Croce storico di se stesso
Abituato a prendere appunti e fare schede per gli autori che studio e che mi sono più particolarmente cari (donde le parecchie ‘bibliografie’ da me pubblicate), osservo questa pratica anche verso me stesso, che mi studio e, in certa misura almeno, com’è naturale, mi sono caro (B. Croce, Filosofia. Poesia. Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore, d’ora in poi FPS, 1951, p. 1169).
Certo che sarebbe stato stravagante aborrirsi, e Benedetto Croce rifuggì sempre l’eccentricità. C’era tutto di lui, in queste parole e in questi programmi, intitolati Sguardo intorno e innanzi a me, nella naturale affezione per se medesimo e nella legittima volontà di tramando, ma c’era soprattutto il suo mettersi in una prospettiva di oggettività storica, e guardarsi dall’esterno, alla pari dello sguardo riservato agli altri, non meno cari e innumerevoli oggetti e figure della ricerca storiografica. Il brano citato si legge nel Contributo alla critica di me stesso (datato Napoli, 8 aprile 1915, e pubblicato per la prima volta nel 1918), facente parte della silloge ricciardiana Filosofia. Poesia. Storia, edita nel marzo 1951, guida preziosa alle piste interne variamente accolte e dislocate nel volume degli ultimi rendiconti. La storiografia, scrisse Croce in una parte della Storia come storia della libertà (1937) intitolata “La storia come azione”, libera dalla vita vissuta (cfr. FPS, p. 513). La libera, classificandola, riportandola a un ordine postumo, sottraendola all’ordinamento lacunoso e provvisorio del prima (Iuvenilia), organandola a un per sempre. Poi viene la storia vivente, la storia nuova, dimensione nella quale sono chiamate a operare le potenze del fare, le sfere di attività, nelle loro varie versioni, l’arte, la poesia, l’utilità dell’economico, la moralità, anche il fare filosofico e lo stesso fare storico e storiografico. Che tutte le compendia, animato dal soffio di libertà che spira come il principio costitutivo di ogni attività e spiritualità. Radice prima di ogni liberalismo, nella cronaca politica e nella storiografia. Plurima e polivalente era stata in Croce l’autovalutazione della propria condizione mentale, idealista desanctisiano in estetica, herbartiano nella morale, antimetafisico nella teoria della storia, con un tardivo lievito di hegelismo che agì come scoperta di un metodo di lettura, assimilazione e critica, allorché, omettendo commenti, chiose, versioni parziali dell’hegelismo, gli «parve d’immergermi in me stesso e di dibattermi con la mia stessa coscienza». Il risultato fu il saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, pensato sul finire del 1905 e giunto alla pubblicazione nell’estate del 1906. Da quel momento genetico, da quello schiarimento e superamento, una ribadita totale eversione dell’hegelismo, anche se Georg Wilhelm Friedrich Hegel e il suo logo vennero riadottati insieme a Giambattista Vico in chiave di concreto storicismo e rigoroso immanentismo (un avo, non un padre), fu aperta la strada alla filosofia come scienza dello spirito, comprensiva dei tre momenti di estetica, logica e pratica. È la progressione, dettata con piglio e geometrie cesariane, non tanto di un sistema, ma di una «serie di sistemazioni» (Contributo alla critica di me stesso, in FPS, p. 1168), esposte ai dubbi e alle nuove esperienze, ben nota ai lettori di Croce: a claritate in claritatem. Una filosofia incardinata nella storia, nel fare storico, filosofia di mille fatti particolari, filosofia per forza di cose e di problemi sempre insorgenti, dinamica e infinita. Filosofia che neppure andrebbe ascritta a un individuo, per quanto quell’individuo, di nome Benedetto Croce, ne fosse effettualmente stato il padre, ma a uno spirito del mondo, che aveva preso luogo in quella identità e in essa si era attuato.
