrà tale, non solo per il suo indiscutibile peso e per l’importanza da lui assunta nel quadro dell’elaborazione mentale, da parte di Croce, delle proprie categorie speculative, ma anche perché, da un certo momento in poi (possiamo stabilire, convenzionalmente, come terminus a quo di questo processo gli anni a ridosso del 1920), Croce avvertirà il bisogno di ripensare il ruolo del negativo nella dialettica, anche in conseguenza dei violenti terremoti politici e sociali che già intorno alla metà del secondo decennio del secolo avevano incominciato a profilarsi in Europa e che si propagheranno, con intensità crescente, nei trent’anni successivi. In altre parole, con la guerra, il primo dopoguerra, l’avvento del fascismo in Italia e del nazismo in Germania, da ultimo con la seconda e ancora più drammatica vicenda bellica mondiale, conclusasi, fra le macerie di un intero continente, nel 1945, Croce sentirà riemergere l’esigenza di tornare a riflettere sulla dialettica, cercando di delinearne una che non fosse più, come era quella originariamente tratteggiata nella sua Logica, già sempre risolta nel prevalere del valore, del positivo, del progresso. Una dialettica, insomma, che sia meno figurata e più aderente alla realtà, e nell’orizzonte della quale il fattore negativo, rappresentato dalla decadenza, dall’involuzione, dal disvalore, possa avere una propria effettiva (storica) autonomia. Accade così che il filosofo di Pescasseroli, ormai quasi alla fine della sua parabola esistenziale, si sforzi di riprendere a tessere il filo del suo più che quarantennale rapporto con Hegel e ne faccia nuovamente l’oggetto di una serie di contributi e meditazioni.
Il frutto di questo tardo ‘ritorno a Hegel’ inizia ad apparire nel 1948, e verrà complessivamente raccolto nell’ultimo volume della produzione filosofica (e non solo di questa) crociana, le Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, uscito nel 1952, pochi mesi prima che, nel novembre di quello stesso anno, la morte intervenisse a interrompere il percorso di ripensamento che era stato così avviato. Questo volume si apre con uno scritto, curioso nella forma ma molto significativo nella sostanza, redatto come la narrazione del resoconto di un dialogo immaginario, che nella finzione letteraria si suppone avvenuto nel 1831 (ossia, anche in questo caso, poco prima della morte del filosofo tedesco), fra Hegel e un giovane napoletano, Francesco Sanseverino – personaggio di fantasia che altri non è che Croce stesso – il quale, stando alla trama del racconto, viene ricevuto da Hegel nella sua abitazione berlinese, per la seconda volta dopo una prima visita risalente a sette anni prima.
Il testo, originariamente destinato ai «Quaderni della Critica», è decisamente insolito per la cifra stilistica scelta da Croce con l’intento di esporre in forma diretta i punti salienti della sua concordia discors rispetto a Hegel. Dai Taccuini di lavoro è possibile ricavare il contesto in cui collocare la novella e il percorso mentale compiuto da Croce per arrivare alla decisione di comporla. Come si è detto, il problema del confronto fra valore e disvalore e soprattutto il ruolo storico di quest’ultimo avevano ripreso a essere, a vario titolo, presenti, in modo diretto o indiretto, nel quadro delle riflessioni di Croce, a partire, più o meno, dagli anni Venti, come una specie di assillo: con l’esigenza di recuperare alcuni aspetti del pensiero dialettico (a cominciare dalla realtà del negativo) che la sua precedente lettura e l’assetto assegnato alla propria filosofia dello spirito avevano trascurato o messo a tacere. L’obiettivo di introdurre nel quadro della configurazione originaria del sistema integrazioni e ‘varianti’ che andassero in questo senso era stato perseguito da Croce, negli anni precedenti e fino a questo momento, con il sovrapporre e in parte con il sostituire il concetto della vitalità a quello dell’utile economico. In altri termini, prima dell’ultimo scorcio degli anni Quaranta, il procedimento adottato da Croce per ripensare il ruolo della dialettica nel proprio schema categoriale era stato questo piuttosto che quello di tornare direttamente alla fonte, ossia a Hegel e alle sue opere, attraverso una rilettura che potesse condurlo a una nuova interpretazione di questo pensatore (Cesa 2008, pp. 235-36), più aderente alle proprie attuali esigenze. Cosa che, naturalmente, non significa che il filosofo tedesco non venisse utilizzato e tenuto presente anche nei saggi dedicati a evidenziare il ruolo e i compiti della vitalità, ma solo che in questi ciò non avveniva in un quadro espressamente esegetico. Tuttavia, alla fine del 1948 diverse circostanze si sommano per spingere Croce a progettare un nuovo confronto, questa volta diretto e tematico, con il più grande pensatore europeo del 19° secolo.
