Cronachistica
È necessario premettere che non esiste una cronachistica che abbia come oggetto specifico Federico II, e meno ancora una commissionata o ispirata da lui.
Nel primo caso gli scritti possono essere andati semplicemente perduti, poiché abbiamo notizia di due testi che corrispondevano forse a questa definizione: i Gesta del vescovo di Imola Mainardino Aldigeri, fedele a Federico, e una 'cronaca' sui XII scelera Friderici imperatoris, scritta da Salimbene da Parma e più volte citata nella sua opera (Salimbene de Adam, 1998-1999, CXXV, p. 309). Niente possiamo però dire di certo su di essi: è probabile che quello di Salimbene fosse, più che una cronaca, un pamphlet morale-politico, che collezionava i crimini dell'imperatore e argomentava in proposito, come l'autore faceva spesso, su questo e altri temi, nell'unico suo scritto a noi giunto. Tutt'altra cosa doveva essere l'opera di Mainardino, ma non sappiamo se avesse come oggetto esclusivo Federico o se fosse piuttosto una storia più vasta, riguardante forse le sue guerre in Lombardia, secondo un modulo già sperimentato in zona padana con il Barbarossa.
Nel secondo caso, l'assenza dimostra certamente che Federico II non ha avuto cura di sollecitare una produzione storiografica sulla propria attività. Si tratta di un disinteresse, o di un'incapacità, che ha suscitato riflessioni e discussioni, tanto più se si confronta il suo caso con quelli assai diversi dei suoi predecessori, tanto svevi che normanni, e del suo successore nel Regno di Sicilia, il figlio Manfredi, che tutti hanno promosso o quanto meno suscitato una storiografia incentrata sulle loro gesta. Poiché si tratta di un silenzio, le ragioni restano solo ipotizzabili, ma sembra si debba pensare a un concorso di fattori: la mancanza della necessità di legittimare il proprio potere, che è sempre stata una delle principali molle per la storiografia ispirata dall'alto (Federico II è invece una sorta di quintessenza della legittimità, che i suoi stessi avversari non hanno potuto negare se non negando totalmente la sua qualità di figlio di Enrico VI, con il farne il figlio di un beccaio ‒ o altro ‒, presentato al mondo dalla troppo vecchia Costanza al termine di una finta gravidanza: leggenda peraltro di non enorme diffusione); la scelta del sovrano di rivolgersi piuttosto a un pubblico contemporaneo, su cui influire direttamente, spiegando le proprie ragioni e dando la propria versione dei fatti, che è indubbiamente legata alla qualità tempestosa dei suoi rapporti con il papato, ma che è anche un segno notevole dei tempi, perché è resa possibile dalle strette relazioni politiche e dall'affinità culturale che uniscono allora l'Europa, nonché dalla presenza diffusa di un'opinione pubblica ricettiva; infine le tendenze specifiche degli interessi intellettuali suoi e della sua cerchia, che ‒ al di là del gusto per la poesia lirica in volgare ‒ appaiono orientati verso una retorica di forte impronta giuridica e concreta, che forse non spingeva verso la storiografia, per lo meno nelle forme, pur molte e varie, che erano praticate a quel tempo.
Non è verosimile però l'ipotesi che l'assenza di storiografia orientata sul re che caratterizza nel Regno (ma in realtà anche in tutto il resto dell'Impero) l'età di Federico sia da imputare all'inaridimento, da lui stesso causato, di quel ceto intellettuale che in età normanna si sarebbe identificato nei suoi re (Pispisa, 1996): senza discutere qui della validità di una tale definizione per gli scrittori di età normanna, in gran parte ecclesiastici che scrivono su commissione dei principi, non sembra proprio che un tale ceto possa essere venuto a mancare con Federico, che non solo ebbe uomini di cultura nella Curia, nella cancelleria, nell'amministrazione pubblica, ma altri cercò di farne emergere (e con un certo successo) attraverso lo studio, considerato una strada di concreto miglioramento dello stato, della società e dell'individuo (come è detto nel documento di fondazione dell'Università napoletana). È del resto da un ceto del genere che proviene il principale cronista del regno di Federico, il notaio Riccardo di San Germano, che scrive per proprio impulso, e senza allargarsi in belle narrazioni, ma fa di Federico il protagonista assoluto delle sue note, l'esempio concreto del re che governa, colui che realizza finalmente l'unità morale del Regno.
Mette conto piuttosto di riflettere sul fatto che con Federico è venuta del tutto a mancare l'associazione con la Chiesa, che aveva ampiamente sostenuto la storiografia normanna, e che è del resto il pilastro della costruzione dell'unica vera storiografia regia di questo secolo, quella francese; inoltre la storiografia laica è ovunque solo ai propri inizi, così che non può stupire che dia frutti ancora formalmente immaturi, come è la Chronica di Riccardo, del resto intelligente e attenta ai fatti pubblici tanto da rappresentare già un risultato notevole. Gli storici regnicoli dell'età di Manfredi e di Carlo d'Angiò saranno in buona misura laici, e non possono che essere considerati il prodotto di un affinamento graduale dell'intellettualità del Regno, che porta il segno del lavoro impostato proprio da Federico (giudice, anche poeta in versi latini Bartolomeo di Neocastro, che scrive la storia del Vespro; storico di impronta nettamente filosofica il cronista di Manfredi, Jamsilla).
Non va dunque forse sopravvalutata, e comunque va sfumata, la mancanza di una storiografia di indirizzo ufficiale intorno a Federico, tanto più che la pubblicistica della Curia risulta essa stessa una qualche forma di storiografia, pur se tendenziosa e soprattutto frammentaria: le sue lettere infatti non mirano solo a spiegare e dimostrare una causa, ma anche a informare sugli avvenimenti tanto i principi amici, quanto i sudditi, cui Federico, quando era lontano, inviava costanti notizie (come mostrano in particolare Riccardo di San Germano e la Chronica regia Coloniensis), utilizzando quindi anche il resoconto cronachistico come uno strumento per costruire il consenso interno e la nozione di una comunità tra le parti del suo Impero, mantenendo intorno a esso una rete vitale di relazioni. In fondo, dunque, una storiografia Federico se l'è scritta da solo, con l'aiuto di una parola tanto ornata quanto persuasiva, destinata a prolungare nel tempo un'efficacia che già i contemporanei mostrano di aver considerato rilevante. In questo senso anzi la parola di Federico entra in moltissime fonti, che ne copiano i testi, o li riassumono in proprio, o comunque reagiscono ad essi, in una misura che non ha paragone con gli altri sovrani laici del tempo.
Esiste in ogni caso una produzione storiografica indipendente da Federico ‒ e dunque per altro verso interessante ‒, che non solo può costituire per noi testimonianza sui fatti di Federico stesso, in molti casi ampiamente presenti e anche commentati, e sulle reazioni e interpretazioni date alla sua opera, ma che illustra anche la realtà politica, culturale e sociale del suo tempo, ed è quindi comunque utile per collocare e capire la sua azione, nei successi come negli insuccessi.
La storiografia del sec. XIII è in ogni senso considerevole: in primo luogo per il numero dei contributi, che è elevato e mostra un diffuso interesse verso la memoria scritta dei fatti umani, in secondo per la partecipazione crescente dei laici, in terzo per i livelli culturali, che sono vari, ma comunque discreti e spesso notevoli, anche in senso tecnico, vale a dire per la volontà e la capacità di collegare e interpretare gli avvenimenti che molti autori dimostrano. Il sec. XIII è del resto un tempo di crescente diffusione delle scuole, e molti dei testi in esame sono destinati ad esse, o comunque nascono da quell'ambiente, e la loro stessa circolazione segue le vie dell'insegnamento (inizialmente soprattutto quello universitario, poi per percorsi più ampi): è il caso soprattutto delle storie universali o delle cronache di papi e imperatori, ponderose o sintetiche, che sono composte come sussidio allo studio, e sono perciò spesso corredate anche da una serie di espedienti ‒ tabelle, impaginazione per colonne, indici ‒, atti a facilitarne l'uso e la consultazione. Gli scritti dei laici denotano, in linea di massima, una cultura più diffusa, ma meno avanzata (pure se l'uso stesso del latino, in paesi di lingua madre assai diversa, presuppone studi e pubblico alti, fatto tanto più notevole in casi, come quello di Worms, di storiografia municipale); si tratta comunque di un fenomeno irreversibile, che va accentuandosi nel tempo e che porterà al travaso di parte della stessa cultura scolastica nelle varie lingue nazionali. Durante gli anni di Federico II le cronache sono scritte ancora per la maggior parte in latino, ma lungo tutto il secolo si intensificano gli esempi di traduzioni e di redazioni di opere nei vari volgari (soprattutto tedesco e francese), pensate per un pubblico più ampio.
