Croce: Machiavelli e la storia della filosofia della politica
La filosofia di Benedetto Croce, come la critica più recente ha messo in luce, è ben lontana da quella armonica serenità che nel passato le si attribuiva. Piuttosto presenta i tratti drammatici di un pensiero che, pienamente consapevole della ‘fragilità’ e della crisi della civiltà moderna europea, si impegna a salvaguardarne i valori permanenti.
Tutti vedono e tutti ammettono che il sentimento e l’idea della libertà sono stati, con la grande guerra e dopo la grande guerra, fortemente scossi e turbati nel mondo (B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, 1941, 19452, p. 104).
E la sua concezione della politica ne è un’illustrazione esemplare. «Il pensiero di Croce ci appare dunque come un tentativo di audace risposta a un processo di crisi che, obiettivamente, investiva la politica liberale in Italia e in Europa» (Mustè, in Croce e Gentile, 1993, p. 95). A essere più precisi, si tratta di un processo di crisi che colpisce l’identificazione di politica e Stato nazionale così come si era venuto configurando nel corso dell’Ottocento e che aveva avuto il suo coronamento nella nascita degli Stati tedesco e italiano e di cui effettivamente il liberalismo, nelle sue varie forme nazionali, era stato motore. Dopo la guerra e l’ascesa del fascismo, il forte vincolo, permeato di riconoscenza e venerazione, che legava Croce alla tradizione risorgimentale si incrina. Lo Stato vede scemare, nei suoi scritti, qualsiasi consistenza concettuale. Certo già nella Filosofia della pratica (1909) lo aveva definito «complesso mobile di svariate relazioni tra individui» (Filosofia della pratica. Economica ed etica, a cura di M. Tarantino, 1996, p. 324), tuttavia questa intuizione era rimasta senza conseguenze sistematiche ed era prevalsa l’immagine dello Stato come concrezione della forza e della potenza. Ma, dagli anni 1923-24, la sua meditazione si volge esplicitamente, al pari di altri pensatori europei coevi come Carl Schmitt (1888-1985) o Hans Kelsen (1881-1973), a tematizzare la separazione della politica dallo Stato, a fissarla nella sua purezza categoriale e a ricercarne il passaggio all’etica, non più assicurato dalla forma statale liberale. La prospettiva cui Croce lavora è la formazione di élites politico-intellettuali nella società civile, non più quindi funzionari dello Stato (di qui la sua critica dello Stato etico hegeliano) ma neppure agenti del dissolvimento del nucleo etico-politico (universale-spirituale) della libertà nella dimensione tecnico-giuridico-procedurale, che tanta cultura liberale avrebbe poi propugnato. A questo riguardo ebbe grande eco e influenza la polemica anticrociana sviluppata da Norberto Bobbio in Politica e cultura per promuovere la penetrazione in Italia della tradizione liberale anglosassone (cfr. Bobbio 1955).
Nel 1925 Croce, criticando la teoria di Kay Wallace riguardo il tramonto della politica dovuto allo schiacciamento del «ceto medio» tra plutocrazia e proletariato, scriveva:
Come si può pensare che tramonti mai una categoria spirituale essenziale dell’umanità? […] Intermediaria di questo errore è appunto l’identificazione della “politica” con la classe borghese, col “ceto medio” […]. Il “ceto medio” di cui qui si parla, è una “classe non classe”, simile a quel “ceto generale” […] al quale lo Hegel riconosceva come cerchia dell’attività che gli spettava, come suo proprio affare, gl’“interessi generali” (Etica e politica, 1931, a cura di G. Galasso, 1994, p. 392).
Gli appartenenti a questa «classe non classe» sono individui-istituzioni (p. 132) – veri träger dell’opera – cioè incarnazioni dell’universale che si manifesta in ogni attività o prodotto che trascenda l’empirico o l’accidentale. L’epoca richiede la presenza e l’azione di uomini «morali» che, dotati di virtù pratiche, diffondano in ogni cerchia della vita una visione e uno slancio che le elevi al di sopra delle relazioni utilitarie, così che «anche la parola “Stato” acquista nuovo significato: non più semplice relazione utilitaria […] ma incarnazione dell’ethos umano e perciò Stato etico o Stato di cultura» (p. 268). L’opera di Croce è appunto rivolta a fornire alimento e sprone alla formazione e cura di tali individui-istituzioni, capaci, quindi, di esercitare egemonia, forza e consenso, autorità e libertà, e di rivitalizzare la politica oltre i confini statali. E di questo compito ebbe piena consapevolezza tanto da rivendicarlo con la ferma determinazione che si coglie in questo brano di una lettera a Giovanni Castellano del 1918:
Quanto alla scuola, che tanto sta a cuore a Gentile, perché non ci si mette lui, che è pedagogista e vive in mezzo alle cose di scuola? Ma io, individualmente, sento poco la scuola, o piuttosto preferisco la scuola ai grandi, quella che si fa con la scienza e coi volumi (Maggi 2002, p. 45).