Innanzitutto, la rilettura della sua vecchia monografia sul «vivo e il morto» in Hegel in vista dell’allestimento di una terza edizione, che, infatti, uscì in quell’anno, per i consueti tipi della casa editrice Laterza. Poi l’idea, suscitata in lui della lettura dell’opera di Ernesto De Martino Il mondo magico (1948), di scrivere qualcosa sul rapporto di Hegel con l’occulto e il paranormale, di cui De Martino, attingendo all’Enzyklopädie nell’edizione tradotta e curata da Croce, aveva parlato, alla fine del suo libro. Il proposito di impegnarsi su questo argomento compare, nei Taccuini di lavoro (6° vol., 1946-1949, 1987, pp. 203-04), il 17 giugno e si ripresenta il 9 agosto, dopo che il 6 di questo stesso mese Croce aveva annotato il progetto di dedicarsi a una Critica della filosofia dello spirito di Hegel (pp. 215, 217). Il legame fra le due cose è probabilmente rappresentato dal fatto che i paragrafi dell’Enzyklopädie hegeliana cui De Martino si rifaceva (il 392 e il 406) appartengono alla prima sezione, quella antropologica, della terza parte dell’opera, ossia alla “Filosofia dello spirito”, e si concentrano su aspetti ‘naturalistici’ della spiritualità. In particolare, nel § 406 Hegel dedica alcune articolate considerazioni al «sonnambulismo magnetico» (Enciclopedia della scienze filosofiche in compendio, traduzione, prefazione e note di B. Croce, 1907, 19758, pp. 400-05), cosa che spiega il motivo per cui Croce, nell’enunciare il proposito di dedicarsi all’elaborazione in Hegel del tema dell’occulto, dichiara nei Taccuini di aver scritto alcune pagine sulle considerazioni di Hegel riguardanti i «fatti del magnetismo» (Taccuini di lavoro, 6° vol., cit., pp. 203-04), ossia su un argomento che, formalmente, appartiene piuttosto alla filosofia hegeliana della natura che a quella dello spirito. Questa contaminazione di dimensioni deve essere stata la ragione dalla quale Croce ha ricevuto l’impulso a riprendere in esame direttamente Hegel, visto che la vitalità si era andata fin dall’inizio profilando, ai suoi occhi, come una sorta di sfera spirituale dell’animalità e dell’istinto (o dell’inconscio). Il nesso fra le due cose si evince con sufficiente chiarezza dal convergere, nel volume sulla Storia come pensiero e come azione, del programma di storicizzare e spiritualizzare la natura (La storia come pensiero e come azione, a cura di M. Conforti, 2002, pp. 280-89), da un lato, e dell’associazione, dall’altro, della «vitalità» con il motivo del «recondito e misterioso» (p. 161). Si può quindi comprendere come, partendo da questa prima idea, il proposito di confrontarsi con il tema dell’occulto e del paranormale in Hegel si dilatasse ben presto a quello di una riconsiderazione generale proprio della filosofia hegeliana dello spirito nel suo insieme.