L'uso del latino va inteso comunque in tutto il suo valore: il latino è non solo la lingua propria della Chiesa e dell'amministrazione civile nei suoi livelli più elevati, ma è anche lo strumento unico della comunicazione intellettuale europea; una storiografia scritta in latino vuol dire per ciò stesso qualcosa che supera, nell'idea di chi scrive, la prospettiva immediata e contingente, tendendo a una memoria potenzialmente universale (tutto ciò è comprensibilmente meno netto in Italia, dove il volgare nel primo Duecento non si è distaccato del tutto dal latino, e meno ancora è giunto a essere una lingua letteraria). Si tratta inoltre, con piena evidenza, di una lingua in genere piuttosto corretta, ma non irrigidita: a volte, dove l'interazione con il volgare è forte, essa può assumere parole e mosse espressive dall'esperienza quotidiana, con risultati notevoli (il caso più celebre è quello di Salimbene); ma anche in situazioni diverse, è comunque un latino fondato soprattutto sulla Bibbia e sui testi della letteratura cristiana medievale, quindi una lingua di cultura ampiamente interiorizzata e piegata a contenuti attuali e rinnovati: basta del resto seguire in essa i segni, qua e là ben evidenti, della nuova logica scolastica, oppure guardare agli efficaci neologismi latini dell'inglese Matteo Paris (penso per esempio al suo annus proeliosus), per rendersi conto di come si tratti di una lingua ancora capace di sviluppi sorprendenti.
Un altro fattore di importanza generale è ovviamente il tempo: la storiografia che viene ora presa in considerazione è contemporanea a Federico in senso ampio, comprendendo testi scritti dagli inizi fino alla fine del secolo XIII. In un arco di quest'ampiezza si producono delle differenze considerevoli, legate soprattutto all'evoluzione delle storie dei singoli paesi. Questo è vero ovunque, ma ha un valore particolare per la storiografia italiana e per quella direttamente legata alla Chiesa di Roma.
Qui le differenze tra la prima e la seconda metà del secolo sono davvero rilevanti: neanche il papato produce in realtà durante gli anni di Federico una vera e propria storiografia, al di là delle vite di Innocenzo III, di Gregorio IX e di Innocenzo IV, che non sono destinate a una vera diffusione. Crea invece una messe considerevole di materiale pubblicistico, che in quelle vite trova un luogo di raccolta e di sistemazione. È solo a partire dalla metà del secolo che si afferma, nelle mani principalmente dagli Ordini mendicanti, la cronaca di papi e imperatori, nata come sviluppo dei più antichi cataloghi, arricchiti di qualche notazione storica, e si diffonde grazie a loro, influenzando la storiografia di tutta Europa. Si tratta di una formula molto sintetica e sussidiaria allo studio, cosa che spiega in parte il suo largo successo anche nel mondo laico, che sente sempre più il bisogno di una qualche forma di conoscenza storica. Ma la cronaca è in realtà soprattutto uno strumento ideologico, presenta la lettura della storia fatta dalla Chiesa di Roma, è anzi il principale veicolo scritto del suo giudizio in materia presso un pubblico vasto.
Accanto ad essa, la storiografia mendicante sperimenta anche altre formule, con testi che possono avere schemi e finalità diversi: gli annali contemporanei (Tolomeo da Lucca), la storia cittadina, la raccolta agiografica (Jacopo da Varagine), la storia con funzione di exemplum morale e di spunto per la predicazione (Tommaso Toscano), l'opera che mescola insieme tutte queste valenze, aggiungendovi una fortissima componente autobiografica e di selezione personalissima del ricordo, come è la Cronica di Salimbene. Ma anche qui gli autori applicano gli stessi schemi di interpretazione, con differenze che sono più che altro di souplesse nell'applicazione delle categorie già date (a volte assai scarsa), oppure di compresenza, accanto a queste, di qualcos'altro, che rende il sistema interpretativo un po' meno rigido (come è per l'osservazione politica intelligente di Tolomeo da Lucca o per la sensibilità verso qualità umane che possono abbellire anche i 'cattivi', come è per Salimbene da Parma: in particolare proprio nei confronti di Federico II, che costituisce, potremmo dire, il suo personale assillo, perché continua a sfuggirgli, pur essendo stato così esattamente catalogato). Tutte le forme possono perciò essere considerate insieme, come aspetti diversi di una stessa storiografia ideologizzata, che considera essenziale il messaggio e cerca quindi di passarlo attraverso un'offerta diversificata, secondo la ben nota capacità di adattamento alle esigenze specifiche del pubblico, che è uno dei tratti distintivi più importanti dei nuovi Ordini.
In questi testi Federico II è sempre fortemente interpretato, in un crescendo di brevità e di efficacia: dallo Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais, che distilla i fatti principali dell'imperatore secondo un'ottica romana, a Martin Polono che ne percorre l'intera carriera in poche parole, ognuna equivalente a un giudizio; a Jacopo da Varagine che nella Legenda aurea traccia in sintesi rapidissima un'interpretazione della vicenda di Federico esclusivamente incentrata sul rapporto con la Chiesa, cui tutto deve e che perfidamente perseguita, meritandosi la caduta dalla grandezza cui la Chiesa stessa l'aveva innalzato.
Questo tipo di presentazione deriva in linea diretta dalla pubblicistica del tempo di Federico, ma porta il segno anche dei problemi successivi: la battaglia infatti non si è conclusa con la morte dell'imperatore, ma ha investito anche i suoi figli e i fedeli dell'Impero. Di fatto il quadro italiano ha assunto nella seconda metà del secolo caratteri diversi, pur se logicamente influenzati dall'azione effettiva di Federico stesso, ed è segnato da una strettissima forma partitica e dal coinvolgimento di forze esterne, che hanno avuto uno spazio sufficiente a cancellare la pars imperii quasi ovunque nelle città d'Italia (come nota più volte Salimbene), ma anche a creare non poche difficoltà alla Chiesa stessa. In corrispondenza con questi cambiamenti, la figura dell'imperatore viene perciò integrata, soprattutto nei testi scritti nell'ultima parte del secolo, anche con altre tematiche, che non avevano avuto che qualche accenno durante la sua vita. In particolare a Federico vengono attribuite la responsabilità totale della divisione dell'Italia in partes politiche e la colpa di essere anello di una stirpe maledetta, che alla Chiesa non ha causato che problemi e nemici, e alla quale non c'è rimedio che l'estirpazione: un tema, questo, che risponde evidentemente all'esigenza di giustificare la guerra contro i discendenti di Federico, la devoluzione del Regno di Sicilia a un re straniero e l'alterazione totale degli equilibri politici in Italia e anche fuori, e che permette però un'interpretazione lineare di tutta la storia del secolo.
Un'evoluzione del tutto analoga, e anche più vistosa, mostra la situazione storiografica dell'Italia comunale, alla quale del resto il messaggio delle cronache mendicanti era in gran parte diretto. Al tempo di Federico, la storiografia dei comuni è tutta di brevissimo passato: anche se la sua stessa esistenza è un'affermazione di valore politico, perché dà voce autonoma a entità pubbliche minori e minime, che si sentono norma a se stesse e padrone della loro storia, in realtà l'assenza del tempo lungo priva gli annalisti cittadini di alcuni binari interpretativi che aiutino a leggere i fatti, e ben poco altro hanno a disposizione per farlo, nella loro cultura come nella situazione storica che vivono.
