Croce: storicismo e antistoricismo
La complessità dell’assunto, per la specificità che esso acquista in Benedetto Croce e nella contestualizzazione del suo pensiero, richiede che si inizi con una precisazione. Se, per formulare il problema, si rinviasse al saggio del 1939, Il concetto della filosofia come storicismo assoluto, che apre il libro del 1941, Il carattere della filosofia moderna, se ne dovrebbe dedurre che l’argomento da trattare riguarderebbe tutta l’opera filosofica e storiografica del maestro napoletano, che lì ritenne di doverla definire, appunto, come storicismo assoluto. Il che, certo, non può essere ignorato e però va, nel nostro caso, tenuto sullo sfondo del discorso per affrontare, piuttosto, i significati particolari che lo storicismo come filosofia acquista per Croce. È problema, pur così specificato, non meno complesso. Tanto che giova ricordare alcune ormai classiche tesi in materia rintracciabili nella più rigorosa storiografia crociana, le quali, appunto, possono fornire il punto di partenza della seguente riflessione.
Da un lato, va ricordata l’interpretazione di Pietro Piovani che, risalente a riflessioni del 1962 e del 1965, trova più completa tematizzazione nel saggio Il pensiero idealistico del 1973, secondo il quale lo storicismo assoluto di Croce non è una forma rigorosa di storicismo, ma, in contraddizione con quanto sostenuto dal filosofo, una «storiolatria» metafisica. E ciò perché troppo idealistica – a far tempo dall’identificazione, a lungo ragionata, di storia e filosofia, partendo da Giovanni Gentile e andando oltre Gentile –, dunque incapace, proprio per questo, di fondare il senso concreto e autonomo dell’individuale e della sua esistenza, che non era problema dell’idealismo dal quale era ritenuta, al contrario, provvisoria manifestazione dell’Essere dello Spirito attraverso il suo necessario processo di emanazione. In sostanza, la filosofia di Croce non poteva essere considerata una forma di storicismo in quanto troppo idealistica.
Di contro, un’altra autorevole interpretazione, quella di Gennaro Sasso (1975), ha sostenuto la difficile traduzione storicistica della filosofia di Croce perché troppo poco o troppo problematicamente idealistica, ossia incerta nella rigorosa definizione dell’irrelata assolutezza del pensiero che pensa se stesso, senza residui. Nell’un caso e nell’altro ne va di tutta la filosofia di Croce, anche e soprattutto rispetto a quella di Gentile.
Nella Logica come scienza del concetto puro (1909) Croce risolve la distinzione che aveva precedentemente mantenuto ferma: quella tra giudizio definitorio (la definizione logica del concetto puro, secondo cui essentia involvit existentiam) e giudizio individuale (che ha come caratteristica specifica e ineliminabile la ‘polarità’ tra soggetto e predicato). Tale distinzione lo aveva portato dinanzi alla difficoltà insormontabile di ammettere o l’ultrattività logica della storia rispetto alla filosofia, o lo iato incolmabile tra l’assoluto della logica, intesa come concetto puro, e l’assoluto della storia, intesa come mondo dell’esistente.
Nella Logica del 1909, la «relazione dei distinti nell’unità» è paragonata
allo spettacolo della vita, in cui ogni fatto è in relazione con tutti gli altri, e il fatto che viene dopo è diverso bensì da quello che lo antecede, ma è anche il medesimo, perché il fatto seguente contiene in sé il precedente, come, in un certo senso, il precedente contiene virtualmente in sé il seguente, ed era quello che era appunto perché fornito della virtù di produrre il susseguente. Ciò si chiama storia; e per conseguenza […] il rapporto dei concetti distinti nell’unità del concetto si può chiamare, ed è stato chiamato, storia ideale; e la teoria logica di siffatta storia ideale, teoria dei gradi del concetto, al modo stesso che la storia reale viene concepita come serie dei gradi di civiltà (B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, 1996, p. 76).
Dunque, continua Croce, se «un fatto storico si può, in certa guisa, considerare come esistenzialmente distinto nel tempo e nello spazio», lo stesso non vale per i «gradi del concetto» che «non sono esistenzialmente (e temporalmente e spazialmente) distinti» (p. 77), di modo che «la serie storica, onde appaiono legati i concetti distinti, è ideale, cioè fuori dello spazio e del tempo ed eterna» (p. 76), quindi è diversa dalla «storia reale». I «concetti distinti», infatti, «non sono esistenze» (p. 78), «in quanto essi sono l’uno nell’altro giacché essi sono il concetto puro in sé e per sé l’uno-distinto». Invece,
un fatto non si può porre, rispetto all’altro fatto, in quel rapporto in cui si pone un grado del concetto rispetto all’altro, appunto perché in ogni fatto sono tutte le determinazioni del concetto, e un fatto non è, rispetto all’altro, una determinazione concettuale (p. 78).
Però – e questa è esattamente la novità conquistata nel 1909 – l’irruzione delle determinazioni del concetto puro nel fatto non può non risolvere la differenza tra fatto e concetto, tra storia reale e storia ideale, tra esistenza ed essenza. E non può non farlo perché, una volta chiarito il significato della logica intellettualistica e pseudoconcettuale, deve essere tolta l’irrelata molteplicità di fatti identici che è il prodotto della logica intellettualistica e non della logica concettuale. Da ciò discende che il fatto è il concetto, l’esistenza è l’essenza, la storia reale che si svolge nel tempo è la storia ideale che si contrae nell’eterno. Si impone allora la domanda: che ne è del giudizio individuale? La risposta non può che essere quella fornita da Sasso.
Nel suo costituirsi, lo spirito è concetto puro (e giudizio definitorio): nel suo giudicarsi, è giudizio individuale. Ma questa dicotomia è inammissibile, perché il costituirsi e il giudicarsi non possono costituire due momenti diversi; ed è proprio la forma del concerto puro, con il correlativo giudizio definitorio, quella che, prospettata nella struttura fondamentale della “filosofia dello spirito”, si rivela alla fine vincente: quella, in altri termini, nella quale l’altra, la forma del giudizio individuale, viene infranta e dissolta (Sasso 1975, pp. 959-60).
Se è così, si impone un’altra domanda, all’apparenza quasi inutile e tautologica – la sublime tautologia derivante dal convincimento che «in ogni definizione il soggetto e il predicato sono il medesimo», «il concetto è pari solamente a se stesso», «il concetto dà l’essenza delle cose, e, nel concetto l’essenza involge l’esistenza». La domanda è: che ne è della storia?
