Croce: «Napoli nobilissima»
Nella prima biografia che nel 1909 lo consacrava protagonista di un’altra e nuova Italia, distesa da uno degli ex giovanotti del «Leonardo», Giuseppe Prezzolini, si sottolineava un legame diretto tra il ruolo preminente che Benedetto Croce stava assumendo e lo «starsene dei mesi a tu per tu coi commedianti e cantanti dei teatri di Napoli», il «ripulire dalla leggenda i patrioti napoletani del 1799» oppure lo «stabilire la vera storia di Pulcinella» (G. Prezzolini, Benedetto Croce, 1909, pp. 3-4). Da quei mesi, divenuti «dodici anni», Croce aveva imparato «due cose molto importanti: il rispetto della storia e il disgusto dell’erudizione cieca». Alla prima deve il «far combaciare la filosofia con la storia dello spirito umano», nel vedere nella storia la «pietra di paragone della verità della filosofia» (p. 7). Alla seconda il tornare alla storia «attraverso la meditazione», ma senza farle fare «un balzo dalla parte opposta», mantenendo «onestà e scrupolosità di metodo», «tutte qualità dei filologi» (p. 4). Prezzolini non metteva in evidenza – non lo interessava – che quei lavori eruditi, come nei tre esempi citati, erano tutti o quasi di storia napoletana, il cui compito era consistito in negativo nel far «disgustare» Croce, e in positivo in una sorta di allenamento o disciplina. Erano i due elementi che pochi anni dopo il medesimo Croce avrebbe messo in risalto nel Contributo alla critica di me stesso, tracciando di propria mano quanto lì adombrato:
di gran lunga più efficace fu pel mio svolgimento spirituale l’aspetto negativo di quei lavori, perché debbo ad essi […] se in me prese vigore il sentimento […] che la scienza dovesse avere forma e valore ben diverso da quelle estrinseche esercitazioni erudite e letterarie (1918, 19262, p. 30).
Un effetto magari terapeutico quando, «lasciata la politicante società romana, acre di passioni», era entrato «in una società tutta composta di bibliotecari, archivisti, eruditi, curiosi, e altra onesta e buona e mite gente» (p. 27). Di tono diverso, meno attento al proprio «svolgimento spirituale» tracciato nel 1918, nelle Memorie della mia vita quell’«onesta e buona e mite gente» si personificava in «amicizie carissime di galantuomini disinteressati, entusiasti, leali, quali il compianto Capasso, il De Blasiis, il De la Ville, Giustino Fortunato, ed altri» (Memorie della mia vita: appunti che sono stati adoprati e sostituiti dal “Contributo alla critica di me stesso”, 1966, p. 15). Né mancava in quelle pagine, poi non utilizzate, qualche nota quasi pittoresca della sua vita di allora: venticinquenne,
condussi la vita di un vecchio. Abitavo sul Vomero (non c’era colà ancora la funicolare), e la mattina di buon’ora mi recavo all’Archivio di Stato, e di là alla Società Storica, e spesso nel pomeriggio alla Biblioteca Brancacciana: la sera, o a piedi o sull’asino, tornavo a casa. Ero come assopito in quelle ricerche sul passato, di cui indagavo volentieri anche i pettegolezzi e gli aneddoti (p. 15).
Da Roma Antonio Labriola lo incalzava, ammonendolo: «per mancanza di gusto vero, e di idee pensate, ci contentiamo di erudizione morta, fatta da eruditi, che salvo il caso rarissimo dei Raina, dei D’Ancona e di pochi altri, non meritano fiducia» (lettera del febbraio 1886, in A. Labriola, Carteggio, 2° vol., 1881-89, a cura di S. Miccolis, 2002, p. 323). Nel mezzo di quell’orgia di erudizione, Croce confidava a Donato Jaja, fedelissimo allievo di Bertrando Spaventa:
è tempo che mi circoscriva in un campo di studi o magari in due, ma che mi circoscriva. E avendo riguardo agli studi fatti finora e alle mie tendenze… ho stabilito di fare due generi di studi, da menare innanzi, alternando: studi storici riguardando la storia intima d’Italia, degli ultimi tre o quattro secoli, e studi filosofici, riguardanti principalmente la filosofia della storia e la filosofia dell’arte (lettera del 23 giugno 1892, cit. in E. Garin, Intellettuali italiani del XIX secolo, 1974, p. 6).