Se la storia per Alessandro Manzoni era stata una guerra perpetua contro il tempo, per Croce la natura di quella guerra poteva coagularsi in questa frase, in cui c’era la sua storia e la sua mirabile erudizione: «tirar fuori dall’oblio». Anche qui una lotta senza quartiere al tempo che tira la corda dall’altra parte, alleato della dimenticanza, della perdita, che la storia e il crocianesimo contrastavano in un continuo tiro alla fune. Al filosofare, indifferente come era stato fin dal principio al problema della trascendenza e al rapporto tra l’essere e il conoscere, inconsapevolmente ma fermamente immanentista e antimetafisico, era arrivato per le vie di vivi e pressanti bisogni di indagine, ponendosi i problemi della metodologia storica, e prima i problemi dell’arte, della vita mentale (logica), della vita pratica (l’economia), della vita morale, del diritto. Della storia infine. In La storia come storia della libertà Croce aveva ripetuto, e in tempi sospetti, in cui le stesse immaginazioni umane erano state percosse e smarrite dall’impero della forza e assuefatte all’illiberalità dei regimi totalitari, un concetto basilare, ricavato da Hegel, che la storia altro non fosse che storia della libertà, storia del suo primo nascere e del suo crescere. A chi si fosse lasciato andare – ed era il 1937, ma erano discorsi del tempo – alla rassegnata ammissione che la libertà aveva disertato il mondo, rinnegando anche per l’incidenza dell’«actio oratoria o lezione delle cose» il progresso, si dovevano ripetere le parole del Cristo: «perché non sanno quel che si dicono. Se lo sapessero, se riflettessero, si accorgerebbero che asserire morta la libertà vale lo stesso che asserire morta la vita, spezzata la sua intima molla» (pp. 520-21). Alle origini del libro della vita, vi fu fino alla fine questa molla, questa convinzione di prassi mentale (la filosofia non sta al mondo per farsi sopraffare dalle realtà del mondo), unita al principio vichiano della conoscibilità di quello che si fa, la storicità dell’opera che si compie, così come a determinare le condizioni dell’opera tutta di una vita, e di questo libro speciale che la sussumeva, non fu solo una volontà individuale, un’opportunità culturale, un disegno editoriale, una calendarietà anniversaria per quanto eccezionale, ma una filosofia e un’etica. Il volume dal titolo Filosofia. Poesia. Storia fu una casella, l’ultima, di un grandioso sistema.
Questo libro composito, la cui complessità non meriterebbe neppure enunciare, tanto il volume si accampa come unico nella storia culturale del nostro Novecento, silloge finale di una vita e di un’opera e non semplice restauro di pagine, agì come una liberazione storiografica dal lungo vissuto e dal lungo e intenso operare dell’esistenza. Restava poi non più che poco alla storia vivente, alla storia nuova, del grande intellettuale. E quella liberazione dalla vita vissuta fu il testamento di Croce e del crocianesimo, il suo estremo stato di fatto, senza alcuna interferenza allotria, iuxta propria principia. Tutti gli studiosi e i frequentatori di biblioteche ricordano una filiera colorata sugli scaffali: le Opere di Benedetto Croce, nelle edizioni Laterza di Bari, giunta a contare nel 1952 settanta volumi, cui si affiancò in quell’anno un altro tomo, pur dotato di una sua autonomia, come un finale consuntivo, un responsabile redde rationem al termine di un lungo viaggio nella cultura italiana e nella parte di sé sostenuta in quella cultura. Un tomo che quella filiera condensava, organizzandola in una nuova sintetica unità, non solo materiale. Perché a quel volume Croce crocianamente intendeva non solo affidare il passato (morto), ma il vivo presente di un’ininterrotta contemporaneità. La storia vivente partecipava ancora attivamente alla vita vissuta, la raccoglieva, la organizzava, la rappresentava, la ridistribuiva, la riproponeva a un altro tempo, di postcrocianesimo a tutti gli effetti, a volte trascurato nell’attenzione e già emotivamente sazio se non indifferente, e non più a tempi e cronache di vibrante e militante anticrocianesimo. A quel volume, alla sua stessa articolazione interna, aveva attinto Gianfranco Contini per la sua disamina, un instant funerario di altissimo pregio, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana (1951), tanto vittoriosamente cursorio e brillantemente sintetico, ancora oggi insostituibile. Se vi è un saggio dove agisce e ricade al suo meglio l’influsso coevo della silloge crociana, se vi è una rifrazione critica perfettamente compatibile, è proprio il pamphlet continiano, colmo senza enfasi di una pressoché filiale ammirazione per il grande ‛atleta’ della cultura che spariva dal mondo nel momento in cui il suo astro editoriale brillava più luminoso.
Che Croce sorvegliasse il suo cammino – vita e studio alla pari procedevano –, lo vigilasse, invigilasse se stesso, era ben nota pratica giornaliera, se dal 27 maggio 1906 Croce aveva cominciato a stendere i suoi Taccuini di lavoro (poi pubblicati nel 1987), stesure di cui cominciò una ricopiatura, traendola dai primi libriccini di scrittura difficile da decifrare, e dedicandola alle figlie nel luglio 1926, taccuini che tenne assiduamente fino al 28 settembre 1949. Nella circostanza specificava che non di un diario di sentimenti, e neppure di pensieri, si trattava, «ma semplicemente il resoconto delle mie giornate» (cfr. Sasso 1989, p. 32). In realtà quei Taccuini offrivano più di quanto annunciato per scrupolo di coscienza – in Croce nulla veniva detto pour charme – non mancando mai in qualsiasi scrittura crociana né il pensiero né la sua facoltà storicizzante nella genesi e nello svolgimento delle cose. Due anni dopo Croce pubblicò la silloge che sfiorava le 1300 pagine in cui, nel momento del congedo dalla vita, aveva ritenuto maturo il tempo di autostoricizzarsi, depositando nella pur sempre nuova opera di un vissuto vivente la testimonianza di un immane lavoro. Lo storico della cultura italiana non poteva non riservare a se stesso, secondo l’insegnamento di Johann Wolfgang von Goethe che aveva incoraggiato e motivato il Contributo alla critica di me stesso – «Perché ciò che lo storico ha fatto agli altri, non dovrebbe fare a sé stesso?» (FPS, p. 1137), si legge in apertura –, alla propria opera enciclopedica, lo stesso trattamento di storico.