Prima di fornire una risposta bisogna ricordare le pagine della Logica in cui Croce parla dello «storicismo» o dello «istorismo» come di quella forma dell’errore logico che consiste nella rottura della sintesi a priori basata sull’identità di storia e filosofia. Si tratta dell’errore (uguale e contrario a quello designato come «filosofismo») a sua volta caratterizzato dalla scissione del soggetto dal predicato, così che la storia si svuota del pensiero, la storia reale si sgancia dalla storia ideale eterna, il che è inaccettabile per l’idealismo. Sono pagine che non solo confortano la definizione di sé come antistoricista data da Croce nel 1907, nella memoria su La riduzione della filosofia del diritto a filosofia dell’economia poi rifluita nella Filosofia della pratica. Economia ed etica (1909) della quale, ancora una volta, si scorge la centralità nel percorso crociano verso la definitiva Logica del 1909. Sono, altresì, pagine che segnano, nell’atto in cui Croce perveniva alla definizione logica del suo «storicismo assoluto» (pur non ancora così formalmente designato), la disgiunzione di questo dallo storicismo che assoluto non è e non vuole essere, ovvero lo Historismus, lo storicismo critico e problematico, da reperire come la forma rigorosa di storicismo quale filosofia. Difatti «istorismo» vale per Croce come «mitologismo», e questo è quasi sinonimo di religione nel senso della relazione che, priva di gerarchie, lega ogni particolare fatto storico all’alterità del divino, forma unica e irripetibile che trova validità (cioè assolutezza) in sé rispetto alla suprema alterità che lo condiziona.
Se ora – seguendo la consequenzialità del ragionamento – si riporta questa crociana forma di errore alle tesi esposte nel capitolo sulla storia della seconda parte della Logica (così denso di impliciti quanto quasi testuali riferimenti a Leopold von Ranke o, quantomeno, a principi rankiani largamente dibattuti dalla cultura storica tedesca nota a Croce); se si tiene presente la centralità che il fattore religioso, nel senso sopra accennato, ha nella Weltgeschichte dello Historismus tedesco, non può sussistere dubbio su ciò che ho definito la consapevole disgiunzione dello «storicismo assoluto» che l’antistoricista Croce opera rispetto allo Historismus; disgiunzione non a caso raggiunta e riconosciuta come necessità quando si riteneva raggiunta, o almeno si sperava di avere raggiunta l’identità di storia e filosofia nella identità-distinzione del giudizio individuale e del giudizio definitorio. E allora va riproposta, con accresciuta cognizione di causa, la domanda: che ne è della storia?
Senza negare la fondatezza logica e storiografica delle interpretazioni di Piovani e di Sasso, esse, al di là delle loro stesse intenzioni, per eccessiva preoccupazione sistematica, finiscono per apparire riduttive della costitutiva problematicità della filosofia di Croce. Una problematicità che non fa del filosofo napoletano l’ultimo grande esponente della filosofia moderna qual è certamente Gentile, bensì un grande rinnovatore e interprete del moderno come ‘età conflittiva’, che realizza e fonda logicamente la definitiva rottura delle precedenti, varie costruzioni cosmologiche, in nome dell’individualità, particolare tra i particolari, in grado di fondare una filosofia del limite e non dell’assoluto, sia pure attraverso un percorso difficile, travaglioso, che esplose in piena rilevanza nel Novecento, anche il Novecento di Croce. Per tutto ciò la ricerca dello storicismo di Croce e in Croce non può trascurare che, tra gli elementi definitori della prima formazione del filosofo napoletano, è da segnalare l’allora ripetuta definizione di se stesso come antihegeliano, per es. in polemica con Raffaele Mariano. Caratterizzazione che scompare dopo l’incontro con Gentile, quando lo sforzo teoretico fu rivolto alla sistemazione idealistica dei propri pensieri, ragionati alla scuola di Francesco De Sanctis, senza abbandonarli, bensì procurando con essi l’integrazione, subito avvertita necessaria, dell’idealismo, così pensando di scoprirne la veritiera configurazione che lo rendeva attuale in polemica con il positivismo. Ciò portava subito Croce in una posizione che non era quella di Gentile. Il che egli finalmente e pubblicamente ammise ben prima della definitiva ‘rottura’, caduta negli anni Venti, quando fu coperta da motivazioni etico-politiche, certamente anch’esse rilevanti. Già nell’ottobre e nel dicembre del 1913, Croce a tutte lettere riconosceva e dichiarava la specifica diversità del proprio pensiero in scritti polemici poi riuniti sotto il titolo Una discussione tra filosofi amici. Qui, nel rivendicare il «momento della particolarità» (Conversazioni critiche, serie II, 3a ed. riveduta 1942, p. 72), contestava la «depressione» che l’«idealismo attuale» «produce nella coscienza dei contrasti della realtà, l’acquiescenza al fatto come fatto o all’atto come atto» (p. 75), che per Croce significava la negazione di «ogni distinzione», in quanto «astratta è la distinzione stessa», secondo l’idealismo attuale: la «conseguenza logica» del «principio dell’attualità immanente» sarebbe «l’immersione in un immobile presente, privo di opposizioni, se ogni opposizione si fonda, come certamente si fonda, sopra una distinzione». E ciò fino a pervenire alla negazione della stessa «storicità» che
importa dramma delle forme spirituali l’una alimentante l’altra e tutte insieme crescenti sopra se stesse, in quanto eterno lavoro che passa dalla vita e dalla volontà all’immagine, dall’immagine al pensiero, dal pensiero di nuovo alla vita e alla volontà, premesse di una più ricca immagine e di un più ricco pensiero e di una più ricca vita (p. 71).
Perché, pur riconoscendo, grazie al circolo, l’avvertita esigenza dell’universalizzazione delle individue esistenze e vite, Croce giungeva alla pesante affermazione nella valutazione della filosofia del ‘filosofo amico’, della quale, a suo giudizio, il «precedente storico non è propriamente né Kant né Hegel», bensì sono «i tormentosi travagli dello Spaventa circa l’interpretazione dell’hegelismo» (p. 71). Il quale Bertrando Spaventa «si restrinse a meditare, e quasi direi ad arzigogolare, sulle prime categorie della Logica e sulla relazione di Pensiero ed Essere, così astrattamente presa, fuori o disopra a tutti gli altri problemi» (pp. 71-72); che per Croce sono «i problemi della particolarità, e il mondo e le passioni e le forme peculiari dell’attività umana» (p. 72). Né a caso, in queste stesse pagine nervosamente veritiere nell’esame di sé, Croce richiamava, contro lo hegelismo spaventiano e di Gentile, uno dei più forti motivi della critica herbartiana contro di esso, accusato di dare una «alethelogia e un’etica solo apparenti, e d’infiacchire la coscienza discriminativa e morale» (pp. 81-82). Con il che Croce ricordava a se stesso lo herbartismo del suo maestro Antonio Labriola intorno al marxismo, che, già da tempo, manifestava un’altra profonda differenza radicale rispetto a Gentile.
