Cubismo
di Nello Ponente
Cubismo
sommario: 1. Introduzione. 2. Cubismo e tradizione. 3. Il cubismo e le esperienze del Novecento. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Con il termine cubismo - termine tutto sommato ‟ambiguo" come ha precisato Herbert Read - si indica un movimento artistico che, cominciato a Parigi nel 1907, anno in cui il pittore spagnolo Pablo Picasso aveva portato a compimento il suo quadro Les demoiselles d'Avignon (New York, Museum of Modern Art), è stato giustamente considerato come quello che più di ogni altro ha esercitato una condizionante influenza sull'arte del XX secolo e come quello al quale hanno fatto riferimento gli altri movimenti a esso contemporanei e quasi tutti quelli successivi, fino ai nostri giorni. Il termine, a quanto pare e secondo la stessa testimonianza del poeta Guillaume Apollinaire, fu desunto da un'espressione derisoria di Henri Matisse che nel 1908 era membro della giuria del Salon d'automne che aveva rifiutato cinque dei sette quadri inviati a quella esposizione da Georges Braque. Fu comunque il critico Louis Vauxcelles che, per la prima volta e sempre a proposito dei dipinti di Georges Braque, parlò di pittura fatta di ‟piccoli cubi" in un articolo pubblicato sul ‟Gil Blas" del 14 novembre 1908. Come era già accaduto per gli impressionisti nel 1874 e per i fauves nel 1905, gli artisti accettarono la definizione: già nel 1912 due di essi, Jean Metzinger e Albert Gleizes, pubblicarono un loro saggio teorico intitolato appunto Du cubisme e nel 1913 Guillaume Apollinaire raccoglieva e rielaborava alcuni suoi scritti dedicati alla nuova pittura nel volume Les peintres cubistes. In genere si è soliti indicare due momenti del cubismo: uno chiamato analitico (dal 1907-1908 fino alla fine del 1912) un altro chiamato sintetico (dal 1913 in poi); il primo fondato essenzialmente su un'analisi ‟dei rapporti di comprensione del pittore con gli oggetti e quasi mai dei rapporti tra gli oggetti per se stessi" (Juan Gris, risposta all'inchiesta Chez les cubistes, in ‟Bulletin de la vie artistique", 1 gennaio 1925, pp. 15 ss.); il secondo fondato sull'analisi più approfondita di questi rapporti e caratterizzato da un arricchimento delle superfici e anche da un più intenso impiego della tecnica del papier collé. In realtà, come sempre, anche in questo caso le schematizzazioni risultano arbitrarie e del pari arbitrario sarebbe fissare la data della fine del movimento cubista, sia perché, come dicevamo, la sua influenza si estende fino ai nostri giorni, sia perché, come aveva avvertito lo stesso Metzinger, il cubismo non era e non voleva essere una scuola. In effetti, se per i primissimi anni il cubismo si identifica essenzialmente con Picasso e Braque, già nel 1909 sono numerosi gli artisti che, partiti da varie esperienze - soprattutto postimpressioniste - si riconoscono nel movimento cubista, da Robert Delaunay a Herbin, da Gleizes, Metzinger, Juan Gris a Lhote, Marcoussis, Segonzac, dal cecoslovacco František Kupka a Jacques Villon con i suoi fratelli Raymond Duchamp-Villon e Marcel Duchamp il quale, insieme a Francis Picabia, sarà in seguito uno degli anticipatori del movimento dada. Le differenze tra artista e artista erano comunque notevoli: per distinguere Delaunay, per esempio, Apollinaire coniò il termine ‛orfismo'. Nel 1912, alla galleria La Boétie di Parigi, assenti Braque e Picasso, numerosi artisti cubisti si raccolsero in una mostra che fu chiamata della Section d'or (Léger, Delaunay, Gris, Gleizes, Marcel Duchamp e Raymond DuchampVillon, Jacques Villon, Agero, Picabia, Lhote, Segonzac, Herbin, Metzinger, Marie Laurencin, Marcoussis, Marchand, Moreau, La Fresnaye, Valensi, Dumont). La Section d'or proponeva già soluzioni non del tutto ortodosse, soprattutto con artisti quali Delaunay e, in maniera diversa, Jacques Villon, che accentuavano gli effetti cromatici, recuperando più direttamente la lezione dell'impressionismo e del pointillisme e proponendo una maggiore dinamicità degli organismi compositivi. Pochi anni dopo, comunque, partendo sempre da un'analisi del cubismo, Amédée Ozenfant e Edouard Jeanneret (Le Corbusier) pubblicavano nel 1918 il manifesto del purismo, con il titolo significativo Après le cubisme, e operavano ormai decisamente in senso contrario, chiedendo che venissero ristabilite le proprietà architettoniche della forma, al di là di ogni intervento individuale e fantastico.
2. Cubismo e tradizione
Per quanto riguarda lo svilupparsi e l'affermarsi delle poetiche cubiste, va detto prima di tutto che le ragioni ideologiche e le conseguenti sollecitazioni al mutamento delle strutture linguistiche, che portarono allora gli artisti a ricercare e proporre una nuova dimensione stilistica, diversa in ogni caso da ogni altra proposta precedente, avevano le loro radici nella tradizione pittorica e plastica che si era venuta a creare nella seconda metà dell'Ottocento. Va detto, insomma, che, pur nell'assoluta novità che esso ha rappresentato, il cubismo non ha operato un taglio netto e decisivo con quella concezione del fare artistico su cui si fondavano le esperienze immediatamente precedenti. Non ha inteso, cioè, porsi come antitesi assoluta, come antipittura o antiscultura, al di là dunque dei procedimenti tecnici consueti, anche se questi procedimenti sono stati logicamente mutati, forzati, con l'assunzione di materiali ‛estranei' a quelli già impiegati tradizionalmente. E questo anche se il problema della rappresentazione dello spazio e della sua costruzione, sia sul piano bidimensionale, sia nelle tre dimensioni della scultura, è venuto a risolversi in maniera del tutto medita nei confronti di quelli che, dal Rinascimento in poi, erano stati i canoni fondamentali che avevano governato tale rappresentazione e la sua verifica geometrica. Cioè gli artisti cubisti hanno mantenuto il concetto di perspectiva naturalis in usum artificum, ma ne hanno moltiplicato i punti di vista e abolito la successione cronologica dei momenti e degli eventi, tuttavia riscoprendo ‟quegli aspetti della realtà che condussero all'elaborazione della prospettiva sintetica, che essi in qualche caso usano ancora nella forma evoluta del tipo curvilineo" (J. White, Birth and rebirth of the pictorial space, London 1957; tr. it.: Nascita e rinascita dello spazio pittorico, Milano 1971, p. 374). Il ‛fare arte' ha conservato in definitiva la stessa precisa intenzionalità di manifestazione di un comportamento umano, totalmente riferito all'attività specifica dell'uomo e perciò gli artisti cubisti, e in particolare coloro che diedero vita al movimento, primi fra tutti Picasso e Braque, pur nella loro polemica innovatrice, si sono richiamati direttamente alla tradizione e ai modi operativi stabiliti dalle avanguardie della seconda metà dell'Ottocento (ma in certi casi anche quelle della prima metà del XIX secolo, e basti pensare, a questo proposito, al rapporto di simpatia formale che si determina tra Picasso e David). È logico comunque che il riferimento più pertinente è stato fatto con alcuni pittori che li avevano immediatamente preceduti, come Paul Cézanne, e anche tenendo conto, sul piano dell'organizzazione formale e geometrica di alcune di queste premesse, di ciò che aveva investito l'ordine compositivo e la sua regolarità, così come era stato proposto dai pittori del postimpressionismo, e in particolare da Georges Seurat. In nessun caso, di conseguenza, i cubisti hanno sconfessato tale tradizione ma, se mai, si sono collocati nei suoi confronti in un'antitesi dialettica, non di negazione ma di logica e voluta evoluzione.