In questo quadro, e sulla base della rilettura che la correzione delle bozze di stampa della nuova edizione del saggio del 1906 gli imponeva, l’idea di tornare a confrontarsi con Hegel prende, inevitabilmente, anche il carattere di un nuovo bilancio critico. Nei Taccuini Croce annoterà, alla data del 22 agosto:
Ho lavorato al saggio che vorrei scrivere sulla Filosofia dello spirito di Hegel, ma ho rifatto il primo disegno dopo la lettura delle bozze di ristampa del mio saggio del 1906 sullo Hegel che non rileggevo da molti anni e che ho trovato più particolareggiato che non lo ricordassi: nei giudizi lo accetto anche oggi interamente (Taccuini, 6° vol., cit., p. 219)
Croce, in altre parole, avvertiva il bisogno di tornare a fare il punto su ciò che ancora lo divideva dal filosofo tedesco e ciò che continuava a legarlo a lui (o che, magari, aveva, nel frattempo, arricchito e consolidato il suo legame con lui). Questo è, in sostanza, il contesto che fa da sfondo alla novella con cui si aprono le Indagini su Hegel.
Con questo titolo, il racconto – ideato in una notte di insonnia (Taccuini, 6° vol., cit., p. 223) per dare plasticamente corpo a quello che, evidentemente, appariva ormai a Croce come il rapporto più importante, sul piano filosofico, di tutta la sua vita mentale – entra a far parte della bibliografia crociana. Dall’ideazione alla realizzazione materiale del progetto trascorre quasi un mese, mentre l’esecuzione, stando ai Taccuini, non richiede che un paio di giorni (p. 228). La novella, come si è già detto, racconta la visita che il giovane intellettuale napoletano Francesco Sanseverino – nel quale, secondo la testimonianza affidata ai Taccuini (p. 223), Croce fuse insieme la figura di Luigi Blanch (1784-1872), presa a modello per rispetto della verosimiglianza cronologica, e quella di De Sanctis, per rispetto di quella filosofica – avrebbe fatto a Hegel, da poco tornato a Berlino dalla campagna. Il filosofo tedesco aveva infatti lasciato la città e si era trasferito con la famiglia per sfuggire all’epidemia di colera che aveva investito la Germania in quei mesi (Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel, in Indagini su Hegel, a cura di A. Savorelli, 1998, p. 14) e che, del tutto inaspettatamente, essendo l’epidemia ormai quasi finita, con un colpo di coda, verso la fine di quello stesso anno, avrebbe portato in breve anche lui, «il maggior filosofo del suo tempo», a rendere l’anima a Dio (p. 34).
Dopo i convenevoli di circostanza, il giovane napoletano inizia il dialogo (che, tuttavia, è essenzialmente un monologo) dichiarando, per prima cosa, di ritenere incolmabile il debito da lui contratto con la filosofia hegeliana, e questo soprattutto per l’atteggiamento mentale del quale essa era espressione: un atteggiamento che la poneva, ai suoi occhi, molto al di sopra, per ricchezza e modernità, di quella, pur rivoluzionaria, di Immanuel Kant, che, diversamente da Hegel, era tutto riverso nelle scienze fisico-matematiche piuttosto che nella storia, alla quale, invece, la filosofia hegeliana appariva essere innanzitutto rivolta. Proprio per questo, gli sembrava che il pensiero del suo anfitrione avesse dato corpo e vigore speculativo ineguagliabili a istanze che erano già state avanzate da un pensatore napoletano del 18° sec., che Hegel forse non aveva ancora letto (benché la sua opera principale fosse già stata tradotta in tedesco), Giambattista Vico, il quale anzi, per alcuni aspetti, mostrava, nonostante l’estrazione cattolica, una spregiudicatezza filosofica nei confronti della religione superiore alla sua (a quella, cioè, di cui dava prova lo stesso Hegel, che pure era protestante). In definitiva, tre erano le grandi e immortali verità che Hegel, a giudizio del giovane Sanseverino, aveva enunciato e imposto, promuovendo, per loro tramite, uno sviluppo e un arricchimento irreversibili del pensiero moderno. In primo luogo, l’unità di concetto e fatto, cioè di universale e individuale, di giudizio e azione. Questa unità – l’«universale concreto» (Una pagina sconosciuta, p. 18) – rappresentava, agli occhi del giovane ospite, un progresso filosofico decisivo che conferiva nuova e più vigorosa sostanza speculativa al concetto della sintesi a priori. Da questo passaggio dipendeva poi la seconda grande verità riconducibile alla filosofia hegeliana, ossia la cancellazione della differenza fra verità di ragione e verità di fatto, fra filosofia e storia. Finalmente, la terza, fondamentale acquisizione del pensiero moderno di cui la filosofia di Hegel era portatrice riguardava la dialettica, della quale l’ospite napoletano vedeva il nucleo generatore nell’idea «che il negativo non sta di fronte ma dentro il positivo» e che quello («il momento negativo»)
non è una realtà per sé, ma è la realtà stessa còlta nel suo divenire, nello sforzo del distacco e superamento di una forma e del raggiungimento di un’altra, quando la forma che dev’essere superata e che resiste o cerca di sottrarsi al superamento, si atteggia per ciò stesso come negativa o come male, errore, bruttezza, morte (p. 19).