Questo richiamo porta a sottolineare la determinante presenza dell’altro e ben più influente maestro ideale De Sanctis, ben più di altri incidente in dimensioni che direi determinanti proprio per la crociana ricerca dello storicismo. Qui, serve insistere su un carattere originale e originario della riflessione crociana, che non sfuggì a Gentile, quando, nel 1897, nel denso saggio su I primi scritti di Benedetto Croce sul concetto della storia, contestava al nuovo amico la negazione della filosofia della storia, che era tema che si incrociava anche con le ricordate discussioni, in gran parte dissenzienti, sul significato filosofico del materialismo storico e dell’interpretazione che di questo aveva dato Antonio Labriola. Gentile enuncia tutto ciò chiaramente già in una lunga lettera a Croce del 17 gennaio 1897 nella quale immediatamente rifiutava che la lettura labriolana del materialismo storico potesse essere risolta, come riteneva Croce, o in una «critica della storia» o in una «autocritica della società» e non piuttosto nella filosofia della storia. Né la polemica è soltanto una pur rilevante questione di carattere storiografico, giacché riguarda l’accettazione o la negazione della distinzione e del rapporto tra storia e storiografia da Croce sempre rivendicata, aprendo così la strada a quella che ritengo si possa e debba chiamare la sua ricerca dello storicismo. Gentile, al contrario, sempre rifiutava questa tesi, giacché, a suo giudizio, storia e storiografia non sono due scienze, in realtà sono una sola, dal momento che hanno un medesimo oggetto, e non possono trovare ciascuna di esse autonoma fondazione. Per Gentile non è dato concepire la storia senza la storiografia, «i fatti senza la loro elaborazione nello spirito» (G. Gentile, I primi scritti di Benedetto Croce sul concetto della storia, in Id., Frammenti di estetica e di teoria della storia, 2° vol., a cura di H.A. Cavallera, 1992, p. 131). I fatti sono tali per lui in quanto «si rappresentano nello spirito; e in tanto se ne può discorrere e filosofare, in quanto sono stati già appresi ed elaborati dallo spirito stesso» (pp. 132-33); senza di che essi non sarebbero fatti e non potrebbero essere narrati, perché ciò equivarrebbe a fare «la filosofia di una storia che non si conosce, ossia che non è narrata o non è possibile narrare», un «assurdo» tale da «costituire la filosofia di una storia che mal si conosce e male si narra», ossia un «edificare senza fondamenti». Diversamente si potrebbe pensare solo se si potesse concepire una doppia metodica, una inferiore propria dello storiografo e una «superiore» propria del filosofo (p. 133), che, tuttavia, non negherebbero lo stesso oggetto se non «per la diversità delle vedute» con cui si costruiscono. Ma è chiaro che «due scienze diverse con uno stesso oggetto […] non vi possono essere». E allora si consideri pure, in ragione dei nuovi fattori della vita storica, la sociologia «come una forma o una fase ulteriore dell’antica filosofia della storia, o, che è lo stesso, come una nuova filosofia della storia», la quale non può negare che l’antica è il suo «antecedente storico» mostrandone tuttavia «con valutazione critica i difetti». Il che significa che è impossibile «proclamare il definitivo naufragio di quest’antica e onoranda scienza della filosofia della storia, corsa ad ora ad ora per tutte le vicende della sua germana maggiore, la filosofia» (p. 134). In realtà, già qui è evidente che non si tratta di una semplice diversità di punti di osservazione, giacché nel caso di Gentile si trattava di affermare e ragionare la risoluzione gnoseologica della storia come vita storica nella filosofia della storia, ossia la risoluzione della pratica nella conoscenza di essa; mentre in Croce la questione era quella della fondazione dell’autonomia e diversità di pensiero e azione nella dialettica degli opposti in connessione con il circolo dei distinti, così da garantire l’indipendenza e la diversità storica di ciascuno dei momenti dello Spirito. Che era, fin dalle origini della sua lunga riflessione, la difficile e fin drammatica ricerca dello storicismo come filosofia e non come ‘cultura’ o Weltanschauung, bensì una filosofia storicistica, che significa per Croce rivendicare la filosoficità (e perciò la realtà) della storia, che, nella sua filosofia dello spirito non è un momento categoriale, negandosi (come ancora nella Logica del 1909) che «la storicità» sia una forma dello spirito teorico, «diversa dalla forma estetica e dalla forma intellettiva». In tal modo, per Croce si fondava la filosofia storica dei momenti delle particolarità riconoscendola come il tutto della filosofia, la filosofia che giustifica la credenza della propria assolutezza.
Queste affermazioni concludono anche un lungo percorso, partito dall’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), dove la storia è considerata «come nascente dall’interazione della filosofia e dell’arte», e dai Lineamenti d’una logica come scienza del concetto puro (1905) dove la storia «appare come conclusione dello spirito teoretico, il mare in cui sbocca il fiume dell’arte ingrossato da quello della filosofia». Tutti esempi di come la superba prosa scientifica di Croce sapesse nascondere, nello splendore della sua forza espressiva, la rilevanza di questioni difficili avvertite come tali e tutt’altro che risolte a cagione della costitutiva problematicità.
Qui sembra utile citare un’importante osservazione del libro su La critica letteraria. Questioni teoriche (1894), che, nella prima edizione del 1894, nel capitolo a lui dedicato, considera, giustamente, De Sanctis quale un filosofo e però non appartenente «all’indirizzo hegeliano o idealistico», perché fu «filosofo realista», ossia aderente all’indirizzo «filosofico del realismo contro quello dell’idealismo, tra cui si agitò» in «Europa – specie in Germania, ma anche in Italia – una vera battaglia dei giganti», «Fichte e Hegel da un lato, Herbart e Humboldt dall’altro». Allora, in questa lucidissima riflessione storiografica, la «vittoria» fu assegnata alla «soluzione realista», ossia «quella cui mi accosto», dice Croce nella prima edizione, con una iscrizione attenuata nella successiva del 1896, dove permane la considerazione di De Sanctis «filosofo realista» e l’assegnazione della palma della vittoria al «metodo realista», ma scompare l’esplicito accostamento di sé a questo. Il che, però, non significa una negazione radicale della impostazione realistica, giacché, se così fosse, diverso sarebbe stato il cammino successivo di Croce, dall’antistoricismo (mantenuto fino al 1907 e oltre ancora nel 1909) allo storicismo assoluto successivamente accolto, dopo la prima guerra dissolvitrice e mentre si avviava la seconda, ancor più tragica, frattura della coscienza europea.