Quell’ostentata aridità di studi eruditi, e il municipalismo, l’amore nascente e mai dismesso per la sua città, rivelano il proposito di scorgervi le fila di una tradizione ininterrotta che nell’ora del Risorgimento appena concluso e forse già tradito andava riscoperta e rinvigorita. Così canti popolari, proverbi, monumenti carichi di passato, leggende, avventurieri e martiri, gentildonne e briganti, si affollano alla ribalta del giovane Croce, congiunti tutti insieme per rappresentare un’umanità che si faceva popolo, una tradizione che diventava storia.
Nella storia «intima» si raccoglievano le suggestioni di Francesco De Sanctis e della sua Storia della letteratura italiana (1870-1871), «una vera storia intima d’Italia», in cui «la parola letteratura» ha «un senso largo e caratteristico» (B. Croce, La critica letteraria. Questioni teoriche, 1896, p. 113). Si trattava di trasformare la storia popolare in storia civile, la storia regionale in quella del Paese, a partire da Ermolao Rubieri, della cui Storia della poesia popolare italiana (1877) Croce doveva nel 1929 farsi estimatore, per arrivare ad Alessandro D’Ancona, uno dei maestri pisani di Giovanni Gentile. Nel 1892, pubblicando a puntate sul «Giambattista Basile» (nn. 7-8-9) i Canti politici del popolo napoletano, nell’amara conclusione – «alla nostra plebe, per molti secoli, fu conteso ogni sorta di ideale» – Croce rovesciava quanto i «napoletani letterati» avevano risposto a Niccolò Tommaseo, ovvero «nulla esserci» a Napoli di canti popolari: «tanto la parola popolare nel gergo napoletano d’allora, e sotto il governo borbonico, aveva un solo e spaventoso significato». Poi, facendo proprie le conclusioni della Storia di Rubieri che additava l’esempio dei «buoni Piemontesi stretti intorno al loro re», confessava di aver «percorso un oscuro passato di bassezza e di vergogna» (p. LXXI dell’estratto, 1892) nel rievocare i canti politici del popolo napoletano. Era quello che, al di là dell’umano rimpianto, gli faceva sentire lontana la «storia regionale della vecchia Napoli e del vecchio Regno» (Canti politici del popolo napoletano, in Pagine sparse, serie II, Biografie, storia napoletana, schermaglie per varia occasione, ricordi di vita ministeriale, questioni del giorno, documenti storici, 1919, 2° vol., 19602, p. 40), scomparsa con Bartolomeo Capasso (1815-1900). Commemorandolo all’inizio del nuovo secolo ribadiva: «viviamo della vita della nuova Italia, anzi della vita internazionale per partecipare alla quale la nuova Italia è sorta», e per questo «non possiamo più appassionarci, come egli s’appassionava, per le imprese di mare e di terra dei napoletani del Ducato, per Cesario console e per Stefano duca». Poi, in un crescendo cronologico, «il tempo in cui Napoli fu corona “quando regnava la casa d’Aragona”» diviene «un semplice episodio secondario del moto della Rinascenza in Italia», la rivoluzione di Masaniello «un caso sociologico». Al contrario,
la Napoli che ancora ci scuote e ci esalta, è quella dei suoi perseguitati e solitari filosofi, e dei cosmopolitici idealisti della rivoluzione del 1799, il cui sangue corre ancora nelle vene della società moderna (p. 41).
Certo, siamo ormai nel 1900 quando lo «svolgimento spirituale» di Croce ha compiuto la sua rivoluzione, anzi le sue rivoluzioni, dove accanto a De Sanctis anche il materialismo storico è chiamato a una comprensione «più intima e profonda della storia» (Materialismo storico ed economia marxistica, 1900, 196110, p. 16).