Tuttavia, nonostante la sua profonda adesione allo spirito del pensiero hegeliano, c’erano, nella formulazione, diversi aspetti che il giovane interlocutore dichiarava con decisione e franchezza di non poter accettare. I punti sui quali, attraverso le parole di Sanseverino, si concentra il disaccordo di Croce sono quelli già evidenziati nel saggio del 1906 (cosa che avvalorerebbe l’altra annotazione contenuta nei Taccuini, stando alla quale i giudizi espressi allora sarebbero risultati, dopo la rilettura del testo, ancora pienamente validi ai suoi occhi, a distanza di più di quarant’anni). Questi punti sono, nell’ordine:
a) la presenza indebita, nel sistema, di una «Filosofia della natura» che, risolto il concetto di natura in quello di intelletto astratto, non dovrebbe avere più alcun diritto di cittadinanza nel pensiero speculativo, ma solo nella scienza naturale (p. 22);
b) la presenza, ugualmente indebita, di una «Filosofia della storia», anche questa priva di qualsiasi legittimazione in un quadro che, identificando, di fatto, filosofia e storia (cioè universale e individuale nell’«universale concreto»), non ha nessuna ragione e neppure alcun modo di ricorrere a una specifica forma di filosofia per rendere filosofica la storia che, in quanto tale, è già filosofia (p. 23);
c) l’illegittima estensione del metodo dialettico a concetti che non lo tollerano, come quelli empirici e quelli astratti. Con la conseguenza di opporre, in modo artificioso, significati che non si oppongono di per sé e di tornare a separare il positivo dal negativo e questo da quello attraverso la loro forzata coincidenza, volta per volta, con l’una o con l’altra delle diverse nozioni, desunte dalla logica, dalla scienza naturale e dalla storia della civiltà, che Hegel chiamava in causa per costruire artificialmente il percorso sistematico del suo pensiero.
Il risultato era quello di conferire alla dialettica il carattere di un vano inseguirsi delle opposizioni, rese perciò relative, e delle sintesi, senza che fosse mai permesso, al pensiero, se non «nell’istante ultimo e definitivo», di riposare nella contemplazione del risultato raggiunto, della verità attinta, del soddisfacimento ottenuto (pp. 27-28). Quest’ultimo è il punto veramente decisivo. Perché in esso si concentrano le questioni irrisolte del rapporto di Croce con Hegel, e perché è proprio con riferimento al tema della dialettica che la curiosa novella hegeliana del 1948 acquista il carattere di un «documento estremamente significativo» (Sasso 1967, p. 81).