Ne sortì Filosofia. Poesia. Storia, con pagine tratte da ogni area teorica e creativa del crocianesimo. Pagine che s’immaginano rivissute, vorremmo dire riscritte una per una, riportate e rivitalizzate alla prima radice del loro concepimento, non solo rilette e selezionate per l’occasione editoriale, perché se si vuole intendere la regola elementare e basilare del crocianesimo, essa consiste nel permanere dentro l’organismo vivo del pensiero e nell’affermazione che fuori dello spirito non esistono le cose, e non esiste neppure il proprio passato. Ecco che il passato, in una coincidenza fra tempo individuale e tempo della nazione, tornava a rivivere nel libro finale. Dai suoi libri, le parti che, scorporate, messe insieme e ordinate, andavano a ricostruire, a mosaicare «una immagine, compendiosa bensì ma intera, dell’opera sua». Lo si legge nell’Avvertenza dell’editore, in cui era scritta a chiare lettere la gratitudine dell’autore nei confronti di Antonello Gerbi, valente storico della cultura europea e americana, il quale «con grande competenza, e con diligenza pari all’amicizia che ha per lui, ha curato il testo e riveduto le bozze di questo volume» (FPS, s.i.p.).
Conviene procedere illustrando partitamente e succintamente le singole sezioni, che furono anticipate da una riflessione Intorno al mio lavoro filosofico (1945), in cui si sosteneva che la filosofia, come ogni altra opera umana, non era intesa se non da coloro che la facevano, ma si asseriva anche che non poteva darsi una filosofia connotata da un possessivo di appartenenza, la mia filosofia (altra cosa, valutabile nei termini di relazioni filosofiche internazionali nel dopoguerra, l’antologia My philosophy and other essays, apparsa per le cure di Raymond Klibansky a Londra nel 1949), e tanto meno che il sistema di filosofia si riducesse a un mitico svelamento di un mistero della realtà. Niente di tutto questo. La filosofia e la storia della filosofia come storia stessa del pensiero (Il concetto della filosofia come storicismo assoluto, 1939), la filosofia dello spirito altro non essendo se non pensiero storico e storiografia, era ed è l’uomo che pensa e continuerà a pensare e a dubitare, urtando nel percorso mentale della infinita ricerca in ostacoli e nubi e oscurità da dissipare con metodo e con pazienza. Si delineava pertanto fin dagli esordi quel procedere progressivo e ininterrotto del pensiero crociano che i giovani della generazione dei Renato Serra e dei Giovanni Boine pativano al confronto delle proprie inquietudini e incertezze, del proprio non-sistema, che era negazione del sistema crociano, ritenendo che il pensiero crociano fosse caratterizzato da una disumana invulnerabilità al dolore, o da una lena più che umana, configurandosi in un «provvidenzialismo così implacabilmente teologale» (E. Garin, Serra e Croce, relazione pronunciata al Convegno cesenate dedicato a Serra nel dicembre 1965, poi in Id., Intellettuali italiani del XX secolo, 1974, p. 44).