Si tratta mediamente di una forma di memoria storiografica assai semplice, che seleziona quasi solo fatti di immediato interesse locale, senza collegamenti di alcun genere. In essa di Federico non c'è praticamente nulla al di fuori dei suoi rapporti con l'Italia dei comuni, e anche qui la sua azione appare sminuzzata e persa in pochi fatti d'arme, in genere di scarso peso, combattuti contro le città sue avversarie. L'unica fonte che davvero sia in grado di dare una lettura unitaria di Federico viene da una delle città che più lo hanno contrastato, cioè Genova, ed è politica non solo per la sua esistenza, ma per l'analisi che svolge regolarmente dei fatti e delle situazioni. È però anche l'unico caso in cui la storiografia cittadina sia davvero ufficiale, e non scritta da persone private, pur se spesso notai e appartenenti ai ceti dirigenti. A Genova la scrittura storica è prodotto e funzione del governo, e ad esso, non a una pubblicistica esterna, è destinata: è del tutto comprensibile quindi che non possa limitarsi né a segnalare fatti slegati, né a propagandare una tesi già pronta, ma debba aiutare a capire le cose per poterle dominare, per elaborare una risposta meditata ai problemi, anche gravissimi, che la città si trova ad affrontare. Lo spazio che negli annali genovesi ha Federico II, contro il quale ci si decide a opporsi non per le ragioni propagandate dalla Chiesa, ma perché si era visto "qualiter dominus imperator tractaverat et tractabat homines de regno, et alios omnes qui sub ipso erant" (Annales Ianuenses, 1890-1929, III, pp. 87-88), l'attenzione e il rispetto che accompagnano comunque un'osservazione sempre puntualissima, la capacità di cogliere in una breve frase la grandezza dell'avversario (ibid., p. 188) sono le cose più interessanti che l'annalistica comunale riesca a darci su Federico. Ma la qualità sostanzialmente altra degli Annales Ianuenses, per le sue caratteristiche come per il livello culturale dei suoi autori, ci dimostra anche che la piattezza della reazione all'imperatore nei normali annali cittadini del suo tempo non è né un fatto ideologico ‒ una sorta di damnatio memoriae ‒ né un puro dato oggettivo, cioè il segno che nei comuni solo questo si è sentito e pensato di Federico, ma è piuttosto il frutto dei limiti storici di questa annalistica. Una storiografia cittadina di carattere politico esiste in Italia, ma appare solo nella seconda metà del Duecento, inevitabilmente legata alla trasformazione delle divisioni militari e sociali, in atto nelle città già prima di Federico, in partiti politici stabili e sovracittadini ‒ la pars imperii e la pars ecclesiae ‒, che costituiscono legami superiori effettivi, e quindi anche possibili principi di spiegazione dei fatti: in questo quadro più maturo diventa certamente più facile cogliere i collegamenti tra gli avvenimenti, anche lontani, e abituarsi a leggere le intenzioni e le conseguenze degli atti di ciascuno. Ma si tratta di un fenomeno più tardo, che al tempo di Federico è ancora in gestazione: i suoi contemporanei dimostrano di non ragionare affatto sulla base delle partes e di faticare ancora moltissimo a orientarsi su uno scacchiere politico che copra anche solo l'Italia; al punto che il difficile, per le città antagoniste di Federico, non è tanto combatterlo, quanto motivare la propria opposizione a lui (come mostrano gli sforzi in tal senso del piacentino Codagnello, che per riuscirci, e solo parzialmente, deve prendere in prestito temi dalla propaganda della Chiesa); così come è difficile, per gli autori che seguono in Ezzelino da Romano il primo emergere di un potere di nuovo tipo che viene a infrangere i ritmi e gli schemi dell'organizzazione comunale del territorio padano, assegnare a Federico, che in questa storia è presente, un ruolo sostanziale e non semplicemente di più o meno onorevole presenza (è il caso di Rolandino da Padova, ma in altro modo dello stesso Gerardo Maurisio, pur favorevole a Ezzelino e a Federico). Bisogna anche qui aspettare l'ultimo quarto del secolo perché le fonti in genere mostrino di riuscire a dare a Federico un qualche senso complessivo (giusto o meno che sia), del resto secondo un giudizio politicamente schierato. Allora troveremo la sintesi lucidissima, tanto tesa da rischiare di essere astratta, data dal Chronicon Marchiae Tarvisinae, il miglior testo politico prodotto dalla pars ecclesiae, e, dall'altra parte, anche una voce cittadina che coglie e rende lo sforzo imperiale (come tale in realtà assolutamente antipartitico) compiuto da Federico nell'Italia dei comuni. E questa è il Chronicon Placentinum, un testo di lungo respiro (comincia dal Barbarossa) e fondato su fonti più antiche (una potrebbe anche essere Mainardino), gremito di fatti locali, ma con la capacità di leggerli entro quadri più ampi, e animato da forti passioni politiche e ideali morali, che nel suo insieme risulta assai utile per capire l'evoluzione complessiva della situazione politica italiana lungo il sec. XIII, ma anche che cosa potesse esserci dietro l'adesione a Federico e poi alla pars imperii (e quindi a glossare Dante).
Vanno comunque segnalate le 'sfrangiature' di questo sistema di lettura a tagli netti, che sono date dal filone aneddotico, che percorre testi comunali come testi mendicanti. La figura di Federico acquista infatti, con il passare del tempo, una più netta sfumatura leggendaria (già in parte presente mentre era vivo), che appare particolarmente nella storiografia esemplare ‒ spesso acritica e interessata a ricavare dalla storia soprattutto delle moralità, che risultano più efficaci se legate a un personaggio noto ‒, ma anche nella cronachistica cittadina, dimostrando l'esistenza di tradizioni diverse su Federico, che ne mettono in luce tratti di curiosità 'empia', o invece di cultura e cortesia, che renderanno spesso a due facce la storiografia successiva, anche guelfa, nei suoi confronti (un buon esempio è Giovanni Villani).
Ovviamente diverso è il quadro della storiografia del Regno, che ha meno testi, ma più opere di forte rilievo singolo. Realmente contemporanei a Federico sono solo Riccardo di San Germano e la cronaca cistercense di S. Maria di Ferraria, due testi differenti per genere (il testo cistercense è uno dei rari esempi italiani di cronaca universale, prova insieme delle capacità di giudizio storico dell'autore e delle difficoltà di scrivere un'opera di questo tipo senza buone cronache universali su cui basarsi), ma piuttosto affini nel considerare Federico. Entrambi ne seguono con attenzione (Riccardo anche con grande convinzione) l'attività di governo interna e con preoccupazione quella esterna, e sentono rischioso per il Regno il fatto che egli sia anche imperatore, con impegni e doveri troppo alti, che soprattutto lo legano a un difficile equilibrio di rapporti con il papa.
Ma poiché questa unione non supera la persona di Federico, alla storiografia successiva il problema del Regno si presenta in termini del tutto diversi. Il cosiddetto Jamsilla, che è molto vicino a Manfredi, deve giustificare piuttosto il potere di un figlio illegittimo di Federico, giostrando in un quadro in cui i termini di confronto sono il papa, a Federico assolutamente nemico, e le forze interne, da Federico in parte depresse, e gioca con raffinatezza una carta particolare, che è quella della continuità di meriti: innati, indotti dall'educazione, accresciuti dall'insegnamento della realtà (v. la lettura, forse troppo sottile, ma fondamentalmente convincente, di Delle Donne, 2001). Una continuità dunque non necessariamente di politica, non certo di Impero, ma di valore personale, che può essere aperta a molte soluzioni (e non è privo di interesse osservare che è una linea di interpretazione in cui si verrà a porre, seguendo un proprio percorso, anche Dante, che tecnicamente non è uno storico ma che della storia si nutre, per il quale la discendenza di Manfredi da Federico significa una condivisione naturale di qualità e insieme una straordinaria educazione).
Come è ben noto questa coesistenza pacifica, in fondo proposta da Jamsilla, non durò molto: con Urbano IV e Clemente IV gli Svevi diventeranno definitivamente una stirpe maledetta, e la propaganda papale spingerà pesantemente sul tema della continuità dinastica. Ciò ovviamente vuol dire che questo stesso tema potrà essere usato pure in senso opposto, contro gli Angiò, a sottolineare la legittimità storico-giuridica delle pretese aragonesi dopo il Vespro, come fa Bartolomeo di Neocastro (e, bisogna dirlo, anche Salimbene, assai poco favorevole ai francesi in Italia). Ma il Regno di Sicilia, nella sua versione sveva, ha creato comunque qualche cosa di durevole: pur con le lacerazioni nella sua storia date dai cambiamenti dinastici, violenti o accompagnati da violenze, che si sono susseguiti tra fine sec. XII e fine XIII, le sue fonti storiografiche mostrano in atto l'elaborazione di un'idea di monarchia come principio comune di identificazione che è in qualche misura analoga a quella che si è creata, con un ben più lungo passato, in Francia. È quello che ha già sentito Riccardo di San Germano con Federico II, per questo interrompendo la sua prima cronaca, puramente contemporanea, per riscriverla nell'ottica di una storia del Regno, dalla sua caduta nell'anarchia con la morte di Guglielmo II alla sua resurrezione con Federico. Ma è anche quello che indicano Jamsilla come programma di Manfredi e Saba Malaspina come sua realizzazione: un Regno come realtà unitaria, che ha una sua storia, una sua cultura, una sua giustizia, di cui il re è il garante e il conservatore. E se le fonti della seconda metà del secolo vedono soprattutto Manfredi, e Federico è perciò solo un antefatto ‒ che lo legittima, gli lascia un patrimonio di virtù, o piuttosto (come pensa Saba) una trama di discordie e contrasti a vasto raggio in cui Manfredi finirà per farsi impegolare, quale capo del partito ghibellino ‒, è comunque significativo che per tutti Federico sia il punto d'inizio, la premessa necessaria della nuova storia del Regno.
In Francia, dove una monarchia forte esiste invece da tempo, si va configurando quello che non c'è ancora in alcun altro Regno, e cioè una storiografia ufficiale. Nel corso del sec. XIII viene accorpata nell'abbazia regia di Saint-Denis una serie continua di testi che illustrano la storia di Francia a partire dalle origini troiane; viene tradotta in francese e poi proseguita per incarico ufficiale (Grandes Chroniques de France): con essa la monarchia si assume il compito di diffondere all'interno di un pubblico, nazionale e molto vasto, la conoscenza 'autentica' della storia della Francia, rappresentata come la vicenda di un Regno unitario, retto e animato da una sovranità che non conosce interruzioni. Agli inizi del secolo il quadro non è ancora così netto, ma esiste già una storiografia molto vicina ai re, prodotta da monaci di Saint-Denis (Rigord), o da personaggi, come Guglielmo il Bretone, che esercitano una funzione a corte, pur non scrivendo in veste pubblica. Si tratta di una produzione colta, curata da uomini con studi universitari (carattere accentuato dalla scrittura parallela di poemi in esametri sugli stessi argomenti, come la Philippidos di Guglielmo), segnata dall'ottica ‒ tipica di un Regno a carattere dinastico ‒ del miroir des princes, per la quale la conoscenza delle azioni dei re precedenti serve per istruire i re futuri, scandita secondo la formula delle vite dei singoli re, dove il tema concluso si appoggia sull'intera serie, e la presuppone, rappresentando quindi il pulsare di questa storia tra continuità istituzionale e apporto degli individui.