A questo proposito va anche detto che, per comprendere questa continuità evolutiva e questa stessa antitesi, non è possibile prescindere dalla considerazione delle possibilità operative degli artisti, così come esse si erano potute sviluppare e così come esse erano state, tutto sommato, limitate e circoscritte dai mutamenti imposti ai comportamenti artistici dall'affermarsi delle tecnologie industriali nell'ambito di quelle strutture capitalistiche che la società ottocentesca aveva costruito sui solidi fondamenti della vittoriosa rivoluzione industriale. Poiché infatti restava limitata, in questo contesto, l'autonomia del fare artistico e poiché, soprattutto, all'arte non veniva richiesta più alcuna funzione, dato che ogni funzionalità era assorbita dal progredire costante delle tecnologie industriali, l'artista allora ha inteso rivendicare la specificità di una tecnica e di una rappresentazione assolutamente diverse. Tal che le stesse mutazioni prospettiche vengono elaborate in contrasto con quella che Braque ha definito una prospettiva meccanizzata: ‟La prospettiva tradizionale - ha dichiarato - non mi soddisfaceva. Meccanizzata com'è; questa prospettiva non dà mai il pieno possesso delle cose. Parte da un punto di vista e non ne esce [...] Quello che mi ha attirato molto, e che fu la direttiva fondamentale del cubismo, era la materializzazione di questo spazio nuovo, che io sentivo" (‟Cahiers d'art", 1954, n. 29). Braque è stato, sicuramente, il meno scientifico tra i pittori cubisti, essendo l'arte per lui qualcosa che poteva provocare turbamento, laddove la scienza poteva offrire sicurezza. Ma per lui, come per gli altri pittori cubisti, il problema maggiore è stato quello di una nuova interpretazione del rapporto tra artista e realtà, in quanto ‟il pittore non intende ricostruire un aneddoto, ma costituire un fatto pittorico" (Cahier de Georges Braque, Paris 1948) ed è proprio in questo senso che si giustifica l'interpretazione di Argan, secondo la quale ‟si cerca dunque di riformare nella struttura il funzionamento interno, e quindi il processo genetico dell'operazione artistica allo scopo di poter proporla come modello di funzione: all'opera d'arte non si riconosce più un valore ‛in sé', ma solo di dimostrazione di un procedimento operativo esemplare o, più precisamente, di un tipo di procedimento che implica e rinnova l'esperienza della realtà. Si può dunque dire che in questo periodo si opera la trasformazione del sistema o della struttura dell'arte da rappresentativa a funzionale" (G. C. Argan, L'arte moderna 1770-1970, Firenze 1970, pp. 366-367). È chiaro che questa diventa, ed era già diventata ancora prima del cubismo, la posizione operativa dell'arte d'avanguardia, posizione che si chiarisce sempre di più proprio negli anni a cavallo del 1910, con diverse accentuazioni, naturalmente, che comunque intervengono direttamente nell'elaborazione delle poetiche artistiche e non soltanto in quelle delle arti figurative. Se infatti ancora Georges Braque ha precisato che gli oggetti ridotti a frammento nei suoi dipinti eseguiti verso il 1910 rappresentavano per lui un modo di avvicinarsi il più possibile all'oggetto, per quanto potesse permetterglielo la specificità dei mezzi pittorici, è stato pur vero che impadronirsi di una nuova oggettività significava anche, come ha notato Adorno a proposito di Schönberg, che ‟nulla nell'arte deve far credere in qualche cosa che sia altro da ciò che essa è" sì che questa oggettività ‟mette in crisi il concetto stesso dell'arte come parvenza" (Th. Adorno, Einleitung in die Musiksoziologie, Berlin-Frankfurt a.M. 1962; tr. it.: Introduzione alla sociologia della musica, Torino 1971, p. 220). In questo senso il cubismo, ancor più del fauvismo, più chiaramente del futurismo, e in leggero anticipo sulle esperienze di Kandinskij e degli artisti di Monaco - i quali del resto non ne ignorano la lezione - si colloca a fondamento di tutta l'arte del XX secolo, tuttavia raccogliendo, occorre ripetere, gli elementi principali che avevano costituito la sostanza, teorica e linguistica, del dibattito proposto dalla cultura artistica precedente.
Tutti i teorici e critici che avevano maturato la loro esperienza al momento della crisi del romanticismo, da Baudelaire a Ruskin, avevano già sottolineato per loro conto e in riferimento alla loro specifica condizione e a quella degli artisti loro contemporanei, come l'operazione artistica si andasse ponendo ormai in posizione antitetica nei confronti delle tecnologie strumentalizzate dalla produzione industriale e, di conseguenza, nei confronti dei comportamenti di una borghesia la quale richiedeva soltanto che l'arte contribuisse a un'evasione dalla realtà e che in fin dei conti domandava, come aveva notato Émile Zola (in ‟L'Evénement", 4 maggio 1866), soltanto ‟una lacrima o un sorriso". Una borghesia dunque, con la sua organizzazione sociale fatta a sua immagine e somiglianza e per suo interesse, che, misconoscendo la specificità tecnica dei procedimenti artistici - che aveva creduto di poter assorbire totalmente nella serialità dei propri procedimenti industriali - aveva innalzato idola diversi, che non necessitavano affatto di una presa di coscienza critica della realtà oggettiva, realtà che anzi, sotto l'imperio di questi idola, non poteva più essere, in alcun modo, proposta come modello esemplare. Essa pertanto aveva ostinatamente negato (e si potrebbe dire giustamente dal punto di vista della sua logica produttiva) ogni movimento d'avanguardia, in quanto riconosceva in questa avanguardia, o meglio nel concetto stesso d'avanguardia, così come esso era venuto formandosi e manifestandosi dal romanticismo in poi, l'intenzione sovvertitrice di un ordine ideologico che, appunto, essa stessa aveva stabilito per i propri fini e riversato nella prassi del proprio comportamento. Sovvertimento che invece portava dalla contemplazione all'espressione, dalla parvenza all'autonomia oggettiva - tecnica e di rappresentazione - di tutta la produzione artistica. Negazione tuttavia che non avrebbe poi impedito a questa stessa borghesia di impadronirsi anche di tale produzione, valutandola secondo il proprio principio di un'economia di mercato, tal che i quadri impressionisti prima, poi quelli fauves o cubisti e in genere di tutta l'avanguardia, sarebbero diventati, in un travisamento dell'apprezzamento delle loro qualità estetiche, puri oggetti di scambio e di investimento. Ed è proprio la coscienza di questa appropriazione, dello sfruttamento di un plusvalore nemmeno immaginato al principio dell'operazione artistica, che interviene più decisamente, e in maniera particolare all'inizio del secolo, nella formazione delle poetiche. Coscienza che quindi sollecita energicamente la trasformazione dei moduli di rappresentazione e sollecita nello stesso tempo la definizione di un nuovo rapporto tra l'artista e la realtà, di essa rinnovando l'esperienza e all'opera d'arte non più riconoscendo ‟un valore ‛in sé', ma solo di dimostrazione di un procedimento operativo esemplare" (Argan, op. cit.), e dunque di rivendicazione e di riscatto. Anche e soprattutto per questo il cubismo si pone, come già dicevamo, come il momento ideologico fondamentale di tutta l'arte moderna, appunto come momento ‟esemplare", tanto più in quanto l'ideologia, la presa di coscienza ideologica, si risolvono in una prassi operativa, sostanzialmente politica, per cui può anche venir ritenuta giusta la considerazione secondo cui ‟l'arte, contro una cultura in cui si sente minacciata, perlomeno di subordinazione, per la prima volta mette la cultura in stato di accusa" (A. Malraux, Psychologie de l'art, vol. I, Le musée imaginaire, Genève 1947, p. 137).