Uno dei corollari della dilatazione dell’etico-politico oltre i confini giuridico-istituzionali dello Stato è la concezione metapolitica del liberalismo crociano che certo rischia di incorrere nella critica di spiritualismo metafisico per la sua indifferenza se non diffidenza verso ogni sedimentazione della libertà in istituti determinati e in particolare per la sua ostilità a ogni contaminazione della libertà con la democrazia (Bobbio 1955; Sartori 1966; Alfieri 1967). Ma nello stesso tempo manifesta il lucido disegno di slegare l’ideale della libertà da ogni vincolo storicamente definito, sia esso il mercato o gli istituti liberal-democratici, per destinarlo alla formazione di élites eticamente – meglio sarebbe dire religiosamente – dedite al Bene, all’Universale, la vera risorsa scarsa del tempo presente. Croce accompagna alla critica dell’istituzionalizzazione statale della politica e della riduzione del liberalismo alle procedure giuridiche e alla difesa dei diritti il rifiuto di ogni etica moralistica, immettendo a pieno titolo il tema del potere nel pensiero filosofico e storico. E la storia della filosofia della politica da lui delineata mostra in concreto il prendere corpo di questa concezione sia della filosofia sia della politica.
È Niccolò Machiavelli l’autore che Croce reputa «scopritore» – nel significato metaforico che attribuisce a questo termine in quanto, contro ogni filosofia della storia e contro ogni commistione di tempo e concetto, per lui non si dà scoperta «dei valori e categorie spirituali che sono operosi in ogni istante della vita e dei quali si ha sempre in qualche modo conoscenza» (B. Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, 1952, p. 167) – dell’eterna categoria spirituale dell’utile/politico e in tale veste lo innalza alla dignità di filosofo. Inizialmente frequentato nelle pagine della Storia della letteratura (1870-1871) di Francesco De Sanctis, Machiavelli acquista, agli occhi di Croce, spessore filosofico attraverso la mediazione di Karl Marx. Tra la fine dell’Ottocento e la prima decade del Novecento, il filosofo si cimenta, come è noto, nello studio dei testi marxisti sviluppando un’interpretazione che sboccherà nella radicale revisione critica dei concetti fondamentali del materialismo storico e della critica dell’economia politica. Ridotta la pretesa filosofica del marxismo a «empirico canone di interpretazione» storica, il nucleo vitale del marxismo gli si rivelava espresso da una dottrina dalle precise finalità politiche; Marx aveva affermato un principio della storia non di natura economica ma schiettamente politico, cosicché il valore storico del marxismo consisteva nella penetrazione della «realtà effettuale».
Egli [Marx] insegna, pur con le sue proposizioni approssimative nel contenuto e paradossali nelle forme, a penetrare in ciò ch’è la società nella sua realtà effettuale. Anzi, per questo rispetto, mi meraviglio come nessuno finora abbia pensato a chiamarlo, a titolo d’onore, il “Machiavelli del proletariato” (B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, a cura di M. Rascaglia, S. Zoppi Garampi, 2001, p. 118).
E nella prefazione del 1917 alla raccolta di scritti sul Materialismo storico specifica:
Nella concezione politica poi, il marxismo mi riportava alle migliori tradizioni della scienza politica italiana, mercé la ferma asserzione del principio della forza, della lotta, della potenza, e la satirica e caustica opposizione alle insipidezze giusnaturalistiche, antistoriche e democratiche, ai cosiddetti ideali dell’89. […] Perciò tutti i pensatori che hanno instaurato o restaurato il concetto della forza, si chiamino Machiavelli, Vico o Carlo Marx, sono stati benemeriti della scienza politica (Materialismo storico, cit., pp. 13 e 15).