Tutti i testi vicini alla monarchia mostrano una vigile attenzione al quadro storico generale e un'informazione di notevole qualità, ma chiaramente segnata da ragioni politiche: la finalità essenziale di queste scritture è infatti affermare nella maniera più convincente la giustezza e l'efficacia dell'azione dei re, che rappresentano la Francia e ne indirizzano con lungimiranza la storia. Tutto questo può concedere lo spazio di qualche critica a un singolo atto del sovrano, ma non permette che altri possano essere protagonisti o costituiscano ragioni autonome del ricordo. Quindi l'orizzonte delle notizie è ampio, ma le presenze di altri sono sempre in funzione delle azioni dei re e soprattutto di questa interpretazione centripeta della storia, che ha il suo fulcro in essi. Nelle vite di Filippo Augusto, Federico, ancora giovanissimo, è totalmente assorbito da Filippo, che ne è il grande elettore, il consigliere, il difensore; e l'ottima riuscita (almeno a quella data) dell'imperatore non è che una prova ulteriore delle capacità di giudizio del re di Francia. Al tempo stesso però, i testi mostrano per l'Impero attenzione e rispetto reali, presentano i suoi rapporti con il Regno di Francia in termini di consolidata fraternità, sottolineano e appoggiano le aspirazioni degli Svevi a stabilire anche per l'Impero il principio ereditario, secondo l'esempio francese. Questo quadro positivo, che segna l'età di Filippo Augusto, non attraversa invariato il sec. XIII. Va detto che per il regno di Luigi IX abbiamo una sorta di lacuna di informazione, perché non sono direttamente conservati i due testi su di lui dovuti ai monaci di Saint-Denis Gilo di Reims e Primate, entrambi noti attraverso rifacimenti o traduzioni posteriori, che potrebbero averli modificati in qualche modo, e perché il peso assorbente della santità di Luigi determina per il resto nelle sue biografie un carattere essenzialmente agiografico. Quando comunque abbiamo di nuovo testi interpretabili con sicurezza, come le vite di Luigi IX e di Filippo III e il Chronicon scritti da Guglielmo di Nangis, anch'egli monaco a Saint-Denis, siamo ormai verso la fine del Duecento, e riscontriamo appunto una situazione diversa: Guglielmo parla poco dell'imperatore e attraverso fonti sfavorevoli (tra le quali una di Oltremare, la cosiddetta Cronaca di Ernoul), e riduce a pochissimo il suo rapporto diretto con la Francia, presentandolo sempre in modo negativo. In un caso Federico è un "malitiosus et seductor" (eco possibile del famoso fascino della sua parola), che però non riesce a ingannare Luigi (Gesta sancti Ludovici, 1840, p. 326), in un altro un prepotente, cui il re di Francia sa imporre moderazione, ricordandogli la forza del proprio Regno (questo in occasione della cattura dei prelati francesi, di cui Luigi ottiene così la liberazione: momento di tensione effettiva tra i due sovrani, riferito con parole tratte da una lettera di Luigi [ibid., p. 332]; controbilanciato però anche da rapporti di solidarietà, provati dalla corrispondenza di Federico e dai ripetuti tentativi fatti da Luigi per vincere l'indisponibilità a trattare dei papi: ma questi trovano eco in Alberico di Trois-Fontaines e ancora più in Matteo Paris, non esistono invece in Guglielmo). Questa lettura diffidente e tesa di Federico e dei rapporti tra Impero e Francia è almeno in parte da mettere in rapporto con il coinvolgimento diretto di un principe francese contro il figlio e poi il nipote di Federico, e soprattutto con l'assunzione dell'impresa italiana di Carlo d'Angiò nella storia nazionale che Guglielmo compie, presentandola del resto come un onere assunto per difendere la Chiesa, cioè secondo la migliore tradizione della regalità di Francia. Il tema della stirpe maledetta appare piuttosto per Costanza d'Aragona, figlia di Manfredi, che viene a scardinare l'opera di Carlo d'Angiò, impedendogli i grandi progetti in favore della cristianità che stava per mettere in atto nell'Oriente mediterraneo (Guglielmo di Nangis, Gesta Philippi regis, 1840, p. 516). E questo dimostra che anche i temi della propaganda papale, pur certamente conosciuti, sono assunti e rielaborati solo in funzione dell'interesse e della visione di sé che la monarchia francese coltiva. Ma questi interessi e questa visione non sono certamente più quelli di Luigi IX e appaiono molto più in sintonia con Carlo (tanto che se ne fa un eroe nazionale), si orientano verso un'espansione diretta (la spedizione di Filippo III in Aragona) e verso la condivisione delle grandi prospettive mediterranee di Carlo, ma anche verso una polemica con l'Impero tedesco, rispetto al quale la Francia si propone come modello alternativo di guida laica della cristianità: una 'vocazione imperiale' che assume ora forme particolari, legate al momento storico, ma che rappresenta comunque una corrente profonda, già chiaramente individuata nell'azione di Filippo Augusto da fonti a lui contemporanee, meno vicine alla monarchia e quindi forse meno prudenti di Rigord o di Guglielmo il Bretone (Giraldo di Cambria, 1891, pp. 326-329; Historia regum Francorum, 1818, p. 426; e in forma più moderata anche Chronicon S. Martini Turonensis, 1882, pp. 464-465).
In sostanziale accordo con quanto finora visto è il quadro che emerge dalla storiografia del resto del paese, in cui le fonti sono diverse per origini e tipologie, e hanno quindi molti e vari centri di interesse, ma sempre più mostrano di orientarsi sulla monarchia e sulla sua guida, considerandola il punto di riferimento e il principio di continuità storica della nazione. Meno legate, ovviamente, a ragioni politiche, esse possono prestare un'attenzione meno sorvegliata a quanto succede fuori della Francia e, soprattutto nelle zone più periferiche, coltivano generi, come la cronaca universale di grande respiro, che ovviamente aiutano in tale senso (il Chronicon S. Martini e Alberico di Trois-Fontaines sanno molte cose degli imperatori e della Germania, e Alberico copia addirittura le costituzioni emanate nel 1234 a Francoforte dal re Enrico e dai principi [1874, pp. 933-934]).
Le fonti realmente contemporanee a Federico possono considerarlo con sobrio favore (soprattutto il Chronicon S. Martini, che però si ferma al 1227), e mettono comunque al centro della loro osservazione un tema che solo indirettamente riguarda la Francia, e cioè il suo rapporto con i papi, per il quale mostrano un interesse preoccupato, per il disa-gio di uno scontro immediatamente portato in pubblico ed estremizzato (Alberico parla di lettere di recriminazioni "ultra modum" di Federico e di diffamazioni gravissime da parte di Gregorio IX, e rileva l'intervento, più tardi, presso entrambi, di Luigi IX "ad temperandum [...] animum", per cercare di riportarli alla pace [ibid., pp. 921 e 944]), o di un problema mal risolto, che può riesplodere (Guglielmo di Andres, che giunge al 1234, ritiene non duratura ‒ "ficta potius quam perfecta" ‒ la pace del 1230 [1879, p. 769]). Le fonti francesi non danno però nel complesso particolare rilievo a Federico, e mostrano nel corso del tempo un'evoluzione di giudizi analoga a quella indicata dalla storiografia regia, passando da un sostanziale rispetto per l'Impero, accompagnato dalla nozione dell'originaria parentela carolingia tra i sovrani di Francia e Germania (Chronicon S. Martini), a un atteggiamento molto più ostile verso gli Svevi e a un'adesione convinta a Carlo d'Angiò, che emergono in fonti più recenti, successive alla spedizione contro Manfredi. Per lo più le motivazioni date sono ideali, per la virtù guerriera di Carlo ("flos militie", per Adamo di Clermont, 1882, p. 592), o per la difesa della Chiesa (come è per gli Annales Normannici, filofrancesi e filoecclesiastici, in cui il momento di maggior partecipazione si raggiunge appunto con Carlo, nel quale i due filoni di interesse si sommano), ma in un caso almeno possono essere anche molto concrete. È quello di Guglielmo di Puy-Laurens, la cui Historia Albigensium è favorevole ai cattolici e ai re di Francia, ma soprattutto a Carlo d'Angiò, e che riprende nella maniera più netta ed esplicita il tema delle due piante: questo tema non gioca però qui a favore solo della Chiesa o del sovrano, bensì di tutti i fedeli della Francia meridionale, cui la "mutatio Excelsi dextere", eliminando la "radix amaritudinis" degli Svevi e piantando al suo posto il "benedictum semen" della dinastia di Francia, ha aperto una prospettiva esaltante di arricchimento nel Regno di Sicilia, già rifugio degli "infideles" (1882, pp. 600-602).