Quella silloge fu un trionfo postumo dell’ordine che governò sempre il progetto crociano. Un ordine, come salute della mente, la tenacia ordinatrice, descrittiva e definitoria, innanzi tutto. Ma anche qualche rendiconto finale, e qualche conclamato e ribadito giudizio, come l’ostilità a Vincenzo Gioberti, scrittore di miti giudaici, cristiani e cattolici (Del Gioberti filosofo, 1942). Con qualche libertà compositiva, come il ghiribizzo sognato forse in una notte di insonnia, da cui nasceva Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel (1948), in cui si rivelava tramite un racconto (la visita a Berlino del napoletano Francesco Sanseverino) la sua dimestichezza con il filosofo tedesco, ma anche la critica al costume della fedeltà filosofica (Victor Cousin), che altro non era che povertà speculativa. Il volume non era solo una raccolta di testi, già scritti e già editi, ma nella pur sempre vitale prospettiva del dopo, non puramente riepilogativa, una ricerca di incroci, itinerari di pensiero, elaborazioni, nuove risultanze. Che rinnovavano quelle pagine, datate ad altri tempi e luoghi. No, la vitalità di Croce, plurima a giudicare dalle discipline e dalle connessioni, come anche rivelano studi recenti, non era stata sciupata dal tempo. L’odierna esperienza di una rilettura integrale sensibilizza in proposito. Il lettore è come se si trovasse a leggere una serie di saggi legislativi sugli aspetti più vari delle problematiche culturali, a cominciare dalla filosofia, dal sistema della filosofia dello spirito, dalle sue distinte sezioni (Logica della filosofia, Critiche delle filosofie, Estetica o filosofia dell’arte e del linguaggio), per giungere alla Teoria della storia, all’Economia ed etica, ai Saggi di critica e storia letteraria, infine al nucleo più intimo di se stesso, rinnovando il Contributo dell’anno 1915, con le Pagine autobiografiche. La filosofia, per es., aveva in carico lo stesso problema delle religioni, quello di portare la luce nelle tenebre, l’equivalente del bene filosofico nel male del caos (Filosofia e non filosofia, 1948). Inoltre la filosofia distingue tra pensiero volgare e vero pensiero, che è quello di pensare con il proprio cervello, guardare con i propri occhi, saper cogliere il particolare, la singolarità, l’individualità delle cose, di contro alla volgarità di dare pienezza di realtà ai generi, alle specie, alle classi, ragionandone come di cose esistenti (Il pensiero volgare e il pensiero vero, 1950). Nel saggio La «Loica» nei tarocchi detti del Mantegna (1941), Croce coglieva l’occasione per elevare un inno alla logica, la quale – si legge –
non soffoca né sostituisce la spontaneità del fare, ma la difende e la sorregge contro le rapine che sopr’essa tenta la convulsa e bruta vitalità, la quale prende arie spavalde di vigoria, ed è mostruosità e debolezza (FPS, p. 107).
Vi riconosciamo l’antica lotta al vitalismo – altra cosa dalla vitalità come promozione della vita (il motto goethiano «Viva chi vita crea!», p. 517) –, vitalismo come cecità della mera pulsione di energia, il prometeismo velleitario delle avanguardie, innesco di sicura decadenza, in nome della ragione (della «Loica», umana legislatrice del pensiero e dell’azione). Non solo. La saggistica crociana, che nel volume troviamo riallestita al suo meglio di organizzazione tematica, leggibilità e virtù espositiva, come fosse stata doppiamente testata, per tenuta e consistenza, oltre che per virtù di stile, stile come comunicazione e dialogo, era prensile, singolarmente percettiva dalle circostanze più varie del pensiero e dell’esperienza. Univa la filosofia del sistema alla ricognizione mobile ed extravagante, abilissima a prelevare materia di senso filosofico dalle escursioni più laterali e meno specialistiche, una delle ragioni della popolarità di Croce. La sua egemonia – diciamo pure il suo dominio – nasceva anche dalla chiarezza della scrittura, dalla sua disposizione alla varietas dei temi e degli argomenti, da quella curiosità enciclopedica e dalla capacità del grande intellettuale di avvincere a sé i lettori (anche il lettore comune), e persuaderli. Virtù che mancando allo stile di Giovanni Gentile, più rigorosamente e tecnicamente speculativo, ne decretava un altro tipo di dominio, ma diverso dall’egemonia quasi naturale (perché espressiva, formale, altamente comunicativa, di fatto condivisa) del crocianesimo.
Si legga, dalla sezione Critiche delle filosofie, lo scritto su Il concetto filosofico della storia della filosofia (1940), in cui Croce ribadiva la primaria critica al positivismo, nell’ambito degli studi di storiografia del pensiero, una feracità tutta esteriore nei risultati, da porre in relazione non con l’amore ma con il disamore, non con lo zelo appassionato sì con la freddezza, di una filosofia «decaduta a pura materia di diligenza e di collezionismo erudito e di ingegnose esercitazioni filologiche» (p. 121). La vera unità di filosofia e filologia, oppressa e smembrata dal filologismo positivistico, era da ricondurre a Vico, a quel suo cantiere napoletano, in quella sua dimora affollata dagli otto figlioli e dalle vitali incombenze dell’economia domestica. Vico come pietra miliare del cammino crociano (si rammenti la sua Collectio viciana), da Croce sempre difeso e portato sugli scudi, contro quella nuvola di indifferenza che sembrava seguirlo, nel suo diuturno contrapporsi allo scetticismo e all’intellettualismo astratto del Settecento, da Croce sempre ingiustamente vilipeso, quantunque non sarebbe errato considerare Croce l’ultimo rappresentante di quella razza settecentesca di eruditi e onniscienti, razza muratoriana e tiraboschiana. Da Vico, dalla sua silvestre genialità, brillarono in quella Napoli arcaica le idee capitali della filosofia idealistica del 19° sec., e venne in nuce anche il sistema crociano, se, a modo di esempio dichiarato, la logica poetica o la scienza della fantasia erano divenute l’estetica.