Appare dunque altamente significativo che, nell’abbozzo storico disegnato da Croce nel saggio Sulla storia della Filosofia della politica - Noterelle, pubblicato per la prima volta sulla «Critica» nel 1924, sia Machiavelli a inaugurare l’alba dei tempi nuovi, a rappresentare una «forte crisi nello svolgimento della scienza» (Etica e politica, cit., p. 291). La cesura, provocata dall’epoca moderna nella vita dello spirito, è drammaticamente impersonata dal Segretario fiorentino poiché è con lui che «l’antinomia tra politica ed etica» si manifesta con la sua carica dirompente. Benché la distinzione tra queste due sfere «fosse nota all’antichità quell’antinomia non assurse mai al primo piano, non formò centro di travaglio e di meditazione». Machiavelli, «schietta espressione del Rinascimento italiano», partecipò «a quel generale bisogno che si avvivò nell’età sua, fuori d’Italia e in Italia, a conoscere l’uomo e a ricercare il problema dell’anima» (p. 292). In effetti Machiavelli con la sua scoperta della «necessità e l’autonomia della politica» inaugura la modernità poiché attua il passaggio dalla trascendenza all’immanenza e, con esso, apre all’instabile e precaria ricerca di mediazione ed equilibrio tra particolare e universale, tra utile ed etico, apre insomma al dramma storico moderno, in bilico tra ethos e kratos (etica e potenza). Non è gesto teorico di poco momento attribuire all’opera di Machiavelli – autore fino ad allora non solo trascurato, se non maltrattato – valore filosofico, anzi elevarla a «vera e propria fondazione di una filosofia della politica». Convergono in questo giudizio non solo la volontà di sancire l’ingresso dell’utile nel novero delle categorie dello spirito, ma anche la concezione crociana dell’identità di filosofia e di storia della filosofia, come era stata delineata negli scritti di Teoria e storia della storiografia (1917), e in particolare quel «nuovo concetto di filosofia» che
invita a rivolgere l’attenzione a pensieri e pensatori che sono stati a lungo trascurati o tenuti in grado secondario e considerati non propriamente filosofi perché non trattarono direttamente del “problema fondamentale” della filosofia o del gran peut-être, e si occuparono nei “problemi particolari” […]. È semplice effetto di pregiudizio stimare un Machiavelli […] o un Pascal […] o un Vico […] per filosofi minori […] di un Cartesio o di uno Spinoza […]. Alla filosofia come metodologia deve corrispondere una storia della filosofia […] che consideri filosofia non solo ciò che attiene al problema dell’immanenza e trascendenza, del mondo e dell’altro mondo, ma tutto ciò che è valso ad accrescere il patrimonio dei concetti direttivi e l’intelligenza della storia effettiva, e a formare la realtà di pensiero nella quale viviamo (B. Croce, Teoria e storia della storiografia, 19543, pp. 152-53).
La trasparente polemica con Gentile e con la storia della filosofia «schematica e scheletrica» proposta dall’attualismo rende evidente che a Croce interessa ricavare «concetto», cioè visione egemonica etico-politica, da ogni ambito della realtà che, quindi, nella sua interezza diviene degna di trattazione filosofica. D’altra parte egli critica l’idea di una storia della filosofia in generale, qual è delineata da Georg Wilhelm Friedrich Hegel, per l’«introduzione nella storia di qualcosa di superiore alla morale» (B. Croce, Filosofia e storiografia, 1949, p. 146). Il residuo teologico che ancora inquina, a suo giudizio, la speculazione hegeliana lascia spazio nella storia a un volontarismo divino che autorizza deroghe alla legge morale. Esistono, per il filosofo napoletano, solo umanissime storie dei particolari concetti filosofici, quindi storie particolari che confluiscono nell’unica storia del pensiero che non ha alcuna esistenza indipendente da esse e sulle quali si esercita il giudizio storico.
Orientandosi su questa bussola sistematica Croce afferma, e lo ripeterà lungo tutto l’arco della sua vita, che l’immortale opera filosofica di Machiavelli è racchiusa nell’affermazione dell’autonomia della politica dalla morale e dalla religione.
Ma in cosa consiste dunque la politica? O meglio, come egli precisa, in cosa consiste l’azione politica?
L’azione politica non solo è azione utile, ma questi due concetti sono coestensivi, né si sarà mai in grado di addurre alcun carattere che distingua la prima nell’orbita della seconda […]. Vano sarebbe tentare, come si suole, di distinguere le azioni politiche tra le altre pratiche e utilitarie, determinandole come quelle che si attengono alla vita dello Stato; perché che cos’è effettivamente lo Stato? Nient’altro che un processo d’azioni utilitarie di un gruppo di individui o tra i componenti di esso gruppo (Etica e politica, cit., pp. 251-52).
Non è dunque lo Stato, sia che lo si intenda come complesso di istituzioni e leggi, sia come personalità sovraindividuale, a circoscrivere e definire il campo della politica ma sono le azioni utili, in base alla definizione dell’utile fissata da Croce quale categoria dello spirito nella Filosofia della pratica. La riduzione trascendentale dello Stato a complesso di azioni utili non è frutto della ‘svolta’ del 1924, di una dirompente novità nel suo atteggiamento prodotta dal consolidamento del fascismo al potere, ma è un tratto costitutivo della sua filosofia dello spirito (Sartori 1966, pp. 34 e segg.). Tuttavia solo con gli Elementi di politica (1925) il discorso crociano acquista sistematicità e coerenza, proponendosi nuove finalità. Sotto questo profilo è da sottolineare la nettezza con cui Croce equipara, senza alcun residuo, nella volizione/azione utilitaria (particolare) il politico all’economico. Giovanni Sartori, in un suo volumetto del 1966, aveva lucidamente richiamato l’attenzione su tale riduzione ritenendola l’aspetto ‘moderno’ di Croce:
La identificazione di economia e politica è sì proclamata all’insegna della Realpolitik, in nome del realismo politico e della tradizione machiavellica; ma […] riflette […] la progressiva economizzazione della Weltanschauung della civiltà occidentale, correlativa alla progressiva erosione del primato dell’etica (kantianamente intesa) (Sartori 1966, p. 116).