La sua Napoli non è più quella di Capasso, se mai è stata la stessa. Una storia della città (e del Regno che per entrambi, Capasso e Croce, coincidevano) avrebbe dovuto essere «di necessità una storia politica e sociale, da guardarsi e giudicarsi in continua relazione con quella generale» (Pagine sparse, serie II, Biografie, storia napoletana, 2° vol., cit., p. 42). Rifluivano, concretizzandosi, gli echi delle riflessioni suscitate dalla nota discussione innescata dal saggio di Pasquale Villari del 1891, che aveva messo fine al suo starsene «pago all’immaginazione dell’ideale collocato sopra il reale, e del mondo dei concetti sopra il mondo delle rappresentazioni» (Primi saggi, 1918, 19513, p. XII). Così, la «vita storica» diventava la
vita stessa umana, individuale e sociale, e la conoscenza dei suoi concetti o principi o condizioni o leggi non può essere se non la scienza dell’uomo in quanto individuo e in quanto essere sociale (p. 69).
E mentre Capasso, «come un frate d’altri tempi», si limitava «coscienziosamente» a formare la «Platea, il Regesto e il Sommario cronologico del convento», a ricordare «gli uomini insigni per santità e per dottrina», senza chiedersi «se il suo ordine sia stato un bene o un male per la società, e quando un bene e quando un male» (Pagine sparse, serie II, Biografie, storia napoletana, 2° vol., cit., p. 42), Croce celebrava i patrioti della Napoli del 1799, «grandi idealisti e cattivi politici». Tuttavia la loro sconfitta, «un’eroica caduta», «servì a creare una tradizione rivoluzionaria e l’educazione dell’esempio nell’Italia meridionale». Essa,
mettendo a nudo le condizioni reali del paese fece sorgere il bisogno di un movimento rivoluzionario fondato sull’unione delle classi colte di tutte le parti d’Italia, e gittò il primo germe dell’unità italiana […], così, per effetto del sagrificio e delle illusioni dei patrioti, la repubblica del 99, che per se stessa non sarebbe stata altro che un aneddoto, assurse alla solenne dignità di avvenimento storico (Studi storici sulla rivoluzione napoletana del 1799, 1897, pp. IX-XI).
La Napoli di Croce non è pertanto un convento i cui frati sono indaffarati a curare reliquie e a conservare tesori, al contrario essa è chiamata continuamente al confronto, a mescolarsi non solo con la vita del resto del Paese, ma a misurarsi con le grandi correnti del pensiero europeo. Così, un’occasione che più tale non si può definire, l’Esposizione d’igiene del 1900, per visitare la quale era quasi d’obbligo imbattersi nella statua di Giambattista Vico compiuta dal conte di Siracusa, Leopoldo di Borbone, offriva a Croce il destro per affrontare una «questione che ha tormentato o divertito molto i proponitori e scioglitori di arguti “perché”». Perché Napoli «col suo splendido cielo, mare, Vesuvio, Capri, Sorrento e via dicendo ha prodotto così pochi e deboli poeti, e tanti e così valenti filosofi?», o, con il linguaggio di Vico, come mai «la mente dei Napoletani si è alzata sopra gli universali, quando tutto parrebbe spingerli a profondersi nel particolare?» (Curiosità storiche, 1919, p. 216). In realtà, dice Croce, non sono le condizioni geografiche e climatiche «che ispirano, ma l’intensità della vita sociale e passionale». Prive della «vita libera dei comuni toscani e lombardi», Napoli e l’Italia meridionale non hanno conosciuto i conflitti, le «esperienze di un popolo che si muove da sé». Ma, «per secoli, feudalesimo che imbarbariva, nelle province, e civiltà cortigiana in Napoli». Che cosa restava loro, se non
contemplare l’uomo in universale, l’uomo in quanto conoscenza e volontà: concepir l’Estetica, dove mancava la poesia e l’arte, svolgere le teorie della Politica e della Storia, dove politica e storia difettavano [?] (p. 217).