Consideriamo in primo luogo l’affermazione con cui l’ospite napoletano enuncia la «terza grande verità» di Hegel, ossia «la risoluzione definitiva del dualismo del positivo e del negativo […] mercé della dimostrazione che il negativo non sta di fronte ma dentro il positivo» (Una pagina sconosciuta, cit., p. 19). Volendola leggere a riscontro della considerazione con la quale, passato a discorrere dei limiti e delle contraddizioni che a suo modo di vedere caratterizzavano l’applicazione in Hegel dei suoi «grandi e fecondi principî», Sanseverino si chiede come ciò sia potuto avvenire. Ci si rende conto del fatto che nella risposta data a questa domanda dal giovane napoletano si annida una concezione del negativo (in questo caso dell’errore) che più che a Hegel sembra ispirata all’interpretazione critica della dialettica hegeliana che Croce aveva proposto nel 1906:
Se la verità giustifica sé stessa e afferma le sue ragioni, l’errore non può narrare la sua genesi di non verità con la quale si confesserebbe errore e si smentirebbe, e il critico, o l’autore fatto critico del proprio pensiero, può ben definire in che un errore consista, ma non già come mai particolarmente sia venuto con lui al mondo. Su questo punto sono possibili solo congetture più o meno astratte e psicologiche, se non ci si voglia contentare di un’affermazione generica, come è quella che ogni errore nasce dal seguire un impulso diverso dal puro pensiero, un impulso di varia sorta ma sempre nel fondo variamente interessato. Se, per esempio, dicessi che l’errore in Lei è nato dall’essersi fatto dominare da tradizionali concezioni religiose […] non avrei spiegato il non spiegabile; perché come mai il suo genio possente, che a tanti convincimenti e preconcetti secolari si è ribellato e li ha abbattuti, sarebbe poi soggiaciuto ad essi in altri casi […]? In verità, di quel che non è accaduto non si può assegnare il perché; e un errore è in ultima analisi un concetto non attuato, cioè presunto, ma non pensato e non accaduto (p. 21).
Il lungo brano qui riportato è molto drastico nella sua conclusione: l’errore non è un fatto, non è qualcosa che accada, dunque non è, senz’altro, qualcosa: è un «non accaduto», un «non pensato», in definitiva un nulla, perlomeno se considerato di per sé. Letta sulla base di questo convincimento, l’affermazione riportata all’inizio, secondo la quale la terza grande conquista speculativa di Hegel (la dialettica) consisterebbe nel non permettere più che il positivo e il negativo vengano presi separatamente e considerati due, acquista un significato chiaro e del tutto consonante con il modo in cui, nel saggio dedicato a Hegel nel 1906 e poi nella Logica, Croce aveva definito il rapporto di opposizione, differenziandolo nettamente da quello di distinzione. Nella «distinzione» i distinti si distinguono nell’atto stesso in cui si «congiungono» in unità, mantenendo il loro diverso profilo. Nell’«opposizione» gli opposti o contrari che dir si voglia si «escludono» e l’uno è la morte dell’altro (Ciò che è vivo e ciò che è morto, cit., p. 16). Ma non si escludono «vicendevolmente»: a ben vedere è uno solo (il positivo) che esclude l’altro, affermandosi come valore attraverso la lotta con il suo opposto e, appunto, l’esclusione di esso che, considerato di per sé (ovvero non in relazione all’opposto che lo nega), non è più un opposto ma un distinto, un altro positivo, per es., un atto di pratica utilità personale anziché un atto logico o l’espressione di un vero e proprio concetto (Logica come scienza del concetto puro, a cura di C. Farnetti, 1996, pp. 84-86). Invece come opposto, ossia in relazione alla verità di cui l’errore è il contraltare, esso è un disvalore, il negativo, qualcosa che, per se stesso, è assolutamente sprovvisto di realtà. Pertanto, il fatto che Croce dica che il positivo non ha il negativo fuori di sé, ma in sé, non significa che sia vera anche la reciproca, cioè che il negativo accolga e ospiti il positivo entro se stesso, perché, al contrario, significa che il negativo è tale in quanto escluso dal positivo e dunque solo in relazione a questo. E che il positivo è tale in quanto nega il negativo, e cioè, ancora una volta, solo in relazione alla negazione di questo. Ora, tutto ciò significa una cosa sola: in una simile relazione il negativo entra esclusivamente nella veste di ‘negato’, appunto, o ‘escluso’ e non in quanto, a sua volta, ‘escludente’ o ‘negante’ il positivo, perché quest’ultima è, invece, la forma esclusiva che, nella relazione degli opposti, riveste il positivo e solo il positivo. È unicamente a questa condizione che, per Croce, gli opposti possono non confondersi con i distinti.