Ma l’identificazione può essere letta anche in senso rovesciato come capacità di penetrazione pervasiva della politica anche nella sfera economica. Croce, memore della lezione di Marx e Machiavelli, si rifiuta, nonostante la sua iniziale simpatia per gli economisti neoclassici, di considerare l’ambito dell’economia un terreno neutro in cui agiscono presunte leggi di tipo meccanicistico misurabili quantitativamente. Nello scambio polemico con Vilfredo Pareto aveva già a suo tempo sostenuto che
il fatto economico è l’attività pratica dell’uomo in quanto si consideri per sé […]. Il concetto di utile, o di valore, o di ofelimo non è altro se non l’azione economica stessa, in quanto ben condotta (Materialismo storico, cit., p. 231).
L’utile perdeva i tratti che la teoria ‘pura’ economica gli aveva assegnato, per assumere il profilo filosofico di categoria dello spirito, momento eterno di lotta tra interessi, volizioni confliggenti. E sotto questa veste la politica, per Croce, si diffonde ben oltre il perimetro statuale, richiedendo come suo necessario completamento e superamento un’elaborazione etica, ovvero la formazione di intellettualità diffuse capaci di egemonia.
«L’attività pratica, per nobilissima che si pensi, è sempre un operare, un fare, un produrre muto e alogico» (B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, 1996, p. 305). L’affermazione della netta distinzione di teoria e prassi costituisce l’altro principio che struttura la peculiare concezione crociana della politica. Nella Filosofia della pratica viene sviluppata una teoria della volontà assolutamente puntuale e alogica di modo che ogni «disegno» risulti escluso dalla volizione/azione:
L’uomo opera caso per caso e d’istante in istante, attuando la sua volontà di ogni istante e non già quel concetto astratto che si dice disegno. Da ciò anche la conferma, che non è possibile fornire modelli o tipi fissi di azione: colui che cerca e aspetta codesti modelli e tipi è un individuo che non sa volere […]. Sembrerà che per tal modo la volizione diventi volizione dell’incognito e si contrasti troppo paradossalmente ai detti, fulgidi di tanta evidenza, della voluntas quae non fertur in incognitum e della ignoti nulla cupido. Ma questi detti sono veri solo in quanto confermano che senza la precedenza dell’atto teoretico l’atto pratico non nasce […]. La volontà è volontà dell’incognito; vale a dire è sé medesima, la quale in quanto vuole, non si conosce, e si conosce solamente quando ha effettuato il volere (Filosofia della pratica, cit., p. 51).
Benché Croce sottolinei che la precedenza dell’atto teoretico nel circolo dello spirito assicura alle azioni umane una base di razionalità (Mustè, in Croce e Gentile, 1993, pp. 102-04), la teoria è e rimane separata dalla pratica e la volontà si afferma come tale nella misura in cui resta estranea a ogni oggettivazione, a ogni incapsulamento in forme predeterminate dalla ragione. I presupposti della sua filosofia della pratica rendevano la volontà, tutta passione e spontaneità, inadatta alla razionalità della previsione come alla dimensione sovraindividuale. Dalla concezione politica crociana esulava il momento «della formazione e della determinazione della volontà collettiva: il piano, l’organizzazione, i programmi, le idealità di azione» (Abbate 1955, p. 111). Nasce da tale impianto filosofico la sua teoria delle ideologie.
Aristocrazia, democrazia, conservatorismo, progressismo, liberalismo, socialismo, militarismo, imperialismo, e via discorrendo sono astrazioni; e la realtà è l’uomo che vuole vivere meglio (B. Croce, Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, 1993, p. 186).
Le ideologie non hanno alcuna consistenza né pratica né tantomeno teorica, sono soltanto delle schematizzazioni astratte che vengono sovrapposte, per consuetudine e per risparmiare lavoro, al solo dato effettivamente esistente e operante: l’uomo di buona o cattiva volontà. Ancora più radicalmente critica è la valutazione dei partiti politici che, fuori dalle analisi e classificazioni dei sociologi, non hanno alcuna utilità, anzi:
Quando poi non si tratti né di costruire sociologie né di accettare risultati, ma di cercare che cosa si debba promuovere praticamente nel proprio paese, e di promuoverla col fatto, operando politicamente, [i partiti] sono concetti estranei, che bisogna allontanare dalla mente (pp. 186-87).