L'unica fonte francese che mostri un interesse particolare, e autonomo, per Federico è l'Historia regum Francorum, o Chronique rimée, di Filippo Mousket, aristocratico di Tournai che scrive in rima francese la storia di Francia: il testo, che ci è giunto mutilo, arriva al 1243 ed è scritto, almeno l'ultima parte, in contemporanea. Laico quindi, ma letterato e con accesso alle cronache latine di Saint-Denis, condivide con queste molti temi: il ruolo centrale della monarchia francese, la convinzione della sua eccellenza nel mondo cristiano, ma anche l'idea dei rapporti fraterni tra re di Francia e imperatori, e il favore per la politica degli Svevi, che vogliono rendere ereditario l'Impero, "ausi com en France" (1882, p. 743). Ma rispetto alle fonti regie Filippo dimostra di avere un concetto più sostanziale del ruolo dell'imperatore nel mondo cristiano, al quale spetta di "soucourre crestïentés" (ibid., p. 767) e del quale si riconosce del resto, con sensibilità rara, l'enorme responsabilità e la 'pena' di reggere un insieme così grande ("Qu'asés couvient celui penser Ki si grant tiere doit tenser"; ibid., p. 801). Federico è ricco e saggio, e appare in sostanza idoneo al suo compito (nonostante inversioni cronologiche e fatti più o meno leggendari, come il romanzo di Enrico, figlio sostituito a insaputa del padre, per dare comunque un erede all'Impero, visto che il vero figlio è morto). Da un certo momento in poi, però, la presentazione di Federico precipita: ogni sua azione viene interpretata al negativo, tutti lo odiano, egli è colui "qui del monde [...] voloit iestre par force sire", e il grande traditore della cristianità, contro la quale chiama i tartari e muove i beduini (ibid., pp. 819-820); al punto che salvo l'eresia, che manca, non c'è praticamente accusa che gli sia stata mossa che non sia presente. Ma Filippo non ha semplicemente aderito alla causa papale; ha ragionato sui fatti e tratto le proprie conclusioni, e il fatto che lo ha spinto a cambiare così drasticamente opinione su Federico è davvero accessorio nella polemica della Chiesa, ed è invece importante in un'altra logica: il momento di svolta è infatti il rifiuto di Federico di aiutare il giovane imperatore latino di Costantinopoli, e l'ascolto dato alle parole ingannevoli dei greci, che gli promettono di prestargli omaggio per il loro Impero se farà sgombrare i franchi da Bisanzio (ibid., p. 811). Questa scelta dimostra che Federico non è l'imperatore che Filippo pensava, e dispone il cronista a credere anche a tutte le altre accuse contro di lui. Ma la difesa della cristianità latina che da Federico si esige indica che l'Impero è per Filippo un ideale nutrito e aggiornato da ragioni recenti, perché la sua sfumatura mediterranea e antigreca non può che essere il frutto della storia delle crociate, e in particolare della quarta. Questo non stupisce, data la zona cui Filippo appartiene, però fa riflettere, mostrando a quante sensibilità e interessi diversi Federico dovesse rispondere per il suo grande Impero, e secondo quanti metri venisse giudicato.
In Inghilterra, che sta vivendo una delle fasi più critiche della sua storia, la monarchia non ha affatto la forza di un principio di identificazione nazionale: Giraldo di Cambria (1891, pp. 326-329) pensa addirittura che sarebbe un bene per la nazione eliminare la stirpe di tiranni dei suoi re e sostituirla con la felix prosapia di Francia; gli altri testi non sono così estremi, però nessuno scrive la storia inglese dalla parte dei re. In compenso è la storia inglese l'oggetto principale della maggior parte delle scritture storiche: che partano dalla nascita di Cristo o dal 1066 (battaglia di Hastings), i testi seguono il filo della vicenda dell'Inghilterra dagli inizi della sua storia raccontata o richiamata, senza alcuna esclusione verso il passato né celtico né anglosassone dell'isola.
In linea di massima si tratta di testi il cui orizzonte tende man mano ad ampliarsi, che inseriscono lettere o documenti, e mostrano un'attenzione costante verso la Terrasanta e i fatti della Chiesa. Sono per lo più anche abbastanza indipendenti nel giudizio, e difficilmente allineati: cosa che d'altronde non desta meraviglia in una situazione come quella inglese, e in particolare del clero inglese, vessato dalle levate di decime per tutte le cause decise dalla Curia romana, spesso in evidente contrasto con il parere e le suppliche delle Chiese nazionali, e senza neanche un sovrano come proprio difensore e punto di riferimento. È anzi proprio a un re, Giovanni Senzaterra, che il Regno deve la sua recente, umiliante, gravosissima (e giuridicamente discutibile e discussa) subordinazione feudale al papa. In questa situazione gli annali inglesi si dimostrano fonti non solo disponibili a guardare più lontano, ma spesso ben disposte verso Federico, per la sua ampia funzione imperiale, ma anche, in alcuni casi, per la sua opposizione alle insaziabili pretese della Curia pontificia di dominare il mondo (Giovanni di Wallingford, 1885, pp. 508-509).
Federico II trova dunque negli ecclesiastici inglesi (cui dobbiamo tutti i testi storiografici del tempo) un uditorio particolarmente sensibile nella sua lotta contro i papi. È soprattutto il caso dell'autore che più gli dà spazio, e cioè Matteo Paris, monaco di St Albans, più o meno coetaneo dell'imperatore, che compose i monumentali Chronica majora, e da essi trasse l'Historia Anglorum (dal 1066), l'Adbreviatio Chronicorum Angliae (dal 1000) e i Flores Historiarum (sintesi della cronaca universale).
In questi testi egli compie qualche aggiustamento nel giudizio, in linea di massima meno contrario ai papi e alla loro visione delle cose, pur se si tratta di una retractatio incompleta e spesso dell'ultima ora, perché il manoscritto autografo dell'Historia Anglorum dà a volte la presentazione filopapale come una frase inserita a forza in un contesto di altro tipo (v. il racconto sul fallito incontro di principi a Vaucouleurs nel 1237), o addirittura come una toppa in senso letterale, cioè un pezzo di pergamena con la frase nuova attaccato sopra un testo che comunque diceva cose diverse (è il caso del passo, al 1244, sull'invio di un nuovo legato in Inghilterra da parte di Innocenzo IV [Matteo Paris, 1866-1869, 2, pp. 478-479]).
Il particolare interesse della testimonianza di Matteo non è però legato a questi parziali ripensamenti, ma al fatto che i Chronica siano invece scritti a caldo, registrando quindi tutte le impressioni suscitate dai fatti, le relazioni tra di essi che potevano essere viste lì per lì, le molte voci e interpretazioni che se ne davano: anche a costo, ovviamente, di dover raddrizzare il tiro in un momento successivo. Matteo Paris non va mai a correggere quello che ha già scritto, e ci lascia quindi un quadro straordinario di reazione immediata, in un ambiente certo tutt'altro che 'medio', e attraverso gli occhi di una persona colta, intelligente, e che sempre sente il bisogno di formarsi un giudizio sulle cose e non di riferire per pura memoria. Grazie a questo suo bisogno di capire e all'ottima rete dei rapporti ecclesiastici e politici di St Albans, il suo testo ci dà non solo un numero altissimo di documenti inseriti o utilizzati e, più ancora, di relazioni di alto livello su colloqui, consigli regi, sinodi (tutta la cronaca del concilio di Lione, per esempio, o i molti e significativi interventi presso i papi e l'imperatore di Luigi IX, un re verso il quale Matteo dimostra una sintonia notevole), ma anche una rappresentazione che non è ‒ come è quasi sempre nelle fonti contemporanee ‒ a settori separati (e in genere pochi), bensì a tutto campo, nella quale i vari piani e le zone d'azione del mondo cristiano si mostrano tutti compresenti e interagenti. In tutto questo ciò che più conta non è tanto il giudizio su questo o quel fatto di Federico (alcuni approvati, altri giustificati, altri condannati con sicurezza, altri discussi), ma due elementi di portata generalissima, che vanno al fondo dell'idea complessiva che Matteo viene facendosi di lui, lungo il corso della vita di entrambi.
In primo luogo l'importanza straordinaria che viene riconosciuta alla funzione dell'imperatore quale moderatore e difensore del mondo cristiano, principalmente nei suoi fronti aperti verso il mondo non cristiano: a questa Federico dà un notevole incremento, non solo per la sua fortuna di essere erede del Regno di Sicilia, ma per la sua opera consapevole e strenuamente perseguita ‒ nonostante le difficoltà e i fronti su cui si trova per questo impegnato ‒, che porta all'accessione all'Impero del Regno di Gerusalemme, dell'isola di Cipro e del Regno di Ungheria, che fa da baluardo a est contro i tartari (v. in particolare Chronica majora, 1872-1883, 4, pp. 106-107), e alla quale egli vorrebbe dedicare il resto della sua vita, se Innocenzo lo assolvesse. In secondo luogo il carattere della contesa tra Federico e la Chiesa, svolta attraverso opposte argomentazioni davanti a un pubblico vasto, presso il quale suscita, a detta di Matteo, una reazione diffusa.
I contemporanei Annales de Theokesberia, per esempio, parlano di "multi Christiani" che non condividono l'opinione del papa quando scomunica Federico asserendo "contra formam et jura ecclesiae pacem fecisse cum Soldano Babiloniae" (1864, p. 73); Matteo mostra addirittura la gente ragionare ("Addiditque populus […]") sulla contraddittorietà delle accuse che Gregorio muove a Federico, prima detto seguace di Maometto e poi totalmente ateo (Chronica majora, 1872-1883, 3, pp. 608-609).