Traggo una prima conclusione da quanto fin qui evocato. Fino alla Logica del 1909, come già prima nell’Estetica del 1902 e nei Lineamenti d’una logica del 1904-1905, Croce parla di storia come conclusione dello spirito teoretico, ma è una storia che ha di fronte uno storicismo considerato quale un errore nella prospettiva della storia idealistica perché mira a sostituire nella filosofia «alla ricerca dell’origine ideale della natura dei fatti, quella della loro origine storica», che sarebbe quella sussistente nel mondo non dello spirito ma dell’empiria. Quindi una storia o storicismo responsabile di errori logici, un errore logico esso stesso (così da cadere nel filosofismo o mitologismo) in quanto scissione del soggetto dal predicato, che condanna il soggetto a essere semplice rappresentazione senza lume intellegibile, usurpatore del predicato e dunque evocatore di una «storia vuota di pensiero».
In sostanza Croce avvertiva il pericolo di un «destino» della storia, che bisognava con urgenza correggere per evitare che essa potesse essere vista quale esplicazione di origini mistiche e mitologiche, con tutto ciò che di irrazionale ed emozionale si mescola in siffatta situazione lontana dalla razionalità, conseguibile invece solo grazie alla definizione categoriale del giudizio definitorio. Condizione questa che Croce riteneva di aver risolto, come è bene ripetere, nella definitiva Logica del 1909, risolvendo il contrasto tra giudizio individuale (che è dell’esistenza) e giudizio definitorio (che è dell’essenza) attraverso l’acquisizione del principio secondo il quale la stessa storia (qui chiaramente come hegeliana e droyseniana «conoscenza di sé») è il concetto puro la cui esplicazione pratica si consegue nei concetti distinti in quanto essi stessi esplicativi del concetto puro. Ecco perché si è potuto dire che già nella Logica del 1909 Croce abbia conseguito l’identificazione di storia e storicismo assoluto, esplicitamente riconosciuta nel 1941 quando diventa addirittura la definizione possibile di tutta la sua stessa filosofia.
Questa diveniva finalmente una filosofia del concetto storico in quanto rivendicazione della realtà tutta come storia «e nient’altro che storia», ontologica o ontostorica. Affermazione resa necessaria, alla fine degli anni Trenta, dinanzi a ciò che era diventata la storia reale, come Croce già aveva lamentato nella relazione oxoniense del 1930 (Antistoricismo). Purtroppo anche la storia, la cui «umanità» e «positività» emergeva dalle ricostruzioni storiografiche del decennio Venti-Trenta, una volta concluso il sistema della filosofia dello spirito con il complesso libro su Teoria e storia della storiografia (1917): la Storia del Regno di Napoli del 1923; la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 del 1928; la Storia dell’età barocca in Italia. Pensiero, poesia e letteratura, vita morale del 1929. Esse rischiavano d’essere smentite dalla drammatica crisi della coscienza europea proclamata nella Storia d’Europa dal 1815 al 1915 del 1932. Questa è un «atto di fede» nascente, come ha detto benissimo Federico Chabod, dalla trepidazione per la vita della libertà nelle grandi convulsioni seguite alla Prima guerra mondiale, «atto di fede nella Città di Dio» per conseguire «la religione della storia», mirante a rivendicare «la potenza assoluta all’anima morale» rispetto ai «fatti particolari» così da porre «le forze spirituali e morali» «in un “sopramondo” di fronte a tutte le “azioni pratiche”» (Chabod 1952, 1969, p. 224). Tanto che la storia «etico-politica», costruita da Croce a valle della identificazione dei giudizi individuale e definitorio, diventa storia «etico-religiosa», «storia morale», «religione della libertà» contestata dall’«odierno antistoricismo» che è soltanto «sfrenatezza di egoismo o durezza di comando» e par celebri «un’orgia o un culto satanico», come dice appunto la memoria di Oxford (Antistoricismo, in Id., Ultimi saggi, 2012, p. 238) nella quale mi è parso di poter rilevare, a dirla vichianamente, il crociano storicismo in forma negativa, prodromico dello storicismo positivo, ossia ‘assoluto’, con l’intento di coniugare la filosofia della vita storica di uomini di carne e sangue (l’oggetto dello storicismo ‘realistico’, critico e problematico) con lo storicismo come ‘storicità’ nell’ottica della storia in quanto espressione compiuta di tutta l’umanità.
È su queste convenzioni che, nel volgere della crisi della coscienza europea, batte la passione trepida e commossa di Croce, già qui logicamente impegnato a definire ciò che nel 1939 gli consentirà di definire la sua «filosofia come storicismo assoluto». Che è un modo alto e nobile di intendere la storia come moralità e come religione, preoccupata di assicurare il necessario trascendimento della realtà (specialmente quella impazzita perché dimentica dei valori dell’umanità) senza che ciò comportasse la perdita della storicità, al contrario assicurando a questa l’usbergo della morale e della religione. Tutto assorbito in questo compito avvertito come un obbligo teorico alla ricerca della verità e come un dovere di conquista dell’eticità perduta, Croce riteneva di potere scansare anche i rischi che danno, possono dare spazio alla «spietatezza» della storia universale, rischio possibile in una concezione rivendicante la problematicità e criticità della vita storica di esistenze individuali e collettive nell’esercizio della loro libera e autonoma responsabilità, tuttavia passibile di stordimento e dispersione. Per cercare di chiarire tutto ciò, cedendo un momento a un apparente gioco di formule (che però è tutt’altro di un gioco retorico) si può affermare che per ‘questo’ Croce la storicità della morale e della religione diveniva alternativa sempre più, come egli stesso avvertì, alla ricerca della sacertà (= eticità) della storia, come era intento dello Historismus non a caso impegnato, struggentemente, in una riforma dell’assoluto, anche dell’assolutezza del cristianesimo (su cui tanto avevano riflettuto, già nel primo decennio del secolo, Adolf von Harnack ed Ernst Troeltsch, per i quali si trattava di intendere ‘assolutezza’ come eccezionalità, non unicità totalizzante della religione cristiana). Ciò che a me pare debba definirsi la religione dello storicismo. Si tratta di problemi sui quali Croce non cessò, d’ora in avanti, di riflettere e che confluiscono nel grande saggio del 1942 (quindi solo di poco successivo alla definizione della propria filosofia come storicismo assoluto) Perché non possiamo non dirci “cristiani”, che non consente di pensare a una conversione possibile del vecchio filosofo a una forma di cattolicesimo immanentizzato, come un po’ strumentalmente è stato affermato (per un punto fermo su tale questione, Tessitore 2012, pp. 596-604).