Il massimo riconoscimento che Croce è disposto a concedere all’esistenza dei partiti è quello di essere
modi offerti alle varie personalità per foggiarsi strumenti d’azione e affermare sé medesime […]. Quel che vale è, dunque, il vigore della personalità, in cui si raccoglie e si esprime l’ideale etico: i partiti (si suole ammettere) sono quel che sono gli individui che li compongono e li impersonano (Etica e politica, cit., p. 277).
Come commenta molto opportunamente Marcello Mustè:
Le ideologie e le culture dei partiti, nonché la dialettica attraverso cui essi si urtano o si alleano, vengono ricondotti a un dato metafisico, per il quale permangono sempre e immutabilmente astratti […]. L’interesse generale non è il risultato della dialettica politica, ma si costituirebbe scartando e trascurando le lotte tra i partiti (Mustè 1990, p. 109).
Il dato metafisico è appunto costituito sia dalla distinzione di teoria e pratica, che non permette alcuna forma di rapporto tra le idee e le volizioni, sia dalla puntualità dell’azione individuale. Gli individui sono e permangono l’unica realtà, tutte le entità sovraindividuali sono astrazioni intellettualistiche, meri strumenti che possono essere d’ausilio allo storico o al politico nei loro rispettivi campi di azione. Certo gli individui di cui parla Croce non vanno confusi con quelle esili figure, quegli atomi naturalistici che animano la scena del contrattualismo e del giusnaturalismo, bersagli di una costante e feroce critica.
L’individuo ritrova la sua personalità nella funzione storica e solo per essa, ha diritti e libertà […]. L’elogio dell’individuale rimane limitato alla sola sfera etico-politica, all’opera del poeta, del pensatore, dell’uomo politico e morale, cioè di una élite, anche se dedita ai valori oggettivi (Bruno 1975, p. 17).
Come è stato acutamente segnalato (Sasso 1975, pp. 719 e segg.) tra l’azione che è l’opera del singolo e l’accadimento – l’insieme di tutte le volizioni, la loro integrazione e risoluzione in una realtà che le trascende – che è «l’opera del Tutto […], di Dio» (Filosofia della pratica, cit., p. 68) si apre uno iato che non trova convincente mediazione sul piano politico. Il puntuale agire individuale incontra il suo senso e la sua effettiva conclusione etico-politica non in una qualche concrezione collettiva ma solo nel grande fluire della storia e della vita, e nel giudizio che lo storico elabora.
Nella sistemazione più matura di Croce, si rende particolarmente chiaro che la libertà, in quanto tale, si manifesta nell’attività scientifica, nell’identità di filosofia e storiografia, che sarà bensì l’opera di un individuo, ma non certo l’individuo stesso. Anzi, mercé la storiografia […] l’individuo acquista la sua libertà solo in quanto consuma, nel pensiero vivo, l’elemento empirico e materiale della propria individualità (Mustè, in Croce e Gentile, 1993, p. 112).
Secondo Croce, il fine della filosofia della politica consiste
nel rendere trasparente la storia dell’attività pratica umana nella sua duplice forma, di storia economica e meramente politica, e di storia etico-politica o morale […]. Fine che questa non deve più attuare per la prima volta nell’avvenire, ma che ha attuato sempre, perché sempre si è pensata la storia […], sempre si è filosofato sulla politica e sulla morale, e sempre si è avuta coscienza […] dell’esser loro proprio (Etica e politica, cit., pp. 281-82).
Il profilo della storia del pensiero politico prende così forma: si tratta di una filosofia della politica e non di una filosofia politica, poiché una filosofia normativa è una pseudofilosofia in quanto confonde momento teoretico e azione politica sotto le vesti di un ideale; riguarda l’attività pratica dello spirito e non i suoi risultati, le categorie spirituali e non le istituzioni giuridiche e politiche; non le dottrine ma i concetti puri, e pertanto va distinta accuratamente dalla «Scienza empirica della politica». Croce fornisce anche un «semplicissimo» criterio per distinguere i concetti filosofici da quelli empirici: «I concetti filosofici sono sempre legati ai loro contrari, e gli empirici mai» (Indagini su Hegel, cit., p. 165). I concetti empirici si limitano a classificare e schematizzare la realtà vivente, imponendo delle tipologie del tutto fittizie, come per es. i vari tipi di Stato o di governo oppure le varie di forme di vita sociale.
Tutte codeste classi e leggi e questioni e problemi classificatori e normativi formano, dunque, l’argomento della S c i e n z a d e l l a p o l i t i c a […]. In tempi recenti alla P o l i t i c a, come era tradizionalmente denominata, si è aggiunta, compagna e rivale, la cosiddetta S o c i o l o g i a, la quale, nella piccola parte in cui non è affatto spregevole, deve considerarsi come un tentativo di allargamento della vecchia scienza verso i tipi e le leggi di alcune forme di vita […] che erano state neglette (Etica e politica, cit., pp. 284-85).