L’estetica o filosofia dell’arte e del linguaggio occupa la seconda parte della silloge, con la riproposizione dell’Aesthetica in nuce (1928), trattazione destinata alla 14a edizione dell’Encyclopaedia Britannica, dove compariva alla voce Aesthetics. Siamo al cuore del crocianesimo, il crocianesimo più dibattuto, controverso, fra molti artisti famigerato, crocianesimo di fondazione, sia pure al primo gradino del sistema, all’opera che lo aveva imposto come scienziato dell’arte e storico dell’estetica, vincolato a quel nesso di intuizione ed espressione che nella sintesi Croce esemplificava con una breve storiografia delle estetiche antiche e moderne (Quintiliano, Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher, Alexander Gottlieb Baumgarten), riportandolo al nesso fra spirito e materia, anima e corpo, e nella Pratica alla sequenza intenzione e volontà. L’autore aveva alle spalle mezzo secolo di diatribe, e ora si limitava quasi solo a esporre, senza commenti, la mappa del lungo contendere, contesa che aveva opposto scrittori poeti e filosofi. Forma aurorale del conoscere l’arte, per Croce, non intuizione intellettuale (come per Friedrich Wilhelm Joseph Schelling), non logicismo (Hegel), non giudizio come nella riflessione storica. Alba della conoscenza, senza la quale – come si legge nel saggio Il carattere di totalità dell’espressione artistica, 1917 – «non è dato intendere le forme ulteriori e più complesse» (p. 237).
La storia, la storiografia, la logica o logicità della storia, il giudizio che la storia assegna agli eventi umani, la caratura, la qualità del giudizio. Nella storia è assente la «forma capziosa della sentenza» (cfr. La storiografia come premessa della lotta del valore col disvalore, in FPS, pp. 510-11): non è storia giudiziaria, che giudica e manda, di processo al tempo (sulla linea settecentesca Cesare Beccaria-Manzoni, con propaggini novecentesche), non è una storia, come diceva l’abate Galiani, che giocasse con «dés pipés», i dadi segnati. La sezione iscritta alla Teoria della storia affondava anch’essa in un passato remoto, quando Croce aveva pubblicato la memoria accademica all’Accademia pontaniana di Napoli, Storia, cronaca e false storie (1912), che lo avrebbe condotto alla terza stazione del sistema, Teoria e storia della storiografia, risultante anche dell’esperienza della guerra, uscita nel 1917. In quel periodo, intenso e documentato sulla storia e il conoscere storico era stato il dialogo epistolare con Serra. Posto che la contemporaneità non era il carattere di una classe di storie, pur distinguendosi hegelianamente la storiografia cosiddetta originaria (ursprüngliche) e la storiografia riflettente (reflektierende), la storia era sempre e comunque storia contemporanea, ché dalla vita insorgevano sia la storia del minuto appena vissuto, sia la storia di remoti conflitti come il mitridatico e il peloponnesiaco. Croce conosceva l’erudizione, il contatto ravvicinato con l’oggetto-documento, né l’abiurò mai, ma la rivitalizzò. L’erudizione era il passato dormiente, il passato-passato, e, per divenire storia, quel passato doveva destarsi come la bella addormentata delle favole. Ne veniva la proposizione, all’apparenza paradossale, centrale nel metodo crociano, che «ogni vera storia è storia contemporanea» (Storia, cronaca e false storie, in FPS, pp. 443, 448), e lo era, contemporanea, anche la poderosa antologia. Le fonti della storia non sono sepolte negli archivi, ma vivono nel nostro petto. La storia si poneva anche sul piano della narrazione, assestandosi la storiografia in una forma letteraria che era anche unità di tono (propriamente letteraria), quell’unità e specificità di tono che prescriveva alle scritture storiche di bandire i toni parenetici, esortativi, retorici, satirici, o schiettamente e incontenibilmente patetici o passionali, per osservare essenzialmente il tono critico dell’analisi e dell’esposizione. In La storia come storia della libertà (nella parte dedicata a “L’unità di un libro di storia”), Croce sintetizzava il suo sentire sullo stile storico delle grandi opere del passato (l’Histoire de France, 1833-1867, di Jules Michelet) e delle sue stesse storie, che dal 1928 (Storia d’Italia dal 1870 al 1915) e il 1932 (Storia d’Europa nel secolo decimonono) scandirono come un memento liberale il tempo di mezzo del fascismo (tempo sospeso degli Hyksos, posto tra parentesi per essere espunto con un heri dicebamus), narrando di un’altra storia, e inneggiando alla derisa Italia giolittiana e alla storia progressiva della libertà nel continente:
Così i grandi libri di storia, che siano grandi opere letterarie, esprimono tutt’insieme, armoniosi e non stridenti, fusi e non confusi, la mente e l’animo dei loro autori, la fermezza del pensiero che niente vale a distrarre dall’indagine del vero, e il calore dell’affetto (pp. 492-93).