Con una cavalcata che qualche anno più tardi gli sarebbe apparsa probabilmente «scellerata», Croce faceva sorgere – come «scintilla» – tra i rozzi frati irretiti da discussioni teologiche Tommaso d’Aquino e poi Giordano Bruno e Tommaso Campanella, «precursore di Spinoza l’uno, di Cartesio l’altro» (p. 218); dalla «botteguccia di un libraio» si muoveva Vico, e con lui Paolo Mattia Doria e Tommaso Rossi, accanto ad Antonio Genovesi e Ferdinando Galiani evocava la figura dell’«oscuro dottor calabrese» (p. 219) Antonio Serra rinchiuso nelle carceri. L’eco europea delle teorie di Pietro Giannone si concretizzò nel «moto di idee, che prese poi forma estrema e radicale» dei patrioti filosofi del 1799, nei quali si «afferma, con la lotta e con il martirio, il legame del filosofare col saper vivere, ch’è poi il saper morire» (p. 219). E poi Pasquale Galluppi che «segnò la via ai Rosmini ed ai Gioberti», il «rigido kantiano Ottavio Colecchi» che aprì la strada agli hegeliani di Napoli «che sopravvissero alla stessa scuola idealistica germanica» (p. 220). L’apparizione di Spaventa e di De Sanctis consentiva a Croce di ricordare persino Augusto Vera che convertì la filosofia hegeliana in una specie di «neoteologia», ma soprattutto Antonio Tari, del quale – è vero – non resta «niente», e che tuttavia «dove non dava la piena intelligenza, dava il sentimento del filosofare», osservando che la filosofia «meno ancora di tutte le altre scienze, può vivere di freddo intelletto e di estrinseco culto» (p. 221).
Scritto d’occasione, ma proprio per questo indicativo del modo con cui Croce intese e visse il suo rapporto con Napoli, che fu qualcosa di più e di più complesso del sentimento che lega ciascuno al proprio luogo natale. E Napoli lo fu per Croce, a dispetto dell’anagrafe che lo definiva abruzzese, «di passaggio» a Pescasseroli, come recita l’atto di nascita. Né altro che civetteria letteraria possono considerarsi le sporadiche battute in cui si divertiva a chiamarsi prima abruzzese che napoletano o gli sporadici scritti in cui ricordava la patria della famiglia (cfr. Galasso 2006). Lo stesso stile di vita austero e lontano dalle pompe comuni a Napoli che il censo gli avrebbe consentito sembra alludere piuttosto al costume morale delle classi dirigenti della nuova Italia e della Destra storica degli zii Spaventa che a un carattere regionale o addirittura ancestrale. Un rapporto, quello con Napoli, naturalmente sentimentale, com’è facile ricavare da tanti suoi scritti culminanti nel maturo Un angolo di Napoli (1912), dove la storia del palazzo in cui era andato ad abitare da pochi mesi e in cui rimarrà sino alla fine nutriva e si nutriva dell’ambiente che lo circondava. Dalle mura, dalle chiese, dai conventi, dai palazzi, a chi li aveva frequentati e vi era vissuto, agli avvenimenti che vi si erano svolti, in un fluire naturale, spontaneo quasi, sì che era «dolce sentirsi chiusi nel grembo di queste vecchie fabbriche, vigilati e tutelati dai loro sembianti familiari» (Storie e leggende napoletane, 1919, a cura di G. Galasso, 1990, p. 17). La città, l’insieme dei suoi edifizi, il reticolo delle sue strade, il sorgere del ricordo spontaneo per chi, come lui, ne aveva ricostruite le vicende, diveniva «ritrovarsi nella casa dove vivemmo la nostra infanzia, e venirvi riconoscendo gli oggetti che primi svegliarono la nostra meraviglia e ci mossero a fanciullesche immaginazioni» (p. 17).