La scienza della politica e la sociologia, dunque, sono escluse dalla filosofia della politica perché prive di concetto, mentre la storia delle tendenze pratiche è parte integrante della storia politica o etico-politica perché le ideologie, come si è visto, non sono altro che slanci della volontà travestiti da teorie.
Si richiede, senza dubbio, sottile discernimento per desumere dai documenti letterari solo quello che ha valore speculativo nel filosofare sulla politica, e di quello soltanto indagare il nesso e seguire la storia. Ma chi non tollera le teorie-guazzabuglio non vuole tollerare nemmeno le storie-guazzabuglio (p. 316).
Poiché concerne lo spirito, la filosofia della politica si converte in storia della filosofia della politica, in storia del suo farsi. Attraverso la storia degli autori o meglio delle opere vengono portate alla luce le eterne forme che strutturano e governano il moto della storia. Fondamentalmente attraverso l’abbozzo, la schematica galleria di una serie di autori, maggiori e minori, accostati senza alcuna notazione gerarchica, da cui estrarre l’essenza filosofica, Croce dà corpo storico alla sua idea del farsi eterno della libertà, nella dialettica permanente di politica e morale, di lotta tra utile, il particolare, e morale, l’universale, che trova finalmente nello storicismo assoluto la sua forma filosofica adeguata.
Che cosa era necessario perché quell’ideale [della libertà] trovasse rispondenza e sostegno in una filosofia? Che la negazione del trascendente, che esso faceva praticamente, fosse fatta logicamente e la filosofia concepita come un assoluto immanentismo: […] uno spiritualismo che sia storicismo assoluto (Il carattere della filosofia moderna, cit., p. 114).
Croce inaugura con la figura di Machiavelli la galleria di autori che compaiono nelle Noterelle. In tal modo segnala che solo nell’epoca moderna la politica manifesta la sua autonomia come categoria dello spirito e l’utile si configura come forma del desiderio. Con Machiavelli è l’emancipazione della forza, della spinta vitale dal controllo esercitato dalla Chiesa in nome di una morale trascendente che afferma il suo pieno diritto. Ma il Machiavelli degli anni Venti e ancor più degli anni successivi non esaurisce il suo profilo, la sua categoricità storica in tale «scoperta» e isolamento dell’utile. È piuttosto il filosofo che enuncia, con piena consapevolezza, il problema storico che con la modernità si apre: la dialettica di politica e morale, ovvero dell’ergersi irrisolto di due autonomie, quella dell’utile/particolare e quella della morale/universale, la trascendenza immanente.
Il Machiavelli, dunque, non sacrificò la morale alla politica, ma dell’una e dell’altra ammise l’autonomia, e quello che in lui manca è l’esigenza di mediare le due autonomie, che non si potevano lasciare l’una accanto all’altra, l’una come una realtà da accettare, l’altra come un desiderio insoddisfatto ma fondamentale (Indagini su Hegel, cit., p. 170).
Nella duplice scoperta di Machiavelli è racchiusa la molla che guida la storia della filosofia della politica di Croce: l’autonomia e la distinzione di utile e morale, e l’esigenza della loro mediazione o composizione salvaguardando la libertà dello spirito. Ciò significava escludere non soltanto le soluzioni materialiste, come il marxismo, ma anche quelle contrattualiste, poiché il loro egualitarismo individualista cancella il necessario esercizio di egemonia delle élites culturali, sole depositarie dell’ideale della libertà. Era anche esclusa la mediazione hegeliana di storia e filosofia che nella razionalità dello spirito oggettivo, nello Stato etico, trova la conciliazione di particolare e universale.
Di qui il ruolo centrale assegnato a Giambattista Vico (1668-1744) e il rilievo assunto dai teorici italiani della ragion di Stato, in particolare da Lodovico Zuccolo (1568-1630). I «pedanteschi e disprezzati e vituperati» trattatisti italiani della «ragion di Stato» avevano prodotto un’elaborazione che aveva fissato in maniera definitiva la distinzione della politica dalla morale.
La morale è la morale e la politica è la politica. La quale conclusione, pur nel perpetuo risorgere e rinnovarsi dei dubbi e dei problemi, non è stata sostanzialmente mai più perduta (B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, 1929, a cura di G. Galasso, 1993, p. 133).
Tuttavia la valorizzazione, attraverso lo Zuccolo,
dell’opzione che distingue politica e morale ma che tra loro pone un rapporto, tende da una parte a dare una risposta al tragico dualismo di ethos e kratos che emergeva dall’opera di Meinecke; dall’altro a recedere dalla pura concezione dello Stato-potenza (Falaschi, in Croce e Gentile, 1993, p. 187).