La critica letteraria, dove si realizzava una prassi di lettura cui era stato avviato dalle giovanili letture del corpus desanctisiano, era un’estetica in atto. Dalla legislazione teorica al leggere – e Croce fu come Giosue Carducci e Charles-Augustin Sainte-Beuve, un lettore universale – il passo non era scontato. Per il critico la tematizzazione filosofica non fu decisiva. Croce si rivelò un lettore libero, pragmatico, pluralista ed empirico, anche innocente, s’intenda da filosofiche teoresi. Talora la letteratura fu nelle sue mani fonte storica. Ci si chiede se Croce avesse letto l’Estetica, nel postillare le sue pagine di lettore, o se, all’occorrenza empirica della lettura militante e della critica, sempre il lector nella sua fabula critico-descrittiva si rammentasse di applicarla. Configuriamo un paradosso, naturalmente, ma qualche volta Croce lettore ne faceva a meno (della precettistica dell’intuizione-espressione), innestando un’altra marcia, più lineare e magmatica, quella della lettura e analisi biografica e storica di un autore, di un periodo e dell’opera, sintomi (e insieme fonti documentarie) del proprio tempo.
La sua saggistica – dalle Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX, scritte fra il 1903 e il 1914, raccolte nei primi quattro tomi della Letteratura della nuova Italia (1914-1915), ai profili lievi e stupendi dei grandi classici europei, la cui leggiadria sta anche in tale mirabile libertà di lettura (Pierre Corneille, Goethe, William Shakespeare), al volume Poesia e non poesia (1923), dove c’è pure qualche rara pagina che si stenta a perdonargli (Giacomo Leopardi e la vita strozzata dal dolore e dalla malattia, con negazione del pensiero ridotto a mero riflesso di patologia), ovvero la varia narrazione dei percorsi descrittivi e interpretativi adottati, fino ai testi minori e ai paratesti, le rubriche, le noterelle, le postille, quella microerudizione di soglie testuali, le pagine sparse, che era naturalmente nel suo bagaglio – brillò sempre di uno straordinario nitore formale. Ogni lettura era a sé, un’avventura del suo spirito, il discernimento di un carattere, la costruzione di un ritratto, l’evocazione di un’affinità spontanea, la ricostruzione sistematica di un ambiente (l’erudizione del saggio La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900, nel 4° vol. della Letteratura della nuova Italia), la ricusazione di una serie di estraneità (soprattutto morali), un medaglione, un cammeo, una serialità di immagini che mutassero e si riconfigurassero nel tempo (il suo Gabriele D’Annunzio nel tempo, come ancora vedremo). Non v’era a intralciare la lettura alcun decreto attuativo e pertanto prescrittivo della sua capillare e normativa Estetica, né coordinato a un sistema, al suo stesso sistema, autonomo pertanto dai fili di una regia, donde il vietarsi, in sede teoretica, la quadreria generale di una storia letteraria, che un suo discepolo, Mario Sansone, tentò con risultati oggettivamente utili.
Il Croce lettore manifestava non di rado, se non una dimenticanza dei precetti dell’estetica (qui il riferimento è sempre alla prima Estetica, del 1902), una tollerante distanza dalle sue più distintive e preclusive ingiunzioni teoriche. Quanto le pagine di Croce sembravano già ai loro tempi scritte da chi non tenesse come guida e criterio l’intuizione pura, tanto quel lettore, sulle piste di infiniti rivoli letterari, si mostrava attento ai rilievi psicologici, alle situazioni biografiche, al prezioso reperto bibliografico, al magma tutt’altro che depurato della storia, alla sostanza e alla materia dei contenuti della vita e ancora della storia (pensiamo a molti portraits della Letteratura della nuova Italia, una pinacoteca di personaggi e di storie, piccole e grandi, circonfuse di una generosa umanità nel cogliervi, indipendentemente dal valore assoluto e dal grado estetico, i dati più elementari di una memoria caldamente erudita). I maggiori e i minori dunque, da Shakespeare e Miguel de Cervantes alla pletora anche un po’ campanilistica – una pietas municipale era una componente della sua storiografia – dei suoi autori napoletani e meridionali, popolarono, con uguali diritti all’esistenza, il suo paesaggio di lettore attento, rispettoso e solidale. Ebbe e coltivò i suoi gran rifiuti: la letteratura contemporanea, quasi in blocco, respinta nel saggio Di un carattere della più recente letteratura italiana del 1907, in cui autori come Antonio Fogazzaro, Giovanni Pascoli, D’Annunzio, non erano presi in considerazione come identità artistiche, ciascuna a sé, ma solo come virali sintomatiche d’epoca, una malsana condizione dello spirito, «in realtà un unico processo che si tratta d’intendere» (Di un carattere della più recente letteratura italiana, in La letteratura italiana per saggi storicamente disposti, a cura di M. Sansone, 1960, p. 78).