Si comprende allora, sia l’affermazione crociana, contenuta nei Taccuini, secondo la quale, a distanza di oltre quarant’anni, i giudizi sulla filosofia di Hegel, e in particolare sulla sua dialettica, espressi nel 1906 sarebbero ancora interamente condivisibili, sia la perplessità che Hegel, nella novella del 1948, mostra di fronte al modo in cui l’alter ego del giovane Croce gli presenta la propria lettura della sua filosofia e le proprie obiezioni, derivanti da questa lettura:
In queste sue interpretazioni – disse lo Hegel – riconosco il mio pensiero; ma c’è qualcosa di più che io non vi ho messo e che non mi pare di potervi mettere, come l’identificazione della filosofia con la storiografia, e il carattere pratico delle scienze naturali, e il diverso rapporto del razionale col reale nella realtà storica e nell’azione pratica e morale; e soprattutto c’è molto meno di quello che vi ho congiunto come essenziale nel mio sistema (Una pagina sconosciuta, cit., p. 20).
Se prendiamo in mano la Wissenschaft der Logik di Hegel e ci soffermiamo brevemente sulla tanto celebre e celebrata ‘prima triade’ (sulla quale si erano con furore e accanimento impegnati gli hegeliani di Napoli della seconda metà del 19° sec., e primo fra tutti, Bertrando Spaventa), ci accorgiamo con facilità che lì il rapporto oppositivo/dialettico che Hegel delinea fra essere e nulla non assomiglia affatto a quello raffigurato da Croce nella relazione degli opposti. Il vero, dice qui Hegel, non è né l’essere né il nulla e neppure la loro indistinzione, ma il «passaggio immediato» di ciascuno di essi nel suo contrario, l’«immediato sparire» dell’essere nel nulla e di questo nell’essere: la verità dell’essere e del nulla è questo «movimento», e questo movimento è ciò che Hegel chiama «divenire» (Wissenschaft der Logik, 1812-1816, trad. it. Scienza della logica, 1974, p. 71). Gli opposti, qui, sono effettivamente legati in un rapporto simmetrico di assoluta reciprocità. Quella simmetria e reciprocità che Croce, come abbiamo visto, escludeva invece radicalmente dal nesso in cui, per lui, doveva consistere l’opposizione.
Solo che questa esclusione costava a Croce piuttosto cara, perché una volta risolta la dialettica in una negazione statica e già da sempre realizzata del negativo da parte del positivo (che non sarebbe tale se non avesse, appunto, già negato, ossia escluso da sé, il suo opposto, il disvalore di cui esso rappresenta, come valore, la negazione e, insieme, l’unica realtà), il passaggio da un positivo all’altro, da un valore a un altro valore (distinto o successivo) restava un aspetto tanto inesplicato quanto inesplicabile sia dell’esistenza storica sia dell’agire dello spirito che le dava attuazione. Non solo, ma in una realtà fatta esclusivamente di valori, e nella quale il disvalore figurava soltanto come un riflesso negativo, privo di reale consistenza e dipendente solo da uno sguardo in grado di coglierlo e di denunciarlo come tale, si poneva un problema di teodicea, cioè di deduzione e giustificazione del male: qualcosa che, alla luce della dura esperienza rappresentata dalla Prima guerra mondiale, era difficile risolvere in termini di semplice volontà politico-economica.