L'intenzione sovvertitrice era già insita, nel secolo precedente, nella poetica di un pittore come Delacroix: all'osservazione distaccata dell'avvenimento, alla sua rappresentazione più o meno edificante, egli aveva contrapposto una volontà di partecipazione, un impegno che certamente non era politico, nel senso in cui indicavamo, ma che era certamente ideale, poiché aveva piena coscienza che tutto fosse risolvibile nella pittura, anche la storia. La stessa intenzione, e in questo caso più decisamente politica, aveva informato la poetica di Courbet (il rapporto che Picasso ha poi posto con il maestro d'Ornans è stato molto stretto e significativo) che, con la sua sfida al grand style, in una sorta di Kitsch avanti lettera, era arrivato, più o meno coscientemente, a una prima svalutazione del concetto di narrazione descrittiva e contemplativa, che veniva generalmente intesa come successione di momenti ideali. Il processo, che implicava logicamente anche una trasformazione della rappresentazione dello spazio, fu portato avanti dagli impressionisti: ‟L'età contemporanea appunto si inizia con la crisi del positivismo in filosofia e del realismo in arte [...] Gl'impressionisti raggiunsero una forma della luce, che rappresentava la natura sotto un solo aspetto, e quindi non per ottenere l'illusione ma secondo un principio di stile: e però il pubblico accusò gli impressionisti di deformare la realtà" (L. Venturi, Premesse teoriche dell'arte moderna, Accademia Nazionale dei Lincei, quaderno n. 24, 1951, p. 4). La svalutazione della narrazione descrittiva in senso ideale o particolare, aveva anche comportato il superamento delle poetiche settecentesche del sublime e del pittoresco, come aveva del pari condotto a intuire, almeno, la necessità di superamento della distinzione manichea tra bene e male, tra morale individuale e morale collettiva, come poi avrebbe teorizzato e praticato, con ogni probabilità risalendo proprio alla lezione cubista, uno dei maggiori e più significativi pittori del XX secolo, Paul Klee. ‟C'è forse una connessione necessaria tra il buono e il bello? - si era chiesto già Delacroix il 4 febbraio 1857 - Una società può compiacersi delle cose elevate, di qualunque genere esse siano? Probabilmente no; così, nelle nostre società, con i nostri gretti costumi, con i nostri piaceri meschini, il bello non può essere che un accidente, e questo accidente non occupa un posto sufficiente per cambiare il gusto e riportare alla bellezza la generalità degli spiriti" (E. Delacroix, Journal, a cura di A. Joubin, Paris 1950, p. 62). Al che, più o meno, corrisponde la considerazione espressa da Paul Klee all'inizio del 1915: ‟Più questo mondo è terrificante (oggi per esempio), più l'arte si fa astratta, mentre un mondo felice susciterebbe un'arte immanente" (Tagebücher von Paul Klee, Köln 1959; tr. it.: Diari, Milano 1962, p. 132). Va tenuto presente che il concetto d'astrazione, in Klee come nei cubisti, non significa rinuncia all'indagine sulle strutture della realtà, nemmeno della realtà fenomenica, ma assume in lui, in senso worringeriano, il significato di contrapposizione al concetto di Einfühlung (W. Worringer, Abstraktion und Einfühlung, München 1908).
3. Il cubismo e le esperienze del Novecento
Le due dichiarazioni, pronunciate a distanza di anni e in momenti così dissimili, rivelano tuttavia con precisione, nella loro straordinaria affinità, quella che avevamo già indicato essere la condizione operativa fondamentale dell'arte moderna. Il cubismo, che cronologicamente segue l'una e anticipa l'altra, rappresenta il momento in cui più chiaramente, anche rispetto alle immediate premesse postimpressioniste e fauves, il problema viene riproposto. È perciò un punto di riferimento costante, la rivelazione critica non soltanto di una nuova visione, ma del nuovo concetto che governa tutta l'arte del nostro secolo. Gli artisti cubisti, partiti da una posizione teorica che trova appunto origine nel formarsi e nell'affermarsi delle poetiche romantiche - almeno come esse si erano precisate e realizzate nell'opera di Delacroix, dello stesso Courbet - ne esasperano i postulati, ne risolvono al tempo stesso le contraddizioni, il tutto trasmettendo alle esperienze successive. Esperienze e ricerche come quelle di Paul Klee, appunto, che formatesi in altro clima e in tutt'altro ambiente culturale, maturano proprio attraverso una meditazione del cubismo (ancora incerta ma tuttavia avvertibile già in certi suoi quadri del 1910, più decisa e fruttuosa nel 1914, anno in cui, oltre alla serie di acquerelli nordafricani, esegue un quadro che ha il significativo titolo di Omaggio a Picasso, che racchiude la composizione in un ovale, così come i cubisti avevano insegnato a fare). In questo modo, come è stato pur detto, mentre la stessa questione del riferimento e della riconsiderazione, sul piano più immediato delle strutture linguistiche, delle espressioni artistiche non occidentali (la pittura e le incisioni giapponesi, la scultura negra) comincia ‟a porsi il problema di una sociologia che divideva le sue giovani opzioni tra Ruskin e Durkheim, Picasso prende partito per l'avvenire [...] Con l'espediente dell'opera d'arte, una sorta di anamnesi linguistica, morfologica, plastica, intraprende l'assedio dell'ideologia borghese" (R. L. Delevoy, Dimensions du XXe siècle, Genève 1966, p. 87). Il che apparirà tanto più vero quando si penserà che, più o meno in quegli anni attorno al 1915 R. Jakobson in Russia, proprio avvicinandosi ai movimenti dell'arte d'avanguardia, debitori del cubismo e del futurismo, comincia ad elaborare le sue indagini linguistiche e crea le basi di una semiologia. In ogni senso, dunque, il cubismo viene a rappresentare la rottura più decisa; ma occorre sempre tener presente che questa rottura, come dicevamo, trae origine non soltanto dalle premesse teoriche delle esperienze artistiche precedenti ma, come è pur logico, dal patrimonio linguistico che il cubismo eredita dall'avanguardia del XIX secolo e che trasmette, con la modificazione necessaria che corrisponde alla mutata condizione storica, ai movimenti successivi: all'avanguardia suprematista e costruttivista russa, allo stesso Blaue Reiter monacense (e cioè oltre che a Klee, a Kandinskij, a Marc, a Macke), al neoplasticismo olandese e quindi, col trascorrere degli anni, al dada in cui confluiscono Picabia e Marcei Duchamp, al surrealismo che magari lo nega ma che non può non riconoscerne l'esemplarità, fino al postcubismo degli anni successivi al 1937 (dopo Guernica) e, diremmo, fino alle ultime esperienze concettuali le quali, pur abolendone del tutto i procedimenti tecnici e di rappresentazione, ne conservano la volontà di autonoma oggettivazione del comportamento, proprio secondo quanto, a nostro parere, aveva indicato già all'inizio del 1913 Guillaume Apollinaire, per il quale il cubismo era ‟l'arte di dipingere nuovi insiemi con elementi presi non dalla realtà della visione, ma dalla realtà di concezione" (v. Apollinaire, 1960, p. 281).
Del tutto conseguenzialmente il cubismo viene a collocarsi nella linea maestra dell'arte moderna, quale necessaria e imprescindibile mediazione tra il passato e l'avvenire. Sempre Apollinaire, che fu indiscutibilmete il primo interprete e diretto testimone dell'avventura cubista, parla ancora di bellezza ideale, ma precisa anche, e sia pure confusamente, che la pittura moderna si era comunque posta il problema ‟della bellezza in se" e che la considerava distaccata dal ‟diletto che l'uomo causa all'uomo" (ibid.). In effetti, ancora più chiaramente, i cubisti, hanno espresso il loro rifiuto per la bella pittura, hanno eliminato ogni idea di coincidenza tra bellezza ideale e procedimento artistico. L'antecedente immediato di tutto ciò era stato l'impressionismo o, meglio, gli artisti che, subito dopo il 1880, avevano superato la crisi logica dell'impressionismo, soprattutto per quello che concerneva gli schemi visivi della rappresentazione. Anzi, si è soliti far risalire una prima e decisiva indicazione per il formarsi della poetica del cubismo a una frase di Cézanne contenuta nella famosa lettera indirizzata a Émile Bernard il 15 aprile 1904: ‟Mi permetta di ripeterle quanto le dicevo: trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono, il tutto messo in prospettiva in modo che ogni lato di un oggetto o di un piano si diriga verso un punto centrale" (É. Bernard, Souvenirs sur Paul Cézanne et lettres inédites, in ‟Mercure de France", 1 ottobre 1907, n. 247, pp. 385-404 e 15 ottobre 1907, n. 248, pp. 606-627). Al quale principio corrispondevano esattamente, del resto, le realizzazioni pittoriche del maestro di Aix-en-Provence che, fin dal 1877, aveva cominciato a distaccarsi dall'impressionismo per ricercare un procedimento pittorico più costruttivo, sempre più deciso nelle opere eseguite sul finir del secolo e che in alcune, come per esempio nella Montagne Sainte-Victoire eseguita tra il 1904 e il 1906 (Philadelphia Museum of Art, George W. Elkins collection) o nelle Grandi bagnanti del 1898-1905 (Philadelphia Museum of Art, Wilstach collection), si potrebbe definire, senza per nulla forzare l'interpretazione, un procedimento realmente cubista anche a causa del superamento ormai completo della scansione meccanica dello spazio e per la creazione di una nuova dimensione emozionale e non più descrittiva. Ma va anche ricordato, per far riferimento al citato assedio dell'ideologia borghese, che proprio Cézanne aveva ancora scritto a Émile Bernard, il 25 luglio del 1904, che il senso dell'arte, sul quale egli intendeva fondare tutta la sua poetica, la sua esperienza e i suoi risultati, era quello che ‟suscitava l'orrore del borghese". L'influenza di Cézanne, in ogni senso, è assolutamente determinante nella formazione delle poetiche del cubismo: basterà del resto ricordare le due mostre di sue opere fatte al Salon d'automne a Parigi, l'una nel 1904, l'altra nel 1907, un anno dopo la morte dell'artista, quando Picasso ha appena portato a termine Les demoiselles d'Avignon, un anno prima che Braque vada a ripercorrere i luoghi stessi dove il maestro aveva dipinto, tornando a dipingerli egli stesso, dopo aver abbandonato la felicità delle colorazioni fauves, con un rigore pienamente cézanniano e via via sempre più cubista: Paesaggio all'Estaque (Basel, Kunstmuseum), Case all'Estaque (Bern, Kunstmuseum), La strada presso l'Estaque (New York, Museum of Modern Art), ecc.