Nella silloge ricciardiana l’autore diede spazio, per chiudere la sezione della critica letteraria, a un saggio su L’ultimo D’Annunzio che risaliva al 1935, in cui il pensiero critico, per quanto sollecitato o incuriosito dalle scritture d’ombra (i frammenti della notte del Vittoriale), non mutava indirizzo e giudizio su colui che nel Contributo aveva definito suo «corregionale, ma non correligionario» (pp. 1160-61), anche se le ultime parole del saggio erano pur sempre un riconoscimento di grandezza: «Egli rimarrà monumento insigne di arte decadente» (p. 873). I Saggi di critica e di storia letteraria, nella silloge ricciardiana, erano organizzati ad ampio spettro, con i contributi su Omero nella critica antica (1940), Terenzio (1936), Virgilio (1938), la grande classicità su cui volare alto, dal cielo di una critica essenzialmente descrittiva e tematica, di un umanesimo filosofico che confutava giudizi distorti e non lesinava critiche ai ‘giocherelli’ dei filologi, al loro ingegno meccanico, alla loro (di alcuni) povertà mentale. Il territorio dantesco, con capitoli tratti dal libro forse più celebre, e con Poesia e non poesia, più controverso, su La poesia di Dante (1921), è presidiato da pagine sul Carattere e unità della poesia di Dante (1920) e da un più tardo intervento su L’ultimo canto della «Commedia» (1938). Né poteva mancare un’altra pagina capitale, come esempio di critica della qualificazione, quale Ariosto. L’attuazione dell’armonia (1918), con l’enucleazione dell’ironia, la quale, non essendo relativa a un ordine di sentimenti o di culture (cavallereschi o religiosi), ma avvolgendoli tutti, è «qualcosa di schiettamente artistico e poetico, la vittoria del motivo fondamentale sugli altri tutti» ed è
simile all’occhio di Dio che guarda il muoversi della creazione, di tutta la creazione, amandola alla pari, nel bene e nel male, nel grandissimo e nel piccolissimo, nell’uomo e nel granello di sabbia, perché tutta l’ha fatta lui, e non cogliendo in essa che il moto stesso, l’eterna dialettica, il ritmo e l’armonia (p. 760).
Forse la pagina più limpida, serena e universale di tutto il crocianesimo. Eppure quasi tautologica, un puro riflesso rispecchiato dall’astro ariosteo.
«L’individuo è poca cosa per sé, fuori del tutto». «Lascia che di te parlino gli altri». «Per far qualcosa al mondo». «Un Garibaldi della critica». I primi tre enunciati sono alcuni basilari principi di deontologia memoriale, anche di fronte a un atto di coscienza. L’ultimo, stravagante definizione se riferita a Croce, indicava, nelle parole sorridenti dell’erudito napoletano don Bartolommeo Capasso riportate nel Contributo (p. 1150), il momento in cui Croce, da ospite e pacifico avventore dell’Archivio di Stato di Napoli, diveniva quasi suo malgrado, dopo avere scritto una memoria (La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, 1893) e un saggio («libricciuolo») sulla metodica della storiografia letteraria (Critica letteraria, 1894), un letterato militante, un pubblico intellettuale, e cominciava a mettere a rumore il mondo della cultura, non solo quella napoletana. Cosa era accaduto? «Un atto insomma di liberazione personale, e non l’inizio di una professione di filosofo dell’arte» (p. 1150). Non ancora, almeno.
Contributo, «supremo libretto» (Garboli 2002, p. 27). Un libro che era una storia retrospettiva e un bilancio per un congedo non poteva nella sua parte finale che iscriversi alle Pagine autobiografiche, cominciando dal già più volte ricordato Contributo alla critica di me stesso. Pagine che erano state scritte nel 1915, anno in cui era uscita l’edizione tedesca della sua Teoria e storia della storiografia, con una doppia e precisa determinazione cronologica e storica: «quando cominciò a farsi chiaro che con la guerra europea si era entrati in una nuova epoca storica» (FPS, p. 1172). Cosa fosse, Croce lo spiegava con una serie di negazioni, Ciò che non si troverà e ciò che si troverà in queste pagine: non una confessione o l’esame morale di se stesso, o il giudizio universale sulla propria opera, e nemmeno i ricordi o le memorie. Che cosa allora? Il contributo era critica e storia, la storia critica del proprio lavoro, e di quanto avesse contribuito al lavoro comune: «la storia della mia “vocazione” o “missione”» (p. 1138). Rievocazione anche di un disegno di vita, prima flebile e vago (l’erudizione storica e il lavoro letterario, la frequentazione della Biblioteca casanatense, il corso di giurisprudenza e poi di filosofia morale tenuto da Antonio Labriola all’Università di Roma), senza ben conoscere l’arte dello studiare, a mezzo tra docilità dello scolaro e passione dell’autodidatta, aneddotista curioso, e «involontario filosofante» (p. 1146) per il bisogno di lenire la sofferenza di quei giorni di orfanezza e