Non è un caso, alla luce di quanto fin qui osservato, che nel passaggio di Antistoricismo dall’edizione originaria nella «Critica», del 1930, all’edizione in volume, del 1935, la parola storicismo della prima redazione sia sostituita dall’altra storicità, adoperata in un punto importante dove, a giudizio di Sasso, la riflessione di Croce si riassume in un discorso di alta e nobile filosofia della storia, un «ultimo esempio» di filosofia della storia, questa sì degna di stare accanto al rigoroso e solido idealismo di matrice gentiliana.
Di fronte all’olocausto cui stava andando incontro l’Europa era necessario ribadire il destino metafisico della religione della libertà, vale a dire «la storicità, nodo del passato con l’avvenire, garanzia di serietà del nuovo che sorge», nel presente «blasfemata come la libertà, ma che, come la libertà, ha sempre ragione di ciò che le si rivolge contro» (Antistoricismo, in Ultimi saggi, cit., p. 243).
Se la vita è diventata o sempre più rischia di diventare preda di una sfrenata vitalità – la vita della «industria» e della «inventività individuale» nel senso della loro «parcellizzazione» – e tutto diventa cura di interessi egoistici che non possono pensare la vita se non «in astratto», «mera vitalità» (p. 233), considerando l’umanità «un fatto naturale», ne va di tutta la «creazione storica», anche e specialmente quella che realizza il «momento della particolarità» governata non più da razionalità concreta ma da «irrazionalismo» o «razionalismo astratto» (p. 239), che scinde «la vita umana dalla vita stessa che è vita storica», la vita delle «regole» create «dall’umanità come proprio strumento», non già imposte dall’alto da «una volontà assoluta», un «attivismo» senza limiti, «futurismo», negatore della storia stessa (p. 234). In tal caso si ha il trionfo dello storicismo come errore della separazione del soggetto dal predicato, cui va contrapposto uno storicismo sorretto dal rapporto di identità tra storia e filosofia, ossia tra giudizio individuale e giudizio definitorio, in nome dell’essentia quae involvit existentiam, senza negare quest’ultima (l’esistenza), bensì sistemandola grazie alla definizione logica del concetto puro, che deve garantire «l’idea stessa della storia come il regno del relativo e del contingente, del mobile e diverso, del vario e dell’individuale», evitando il loro disperdersi nel caos della realtà empirica enfatizzata fino al punto di annullare tutto ciò che «sospira e aspira e si sforza all’assoluto», anche qui, però, senza «sopprimere l’intervento dell’individuale». E questo significa provocare il passaggio dallo storicismo negato allo storicismo affermato, il passaggio dall’universale astratto dell’attivismo sfrenato all’universale concreto dell’umanità storicamente concepita nella sua totalità di parti.
L’«universale concreto» doveva servire a provocare la risoluzione (nel senso dell’Aufhebung hegeliana, «conservazione del tolto») dell’umanesimo dei soggetti storici nell’umanità tutta in quanto essenza riassuntiva della positività della storia, cui si rivolgeva nella memoria del 1930 sull’Antistoricismo, l’appello a chi, aprendo il proprio cuore
al sentimento storico, non è più solo, ma unito alla vita dell’universo, fratello e figlio e compagno degli spiriti che già operarono sulla terra e vivono nell’opera che compierono, apostoli e martiri, genî creatori di bellezza e di verità, umile gente buona che sparsero balsamo di bontà e serbarono l’umana gentilezza (p. 244).
Un nobilissimo, commosso appello che acquista intero il proprio significato dinanzi al diffondersi nella filosofia contemporanea delle esistenzialistiche elucubrazioni del «vivere per la morte», inteso come la realizzazione dell’«ontologia dell’esserci» (la storia senza la storiografia), mirante a ottenere il riadagiarsi dell’«esserci» nella originaria comprensione dell’Essere, così che venga «nascosta» l’effettiva significazione di questo esserci. Il quale era sempre più chiarificato come il sostituto, meglio la negazione del «soggetto moderno» in funzione dell’antiumanismo heideggeriano (allora prossimo a dichiararsi con il Brief über den Humanismus del 1946).
Ciò non era sfuggito a Croce quando, nel 1931, recensendo Der Mensch und die Technik (1931) di Oswald Spengler (da lui fin dal 1919 bollato come interprete del «travaglioso periodo di crisi nel quale è entrato il gran popolo tedesco», avviato a produrre «follie, debolezze e drammi mentali e umani» del tipo di quelli del razzismo e del bellicismo alla Chamberlain, B. Croce, L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, 19503, p. 317) affermava che la «grande verità» predicata dal famoso autore di Der Untergang des Abendlandes non aveva nulla di ‘eroico’ perché, in una storia universale ridotta alla sarabanda tragica di un cupo rondò, non c’era che da rilevare un «atteggiamento da imbecille disperato» e pericoloso (recensione a O. Spengler, Der Mensch und die Technik, 1931, in Id., Conversazioni critiche. Serie quinta, 19512, p. 294), il cui intento era comune a quello del suo ‘confratello’ il «prof. Heidegger», il quale «in un solenne discorso» rettorale ha indicato agli studenti tedeschi come «primo e fondamentale» obbligo quello del «nazionalismo», a cui gli stessi giovani sono avvezzati dalle «generiche sottigliezze» di cui è scrittore Heidegger il quale «nei suoi libri non ha dato mai segno di prendere alcun interesse […] della storia» e «oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l’unico e vero attore, l’umanità», come si legge in una pagina del 1934 (Un filosofo e un teologo, 1934, in Id., Conversazioni critiche, serie V, cit., pp. 362-63).
Dinanzi a tanto, Croce – come dargli torto e non ragione – invocava di contro all’azione degli individui passibili di essere ridotti o di ridursi a lupi, leoni, e volpi, l’opera del tutto, che era quella che non avrebbe dovuto negare ma soltanto sistemare e così accrescere «l’intervento dell’individuo» rafforzato non enfatizzato nella sua responsabilità. Opera che, in tale luce, era invocata nella stupenda conclusione di sopra citata del saggio Antistoricismo, il quale, tuttavia, non può non riproporre la domanda già impostasi nel 1909 quando i giudizi individuale e definitorio erano coniugati e identificati, la domanda che ne è della storia? La storia in nesso, non in gentiliana identificazione, con la storiografia, che Heidegger, non poi tanto diversamente, più che dissolvere negava del tutto riassumendola, quale necessaria integrazione, nella storia/storicità.