Ma tutto quanto Cézanne aveva fatto era pur sempre nato dall'impressionismo; nella lettera citala del 15 aprile 1904, dopo aver parlato di cilindri, sfere e coni, egli aggiungeva: ‟[...] La natura, per noi uomini, è più in profondità che in superficie; da ciò la necessità di introdurre nelle nostre vibrazioni di luce, rappresentate dai rossi e dai gialli, una quantità sufficiente di tonalità azzurrognole per far sentire l'aria" (Bernard, op. cit.). Il che ci dà una chiara dimostrazione della derivazione impressionista del costruttivismo cézanniano, mentre quando si cerca, come pure è stato tentato a più riprese, di dimostrare che Cézanne non ebbe mai niente a che fare con l'impressionismo, nemmeno nel periodo dal 1873 al 1877, si rincorrono farfalle sotto l'arco di Tito. Chiaro è, per quanto riguarda il nostro discorso, che la ripetizione dei moduli impressionisti portata stancamente avanti all'inizio del Novecento da pittori che con l'impressionismo vero e proprio non avevano mai avuto a che fare, ma che anzi lo interpretavano superficialmente e nel senso della ‛bella pittura', ha provocato una reazione a cui hanno partecipato i pittori cubisti e i loro sostenitori. Tanto più che questi epigoni amavano confondere arte e scienza, o meglio davano di ambedue un'interpretazione accademica. Louis Roy, nel catalogo della ‛Quattordicesima mostra dei pittori impressionisti e simbolisti' del 1897 (in realtà le mostre degli impressionisti furono soltanto otto, l'ultima fu tenuta nel 1886), pittori di cui si è perso totalmente il ricordo, dichiarava: ‟Il pittore conoscendo le leggi che governano l'armonia delle linee, e quelle che governano l'unione dei colori, è più sicuro di ottenere un risultato migliore di colui che, lasciandosi andare alla propria personale intuizione, avrà trascurato o disprezzato lo studio di queste leggi. Ma questo studio sarà comunque impotente a fare di lui un artista se la natura gli ha negato il sentimento artistico" (p. 6). Abbiamo creduto di dover riportare questa rara testimonianza, per chiarire le giuste ragioni di una polemica contro un impressionismo che non era più tale, ma solo un espediente accademico di sopravvivenza. Della reazione, invece, ci fornisce indicazioni lo stesso Apollinaire, in verità non sempre così lucido nell'interpretazione dell'arte dell'immediato passato e, soprattutto, incapace di comprendere quello che l'impressionismo aveva veramente rappresentato. A suo avviso - come scriveva nel settembre 1910 - Cézanne era riuscito ‟a innalzare l'impressionismo fino a farne un'arte di ragione e di cultura" (v. Apollinaire, 1960, p. 117). Dal che si arguisce che per lui l'impressionismo era un'arte irrazionale e incolta, come aveva più o meno già detto scrivendo la presentazione al catalogo della mostra di Braque nel novembre del 1908: ‟L'impressionismo non è stato che un istante poveramente e solamente religioso delle arti plastiche. A parte alcuni maestri magnificamente dotati, sicuri di se stessi, si vede una folla di zelanti, di neofiti manifestare con i loro quadri che adorano la luce [...] Ma adesso è il momento di un'arte più nobile, più misurata, meglio ordinata, più colta" (ibid., pp. 59-60). Ma, ripetiamo, Apollinaire, anche se mai raggiunge la straordinaria intelligenza critica di un Baudelaire e tanto meno si preoccupa di un aggiornamento metodologico come aveva fatto Jules Laforgue, resta sempre la fonte più preziosa, nonostante la faziosità e certi tentennamenti non molto comprensibili nel momento in cui esplode la polemica tra cubisti e futuristi (o più precisamente tra Boccioni e Delaunay). Fonte preziosa perché ci definisce il clima polemico, proprio nel momento dell'affermazione delle poetiche cubiste, contro la pittura concepita in un certo modo, intesa appunto come ‛impressione', come derivata da un'epidermica ‛sensazione'.
Ai fraintendimenti insiti in questa polemica aveva certamente contribuito il maldestro tentativo condotto da Émile Bernard di staccare Cézanne dall'impressionismo, di presentarlo, nei due articoli sul ‟Mercure de France" del 1907, e nei successivi libri in cui li rielabora (É. Bernard, Souvenirs sur Paul Cézanne et lettres inédites, Paris 1912 e 1921; Sur Paul Cézanne, Paris 1925), come il restauratore di un ordine classico. La dichiarazione che gli attribuisce, ‟bisogna ridiventare classici per mezzo della natura, cioè per mezzo della sensazione" (op. cit. 1912, p. 40), viene interpretata solo in un senso di restaurazione, laddove essa, con l'accento posto sulla ‟sensazione", indica più precisamente la volontà di superare il momento dell'impressione, per ritrovare un ordine logico e di coscienza, per riannodare un contatto con la realtà fenomenica che, nel momento dell'elaborazione artistica, deve venir a coincidere con la propria realtà di condizione: ‟Cézanne non ha creduto di dover scegliere tra sensazione e pensiero, come tra caos e ordine" (M. Merleau-Ponty, Le doute de Cézanne, in Sens et non sens, Paris 1948, p. 23). Al di là dunque delle interpretazioni di un mediocre pittore qual era Émile Bernard, delle quali in fin dei conti nemmeno Cézanne si fidava molto, il problema dell'impressionismo e delle sue conseguenze va, più giustamente, risolto tenendo presente la trasformazione della rappresentazione dello spazio che, già cominciata con Manet - si vedano certe moltiplicazioni dei punti di vista prospettici che compaiono perfino nel Déjeuner sur l'herbe del 1863 (Paris, Louvre) - era stata portata a conseguenze estreme da Cézanne. Da qui i cubisti cominciano il loro discorso, anzi, ci pare di poter osservare che i paesaggi del primo cubismo di Braque, quelli eseguiti nel 1908, di cui parlavamo, e i paesaggi dipinti da Picasso a Horta de Ebro nel 1909, per esempio le Fabbriche a Horta de Ebro (Leningrad, Ermitage), per quanto riguarda la scompaginazione della prospettiva tradizionale, restano piuttosto fermi a un'analisi e non raggiungono ancora la sintesi dei momenti spaziali già realizzata da Cézanne in opere come quelle più sopra citate, in particolare nella Montagne Sainte-Victoire di Philadelphia. Altrettanto si può dire a proposito degli artisti che, venendo dall'esperienza fauve (Dufy, Derain, Vlaminck) si pongono in quello stesso momento il problema di una riduzione degli effetti cromatici, per meglio evidenziare una più solida ripartizione geometrica dello spazio.