Era il passaggio dalla «Napoli nobilissima», rivista di «topografia e d’arte napoletana», che Croce aveva fondata e animata per quindici anni dal 1892, alle Storie e leggende napoletane (1919), alle Vite di avventure, di fede e di passione (1936), dalla topografia, dai monumenti, alla storia degli uomini e delle idee che li avevano percorsi e animati. Una storia regionale o municipale che affondava in quella specifica di quell’Italia, nella quale ancora, all’inizio del secolo, ardevano
le polemiche sul nord e sul sud, sull’Italia continentale e sulla insulare, sulle tradizioni democratiche dell’Italia media e superiore, e su quelle monarchiche, anzi assolutistiche della meridionale (Pagine sparse, serie I, Letteratura e cultura, 1919, 1° vol., 19602, p. 9).
Si trattava di «un bisogno specifico», fintanto che gli uomini non fossero divenuti «incolori cittadini», «uniformi componenti di una vasta nazione», opera non di «zoologia araldica», ma di «critica onesta, liberale, italiana» (p. 10).
Nel medesimo anno, rispondendo al nazionalista francese René Johannet, che si era stupito dell’adesione di Croce a un appello di Romain Rolland, rivendicava il suo radicamento, il suo abbracciare il passato – «dans ma vie materielle, je ne me sens à l’aise que dans les rues de la vieille Naples» – sottolineando che se la tradizione è il terreno su cui innalzare l’albero, è proprio in forza di quel radicamento che ci si può volgere all’umanità e superare ogni interesse e pregiudizio di carattere particolare (Pagine sparse, serie II, Biografie, storia napoletana, 2° vol., cit., p. 252). Nel 1927 rispondeva all’«Observer» che nella cultura napoletana aveva ritrovato «tanto europeismo e tanto universalismo» da non trovare il bisogno di staccarsi dalla terra in cui era nato e dai suoi «naturali affetti», né da privarsi di «quel certo sentimentalismo» che gli ispiravano quei «luoghi e cose e costumanze e atteggiamenti» (B. Croce, Epistolario. Scelta di lettere curata dall’autore, 1° vol., 1914-1935, 1967, pp. 137-38). In definitiva, concludeva:
ho continuato, dunque, a far quello che hanno fatto tutti i napoletani del buon vecchio tempo che hanno amato la cultura francese, inglese e tedesca senza cessare di essere italiani e napoletani.
Italiano e napoletano è la cifra con cui Croce viene caratterizzando il nesso tra storia municipale e storia generale, persino, per tornare a «Napoli nobilissima», a partire dalla topografia e dalle pietre dei palazzi. In quella medesima intervista all’«Observer» rivelava tutta l’«efficacia della tradizione napoletana». Visitando un amico, ricordava Croce, nel passare «innanzi al palazzo che fu già dei Mirelli principi di Teora mi ricordai che colà era morto nel 1713 lo Shaftesbury e che egli era stato molto stimato dai letterati napoletani di quel tempo». Ne nacque così
il desiderio di ricercare la sua vita a Napoli e di meglio lumeggiare il suo pensiero, specialmente come critico d’arte, quale egli si formò qui in Napoli fra gli artisti e i dotti napoletani, e con fine indipendenza di giudizio, perché sentì il vuoto e il chiassoso del barocchismo e precorse il classicismo ellenizzante o classicismo romantico (p. 138).
Una visita a Londra, alle carte conservate nello State office, gli consentì di concludere il saggio ritrovando nei taccuini di Shaftesbury «nomi di luoghi e personaggi della sua terra» (p. 138).