Da qui l’esigenza, che si andò manifestando in Croce sempre più imperiosa, di recuperare, con la dinamica del passaggio (senza la quale la storia perdeva senso e significato) e con la valorizzazione della sua possibilità, un negativo che non fosse solo il riflesso, pallido e sbiadito, dell’affermarsi del positivo, ma che fosse capace di esibire una propria autonomia e consistenza storica. Recuperare questo avrebbe voluto dire, almeno in parte, recuperare quel gioco di simmetrie e rimandi reciproci che caratterizzava la dialettica nella sua originaria espressione hegeliana. E questo era ciò che Croce, da ormai un decennio, stava cercando di fare e in qualche misura aveva fatto, introducendo, come abbiamo già ricordato, nell’originaria articolazione della sua filosofia dello spirito il motivo deflagrante della vitalità, in parziale sostituzione della categoria dell’utile economico, ovvero della forma, elementare ed egoistica, dell’attività pratica (e quindi della volontà).
Per questa ragione, dunque, le posizioni espresse dal giovane Sanseverino, pro e contro Hegel, nella novella della fine degli anni Quaranta, non potevano essere proprio ed esattamente quelle che il giovane Croce (il Croce quarantenne, del 1906) aveva delineato nel suo primo confronto con il filosofo tedesco. E infatti, al di là delle apparenze e delle convinzioni di Croce, non lo erano. Basta, per rendersene conto, rileggere le righe nelle quali l’ospite napoletano tratteggia, di fronte a Hegel, il terzo dei grandi risultati che grazie a lui la filosofia moderna avrebbe, a suo modo di vedere, conseguito, cioè quello consistente nella scoperta della dialettica. Il senso di questa nuova logica qui viene indicato ricorrendo a espressioni suscettibili di letture diverse. Innanzitutto, asserendo, come abbiamo già visto, che il suo significato più profondo consisterebbe nell’avere definitivamente posto fine al «dualismo del positivo e del negativo» e nell’avere dimostrato «che il negativo non sta di fronte ma dentro il positivo» (Una pagina sconosciuta, cit., p. 19) – parole che possono benissimo interpretarsi in termini coerenti con le posizioni espresse da Croce quarant’anni prima. Ma, subito dopo averle pronunciate, l’ospite napoletano introduce una chiave di lettura dell’intrinsecità del negativo rispetto al positivo che va in tutt’altra direzione, perché attribuisce questa intrinsecità non a ciascuna forma (o a ciascun distinto), ma alla realtà in quanto tale, alla realtà che abbraccia tutte le forme, facendo di questa intrinsecità l’espressione del
divenire, nello sforzo del distacco e superamento di una forma e del raggiungimento di un’altra, quando la forma che deve essere superata e che resiste o cerca di sottrarsi al superamento, si atteggia per ciò stesso come negativa (p. 19).
In questo modo ci troviamo, però, di fronte a una posizione del tutto diversa da quella che Croce aveva proposto quarant’anni prima, perché quello che qui viene detto del divenire e della dialettica consuona, semmai, con una pagina del libro sulla Storia come pensiero e come azione che precede la novella hegeliana di appena dieci anni e che senza dubbio delinea un rapporto tra le forme spirituali tutt’altro che facilmente riconducibile al modo in cui questo rapporto era stato impostato nei primi tre volumi della Filosofia dello spirito. Lì il negativo era interno, come abbiamo già ricordato, a ciascuna forma (a ciascun distinto) e funzionale alla definizione ‘statica’ di un assetto già conseguito, dove restava oscuro il modo di questo conseguimento come pure dell’articolazione del circolo delle forme, che circolavano, appunto, passando l’una nell’altra secondo un certo ordine di successione, senza, però, che di questo passaggio fosse individuata una plausibile ratio (Sasso 1975, pp. 302, 318-24). Nel libro sulla Storia, invece, il negativo si manifesta fra le forme, frutto ma anche fomite del conflitto tra di esse, che si accende nel momento in cui una forma, assolto il suo momentaneo ufficio storico, non