Da Cézanne dunque discende direttamente la lezione più immediata e decisiva, da un Cézanne però che non può essere distaccato dall'impressionismo. Il cubismo, è stato detto, ha avuto una grandissima importanza perché ‟nella scia dell'impressionismo, ha manifestato una reale curiosità per l'analisi delle sensazioni, e ha abituato le menti all'idea di una necessaria trasformazione del linguaggio plastico. Esso ha sviluppato la nozione di ‛sistema arbitrario di equivalenza'; e ha ravvicinato la pittura alla fisiologia" (v. Francastel, 1951; tr. it., p. 171). Considerazione questa che, tutto sommato, era già stata anticipata, in un certo senso, da uno dei maggiori pittori cubisti, José Victoriano González, meglio noto col nome di Juan Gris, nella conferenza tenuta alla Sorbona davanti al Groupe d'études philosophiques et scientifiques il 15 maggio 1924, quando dichiarava che la ‟sola possibilità per la pittura consiste nell'espressione di certi rapporti del pittore con il mondo esterno e che il quadro rappresenta l'associazione intima tra questi rapporti e la superficie limitata che li contiene" (in Juan Gris, catalogo-mostra presso il Musée National d'Art Moderne, Paris 1974, p. 42). In questo ambito di idee, e facendo riferimento in particolare a questa presa di posizione di Juan Gris come ad altre contenute nei suoi scritti teorici (D. H. Kahnweiler, Juan Gris. Sa vie, son oeuvre, ses écrits, Paris 1946), va probabilmente ridimensionato, per quanto riguarda gli scompaginamenti prospettici, il modo di trattare le immagini, quel riferimento, che si è soliti generalizzare un po' troppo, alla scultura negra. Non che esso debba essere del tutto tralasciato, perché l'interesse per l'arte negra, la sua considerazione e riqualificazione estetica, ha investito tutta l'avanguardia del primo Novecento. Sculture negre collezionavano Vlaminck e Matisse, ancor prima che su di esse si posasse l'attenzione di Picasso. Ma questo rapporto va considerato sul piano di un interesse culturale, il quale certamente ha sollecitato la ricerca di una diversa funzionalità delle immagini, ma che non ha riproposto il mito del primitivismo, non è intervenuto direttamente nella costituzione della poetica cubista. Se si tengono a mente Les demoiselles d'Avignon di Picasso, e soprattutto i numerosi studi preparatori, appare chiaro che, sul piano formale, l'influenza della scultura negra è innegabile. ‟Appena tornato da un breve viaggio in Spagna, da Gosolo - ha ricordato Gertrude Stein - dove aveva trascorso l'estate, conobbe Matisse, e Matisse gli fece conoscere la scultura africana. Non bisogna mai dimenticare che la scultura africana non è affatto naïve, è anzi un'arte molto, molto convenzionale; e la sua tradizione è una tradizione derivata dalla cultura araba. Gli Arabi crearono per i Negri sia la civiltà, sia la cultura; l'arte negra, per Matisse esotica o naïve, per lo spagnolo Picasso era una cosa naturale, immediata e civile. Era quindi naturale che ciò rafforzasse la sua visione, che l'aiutasse a realizzarla, e il risultato furono gli studi che portarono a creare Les demoiselles d'Avignon" (G. Stein, Picasso, Paris 1938; tr. it.: Picasso, Milano 1973, p. 33). La concezione della civiltà e della cultura negre che ha la Stein è tipicamente colonialistica e non corrisponde affatto alla realtà, è vero però che per Picasso la scultura negra era ‟una cosa naturale, immediata e civile", e come tale egli ha potuto considerarla e servirsene per Les demoiselles d'Avignon. Ma la storia del quadro è complessa: concepito come una composizione con sette figure, cinque donne, uno studente con un cranio in mano e un marinaio, con un vaso di fiori in primo piano, è risultato poi composto di cinque figure femminili e una natura morta con uva, pera e mela. Lo studio, già appartenente all'artista, eseguito a matita e pastello, mostra tutte e sette le figure e il vaso di fiori: non soltanto nell'ordine compositivo e nel trattamento rapido e sintetico delle immagini, ma addirittura sul piano iconografico questo studio è ripreso direttamente da Cézanne. Le sculture africane sono state per Picasso, dunque, e come l'artista stesso ebbe a dichiarare, un mezzo per impadronirsi di un linguaggio antitradizionale, immediato, ma sono state considerate più come testimonianze che come esempi. Più o meno le stesse cose ha detto in proposito Georges Braque, mentre Juan Gris ha giustificato il suo interesse per esse in rapporto al fatto che, in quanto espressioni religiose, rappresentavano in maniera esatta, ma diversa dalla nostra, principi e idee generali.
Il cubismo, anche per tutto quello che abbiamo detto circa le sue relazioni con l'arte della seconda metà dell'Ottocento, ha elaborato una poetica dotta, niente affatto primitiveggiante e in questa luce va considerato anche il rapporto con Henri Rousseau le Douanier, che Picasso scopre e in onore del quale organizza un famoso banchetto nel 1908, anche se può esser vero che sia stato Rousseau ‟a fare tabula rasa di tutte le tradizionali tecniche di rappresentazione (prospettiva, rilievo, rapporti tonali) e a riportare la pittura al grado zero" (Argan, op. cit., pp. 367- 368). È chiaro, infatti, che la tipica semplicità compositiva di Rousseau poteva anch'essa costituire una ‛testimonianza' e che, nella rivolta contro ogni concettualità accademica, la pittura del Doganiere ha potuto essere considerata, da Picasso in particolare, come una ‛grande arte' senza grand style. Ma i cubisti non hanno avuto intenzione alcuna di crearsi il modello di un mondo idoleggiato nella sua purezza e nella sua incontaminata presenza, come del resto non l'aveva avuta neanche Rousseau. Quanto a ciò, poi, e anche per quello che riguardava prospettiva, rilievi e rapporti tonali, se mai il precedente immediato era quello di Gauguin, per la forza di persuasione che derivava dal rinnovamento che egli aveva operato delle strutture linguistiche. Certo, l'influenza di Gauguin è stata più forte sui fauves e su Matisse che sui cubisti, soprattutto per ciò che veniva a interessare l'arbitrarietà delle colorazioni, collocate al di fuori degli schemi tradizionali del complementarismo e del tonalismo. Ma va ricordato che, ancora in riferimento alla trasformazione della rappresentazione dello spazio, tutte le opere degli artisti del simbolismo postimpressionista, quelle di Gauguin e van Gogh da un lato, quelle di Seurat e dei pointillistes dall'altro, sono da considerare come premesse necessarie. Il punto era questo: ‟I cubisti - si dichiarava - hanno già scardinato il pregiudizio che obbligava il pittore a restare immobile di fronte all'oggetto, a fissare sulla tela un'immagine fotografica. Si son permessi di muoversi attorno all'oggetto per dare di esso una rappresentazione formata dai diversi successivi aspetti. Prima di oggi un dipinto padroneggiava solo lo spazio, adesso vive anche nel tempo. Disegnare in un ritratto gli occhi visti frontalmente, il naso in semiprofilo, può accrescere la somiglianza" (J. Metzinger, Cubisme et tradition, in ‟Paris-Journal", 16 agosto 1911). Perciò, ripartendo dal ‛grado zero', si costituiva una nuova scala di valori di rappresentazione. Quanto al mito, va premesso che quello di Gauguin non si era mai risolto nel suo desiderio di evasione, bensì, di fatto, nella constatazione lucida che l'unica realtà possibile, a livello operativo, era la pittura la quale, appunto, riscattava ogni mitologia presente o passata; in questo Gauguin non era, almeno nella considerazione di questa realtà e non certo negli esiti formali, tanto distante da Cézanne. Poiché occorreva ai cubisti riempire in un certo modo una superficie piana, comunque valorizzando i volumi, la logica compositiva cézanniana era una premessa primaria; ma del pari costituivano premesse le non localizzazioni cromatiche di Gauguin e l'organizzazione bidimensionale della sua pittura. Quanto a Rousseau e al suo ‛grado zero', proprio come tale esso andava a investire, al di là del cubismo e della cultura artistica francese, la cultura dell'avanguardia europea. Nell'almanacco del Blaue Reiter pubblicato nel 1912, Kandinskij, che poi acquistò anche un quadro del Doganiere, dichiarava: ‟L'artista, che sotto molti aspetti rimane simile al bambino per tutta la vita, può percepire più di chiunque altro la risonanza interiore delle cose. In questo senso è particolarmente interessante osservare la semplicità e la sicurezza con cui il compositore Arnold Schönberg si serve dei mezzi pittorici. A Schönberg interessa di regola soltanto la risonanza interiore; egli trascura ogni abbellimento, ogni raffinatezza, ma nelle sue mani la forma ‛più povera' diventa la più ricca. La radice del nuovo grande realismo sta proprio qui. L'involucro esterno della cosa, semplicemente ed esclusivamente ‛dato', è già un diaframma che la separa dal pratico-funzionale, un'eco della sua interiorità. Henri Rousseau, che deve essere considerato il padre di questo realismo, ci ha indicato la strada con un gesto estremamente semplice e convincente (vedi il ritratto e gli altri suoi quadri). Henri Rousseau ha aperto la strada alle nuove possibilità della semplicità, e questo particolare valore del suo multiforme talento è per noi, al momento, più importante" (V. Kandinskij, Über die Formfrage, in Der blaue Reiter, München 1912; tr. it.: Il cavaliere azzurro, Bari 1967, pp. 161-162).