Un intreccio di vita materiale, nella quale si mescolavano gli affetti e le idee, via via rischiarato e illuminato da una sempre più consapevole maturità storiografica. Un modo di vedere la storia di Napoli proiettata dalle minuzie della storia erudita nelle vicende della grande storia nazionale ed europea, così come nelle vite individuali si ripercuotono e s’incarnano le grandi correnti ideali. Ma pur restano sempre queste correnti, il soffio vitale delle idee che percorrono e fanno parlare strade, palazzi, chiese, che rendono ancora vive e capaci di suscitare passioni vite condannate all’oblio. Si cita sempre, a ragione, quel piccolo capolavoro che è Galeazzo Caracciolo. Marchese di Vico. Lì il contrasto tra la Napoli «con palagi magnifici […] con la molta letteratura e poesia, e culto delle arti, tutta spettacoli e feste e suoni e colori, col tepore dei suoi inverni e il fulgore delle sue estati, aliate dal venticello marino» e la «piccola Ginevra con poche migliaia di abitanti, con modeste e povere case […] bella, senza dubbio, anch’essa per posizione naturale», ma sferzata dalla «brezza gelida» dei vicini monti e dalle «fredde correnti del Rodano e dell’Arve» si articolava tra aspetto urbano e clima (Vite di avventure di fede e di passioni, a cura di G. Galasso, 1989, pp. 220-21). Ma «penetrando nell’interno» in
quella piccola, agitata e compressa città si sarebbe osservato un rigoglio interiore, un impeto di profondo rinnovamento, attuoso nel presente e ancora più ferace per l’avvenire, una ricchezza spirituale, che scopriva al paragone la povertà nascosta nelle sembianze splendenti dell’altra città, e segnava il divario tra la realtà e la parvenza, tra la vitalità genuina e la maschera della vitalità (p. 224).
Un confronto impietoso – la «vitalità genuina e la maschera della vitalità» – che probabilmente sarebbe apparso un po’ stonato sulle pagine di «Napoli nobilissima» o in quelle dei suoi sodali di un tempo della Società storica napoletana, eppure significativo del modo con cui Croce era venuto a dar respiro e sostanza a quelle ricerche sulla città amata iniziate quasi mezzo secolo innanzi. Come i patrioti del 1799 riscattano con il martirio la loro miopia politica e gettano le basi della futura rinascita del Paese intero, così Galeazzo Caracciolo sublima il dolore recato alla moglie, ai figli, al padre, quando lascia la città e la religione avita per quella piccola Ginevra dove germogliavano i principi di libertà e di tolleranza che avrebbero contrassegnato l’età moderna (cfr. pp. 226-27). All’esordio dei suoi studi sul 1799 Croce aveva scritto che ogni fatto storico può essere oggetto di una doppia misurazione, ossia di un doppio criterio: l’ovvio criterio morale e quello più propriamente storico. Ora, i due criteri si saldano nelle vite individuali, quando, come sul piano dell’accadere storico, il «contrasto stesso, necessario allora, fu fruttuoso nei secoli appresso» (p. 272).
Pure, una «conversione totale», intesa come ripudio dei suoi studi precedenti, non era possibile (Galasso 1990, p. 348). Lo testimonia la frenetica attività con cui venne riesumando e rielaborando quanto su Napoli – e non era poco – aveva indagato e scritto. Si trattava di farne, ora come nel caso dei Teatri di Napoli, «una nuova redazione meno scellerata della prima» (p. 345), alla luce di un nuovo «svolgimento spirituale», di trovare nuovi spunti e di misurarli allo spettro di una matura concezione della storia. Basterebbe, come ha fatto Giuseppe Galasso, connettere i Taccuini con la bibliografia curata da Silvano Borsari per documentare con quanta intensità, con quanta attenta volontà vi si dedicò. Nel 1915, licenziando Storie e leggende napoletane, scriveva significativamente in quelle poche righe dell’“Avvertenza” che «il legame sentimentale col passato prepara e aiuta l’intelligenza storica, condizione di ogni vero avanzamento civile, e soprattutto assai ingentilisce gli animi». Poi, con riferimento al presente, alla guerra, Croce concludeva: «mi è sembrato che ai nostri giorni non sia da spiegare nessuna forza, pur modesta e umile, che concorra a tal fine» (p. 11).
Alla fine dell’altra guerra mondiale, la seconda, Croce avrebbe di nuovo richiamato Napoli dedicandole, quale estratto di un diario, il volume Quando l’Italia era tagliata in due (1948):
alla mia Napoli che non ha chiesto né vagheggiato autonomie e separazioni, religiosamente fedele a quella idea dell’unità nazionale che i suoi uomini del 1799 propugnarono tra i primi, dedico il mio ‘diario’ di un periodo nel quale separati di fatto all’Italia di continuo pensammo, anelando di tornare tutt’uno con lei (Dedica, nn.).