Ma la parola persuasiva di Federico va a catalizzare una serie di insoddisfazioni, preoccupazioni, insofferenze che il mondo laico veniva covando nei confronti della Chiesa e della sua volontà di controllo generale della società, e che la polemica chiarificatrice dell'imperatore mette ovunque in moto, con rischio gravissimo per la Chiesa intera.
È il caso in particolare dell'anno 1247, quando si assiste a una sorta di rivolta universale contro la Chiesa ‒ "ovunque la lingua della gente si scioglie" ‒ per l'odio contro Innocenzo e le pretese della Curia romana. In questo quadro si riportano i testi prodotti da un'organizzazione di baroni francesi per combattere il clero ‒ che riceverà poi l'approvazione del re ‒, i cui contenuti, pur legati alla particolare situazione storica di Francia, hanno un fondamento comune con la pubblicistica imperiale, come rileva Matteo stesso, grazie a una consonanza del testo francese con una lettera imperiale che ha già riportato (ibid., 4, pp. 590-594).
E questo per Federico non è un punto a favore, perché se Matteo Paris è spesso affascinato e anche convinto dalle sue ragioni, e se è il primo a condannare la rapacità della Curia, l'ostinazione cieca e non cristiana di Gregorio e Innocenzo, che non ascoltano che la propria volontà, sordi alle esortazioni e alle suppliche di tanti fedeli, al messaggio di umiltà di Cristo e di fiducia in Dio, e non nella forza umana, di Pietro, del quale il papa pretende di condividere la potestà di sciogliere e legare, pur quando "penitus b. Petro dissimilis probabatur" (ibid.), non può mettere in di-scussione la necessità della Chiesa, e della Chiesa romana, per l'intero mondo cristiano, e non può ritenere consono ai compiti dell'imperatore della cristianità sollecitarne lo scardinamento. Questo può spiegare perché, ripensandoci, Matteo possa rendere la sua presentazione più favorevole all'operato dei papi verso Federico, pur non rinnegandola del tutto, ma soprattutto non modifichi il suo giudizio complessivo sull'imperatore, "stupor [...] mundi et immutator mirabilis" (ibid., 5, p. 190), che non è espressione tutta positiva (né usata solo per lui: nell'Historia Anglorum, 1866-1869, 1, p. 215, anche Innocenzo III lo è, e per lui il giudizio è molto più chiaramente sfavorevole), e indica piuttosto la sua consapevolezza che Federico è stato un personaggio di rilievo straordinario, ma più ancora un uomo che ha scosso le cose e lasciato in esse una traccia nuova, non del tutto calcolabile.
Anche nella storiografia d'Oltremare, che può trarre dalla sua origine, come dalla necessità che hanno i Regni latini d'Oriente di cercare da ogni parte aiuti, un orizzonte vitale di notevole ampiezza, Federico ha uno spazio non indifferente, notevole soprattutto nei testi della cosiddetta Estoire d'Eracles (continuazione della traduzione francese di Guglielmo di Tiro), in particolare nella parte del primo autore, che scrive in Oriente la storia degli anni 1184-1229 ed è, nella storiografia del tempo, uno degli osservatori politici dalla visuale più ampia e dal giudizio più chiaro.
Molti di questi testi sono sfavorevoli a Federico, ma solo la continuazione scritta in Occidente (detta 'del manoscritto di Rothelin': 1229-1261) lo è per ragioni simili a quelle già più volte incontrate, dipendenti cioè dallo scontro con la Chiesa e dalle accuse papali. Gli altri hanno motivazioni proprie: lo scontro con Giovanni di Brienne, per la cosiddetta Cronaca di Ernoul, che è comunque in grado di dare motivazioni politiche plausibili ai ritardi di Federico per la crociata, e di discutere concretamente sui vantaggi e svantaggi dell'accordo dell'imperatore con il sultano, invece di rifiutarlo in blocco come fa il papa; la pessima gestione del governo da parte di Riccardo Filangieri, luogotenente imperiale in Terrasanta dopo la crociata, per il secondo autore della Estoire d'Eracles, che la caratterizza con il contrasto violento con gli usi giuridici del paese, che, come il testo spiega, hanno una ragione legittima nella storia particolare del Regno, nato da una conquista di gruppo. Questo stesso argomento è centrale anche nella Guerra di Federico II in Oriente di Filippo di Novara, opera scritta in francese da un italiano ‒ cavaliere, giurista e poeta ‒, vissuto in stretti rapporti con gli Ibelin, l'unica fonte al di fuori di quest'ottica di storiografia di grandi orizzonti. Si tratta infatti di una storia a tema concluso e di ambito ristretto, che, come i pochi altri esempi del genere, assai raro nel sec. XIII (i testi di Gerardo Maurisio e di Rolandino da Padova su Ezzelino), si dimostra pensata per un pubblico altrettanto delimitato. È un testo di notevole vivacità e interesse che ha una tesi da dimostrare, e cioè l'alterità totale di Federico II rispetto al Regno di Gerusalemme, per comportamenti giuridici e morali, e la legittimità quindi della resistenza vittoriosa oppostagli dai baroni di Terrasanta, basata sull'uso accorto del diritto del Regno e sui suoi valori morali. Federico è così 'l'antagonista' a tutto campo: signore sleale e di parola infida, prepotente quanto inefficace. Certo, Filippo non indaga mai per capire le sue eventuali motivazioni e spesso lo condanna sulla base dei 'si dice', ma anche questo va a ribadire il suo disinteresse verso Federico, rispetto al quale la sua testimonianza è soprattutto quella di un'estraneità che vuole rimanere tale.
A maggior ragione appare rilevante la prima parte della Estoire d'Eracles, che raccoglie invece su Federico, inserito in una prospettiva vastissima, un'informazione che lo segue fin dalla nascita, non solo quindi per la sua crociata e perché re di Gerusalemme, ma anche perché imperatore, e come tale in rapporto con tutti i centri politici fondamentali dell'Occidente. Quest'attenzione è già cosa notevole, ma ancora più interessante è la particolarità della 'politica' di Terrasanta di Federico che emerge dal testo, attraverso una serie di dati che si collocano secondo una logica coerente, che non è tutta esplicitata, ma difficilmente è frutto solo di rilevamenti casuali di notizie.
La politica imperiale appare retta dalla volontà di affermarsi in senso concreto sul virtualissimo Regno di Gerusalemme, di instaurare un controllo effettivo sui suoi baroni e sulle sue rendite e di metterlo quindi in grado di reggersi in piedi, all'interno di un quadro di rapporti con il mondo musulmano che si cerca di rendere pacifici e amichevoli. Quest'ultima parte è presentata davvero come un programma: nelle trattative, che Federico porta avanti con molta decisione, di fronte a un sultano che sa della sua situazione critica con il papa e cerca di "esloigner l'empereor et ses paroles", il testo gli fa dire che non era venuto "por covoitise que il ait de terre conquerre, car il en a tant que il et chascun home s'en devroit tenir apaé", ma per ridare ai cristiani i Luoghi Santi, in pace e in amicizia (L'Estoire d'Eracles, 1859, pp. 370-372). Le intenzioni di governo sul versante interno risultano invece solo da singoli fatti, che vanno però tutti nello stesso senso e che non sono biasimati, nemmeno perché in contrasto con gli usi locali; è possibile anzi che siano apprezzati, perché il cronista ha netta la coscienza della povertà del Regno di Gerusalemme, che ha necessità di sovrani personalmente ricchi (è la qualità che mancava a Giovanni di Brienne) e del continuo apporto di crociati che siano "riches homes", e crede all'importanza di un capo che si faccia rispettare e temere: come è evidente nell'unico caso in cui si esprima un giudizio diretto su Federico, quando si loda Tommaso d'Acerra, il balivo da lui mandato prima della crociata, "qui moult bien s'i contint et moult i fu douté. Et plus le doterent toutes les gens que il ne firent l'empereor quant il fu venus" (ibid., p. 364). In sostanza si mostra un'aspettativa assai diversa da quella di un Filippo di Novara, e una lettura delle intenzioni politiche di Federico II all'interno di un quadro molto più ampio e secondo un modo di sentire meno baronale e anche meno 'crociato' del solito (cosa confermata del resto dalla sensibilità morale che l'autore mostra in occasione della presa di Costantinopoli e poi di quella di Damietta da parte dei latini, in cui denuncia il comportamento avido e violento dei cristiani, senza cercare affatto di coprirlo con il manto della fede). E bisogna riconoscere che il cronista, pur rimasto deluso da quanto Federico ha poi realmente fatto, non gliene fa una colpa, rilevando le costrizioni esterne che gli hanno imposto di lasciare la Terrasanta molto prima di quanto avrebbe voluto, e cioè i gravi problemi causatigli nel Regno di Sicilia dall'invasione dell'esercito papale.
Infine la Germania, paese di intensa produzione storiografica: anche in questo caso è vera la considerazione generale che, con il passare del tempo, tende a formarsi una sorta di vulgata sfavorevole a Federico, legata alla diffusione della visione della Chiesa, tramite testi di riferimento come Martin Polono e Jacopo da Varagine, cui si aggiungono analoghi scritti tedeschi, come i Flores temporum e la cronaca del Minorita di Erfurt.