Il problema perciò resta, anche per Kandinskij, quello della individuazione di una realtà separata dal condizionamento del falso ‟pratico-funzionale" quotidiano; lo stesso problema dunque che i cubisti avevano posto e che, del resto, si ricava dal tentativo di teorizzazione del cubismo fatto da Gleizes e Metzinger, nello stesso anno 1912, con il saggio Du cubisme. Gleizes e Metzinger, anzi, nella prima parte del saggio in questione, fanno proprio riferimento al realismo di Courbet il quale, secondo la loro opinione, avrebbe riprodotto senza controllo intellettuale il mondo visibile, mondo che invece non può diventare veramente reale se non attraverso una operazione mentale (v. Gleizes e Metzinger, 1912, p. 6). Mentre un'opera d'arte può diventare qualcosa di vivo soltanto per mezzo delle relazioni che vengono a stabilirsi tra essa e determinati oggetti. ‟Oggi la pittura - essi affermano - permette di esprimere nozioni già ritenute inesprimibili, come quelle di profondità, densità e durata" (ibid., p. 12). Secondo Charles E. Gauss, l'idea che la pittura possa darci l'immagine di un mondo razionale, e pertanto più reale di quello che cade sotto i nostri occhi, ha un corrispondente ‟nell'estetica con la critica della metodologia scientifica fatta da Meyerson. La prima edizione di Identité et réalité apparve nel 1908, proprio nell'anno in cui il cubismò cominciava a richiamare su di sé l'attenzione, e la seconda edizione fu pubblicata nello stesso anno in cui apparve Du cubisme" (v. Gauss, 1949, p. 71). In effetti le implicazioni e le connivenze culturali erano molte: certamente né Cézanne prima, né Picasso e Braque dopo, avevano letto Bergson, ma si dà il caso che proprio nel saggio Du cubisme si parli di ‟durata", termine che del resto Metzinger aveva adoperato già prima e che rimanda significativamente al concetto di ‟durata reale" espresso da Bergson nell'Essai sur les données immediates de la conscience pubblicato nel 1889. Basti pensare allo sviluppo dei concetti di intensità psicologica e della molteplicità degli stati della coscienza, così come Bergson ne aveva parlato nel primo e nel secondo capitolo dell'Essai; appare alquanto improbabile che Gleizes e Metzinger - più Metzinger che Gleizes - non ne abbiano tenuto conto. È proprio l'espressione di una molteplicità degli stati d'animo, secondo una successione avvertibile come durata, che aveva caratterizzato la ricerca di Cézanne nei suoi ultimi anni e che viene riproposta dai pittori cubisti. Ma, in questo senso, i parametri di riferimento potrebbero essere anche molti altri e il cubismo, di per se stesso, è una testimonianza imprescindibile del travaglio culturale dell'Europa dell'inizio del secolo. L'affermazione più volte ripetuta, da Braque, da Picasso, da Juan Gris, che l'arte non si identifica con la scienza, nemmeno con la geometria, come appunto ribadiscono Gleizes e Metzinger, rappresenta la presa di coscienza di una situazione di crisi, quella che Husserl avrebbe appunto chiamato ‟la crisi delle scienze europee", crisi che è il leit-motiv di tutta l'esperienza artistica contemporanea.
La ricerca di un'unità temporale, che renda attraverso l'intelletto se non l'immagine completa almeno l'immagine più oggettiva possibile della realtà, caratterizza tutto il periodo del cosiddetto cubismo analitico, fin dunque verso la fine del 1912. Essa si esercita soprattutto nell'individuare una certa regolarità della struttura, anche attraverso moduli formali che si ripetono, nei volumi ‛analiticamente' dissezionati e ricomposti. Ed è questo il periodo in cui gli artisti cubisti operano la loro maggior riduzione cromatica, avvertibile anche nelle opere di Braque, che pure proviene da un'esperienza fauve, e per esempio già nei paesaggi della Roche Guyon eseguiti nel 1909, in quelli già citati di Horta de Ebro di Picasso, ma ancora nel Poeta del 1911 (Venezia, Collezione Peggy Guggenheim), e nei numerosi ritratti che l'artista spagnolo esegue tra il 1910 e il 1912. È avvertibile in Gleizes (si veda per es. l'Uomo al balcone del 1912, Philadelphia Museum of Art, Arensberg collection), in Metzinger (Le goûter, 1911, Philadelphia Museum of Art, Arensberg collection), nel rigore assoluto del Ritratto di Picasso (The Art Institute, Chicago, Mr. e Mrs. Leigh B. Block collection) e nella Natura morta con bottiglie e coltello (Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller), ambedue eseguiti da Juan Gris nel 1912, perfino nei Nudi nella foresta di Fernand Léger del 1909-1910 (Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller), pittore che, poco dopo, sarebbe giunto a un'accentuazione dei ritmi dinamici e cromatici della composizione. In una posizione particolare invece, proprio per quanto riguardava l'impiego del colore e la compenetrazione delle forme, si colloca Robert Delaunay per il quale, come già abbiamo ricordato, Guillaume Apollinaire crea il termine ‛orfismo'. ‟Delaunay - scrive il poeta - credeva che se veramente un colore primario condiziona il suo colore complementare, esso non lo determina infrangendo la luce, ma evidenziando in un tempo tutti i colori del prisma. Possiamo dare a questa tendenza il nome di orfismo" (G. Apollinaire, Die moderne Malerei, in ‟Der Sturm", 1913, n. 148-149, p. 272). Qui occorre fare innanzi tutto due considerazioni: la prima è che il saggio di Apollinaire viene pubblicato sulla rivista tedesca più impegnata a sostenere allora i movimenti d'avanguardia, dopo un'esposizione a Berlino delle opere di Delaunay, ed è anzi probabilmente il testo che era servito per una conferenza tenuta a Berlino all'inizio del 1913 (v. Apollinaire, 1960, p. 468). Su ‟Der Sturm", inoltre, Apollinaire aveva già pubblicato un articolo nel dicembre del 1912 (n. 138-139, p. 224), che era la traduzione, con qualche aggiunta e variante, di Notes: réalité, peinture pure pubblicato in ‟Les soirées de Paris" (1912, n. 11), nel quale aveva riportato una abbastanza lunga dichiarazione dell'artista relativa alla ‟costruzione della realtà nella pittura pura". La seconda considerazione, che è del resto conseguenza della prima, riguarda il fatto di estrema importanza che, si voglia o no Delaunay riconoscere tra i cubisti, è proprio attraverso di lui che il cubismo viene interpretato in Germania, e soprattutto a Monaco nell'ambiente del Blaue Reiter. Klee, che aveva visto i quadri di Delaunay esposti nella prima mostra del Blaue Reiter alla galleria Tannhaüser nel 1911, traduce e fa pubblicare il saggio sulla luce elaborato dall'artista francese (R. Delaunay, Über das Licht, in ‟Der Sturm", 1913, n. 144-145, p. 255). E all'orfismo, sempre secondo Apollinaire, appartengono anche i migliori artisti tedeschi, da Kandinskij a Marc, da Macke a Jawlenskij, e perfino ‟i futuristi italiani che, pur derivando dal cubismo e dal fauvismo, hanno ritenuto che non fosse giusto abolire ogni convenzione prospettica e psicologica" (ibid.). A prescindere da quello che viene a significare per gli artisti tedeschi l'opera di Delaunay - e bisogna considerare la coincidenza di interessi ormai chiaramente non figurativi - l'inclusione dei futuristi italiani nell'orfismo è abbastanza curiosa, ma anche significativa delle distinzioni che si vogliono fare, delle suddivisioni e classificazioni dell'avanguardia.