Con il che Croce riaffermava non solo il legame sentimentale che a Napoli lo legava, e che l’attualità – il riferimento al separatismo siciliano – ravvivava, ma il ruolo paradigmatico che le attribuiva nelle vicende del Paese, dai martiri del 1799, attraverso una famiglia di patrioti (i Poerio), agli hegeliani di Napoli, a De Sanctis, agli Spaventa. Quella Napoli – ne era fin troppo buon conoscitore per non rendersene conto – stava scomparendo, se non era già scomparsa, trasformando i suoi cittadini, come aveva preconizzato agli inizi del secolo congedando «Napoli nobilissima», in «uniformi componenti di una vasta nazione». Un cambiamento che tra la Prima guerra mondiale e il nuovo regime del Paese lo avrebbe fatto addirittura commuovere nel ripensare, trovandosi per caso con Salvatore Di Giacomo e Roberto Bracco, alla «Napoli dell’anteguerra, così alterata poi nella sua fisionomia, al pari delle altre città, diventata un deserto per noi vecchi napoletani» (Nuove pagine sparse, 1949, p. 98). Dove sembra persino rimpiangere nel ricorrere allo stesso aggettivo, «vecchio», lo stile di vita con cui aveva descritto i suoi anni giovanili. Un mutamento di ruolo, di vita e di costume, e anche personale, che lo avrebbe indotto a ricordare la scommessa fatta, pur ministro, nel 1920 con un amico che lo accompagnava per via Toledo scendendo da piazza Dante: «avremmo fatta l’esperienza che nessuno mi avrebbe riconosciuto e nessuno mi avrebbe salutato». E vinse, perché «laddove, negli anni precedenti alla guerra, a ogni passo si salutavano conoscenti e amici e ci si soffermava a brevi scambi di parole», la loro passeggiata passò allora «inosservata» (p. 98).
È un raro passaggio – se se ne escludono altri, relativi però a episodi della vita politica e sociale – in cui Croce confessa, sotto forma di aneddoto, il senso di estraneità della propria città. Eppure siamo a pochi anni dagli accenti commossi e pieni di partecipazione e di consenso di Un angolo di Napoli, quando «la vita domestica formava tutt’uno con quella della patria» (Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, 1919, 1° vol., 19493, p. 43). Quello che gli sembrava venir meno era in effetti la Napoli della propria formazione e della prima maturità, alla cui storia aveva attinto non soltanto con libri e carte d’archivio, ma attraverso le «persone di quelli che ne furono attori o dai loro figliuoli» (Storia del Regno di Napoli, 1966, p. 191). Una storia «veduta ribalenare coi suoi vivi colori» e «rivissuta nelle non ancora placate discordie e nelle acri controversie», fino ad apparirgli come «prossima e appassionata storia familiare» (p. 191). Un sentimento di nostalgia come quello che avrebbe attribuito, in trasparenza autobiografica, a Giovanni Boccaccio e alla sua novella Andreuccio da Perugia, il quale «ricordò sempre» Napoli, dove visse i suoi anni più lieti, con
la tenerezza con cui si ricordano i luoghi dove trascorse la nostra gioventù e che si estende a tutte le loro parti e circostanze, ai monumenti, ai costumi, alle persone, e perfino – forse – ai bricconi e imbroglioni che in quel tempo e in quei luoghi (dolce nella memoria!) si sono incontrati (Storie e leggende napoletane, cit., p. 66).
Un sentimento che lo avrebbe spinto in più occasioni a visitare i luoghi dove avevano vissuto e operato i suoi protagonisti, non sperando in nuove documentazioni, ma mosso dal «desiderio di un più sensibile riavvicinamento ai casi del lontano passato per mezzo delle cose che vi assistettero muti testimoni» e sembravano «svegliarne o prometterne la più vivace evocazione» (Vite di avventure di fede e di passioni, cit., p. 333).
Si trattava, insomma, «con un raccoglimento dell’animo e della mente, con un volo dell’immaginazione», del modo di «coronare» un suo «intimo gusto» (p. 334).