In realtà, anche in Antistoricismo e nella «storia religiosa» del libro sull’Europa (che, d’accordo con Chabod, considero un grande libro di storia delle idee, che è anch’essa storiografia e non retorica superiore, più o meno nobilmente consolatoria), nell’ultimo ripensamento della filosofia dello spirito Croce, ancora qui problematicamente e criticamente, non dimenticava le acquisizioni dichiarate in alcuni Punti di orientamento della filosofia moderna (in Ultimi saggi, cit., pp. 203-10), che, nel 1926, il filosofo aveva voluto riformulare quasi rinnovato vademecum in anni di impazzamento sempre più invadente e devastante la coscienza morale. Si trattava allora di rivendicare una «filosofia» che «non fornisce né una cognizione del trascendente né una verità definitiva», ma che sia «esperienza», «indagini circa le categorie dell’esperienza, le idee e i valori» (p. 205). E, dinanzi a tal forte rivendicazione, Croce avvertiva altresì la necessità di precisare che nella Logica
non ho detto che la filosofia scopra e determini le categorie, sibbene che le sue indagini sono circa le categorie, ossia formulano e risolvono sempre nuovi problemi che il crescere della vita, e la necessità di operare e di giudicare fatti sempre nuovi, porgono senza cessa allo spirito (p. 206).
Come di consueto, la prosa splendente adoperata con magistrale capacità è tale da essere anche qui, forse, in grado di nascondere quella che è un’autogiustificazione, piuttosto che una interpretazione autentica a conferma del carattere carsico della filosofia crociana. In questa autogiustificazione sembra possibile sentire il riemergere degli antichi ripensamenti della dottrina herbartiana delle categorie sulla via del realismo di un Wilhelm von Humboldt – che Croce assai presto aveva incontrato grazie a Hermann Heymann Steinthal e Moritz Lazarus frequentati da Labriola –, così come diversamente nel rivendicato realismo di De Sanctis. Nel 1926, anziché «eterne forme dello spirito», le «categorie» sono considerate «come gli strumenti coi quali si foggia la materia e che nel lavoro si logorano e si provano inadeguati, e la filosofia come la tecnica che li restaura e li riadatta» (p. 206). In tal senso la filosofia non può che essere «filosofia dell’esperienza storica», insiste Croce, il quale precisa che artefice di tale filosofia è «un nuovo tipo di studioso di filosofia che partecipi alle indagini della storia e della scienza, e soprattutto al travaglio della vita del suo tempo», insomma quello che sa avvertire e praticare «il mestiere di uomo» (p. 210).
Non meno importante – a conferma della problematicità sempre più criticamente analitica – è, nello stesso scritto, un’altra precisazione (che anch’essa è una trasformazione piuttosto che un’autointerpretazione) relativa, questa volta, a Teoria e storia della storiografia. In questo libro, dice Croce nel 1926, mi «è accaduto di proporre» la «definizione» «della filosofia come il momento astratto della storiografia, o la metodologia della storiografia» (p. 206). Orbene questa volta il filosofo sostiene che con quella tesi – per me sottolineante la rottura della ricercata struttura idealistica dei propri pensieri nell’atto stesso in cui si proclamava di averla raggiunta – intendeva precisare che «il conoscere che davvero c’interessa, e il solo che c’interessa, è quello delle cose particolari e individue» (pp. 206-07) – ossia, vale ripeterlo, il «momento della particolarità» richiamato già nel 1913 contro Gentile.
Nel 1934, in un saggio Intorno all’intuito e al giudizio (in Ultimi saggi, cit., pp. 245-50), Croce fornisce implicitamente un nuovo chiarimento del problema che è proprio quello teorizzato nel 1909 ed esplicitato nel 1940, il problema, forse, di fondo dello «storicismo assoluto», il quale viene qui presentato anch’esso come un tentativo di sistemazione unitaria della realtà senza smarrire, però, nessuna delle parti dell’uno-Tutto, visto come sempre più difficile conclusione nell’ultima filosofia dello spirito, quella successiva al 1942 e dintorni, fino al radicale ripensamento degli ultimi anni intorno al ripescato primato della «vitalità». Nel 1934, proprio sulla via del «realismo» di De Sanctis, è tentata una lucida sintesi tra vichismo e kantismo intorno al rapporto tra «intuito» e «giudizio». Il primo, dichiaratamente, è da ritenere «un momento essenziale del conoscere», anziché, come si pensa, un elemento di non razionalità. Esso è, per dirla con Giambattista Vico, «la conoscenza senza riflessione», ossia «la verità del fatto singolo» (p. 246), che vuol dire ciò che Kant chiamava l’atto stesso del giudizio, il giudizio riflettente, «il giudizio dell’individuale, del fatto, della storia», ormai affermato da Croce non come una forma, bensì come «l’unica forma» del giudizio (p. 247), con sostanziale capovolgimento dell’assorbimento dichiarato nella definitiva Logica del giudizio individuale nel giudizio definitorio. Nel 1934 si dice che
il punto sta nel vedere se questo lavorio definitorio [della filosofia] si eserciti per se stesso, nel qual caso non gli si potrebbe togliere la taccia (che, in effetto, si suol dare talvolta al filosofare) di una continuata tautologia e logomachia, o non invece trovi la sua ragion d’essere proprio nel giudizio del fatto, in quello che è sintesi di intuizione e categoria (p. 248).
Per cui la filosofia anziché essere «un discorso inopportuno» perché declamatorio, si impianta sopra una «situazione storica da conoscere», che confluisce «nel giudizio storico» (p. 248), il quale è giudizio individuale, giudizio d’esistenza. Ed è appena il caso di osservare come in tutte queste pagine, il «momento della particolarità» sia declinato, volta a volta, come «esperienza», «esperienza storica», «esistenza», «situazione storica da conoscere», parole che esprimono tutti i momenti del progressivo approdo al definitivo storicismo di Croce, che cerca di sistemare in esso, nell’ultimo tentativo di strutturazione delle parti nel tutto, prima della definitiva rottura, anche il ripensamento della «realtà come storia e nient’altro che storia», da Croce proclamata in La storia come pensiero e come azione (1938). Affermazione ormai sempre più problematica e problematicizzata in quanto non è solo e tanto rivendicazione ontologica della storia come totalità, quanto kantiana rifondazione (sulla base dei ripensamenti del 1926 e seguenti, confluiti nello ‘storicismo in forma negativa’ del 1930) di una «metafisica critica, e non dogmatica».