I trattatisti italiani, con il loro acuto senso del realismo unito a un’avvertita coscienza morale, svolsero un’importante funzione storica, lasciando intravedere un’altra possibile via alla modernità rispetto alle nuove dottrine giusnaturalistiche che scambiavano «le costruzioni giuridiche con la realtà, e dei modelli di stati da formare o da riformare con gli stati reali» (Storia dell’età barocca, cit., p. 291).
Chi aprì davvero con la forza dell’«uomo di vero genio filosofico» il cammino dell’epoca nuova fu Vico. Conoscitore profondo delle novità filosofiche introdotte da Cartesio e dal cartesianesimo, ne colse appieno i limiti e oppose alla coscienziale struttura del cogito la possente concezione processuale della mente che si fa storia dell’umanità. Nella Scienza nuova (1725) Vico dialettizza i termini del contrasto, radica l’etica «nelle forme sensuali e passionali dello spirito» e ritrova gli elementi del bene e di una morale superiore anche là dove il superficiale e astratto intellettualismo, il cartesianesimo dei teorici del diritto naturale, vede solo barbarie. La dimensione etico-politica acquisisce così quella robustezza che invano si cercherebbe nell’esile ragione giusnaturalistica. La Provvidenza vichiana, nell’interpretazione di Croce, viene a esprimere la fiducia nel potere della cultura di leggere la storia, di non soccombere all’avanzare del ‘male’ e di indicarne il senso. E Vico è l’anello di congiunzione del grande pensiero filosofico e scientifico del Rinascimento italiano con la filosofia idealistica e storicistica tedesca.
Con l’avversione all’intellettualismo, alla prosaicità e all’esprit della letteratura francese, con la conquistata coscienza della grande poesia e della poesia primitiva […], con lo storicismo, col concetto della filosofia che dev’essere insieme filologia cioè storia, egli oltrepassa il suo tempo […] e dà una mano alla filosofia idealistica e al romanticismo (Storia dell’età barocca, cit., p. 295).
Con Jean-Jacques Rousseau e Hegel, in modi diversi, il corso della storia della politica prende, secondo Croce, vie sbagliate o senza più uscita. Rousseau è l’incarnazione del diritto naturale, un’escogitazione della pura ragione lontana da qualsivoglia realtà, il prototipo di tutti gli «ideali cosiddetti democratici» e di costruzioni razionali avulse dalla storia, ideali e costruzioni «semplicemente assurde» (Etica e politica, cit., p. 300). Il loro sbocco naturale è stato la rivoluzione, il giacobinismo e il Terrore. Non a caso, in accordo con questa visione della storia, Croce ha espunto dalla Storia d’Italia le istanze democratiche risorgimentali e dalla Storia d’Europa il momento della Rivoluzione francese.
Le istanze democratiche e quelle comuniste erano per Croce estranee allo sviluppo dello “spirito”. Ma traspare […] la consapevolezza di un’estraneità diversa: nel caso delle istanze democratiche si tratta dell’intelletto, dello spirito analitico che divide e mortifica il vivente; nell’altro caso si tratta dell’irrazionale in senso stretto, della forza vitale che spinge al nuovo, ma che deve essere disciplinata dalle forze propriamente spirituali (Valentini 1966, p. 63).
Sono dunque gli storici della Restaurazione a esprimere la migliore sintesi dell’epoca postrivoluzionaria. In questo profilo di una filosofia della storia liberale non dominano più gli Otto von Bismarck e gli Helmuth Johann von Moltke, ma figure che incarnano uno sviluppo bene ordinato e retto da ideali etici. «Questo storicismo ha una sua età assiale, la restaurazione; ha il suo “eroe”, la classe media e colta […] di alta ispirazione morale» (Valentini 1966, p. 68).
Neppure Hegel compare tra gli ‘eroi’ dell’età liberale. Croce gli riconosce vigore speculativo e genialità filosofica, ma giudica un fallimento il suo tentativo di risolvere l’antinomia tra politica e morale nella figura dello Stato etico, nella sostanziale subordinazione dello spirito allo Stato, ovvero nella burocratizzazione del ceto colto.
Dallo Hegel filosofo è da distinguere lo Hegel pubblicista e politico, che i seguaci della teoria dello Stato etico ancor oggi confondono, identificando le vere e profonde critiche che lo Hegel mosse all’individualismo astratto o atomistico della dottrina politica del Rousseau con il suo atteggiamento […] verso la politica del suo tempo e gli ideali che egli stimava da promuovere per l’avvenire (Etica e politica, cit., p. 305).