La scomparsa della Napoli, e dei napoletani, che aveva amato e che lo avevano portato a identificare se stesso, la propria casa, il panorama che offriva con la città stessa, lo avrebbe indotto a chiudere una stagione ma non a interrompere quel rapporto. Nel 1921, licenziando un secondo volume di curiosità storiche, si compiaceva ancora:
nonostante la guerra, nonostante tutti i cangiamenti accaduti nei gusti e nelle idee, nonostante che io quasi non riconosca più la mia Napoli e scontri ora per le sue vie gente quasi nuova e alla quale mi par d’essere straniero, c’è ancora chi ama le tradizioni locali, l’aneddotica storica e letteraria, le minute notizie che valgono a rendere prossimo e come domestico il passato (Nuove curiosità storiche, 1922, p. VII).
C’era dunque qualcuno con il quale era possibile «ripigliare o iniziare un’animata conversazione, fatta di comuni simpatie, su cose care» (p. VII). A differenza del suo buon Capasso, Croce non era e non voleva essere il frate intento a celebrare il proprio ordine e il proprio convento, senza mai chiedersi quando essi fossero stati un bene e quando un male. Quel passato prossimo o remoto sul quale indagare, su «cose care» con «comuni simpatie» non era ormai la sua storia,
perché è evidente che solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato; il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde a un interesse passato, ma presente (B. Croce, Teoria e storia della storiografia, 19202, p. 4).
Come tale la storia non è che la «storia di un processo», la Storia del Regno di Napoli «ha capo e coda, cuore e cervello, ed è qualcosa di organico e vivente, e, come ogni vivente, incontra bensì ostacoli, soffre malanni e infermità, ma, fintanto che esiste, vive e si svolge». La storia di Napoli non poteva non essere storia di una «classe intellettuale e politica», «elemento vivo e fattivo» (p. 192). Storia di una «minoranza» che non era riuscita a «compenetrare di sé la nazione, a legarla con molteplici fili, a riunirne e muoverne le forze per indirizzarle secondo i propri concetti», ma che pure «fece sentire sempre l’azione sua, non si disperse, non si smarrì», non si arroccò nella «sua prima ideologia, ma continuò ad apprendere e a educarsi, e si dimostrò salda e flessibile, e ottenne alfine vittoria» (Storia del Regno di Napoli, 1925, 19667, p. 197).
Di quella minoranza Croce si sentì a pieno titolo interprete e insieme protagonista. Licenziata nel maggio del 1924, la Storia del Regno di Napoli usciva a stampa nel 1925, mentre la debole tradizione liberale dello Stato si trasformava nel regime fascista. E al di là delle intenzioni dell’autore e dell’effettiva cronologia della stesura di quelle pagine, il richiamo a quella minoranza «assorta in un ideale» che aveva «vera realtà» perché «possedeva forza etica» di contro alla «realtà bruta, incapace di mai indovinare e governare», parve un presagio cui le successive Storia d’Italia (1928) e Storia d’Europa (1932) avrebbero dato corpo e sostanza. Quei «pochi o piccoli drappelli in mezzo a turbe inconsapevoli» che soverchiandoli «li trassero a morte, al carcere e all’esilio e inflissero loro infiniti strazi» diedero a Croce ancora una volta l’occasione per ricordare «la terra che essi ebbero cara e per la quale stimarono che mettesse conto di sostenere quelle prove» (Storia del Regno di Napoli, cit., p. 197). Napoli davvero nobilissima.
C. De Frede, L’angolo di Benedetto Croce, Napoli 1956.
G. Galasso, nota critica a B. Croce, Storie e leggende napoletane, a cura di G. Galasso, Milano 1990, pp. 341-57.
G. Galasso, nota critica a B. Croce, Un paradiso abitato da diavoli, a cura di G. Galasso, Milano 2006, pp. 279-315.
G. Galasso, La memoria, la vita, i valori. Itinerari crociani, a cura di E. Giammattei, Bologna 2015.