si rassegna a essere sostituita da un’altra e resiste all’avvicendamento, trasformando, così, la sua forza ed efficacia positiva in un freno allo svolgimento del corso degli eventi e quindi in qualcosa di negativo. Certo, questo equivaleva a conferire al negativo un’autonomia e una realtà tali da farne il corrispettivo simmetrico del positivo, relativizzando quindi i significati di entrambi questi concetti. Con la conseguenza che una delle accuse rivolte a Hegel dal suo giovane interlocutore, ossia l’impossibilità che il movimento dialettico, concepito come appunto veniva concepito dal pensiero del filosofo tedesco, si appagasse mai in un attimo faustiano di perfezione, o meglio che questo giungesse solo «nell’istante ultimo e definitivo», potrebbe – fatto salvo quest’ultimo riferimento alla conclusione assoluta del processo, che non è, beninteso, una differenza da poco – essere rivolta anche all’idea propugnata in questa pagina dallo stesso Sanseverino, in base alla quale nel trapasso da una forma all’altra
attraverso il purgatorio o l’inferno del niente, o come altro si chiami il potente-impotente negativo dell’essere, […] l’uomo a ogni istante conquista il bene, il bello, l’utile, il vero, e ad ogni istante è a rischio di perderlo se non ne acquista un altro nuovo (Una pagina sconosciuta, cit., pp. 27-28).
Per questo, se la conclusione della novella sembra voler ribadire la più assoluta continuità con l’interpretazione della dialettica proposta nel 1906, e Croce, come voce narrante fuori campo, tornando a parlare per bocca propria e non più attraverso quella del personaggio che aveva inventato, ricostruisce sinteticamente il seguito della storia dicendo che «solo circa un secolo dopo si riprese la tesi che lo studioso napoletano aveva esposto a Hegel nella conversazione di sopra riferita; e si mise in contrasto lo Hegel filosofo con lo Hegel architetto di sistema, lo Hegel vivo, come fu detto, con lo Hegel morto» (p. 34), la situazione concettuale e psicologica che la novella attesta e permette di ricostruire è un’altra e ne ricaviamo una storia diversa. Una storia nella quale la voce del giovane Croce (impersonato, letterariamente, dal giovane Sanseverino) non è più così certo che si saldi senz’altro con quella del vecchio Croce (la voce narrante fuori campo). Perché è senza dubbio vero che se questo è il pensiero e lo scopo che attraversa la novella e anima l’intento che indusse Croce a scriverla, nella sua effettiva esecuzione il disegno che si era proposto di realizzare subisce un’alterazione non voluta, e, come è stato efficacemente osservato (Sasso 1967, pp. 81-84), dietro i tratti del vecchio Hegel, perplesso e reso dubbioso dalle penetranti osservazioni del giovane ospite nei confronti del proprio sistema di pensiero non meno di quanto poteva esserlo nei riguardi delle obiezioni che gli erano state rivolte dal suo non pedissequo seguace napoletano, si intravvedono i tratti del vecchio Croce, insoddisfatto, suo malgrado, del profilo che aveva conferito alla dialettica nella sua filosofia dello spirito, ma incerto e scontento anche del nuovo assetto che, con l’emergere del tema della vitalità e della forza a sé stante del negativo nel quadro del proprio impianto categoriale, lui stesso stava dando alla sua originaria impostazione filosofica. Consapevole, in ultima analisi, nel fondo della propria coscienza speculativa, dell’impossibilità, forse, più che della difficoltà, di saldare (cosa che pure riteneva un obiettivo irrinunciabile) il vecchio al nuovo nel suo cammino di filosofo.
G. Sasso, Passato e presente nella storia della filosofia, Bari 1967.
R. Franchini, Croce interprete di Hegel, Napoli 1974.
G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975.
F. Tessitore, Storicismo hegeliano e storicismo crociano, in Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, 3° vol., Roma 1997, pp. 253-314.
C. Cesa, Hegel, in Il filosofo Croce. Venticinque anni dell’Edizione nazionale delle “Opere”, a cura di M. Torrini, Napoli 2008, pp. 219-38.