Forse questa visione è recepita però in maniera meno esasperata che non, per esempio, in Italia; e del resto lo stesso Minorita di Erfurt, che scrive una cronaca universale che termina al 1265, orienta la storia sui papi, all'interno della serie dei quali sono inscritti gli imperatori, ma dà molto più rilievo all'attività legislativa dei pontefici che non a quella politica, anche nei confronti di Federico; mentre gli Annales dei Frati predicatori di Erfurt, che terminano al 1253, potrebbero essere definiti addirittura un testo non allineato, che ha critiche verso i papi, verso l'ambizione e la vanità dell'arcivescovo di Magonza, verso la superbia di Luigi IX alla crociata, e rileva il peso per la cristianità della "perniciosa discordia" tra papa e imperatore, sedata solo dalla morte di questi (Annales Erphordenses fratrum Praedicatorum, 1899, p. 108). Per di più alcuni degli scritti che presentano Federico nell'ottica papale del persecutore della Chiesa possono poi raccogliere episodi o tradizioni di senso diverso, cercando bene o male di sistematizzarli, come fa Richerio di Senones, che scrive poco dopo la morte di Federico, con l'ipotizzare a un certo punto un suo cambiamento, per cui egli, che aveva esercitato la giustizia contro i malviventi con mano molto ferma e che aveva "carissima" la Germania, si mette poi sulla strada di Giuliano l'Apostata, che, nutrito dalla Chiesa e da lei innalzato agli onori, poi negò Cristo e la perseguitò (1880, pp. 301-302); oppure rinunciando ad armonizzarli, come fa ai primi del sec. XIV Sigfrido di Ballhausen che, accanto al quadro negativo tratto dalle solite fonti, parla di un Federico "ingeniosus, studiosus et litterarum scientia magnus", ai cui tempi i latini, i tedeschi e tutti gli altri "multa pace et tranquillitate et habundantia rerum gaudebant" (1880, p. 699).
Ciò che però distingue in particolare la situazione della storiografia tedesca sono due elementi, a volte compresenti: una forte coscienza della nozione di Impero, nel suo lungo passato e anche nella sua evoluzione moderna, che segna opere tra le più colte, con risultati notevoli (il caso più importante è quello di Burcardo di Ursperg), e la consapevolezza delle enormi difficoltà del governo civile in Germania. Questa consapevolezza, molto diffusa, può trovare sbocchi assai diversi, ma di fatto limita l'accoglimento della visione e dell'impostazione papali, che sono spesso avvertite come causa diretta di un peggioramento della situazione e della vivibilità elementare in Germania, tale da provocare addirittura un fenomeno come quello della lega delle città renane, stretta al fine di assicurare la pace ed eliminare la violenza sul territorio, che trova molta resistenza da parte di principi, baroni e milites (equivalenti quasi sempre a briganti di strada, come dicono Burcardo di Ursperg, 1916, pp. 97-98, e Alberto di Stade, 1859, pp. 373-374), ma pieno consenso in più di una fonte (Alberto stesso; Annales Wormatienses, 1861, pp. 55-59; Annales Altahenses, 1861, pp. 394 e 397).
Va rilevato infatti che la maggior parte delle fonti tedesche non si suddividono tanto in favorevoli oppure contrarie a Federico II: piuttosto si distinguono tra loro per la presenza o meno della sensibilità ai problemi, tedeschi o generali, che hanno caratterizzato il suo tempo. È soprattutto in conseguenza di questo che varia il giudizio su Federico.
Per opinione sostanzialmente concorde delle fonti il problema principale della Germania è l'assenza di pace e di sicurezza fisica, che fa sì che il più sentito compito di un re sia quello di stroncare le violenze, le guerre private e il brigantaggio, piegando i colpevoli con la forza delle armi, e l'esercizio di una giustizia senza alcuna indulgenza. E anche Federico, come abbiamo già visto (ma Richerio non è l'unico a dirlo), può essere stato considerato per questo un re efficace. Sulle cause profonde di questa situazione le fonti hanno però pareri anche molto diversi: alcune pensano all'assenza del re, che è del resto imperatore, e quindi impegnato non solo in Germania, e sentono Federico come un re assente, che resta lontano anche molti anni di seguito, e lascia il Regno nelle mani di un puer, quell'Enrico di cui quasi tutti parlano malissimo, sia pure per ragioni diverse e spesso vaghe (v. Annales Erphordenses fratrum Praedicatorum, 1899, p. 89; Notae Sancti Emmerammi, 1861, p. 575; Chronicon Ebersheimense, 1874, pp. 451-453). Ma non sembra un sovrano assente alla Chronica regia Coloniensis (nella sua riscrittura e continuazione fatta nel monastero di S. Pantaleo di Colonia), il testo che dà il quadro più preciso e ampio dell'attività di Federico come re di Germania, notando anche il suo innovativo apporto alla legislazione (a. 1235, dieta di Magonza: "[…] vetera iura stabiliuntur, nova statuuntur et Teutonico sermone in membrana scripta omnibus publicantur"; 1880, p. 267), né agli Annales Marbacenses, e nemmeno agli Annales Wormatienses (di doppia componente, cittadina ed episcopale), che rilevano tutti, sia pure non con la stessa abbondanza di fatti, il continuo rapporto che Federico ha con la Germania, l'invio non solo di lettere pubblicistiche, ma di messi regolari, l'interesse per la pronta soluzione dei problemi, l'ascolto dato alle varie richieste e necessità che si presentano, il coinvolgimento di tedeschi in tutte le sue azioni più importanti, il consiglio richiesto loro con particolare fiducia, l'onore reso loro in ogni occasione. Del resto il Regno ha comunque un re e, a differenza di Enrico, Corrado gode di una buona reputazione nelle fonti del paese.
Ci sono però interpretazioni diverse, per le quali la causa della mancanza di pace sono le contese per il trono imperiale (Annales Sancti Trudberti, 1861, pp. 292-293; Chronica regia Coloniensis, 1880, pp. 160-169), ed espressamente i principi venali ed egoisti (così per esempio Annales Ottenburani, 1861, p. 317, e Burcardo di Ursperg, 1916, pp. 79-81), o l'assenza di un principio ereditario sicuro, tema questo assai incerto però, anche in Burcardo, che è favorevole al "regium genus" più che al passaggio di potere più o meno automatico di padre in figlio (v. ibid., pp. 75 e 79), e che diventerà più chiaro solo con i cronisti che conoscono gli Asburgo: v. in partic. il Chronicon di Ellenhardo, fatto comporre da un notabile di Strasburgo alla fine del sec. XIII (1861, pp. 133-141).
Ma la causa è per molti l'azione dei papi, che approvano o disapprovano gli imperatori eletti o addirittura consacrati, senza alcun diritto storico-giuridico (Burcardo di Ursperg, 1916, pp. 6-7), né costituzionale (Alberto di Stade, molto preciso in proposito: 1859, pp. 367 e 369), e per di più per ragioni loro, che con la Germania non hanno necessariamente a che fare (la paura che uno Svevo possa essere un cattivo re, come il padre o il fratello, che mette Innocenzo III contro Filippo di Svevia, secondo Burcardo di Ursperg, 1916, pp. 77-79, o i discutibili diritti che la Chiesa Romana vanta sui beni matildici in Italia contro Ottone IV, rilevati in particolare dalla cronaca di S. Pantaleo, 1880, pp. 229-230, ma più genericamente anche da altre, come la Chronica regia Coloniensis, 1880, p. 185, o gli Annales Sancti Trudberti, 1861, p. 293).
È questo appunto il caso di Federico II. La discordia con Federico ha cause che nelle fonti tedesche non trovano in genere molta eco: anche chi accetta le sentenze di Gregorio e di Innocenzo (e sono i più) difficilmente mostra di credere alle accuse terrificanti che gli sono state mosse, e di rado gli attribuisce azioni precise peggiori del presunto (ma in genere creduto) assassinio del duca di Baviera e della durezza con cui punisce i colpevoli e i ribelli. Moltissimi invece evidenziano il danno enorme causato alla Germania dalle lotte scatenate dalla deposizione di Federico e, già prima della sentenza, dal calore ‒ per molti sospetto ‒ con cui soprattutto gli arcivescovi di Colonia e Magonza hanno assunto il comando di questa guerra, perfino quando non c'era alcun papa che la ordinasse (v. in particolare la Chronica regia Coloniensis, 1880, p. 282, e gli Annales Wormatienses, 1861, pp. 47-55, che arrivano ad attribuire ai due arcivescovi la massima responsabilità nella deposizione stessa di Federico), e rilevano ovviamente il disastro che è stato l'assenza totale del re per più di un ventennio, quando il paese è allo sbando e ci sono solo violenze, ruberie, guerre interne ed esterne. Non è dunque tanto per aver legato il Regno di Germania all'Italia (tema praticamente assente: l'unico che ci rifletta, che è Burcardo, sembra vedere al contrario in questo legame uno strumento di incivilimento per la società tedesca, rude, indomita e senza legge, soprattutto per tutto ciò che concerne il diritto: 1916, pp. 54-55, 65, 73 e 60) che l'Impero è una difficoltà in più per la Germania, ma per aver legato il re di Germania ai rapporti con i papi, moltiplicando con questo anche il potere ambiguo dei principi ecclesiastici, legittimi elettori dei sovrani tedeschi, ma insieme potentes filii della Chiesa romana, i quali giocano quindi anche sul piano della politica papale, in un modo in cui alle fonti stesse può apparire incerto quanto sia lo zelo per la causa della Chiesa e quanta sia invece la spinta per un'affermazione in proprio sul paese.