Né, in tale prospettiva, si possono trascurare le pagine del libro sulla Storia del 1937-1938 destinate a chiarire la funzione della storiografia quale «liberazione dalla storia» in quanto lotta del valore con il disvalore, che finisce per comporsi non già in una rinnovata ontologia della storia, bensì nella «liberazione della storia» (La storia come pensiero e come azione, 2002, pp. 37-39 e 40-44) in quanto realizzazione storica della libertà, che può essere, deve essere sempre il risultato delle azioni di individui consci dell’umanità, e quindi negatori del bellum omnium contra omnes, proprio di «lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l’unico e vero attore, l’umanità» (Un filosofo e un teologo, cit., pp. 362-63), pur con la desta preoccupazione per il possibile ritorno cupo dei primi contro la seconda, scongiurato solo dalla libera responsabilità degli individui capaci di tradurre, kantianamente, la responsabilità in obbligazione.
Tutto ciò è quanto Croce fonda definitivamente nelle sue ultime pagine, le quali ormai non temono più di dichiarare la non trovata saturazione, perché, forse, introvabile se non nella libertà della responsabile azione. Sono pagine divenute piuttosto esperte, pur con timore e tremore, del necessario riconoscimento che il circolo non si fonda se non sulla «vitalità cruda e verde», che «offre la “materia” alle categorie successive» (B. Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, 1998, p. 43), perché è quella «categoria» «in cui l’individuo soddisfa le proprie volizioni e brame di benessere individuale» (p. 42), che può essere, deve essere una «integrazione necessaria delle diverse forme dello spirito, le quali non avrebbero voce, né altri organi né forze», senza quella (p. 38). E però solo a condizione che questo ufficio integratore convalidi «l’armonia» delle forme e tra le forme dello spirito ed «eserciti il ruolo “rivoluzionario” di provocare il nuovo con suggerire problemi da risolvere all’arte, al pensiero, e alla morale». In questo difficile ufficio va compiuto ciò che non è stato compiuto dalla coscienza europea del Novecento, preda di una vitalità «selvatica», non più solo «cruda» e «verde» da educare. È la «vitalità» che può far conoscere, dubitare e temere, come è stato negli anni del disperato appello allo «storicismo assoluto», la «fine della civiltà», che si consuma per la «spietatezza della storia universale». La quale si combatte solo a condizione che si ritrovi la forza di far «coincidere lo spettacolo della storia con la verità dell’etica», che sta a significare il «senso della storia», specie quando si è finalmente capito che la «dialettica delle categorie» non è, primariamente, un gioco logico, ma un esercizio di «alta etica» (p. 133), come dicono le ultime Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici del 1952, l’anno di morte del filosofo e suggello della sua mai intermessa ricerca dello storicismo.
Il ‘nuovo storicismo’ non seguiva Hegel allorché fondava l’identificazione fra storia e filosofia sull’assottigliamento delle epoche storiche in categorie filosofiche e sull’ispessimento di quest’ultime in epoche storiche e sentiva di potersi aprire «verso la vita, che sempre sorpassa se stessa» (B. Croce, Discorsi di varia filosofia, 1° vol., 1945, p. 127) alla ricerca di una «armonia» sempre suscettibile di rompersi nelle disarmonie di altri «individuali giudizi, fermati nelle individue situazioni» (p. 159); confermava la propria inconciliabilità con la filosofia della storia, che riconosceva come propria forma mitologica la quale, incapace di assumere quale materia della storia l’«intelligenza» della «vita vissuta», la traduceva invece in categorie aprioristiche di un assoluto onnicomprensivo, che espelle fuori di sé il concreto dell’esperienza esistenziale. A ciò si contrappone la «cultura storica», la Bildung storica degli uomini mossi dalla loro religiosità laica del fare morale, unita alla visione del mondo che suggerisce di non smarrire un divenire inquieto e mai domo, realizzante l’esistenza, con la costante preoccupazione per la propria finale destinazione, fiducioso, tuttavia nelle «formazioni mentali» della scienza. Ed è questo riconoscimento crociano assai importante, in base al quale le scienze sono le «ordinatrici dell’agire umano», le «regole» costruite dalle azioni degli uomini, che possono financo soddisfare l’aspirazione irresistibile, e perciò necessaria, delle «previsioni», sostiene Croce – quasi disposto a trovare posto, kantianamente, nel suo sistema, al mai riconosciuto «giudizio di previsione» preparatorio e non ordinatorio della volontà quae fertur in incognitum (pp. 165 e segg.).
A questo punto Croce può rispondere alla domanda se «lo storicismo odierno […] sia, o no, lo stesso dello storicismo hegeliano o una sua variante», dichiarando, alto e forte, «che lo storicismo odierno è il preciso opposto dello storicismo hegeliano ed è nato da una radicale opposizione logica ad esso» (Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, cit., p. 99).
Si trattava, certo, di una coraggiosa affermazione volta a concludere un lungo cammino che, però, era destinato a raggiungere compiuta conclusione solo qui dove riconosceva d’essere ormai giunto. In realtà era piuttosto la costatazione di non poter più assolvere ai continui tentativi tenaci di sutura, avvertiti costantemente del tutto inadeguati dinanzi alla dolorosa, dolorante presa d’atto che la catastrofe temuta s’era verificata, dimostrando cupamente che essa poteva verificarsi e che neppure l’«assoluto» dello storicismo, concepito con intelligenti correzioni tuttavia sempre fedeli alla logica hegeliana, era riuscito a scansare.