Il voler vedere una derivazione dei futuristi dai fauves e dai cubisti, dimostra a parer nostro che Apollinaire, il quale si muove sempre abbastanza male quando deve tracciare linee di ascendenza e di discendenza, non riesce a cogliere in un primo momento le componenti molteplici, e sul piano culturale sostanzialinente diverse da quelle del cubismo, che entrano in giuoco nell'elaborazione della poetica futurista. Andrebbe ricordato, a questo proposito, che quando i futuristi arrivano a Parigi, chi si interessa a loro, primo fra tutti, anche se non ne scrive, e che in pratica procura loro l'esposizione nella galleria Bernheim-Jeune nel 1912, è Félix Fénéon, il critico più attento del simbolismo e del pointillisme, il quale, per parte sua, non aveva manifestato mai entusiasmo per la pittura cubista. Ora, una derivazione dai fauves, per i futuristi, sarebbe stata possibile sostenerla soltanto passando attraverso Delaunay e il suo concetto di simultaneità. Tra cubisti e futuristi invece c'è stato evidentemente uno scambio - in questo non è molto sostenibile la tesi espressa da Pierre Francastel (v. Delaunay, 1957), di una non comunicabilità tra i due movimenti - ma questo scambio è comunque successivo al 1911. La polemica che nel 1912 si scatena tra Boccioni, i futuristi e Delaunay, sulla priorità che ognuno rivendica circa l'invenzione della ‛simultaneità', appare tutto sommato alquanto nominalistica, ma serve comunque a documentare quali erano le reali possibilità di comunicazione tra diversi momenti dell'avanguardia (a questo proposito cfr. M. Calvesi, Le due avanguardie, Milano 1966). Diciamo soltanto qui che la posizione di Apollinaire nella polemica è abbastanza ambigua: dopo la primavera del 1913, in pratica dopo l'articolo di U. Boccioni I futuristi plagiati in Francia (‟Lacerba", 1 aprile 1913, pp. 66 ss.), egli si accosta più decisamente al futurismo e il 28 giugno 1913 lancia il suo manifesto l'Antitradition futuriste. Questo dimostra che, al di là dei limiti di interpretazione, egli ha l'intelligenza per cogliere sul piano culturale il significato unitario dell'avanguardia, al di là di ogni distinzione teorica e di poetica. E se questo va ascritto a merito di Apollinaire, va anche detto che ciò gli è reso possibile dalla sua attività di critico militante, dalla sua volontaristica intesa con gli artisti cubisti. Roberto Longhi scriveva a Boccioni il 30 aprile 1913: ‟Qui in Italia potremmo sperare per l'arte nuova qualche cosa di meglio nella critica che non sia stato e sia Guillaume Apollinaire per i cubisti!" (Archivi del futurismo, a cura di M. D. Gambillo e T. Fiori, vol. 1, Roma 1958, p. 264); ma questo qualcosa di meglio allora non venne fuori. Comunque, per quello che riguarda il concetto di ‛simultaneità' se indubbiamente esso ha trovato la sua prima realizzazione nelle opere che Delaunay aveva eseguito nel 1909-1910, è altrettanto indubbio che, per dirla con le parole stesse dell'artista, ‟la simultaneità fu trovata in maniera totale per la prima volta nel 1912, completamente espressa nel quadro Le finestre per il quale Apollinaire compose il suo celebre poema" (v. Delaunay, 1957, p. 170). È vero altresì che i futuristi, niente affatto in questo debitori a Delaunay, hanno saputo trarre partito dalla lezione cubista, nonostante l'accusa di staticità che al cubismo rivolgevano, proprio sul piano di una maggiore funzionalità e concentrazione degli organismi formali. Ma è anche il futurismo che viene a sommuovere le acque, a portare modelli di possibilità di accentuazioni dinamiche, come per esempio si può scorgere nel Nudo che discende le scale (seconda versione) del 1912 di Marcel Duchamp (Philadelphia Museum of Art, Arensberg collection), nei Soldati in marcia del 1913 di Jacques Villon (Paris, Collezione Louis Carré) e, a un livello più superficiale, in certi armamentari con cavalli e traini di cannoni di Roger de La Fresnaye. Inoltre occorre ricordare che quando Picasso arriva a Roma nel 1917, chiamatovi da Djagilev per eseguire sipario, scene e costumi del balletto Parade, creato su un tema di Jean Cocteau, con la musica di Eric Satie e le coreografie di Massine, egli si reca nello studio di Balla - cui Djagilev aveva già commissionato le scene per Feu d'artificie di Stravinskij, rappresentato al Teatro Costanzi il 12 aprile 1917 - e si reca anche nello studio di Depero - cui sempre Djagilev aveva chiesto i costumi per Le chant du rossignol rappresentato poi, nel 1920, a Parigi con scene e costumi di Matisse - ed è innegabile che i Managers creati per Parade risentano in qualche modo di un certo meccanicismo tipico del futurismo di Depero che, del resto, ne eseguì materialmente i costumi.