La distinzione interna al pensiero di Hegel, al pari di altri filosofi, Croce la rivendica sul piano metodologico: in un autore va colto e selezionato ciò che ha valore speculativo e solo di questo si deve fare storia filosofica. Si tratta di un’ulteriore conseguenza della negazione della «compatta unità dei sistemi filosofici» e dell’applicazione del criterio del ‘ciò che è vivo e di ciò che è morto’ in un autore, in quanto è «unico principio del pensiero e della filosofia il pensiero stesso nella sua eterna ed universale natura» (Filosofia e storiografia, cit., p. 58). È soprattutto per colpire Gentile e la sua mistica dello Stato fascista che qui Croce pare apprezzare lo Hegel filosofo a scapito dello Hegel politico; in realtà egli è duramente critico anche nei confronti del nucleo filosofico del pensiero politico hegeliano: la deduzione razionale degli istituti storici della società e dello Stato moderni. La sua riforma della dialettica si era, sin dalle origini, appuntata al carattere metafisico e teologico della dialettica del concetto ritenuta una «costruzione dialettica dell’empirico» e una delle manifestazioni più chiare dell’innalzamento dell’empiria in speculazione è rappresentata, agli occhi di Croce, dallo spirito oggettivo hegeliano.
È sintomatico della prospettiva elitistica con la quale Croce inquadra la storia del pensiero politico il singolare spazio concesso a Karl Ludwig von Haller (1768-1854), figura minore di teorico tradizionalista e controrivoluzionario, aspramente criticato da Hegel per il suo rifiuto di qualsiasi formalismo giuspositivista e per la sua riduzione dello Stato a mero fatto naturale. Da Croce è invece in un certo senso riabilitato quale strenuo oppositore della moderna architettura giuridico-politica dello Stato e sostenitore del governo delle aristocrazie.
Per lo Haller, che non ammette governi di democrazie ma solo di aristocrazie, lo stesso sistema rappresentativo è semplicemente un’altra parola per designare l’aristocrazia in grembo a un’associazione finta, o almeno, estesa da una finzione. E si spaccia dello “stato di natura”, che aveva avuto tanta parte nelle speculazioni dei due secoli precedenti […]. In genere, gli scrittori reazionari sono da leggere per il forte sentimento che li anima dello Stato come autorità e consenso insieme, e come istituzione che trascende il libito degli astratti individui; oltre che pel loro antiegalitarismo e per loro antigiacobinismo (Etica e politica, cit., pp. 310-11).
Così come sono l’antiegalitarismo e in particolare l’antindividualismo ad animare il giudizio su Benjamin Constant che illumina uno dei tratti più significativi e più controversi del pensiero politico crociano: la natura idealistica del suo liberalismo. Croce separa e contrappone Constant al liberalismo di matrice anglosassone – soprattutto a John Stuart Mill, avversato per la fondazione utilitaristica dell’etica e disprezzato per «la sconclusionatezza mentale a lui consueta e che a molti è sembrata acume ed equilibrio» (Filosofia della pratica, cit., p. 284) – poiché nel determinare la novità del carattere della libertà dei moderni l’ha riposta
in una totalità e universalità del sentire e del fare libero […] e per aver inteso che la libertà moderna mira a ben altro che alla cosiddetta felicità degli individui, s’indirizza al perfezionamento umano, e, insomma, non è edonistica ma etica (Etica e politica, cit., p. 342).
Constant, che nella vulgata liberale è il cantore della supremazia della libertà dei moderni rispetto alla libertà politica degli antichi, assume invece in Croce il profilo del severo censore della «trascuranza e indifferenza che il godimento della libertà personale o civile può indurre negli animi verso la partecipazione al potere politico» (p. 245) fino a reinstaurare il senso antico della libertà come permanente correttivo alla degradazione indotta dall’arbitrio e dal godimento individuale. Mentre l’aspra critica della teoria generale dello Stato di Georg Jellinek (1851-1911) serve a Croce per ribadire, da un lato, l’astratta pochezza della trattazione giuridica del tema della libertà rispetto a quella filosofica e storica e, dall’altro, a stroncare ogni tentazione, accarezzata dai «dotti tedeschi», di utilizzare il mito della bella unità greca per favorire «concezioni politiche autoritarie e reazionarie» (Etica e politica, cit., p. 350).
Da questo abbozzo di storia del pensiero si comprende chiaramente l’idea coltivata da Croce riguardo al presente storico: la versione contrattuale-procedurale del liberalismo gli appare troppo esile e inadeguata a fronteggiare le potenze dell’epoca moderna, quelle antinomie che si inscrivono nel nome di Machiavelli. Antinomie che sono all’origine di una duplice deriva: la frammentazione individualistica e utilitaria della libertà come totalità ideale e la compressione autoritaria della libertà nel principio della forza. La sua persuasione è che soltanto élites diffuse ed educate alla religione della libertà siano in grado di approntare di volta in volta le strumentazioni più adatte a tenere sotto controllo e a plasmare eticamente le forze della vitalità.
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