Negli stessi anni, precisamente nel 1942, anch’egli concludendo un lungo percorso, Gentile aveva aspramente rinfacciato a Croce le diversità incolmabili tra Storicismo e storicismo (ripubblicato in appendice alla 2a ed. di G. Gentile, Introduzione alla filosofia, 1952, pp. 259-70), che non era solo una diversità di punti di osservazione, bensì una costitutiva diversità di due opposte teorie dello storicismo, ma anche l’estraneità tra lo storicismo che aveva costantemente nutrito dentro di sé, con la propria problematica criticità, la speranza di risolverle nella pacificata e pacificante conquista di un ‘riformato’ assoluto e lo storicismo suo proprio, di Gentile, che poteva avere ragione nel contestare a Croce che quello da lui a lungo ricercato era uno «storicismo della storia», uno storicismo per gli storici. Questo, appunto perché tale, non poteva avere nulla di idealistico in senso proprio, in quanto risultato di una «filosofia» logicamente inammissibile: una filosofia a parte ante e una a parte post, «una filosofia che teorizzando le categorie dello spirito fornisca la chiave per aprire, nella storiografia, tutte le porte della storia» al fine di consentirne «una ricostruzione intelligibile»; e «un’altra filosofia che ricavando i risultati di questa ricostruzione, deduca dalla coscienza della realtà nella sua storica e attuale determinatezza il corollario [...] che “tutto è storia”» (p. 260), cosa che non regge e si rivela un «nullismo» capovolto, perché la sua posizione «dommatica» è realistica in quanto ritiene che la storia sia un «antecedente del pensiero», o, detto altrimenti, la parte storica del pensiero per dedurne l’assolutezza e la dialetticità. Croce parte dalla collocazione del pensiero di fronte alla storia, ossia di fronte alla realtà, «opposta o presupposta dal pensiero». Un pensiero tenuto a correlarsi con la realtà/storia, anziché essere pensiero irrelato che muove da sé e da sé ricava l’assolutezza e dialetticità del reale. «Non la storia – dice Gentile – può fondare la filosofia, ma la filosofia può essere fondamento della storia» (p. 261). La filosofia del «presente dello spirito», che «non è il presente che sta tra passato e futuro nella linea indefinita del tempo». È un presente altro che «non tramonta mai e non può essere mai altro che presente; il presente non temporale, eterno, che è lo stesso pensiero». L’altro storicismo è una «desolata contemplazione di un deserto, o, se si vuole, di un mondo di viventi che della vita hanno solo una ingannevole sembianza e sono invece tutti statue o automi», in quanto vivono, meglio, si illudono di vivere secondo «una storia in tempo, o temporale», che, in realtà, è «storia essenzialmente passata», in quanto divenuta estranea a chi la pensa perché è una «storia estranea» al pensiero (p. 263). È una storia che presume di poter avvalersi del giudizio di previsione, senza capire che «il futuro preveduto» (quello della voluntas quae fertur in incognitum) è «logicamente un passato rispetto al pensiero che se lo raffigura nel sistema necessario della logica» (p. 262), pensiero pensato e non presente nella propria eterna pensabilità di sé a sé.
Con queste distinzioni e critiche contestazioni, Gentile ha mostrato e dimostrato due cose: l’impossibilità dell’idealismo, specie quando rigorosamente pensato come nell’attualismo, d’essere storicismo, una qualsiasi forma di storicismo, e la problematicità della ricerca crociana, sempre convinta, in fondo, che l’idealismo fosse Una denominazione filosofica da abbandonare, come suona il titolo di uno scritto del 1943. Affermazione, a dirla tutta, che non riguarda solo una ‘denominazione’, bensì esprime quanto è al fondo della lunga dialettica tra antistoricismo e storicismo in tutta la riflessione crociana.
Questa dialettica è preoccupazione nevralgica, a momenti drammatica e angosciante per il filosofo alla ricerca della sistemazione idealistica nello sforzo di chiarire il senso della realtà nella sua totalità, scoprendo costantemente, come egli stesso aveva lucidamente dichiarato nella Filosofia della pratica che, nel pensiero moderno, grazie al pensiero moderno, al sistema vanno sostituite le sistemazioni dinamiche delle cose e dei pensieri, sempre costitutivamente preoccupato di non incappare in un monismo totalistico, da Croce rimproverato fin dalle origini del loro rapporto a Gentile, incapace di dare spazio e dignità alle parti che avrebbero dovuto armonicamente comporre l’unità conservando la propria Vielseitigkeit. E però aveva dovuto costatare che questa molteplicità – esprimente la complessità e la conflittività del reale, la quale assicura la sussistenza della responsabilità di ciascun individuo tra tutti gli individui costruttori della libertà propria e di tutti nello storico etico contemperamento degli arbitri in nome del principio di individualità e non di omogeneità – era fondabile attraverso il kantiano e humboldtiano principio del limite, non attraverso il principio dell’assoluto. Quest’ultimo resta, nonostante tutte le problematiche riflessioni, il principio dello «storicismo assoluto» di Croce; l’altro è il principio di quello storicismo del quale egli ha sempre avvertito, più che la suggestione in nome di un motivo comune a entrambe le forme e però diversamente fondato, il realismo. Consapevole di ciò, in ciò rafforzato dalla sua genialità di storico, Croce ha sempre ricercato la sussistenza logica dell’altro storicismo per la preoccupazione di dare spazio logico alle «parti singole», purché le varie situazioni del reale non si smarriscano in un mondo di lupi, di volpi e di leoni. Questo è l’opposto del mondo della gente buona, che sparge sull’asprezza della storia balsamo di bontà e sente l’umana gentilezza. Questo storicismo, al di là delle sue stesse difficoltà di fondazione cercando di restare nell’idealismo affermato contro il positivismo, consapevole dell’antistoricismo in se stesso contenuto, non ha perciò nulla di «pigro», come riteneva Gentile, non è per niente la «desolata contemplazione di un deserto» abitato da «statue», da «automi». È il campo di forze dell’agire di individui che non hanno bisogno di nutrire alcuna aspirazione a uscire da sé per superare il limite, il proprio limite dissolto nell’apprensione dell’infinito, che vince le limitazioni. È uno storicismo alla ricerca di sé, sempre più storico e proprio perciò sempre più consapevole del proprio rischio di restare inascoltato, di cadere in un gioco dialettico accresciuto dall’idealismo assoluto per cui l’immanenza della realtà è la trascendenza metafisica di esso, l’«interno lievito» del suo sviluppo/non sviluppo in quanto scoprimento di ciò che già ha in sé, attraverso la sarabanda tragica di nascondimenti e scoprimenti dell’eterno essere in cui la storia è non temporale ma eterna (dove l’attualismo gentiliano incontra l’esistenzialismo heideggeriano, sorretti entrambi da una costitutiva ontologia della guerra). La ricerca di Croce è rivolta contro tutti siffatti e simili esercizi di logica astratta, perché è indirizzata all’affermazione della libertà come responsabilità, capace del trascendimento della propria realtà e della realtà in sé attraverso una forma o varie forme non di riconoscimenti di un dato eternamente pre-esistente, bensì attraverso creazioni ultravalenti, realizzanti una kantiana e diltheyana Transzendenz ohne Metaphysik.
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