D'altra parte l'Impero è la gloria della Germania (ci vuole cultura e senso del passato per pensarci: ma molti di questi testi, dati come Annales, sono in realtà storie dall'inizio del mondo o dalla nascita di Cristo, comunque di tempo lungo e di grande orizzonte) e diverse fonti lo sentono, e lo esprimono.
Si riscrive il passato, si tracciano le genealogie di re e imperatori tedeschi, sempre franchi e quindi troiani (Corrado di Scheyern, 1861, p. 629), oppure Carolingi ‒ ab origine o a partire da un momento preciso ‒ e soprattutto pii e in rapporto privilegiato con la santità (Annales Spirenses, 1861, pp. 80-83), oppure si utilizza la storia per dare tutto il suo senso al presente (come fanno gli Annales Sancti Trudberti, 1861, p. 293, che, dopo aver molto amato Ottone IV, difensore dei diritti storici dell'Impero in Italia, finiscono per accettare Federico II, che, sia pure solo per buona fortuna di nascita, può realizzare l'antica aspirazione imperiale al dominio sull'Italia del Sud, ad esso aggiungendo perfino quello sulla Sicilia).
L'Impero è anche la ragione per cui la Germania non è solo una parte, più o meno selvatica, del mondo, ma il punto centrale, per cui, come molti sentono, la discordia tra regno e sacerdozio non è in realtà un problema solo tedesco, ma dell'intera cristianità, quella ecclesia di cui il rex Romanorum è capo (come dicono gli Annales di Enrico di Heimburg, 1861, p. 717).
Ed è su questo piano che Federico ha un peso più personale, un'azione più significativa, anche se in genere spiazzante.
Solo Burcardo di Ursperg, che del resto morirà prima dello scoppio della seconda e più grave contesa tra i papi e Federico, riesce a seguire il comportamento dell'imperatore con assoluta adesione, perché convinto dalle sue azioni e dalle sue parole, dalla sua umiltà verso il papa come dal suo senso giuridico (1916, pp. 122-127), e perché la cultura storica di Burcardo e la sua forte partecipazione morale ai fatti dell'umanità lo hanno reso convinto, con dolore, ma con certezza, che i guai del presente sono "indicium […] ruentis ecclesie" (p. 125), che i papi, per superbia, si arrogano poteri che sono solo di Dio onnipotente e mettono la loro volontà davanti a quella di Dio (pp. 6-7, 78, 122) e che denunciarli è necessario (ma è sempre Dio che "reprobat" i principi indegni e difende chi è al suo servizio; pp. 6-7, 78 e 126). Nessuno degli altri cronisti e storici tedeschi ha certezze così salde, e molti avvertono piuttosto il pericolo che viene alle anime da questa lotta, o le conseguenze dannose sullo stesso funzionamento della Chiesa dell'affermarsi della logica partitica, che non premia i migliori ma i più vicini alla propria parte, o le pressioni insolite cui è sottoposto il mondo cristiano, preso tra l'incudine e il martello delle due propagande opposte (Annales Altahenses, 1861, p. 388; Annales Scheftlarienses maiores, 1861, p. 342). E Alberto di Stade, estremamente restio a pronunciare giudizi, ma attento nell'osservare, il quale dietro l'azione dei papi contro Federico mostra la presenza di tanti timori e sospetti, ma mai dati di fatto certi (1859, pp. 363 e 367), e vi legge l'affermazione di una volontà che non ascolta obiezioni (pp. 365 e 369), ci parla anche delle sollecitazioni dell'opinione pubblica fatte da Federico come dalla parte a lui avversa, e dei contrasti di giudizi che ne risultano (p. 368), e ci descrive poi quell'adunanza di baroni, convocati da "mirabiles et miserabiles heretici" che sanno di logica, che sostengono la causa imperiale e negano le pretese del pontefice, eretico e in peccato mortale, di sciogliere e legare, esortando a pregare per Federico e Corrado, "qui perfecti et iusti sunt" (pp. 371-372).
Ha ragione Alberto a considerare controproducente per Corrado l'appoggio dato a costoro, ma idee del genere lasceranno comunque una scia lunga nel tempo, e questa resterà in qualche modo legata a Federico: a metà Trecento Giovanni di Winterthur deve dimostrare l'assurdità della credenza diffusa allora "aput homines diversi generis, immo cuncti generis", di una prossima resurrezione dell'imperatore, che sarebbe tornato "ad reformandum statum omnino depravatum ecclesie", facendo sposare monaci e monache, e cacciando chierici e frati. Ma Federico, in questa stessa speranza, si dimostra ancora qualcosa di più: un condensato dei desideri popolari, il re non solo giusto, ma rivoluzionatore dell'ingiusto sistema sociale (farà unire in matrimonio tra loro poveri e ricchi), che regnerà "iustius et gloriosius [...] quam ante", e concluderà la sua nuova vita andando in Terrasanta, dove "imperium resignabit" (19552, pp. 280-282).
Concludendo: la presenza di Federico nella storiografia del sec. XIII è molto varia, in ragione degli interessi, delle possibilità di informazione, dei quadri di riferimento, delle personali capacità di comprensione dei singoli autori, pur essendo nel complesso legata prioritariamente alla sua qualità di imperatore e, come tale, soprattutto alla contesa con i papi. Nei testi Federico può occupare solo un angolo dello spazio storico, lasciato per il resto a tutt'altro (è il caso, per ragioni diverse, della storiografia regia francese o dell'annalistica comunale italiana), può avere uno spazio d'ufficio, in quanto imperatore o in quanto crociato, può essere messo a fuoco solo in parte, ma qui in maniera nitidissima (come è il caso soprattutto di Riccardo di San Germano, che vede in Federico un re dotato di un vero programma e di un'idea nuova di Regno), ma può riuscire perfino a essere letto e compreso in una prospettiva vastissima, legata alla funzione dell'Impero nel mondo cristiano, ma anche all'azione specifica che egli cerca concretamente di compiere (Matteo Paris e, in misura minore, Estoire d'Eracles). Solo la storiografia di parte avversa, dotata di un'ideologia globale, ha potuto dare di lui un'interpretazione complessiva, basata del resto unicamente sulle sue mire contro la Chiesa e sulla sua malsana personalità, e solo la storiografia più tarda è riuscita a dare a posteriori un senso storico, e in qualche misura epocale, alla sua opera, vedendolo come l'iniziatore delle divisioni, o invece come l'ultimo difensore dell'Impero e della sua unità. Alcuni, giunti in maniera autonoma ad avversarlo o a considerarlo comunque un nemico, elaborano per lui un concetto di potere eccessivo, per come è esercitato o per come cerca di estendersi (Annales Ianuenses e Filippo Mousket), che ha solo qualche punto di contatto con la dismisura, la 'superbia' nel rifiutare la resa degli avversari che gli rimproverano a volte osservatori ben disposti, come Matteo Paris, ragionando in un'ottica più di morale che di principi politici. Molti ne approvano le azioni, di governo e anche militari, soprattutto nella prima parte del suo regno, e molti gli danno ragione nella questione della crociata. Ma nessuno riesce a seguirlo fino in fondo nel secondo scontro, nonostante le molte obiezioni che, indipendentemente da lui, vengono mosse ai pontefici e alla Curia, e a Innocenzo IV in particolare. Ciò che segna infatti questa contesa agli occhi dei tanti che ne accusano il disagio e il pericolo è il modo con cui è condotta, con l'appello continuo e immediato di entrambe le parti all'opinione pubblica, che ingigantisce la lotta e la rende meno componibile, che moltiplica divisioni e contrasti, confusione e dubbi. Anche qui Federico può eccedere la misura e mancare di umiltà rispondendo al papa da pari a pari, però dice cose spesso giuste, convince e comunque fa pensare: in un tempo in cui la logica è al centro delle conquiste intellettuali e della nuova misurazione del mondo, la parola argomentativa di Federico, il suo stesso far appello all'intelligenza degli uomini ‒ i potenti come il popolo dei sudditi ‒ è cosa che coinvolge e trova ascolto e risonanza; assai più di quella dei papi, pur essa elegantissima, perché Federico dà voce, in maniera assai lucida, a tendenze e bisogni nuovi, già in atto nella società del tempo, ma non ancora chiari, al punto da poter arrivare a incarnare agli occhi del popolo ‒ certo al di là di quanto egli stesso volesse ‒ l'opposizione a un andamento secolare della storia. È proprio qui, in questa parola persuasiva ma scardinante, recepita come un fatto, che nell'insieme le fonti mostrano di aver colto l'elemento più caratterizzante di Federico, la sua forza e al tempo stesso il principio della sua debolezza.
fonti e bibliografia
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