smarrimento. Dal 1882 al 1892 tutto versato al di fuori, e anche la pratica dell’erudizione, pur con gradazioni di valore al proprio interno, era un versamento esteriore di energie mentali. L’erudizione era esteriorità, come una gettata di calce, un basamento per le successive costruzioni dello spirito. Poi consolidatosi, quel disegno, al fuoco della realtà e dell’esperienza. Contributo che significava anche l’atto del fornire agli altri, gli storici del domani, un materiale controllato «con migliore informazione e maggiore esattezza, e magari con meglio istrutta severità» (p. 1139). Nessun compiacimento di sé, garantiva l’interessato, autobiografo per senso di responsabilità testimoniale, severo come uno storico. L’avidità dei racconti, la gioia dei primi libri, dei romanzi e delle storie, l’attrazione per il libro nella sua materialità cartacea, e, nel cuore del cuore, la letteratura. Pagine per quanto misurate, magnifiche di colore, imbevute della materia densa degli affetti familiari e di un genuino amore del passato, di tutto il passato, del proprio in mezzo a quello degli altri. La madre, il padre, i parentes. Le prime letture («Il Fanfulla della domenica» di Ferdinando Martini, Francesco De Sanctis, Carducci). Le prime scritture (bozzetti e invettive satiriche). Una certa secchezza e parsimonia di espressione era un segno più affidabile di logica e serietà. La tragedia, per il terremoto di Casamicciola del 28 luglio 1883, la morte dei genitori e dell’unica sorella, la casa con il ricordo in epigrafe dello scampato pericolo («Benedetto Croce / giovanetto / unico dopo tanto strazio / sottratto alla morte»), la superstite angosciata sopravvivenza, insieme al fratello nella casa romana di Silvio Spaventa. Una delle pagine in cui Croce, rivivendo e analizzando quell’esperienza catastrofica di dolore, quell’espianto traumatico dalla vita di prima, la consegnava ai lettori, a futura memoria, segnava il Contributo in un suo punto centrale e di assoluta memorabilità per interpretare, in ogni suo chiaroscuro, la vita, e anche la filosofia, di Croce:
Lo stordimento della sventura domestica che mi aveva colpito, lo stato morboso del mio organismo che non pativa di alcuna malattia determinata e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere, gl’incerti concetti sui fini e sul significato del vivere, e le altre congiunte ansie giovanili, mi toglievano ogni lietezza di speranza e m’inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane. Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio (FPS, p. 1144).
C’è una rinascita, la risalita di una china, quella del vivere e del pensare, e della costruzione di un pensiero. Lo spirito che nella sua propria vita riprendeva il cammino.
Non saremmo lontani dal vero se dicessimo che l’intero tomo ricciardiano potrebbe specchiarsi e riconoscersi, nel bene nel male, nella sofferenza e nel suo riscatto, oltre che nella sintesi operosa, entro questo abisso testuale del Contributo, così limpidamente rifrangente, collocato verso la fine, dove sarebbe andato a riposare dopo il lungo tragitto il gran fiume del tempo e delle opere. Il desiderio e la speranza che si era concesso era stato quello di un passaggio, di un transito, «dalle tenebre alla luce» (p. 1171). Aveva sostenuto altresì il concetto di una mortalità umana attiva e operante. Anch’essa non tenebrosa. Se l’uomo non avesse avuto la possibilità di morire, incarcerato per l’eternità nella vita, allora sì che sarebbe stato terribile il suo destino. Sarebbe venuta meno la libertà che era stata l’anima della vita. La morte sarebbe venuta a interrompere un lavoro, un discorso, e connotava anch’essa di libertà la vita. «E in ozio stupido – scrisse il biografo Fausto Nicolini – essa non lo trovò di certo la mattina del 20 novembre 1952» (Nicolini 1962, p. 437) .
Cinquant’anni di vita intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo compleanno, a cura di C. Antoni, R. Mattioli, Napoli 1950.
F. Nicolini, Benedetto Croce, con 21 tavole fuori testo, Torino 1962, pp. 434-56.
G. Sasso, Per invigilare me stesso. I taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna 1989.
E. Giammattei, Critica e filosofia. Croce e Gentile, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, 8° vol., Tra l’Otto e il Novecento, Roma 1999, pp. 967-1016.
C. Garboli, Croce e Gentile, in Id., Pianura proibita, Milano 2002, pp. 26-34.
E. Giammattei, Il romanzo di Napoli. Geografia e storia letteraria nei secoli XIX e XX, Napoli 2003.
Croce filosofo, Atti del Convegno internazionale di studi, Napoli-Messina 2002, a cura di G. Cacciatore, G. Cotroneo, R. Viti Cavaliere, 2 voll., Soveria Mannelli 2003.
E. Giammattei, I dintorni di Croce. Tra figure e corrispondenze, Napoli 2009.
F. Crispini, Per una rivisitazione di Croce, Soveria Mannelli 2013.