Quello che comunque ci pare di dover sottolineare ancora una volta, è che il cubismo, con tutte le sue trasformazioni e diversità di proposte, è un parametro di confronto per tutti i movimenti dell'avanguardia europea. Delaunay a un certo punto cerca di prendere le distanze da esso, per interessarsi alle possibilità costruttive della luce. ‟L'artista - egli scrive a Kandinskij nel 1912 - ha molto da fare nel campo così poco esplorato e oscuro della costruzione del colore e che non si estende molto più in là dell'inizio dell'impressionismo. Seurat, che ha cercato le prime leggi; Cézanne, che ha demolito tutta la pittura fin dalle sue origini e cioè il chiaroscuro adattato su una costruzione lineare che predomina in tutte le scuole conosciute [...] Questa ricerca di una pittura pura è il problema di oggi. Non conosco a Parigi pittori che siano realmente alla ricerca di questo mondo ideale. Il gruppo cubista, di cui voi parlate, non cerca che nella linea, riservando al colore una parte secondaria e non costruttiva" (v. Delaunay, 1957, p. 178). In realtà questa esigenza di costruzione, se non per mezzo di luce ma per accentuazione di effetti cromaticamente più percepibili e differenziati, si presenta ai pittori cubisti alla fine del 1912. Picasso e Braque in particolare sentono il bisogno di una colorazione non intensa di per sé, ma più evidente per la proprietà stessa dei materiali impiegati, per mezzo dei quali vengono ad arricchire le superfici. Proprio questo arricchimento e questa sperimentazione sulle qualità dei materiali caratterizza, con tutte le conseguenze che comporta anche nel campo della rappresentazione dello spazio, quello che è stato chiamato il ‛cubismo sintetico'. Sintetico perché, all'analisi delle forme e dei volumi, si sostituisce una sintesi che avviene sulla superficie, tra zone diverse per dimensione, proiezione e qualità psicologica. Sintetico anche perché questa qualità viene a essere ricercata attraverso segni (lettere dell'alfabeto, evidenziate soprattutto nei loro oggettivi caratteri tipografici) e per mezzo di altri materiali, diversi da quelli consueti della pittura, il collage, i papiers collés. Nella bidimensionalità più accentuata delle composizioni con il recupero, con mezzi insoliti e certamente più aggressivi, del principio già proclamato da Matisse dello ‟choc sur nos sens", il cubismo arriva al suo punto di maggiore accostamento a quello che, pur con altre intensioni, Delaunay e Kandinskij chiamavano pittura pura. Ne è testimonianza il Foglio di musica con chitarra del 1912-1913 di Picasso (Paris, Collezione Georges Salles), Le Courrier del 1913 di Braque (Philadelphia Museum of Art, Gallatin collection), la stessa evoluzione, sempre rigorosa, di Juan Gris, che fin dal 1912 impiega, nelle sue composizioni architettonicamente bilanciate, non soltanto colori a olio, ma anche carta, sabbia, perfino pezzetti di specchio. Gris anzi non riconosce al cubismo analitico che un modo di giungere ‟a una rappresentazione puramente descrittiva e analitica", una sorta di classificazione degli oggetti, mentre diventa poi ‟una sintesi, per mezzo dell'espressione del rapporto tra gli oggetti stessi" (J. Gris, risposta all'inchiesta Chez les cubistes, in ‟Bulletin de la vie artistique", 1925, n. 1, pp. 15-17). Gris vuole ricostruire, per mezzo dello studio di questi rapporti, le proprietà architettoniche più pure della composizione, si mette a studiare di nuovo Cézanne, di cui elabora certi quadri nei suoi disegni, come per esempio le Bagnanti del 1916 (Zürich, Coll. Marianne Feilchenfeldt), il Ritratto della signora Cézanne, anche del 1916 (Paris, Coll. privata), precisando però che se ‟Cézanne d'una bottiglia fa un cilindro, io parto dal cilindro per creare un individuo di un tipo speciale, di un cilindro io faccio una bottiglia, una certa bottiglia. Cézanne va verso l'architettura, io parto da essa" (in ‟L'esprit nouveau", 1921, n. 5, pp. 553-554). Non soltanto per il fatto che questa dichiarazione è stata pubblicata dalla rivista di Le Corbusier, essa ci viene a dimostrare l'evoluzione verso il purismo razionalista di alcuni artisti. La stessa evoluzione che, per un certo periodo, caratterizza anche il percorso di Gino Severini, quando, nonostante le sue stesse dichiarazioni, dimostra di allontanarsi dal futurismo per giungere, attraverso una profonda meditazione sul ‛cubismo sintetico', a risultati non dissimili da quelli cui tendeva Juan Gris (si veda per esempio, nel 1918, la Composizione con chitarra della Collezione Mattioli di Milano). La congiunzione con il purismo di alcuni se, come dicevamo più sopra, denuncia la fine della ricerca più propriamente cubista, dimostra anche l'enorme importanza che il cubismo ha per tutte le altre espressioni artistiche e, in modo particolare, la sua influenza su un certo razionalismo architettonico che, in maniera e con accentuazioni diverse, è avvertibile nella progettazione (per esempio le case Domino del 1914) e nelle teorie di Le Corbusier. E naturalmente, anche se il cubismo resta soprattutto un movimento pittorico, la sua problematica investe quella della scultura, non soltanto negli artisti cubisti veri e propri, lo stesso Picasso, Duchamp-Villon, e quindi Henri Laurens, Ossip Zadkine, Aleksandr Archipenko, Joseph Csáky, Jacques Lipschitz, ma anche in coloro per i quali il cubismo è soltanto un punto di riferimento, un'occasione di aggiornamento. Nelle stesse opere di Arp e Brâncusi è avvertibile questa influenza, e anche nelle sculture - come in alcune pitture del 1914-1915 - di Amedeo Modigliani. Va pur detto che proprio la ricerca cubista del periodo sintetico viene ad anticipare, concettualmente e tecnicamente, l'abolizione della distinzione tra pittura e scultura che è stata caratteristica dell'arte contemporanea.
In ogni modo, a parte la posizione di Delaunay, la necessità di una più funzionale considerazione del colore - la quale si riscontra anche nei rilievi cromatici di Henri Laurens - era stata già avvertita da Gleizes e Metzinger: ‟Ogni inflessione della forma è intensificata da una modificazione del colore; ogni modificazione dei colore genera una forma" (v. Gleizes e Metzinger, 1912, p. 29). Ed è attraverso queste intensificazioni cromatiche che il cubismo viene a esercitare la sua influenza, o almeno si rende più comprensibile ad alcuni altri movimenti artistici contemporanei: al sincromismo di due pittori americani quali Morgan Russel e Stanton McDonald Wright, agli stessi artisti del Blaue Reiter. Nella prima mostra da essi organizzata il 18 dicembre 1911 nella galleria Tannhaüser di Monaco, accanto alle loro stesse opere erano presenti quelle di Rousseau e Delaunay; nella seconda mostra tenuta alla galleria Goltz tre mesi dopo, una mostra di opere grafiche, erano presenti Braque, Picasso, Derain, i pittori dell'avanguardia russa che cominciava a nascere: M. F. Larionov, Natalja Gončarova, Malevič. Nell'almanacco pubblicato nel 1912, Roger Allard spiegava che cosa fosse il cubismo e cioè, ‟in primissimo luogo la volontà consapevole di ristabilire in pittura le nozioni di massa, volume e peso. Al posto dell'illusione spaziale dell'impressionismo, che si fonda sulla prospettiva aerea e sul naturalismo cromatico, il cubismo offre le forme semplici, astratte, in determinati nessi e rapporti di massa. Il primo postulato del cubismo è dunque l'ordine delle cose e precisamente non delle cose intese naturalisticamente, ma delle forme astratte" (R. Allard in Der blaue Reiter, cit., p. 71). Tuttavia lo stesso Roger Allard, come anche un altro dei sostenitori del cubismo, Olivier Hourcade, negavano che la pittura cubista potesse prescindere da una figurazione: Picasso, Braque, lo stesso Juan Gris, erano più o meno dello stesso parere. Ma l'evoluzione delle ricerche, che pure partivano costantemente dal cubismo, si indirizzavano in Delaunay, in Kupka, nel neoplasticismo olandese, nel suprematismo e nel costruttivismo russi, proprio in senso non figurativo. Ai quadri cubisti eseguiti nel 1913, Malevič già comincia a sostituire, nello stesso anno, opere completamente non figurative; Tatlin, che era a Parigi nel 1912 e che aveva subito l'influenza di Picasso, comincia contemporaneamente a ‛costruire' i suoi rilievi plastici fatti di materiali vari: cartone, gesso, metallo, legno. Mondrian, che aveva rinnovato la sua visione passando attraverso un'esperienza cubista, e sia pure tutta particolare, tendente cioè ad una maggiore bidimensionalità (si veda, per es., il Nudo alla toilette del 1912, den Haag, Gemeentemuseum), a un certo punto crede di accorgersi che il cubismo non ha tratto da se stesso quelle conseguenze che pure avrebbe potuto trarre, tuttavia dichiarerà in seguito: ‟L'influenza del cubismo è innegabile. Poi, durante la guerra, una pittura proveniente da Parigi venne a unirsi al gruppo: era la tendenza ancora più o meno cubista ma che, per esser passata attraverso il luminismo e il divisionismo, e pur considerando l'opera cubista come la più alta delle pitture, la trovava illogica nel senso che era composta da elementi eterogenei, cioè di forme astratte e nello stesso tempo di apparenze naturali [...] E fu soltanto con l'unione delle due tendenze che, successivamente ma molto rapidamente, nacque il mezzo di espressione universale, il piano rettangolare di colore primario" (P. Mondrian, L'expression plastique nouvelle dans la peinture, in ‟Cahiers d'Art", 1926, n. 7, pp. 421-427; tr. it.: in O. Morisani, L'astrattismo di Piet Mondrian, Venezia 1956, pp. 107-110). La testimonianza dell'artista olandese, uno dei creatori del movimento De Stijl, è estremamente significativa e viene a confermare quanto abbiamo già più volte sottolineato: il cubismo, cioè, si pone come momento imprescindibile dell'arte e della coscienza europee. Nonostante i cambiamenti, le rivoluzioni e le restaurazioni che si sono succedute un filo indistruttibile lega la nostra esperienza attuale alle premesse poste dagli artisti cubisti.
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