Culto e cultura della storiografia giuridica in Italia
In Europa non vi è una disciplina più avvezza dell’italiana al rendiconto pubblico attraverso bilanci periodici dei lavori intrapresi dall’inquieta ‘corporazione’ degli storici del diritto. Non è certo la storiografia giuridica che ha suscitato meno attenzione tra i colleghi stranieri. Le traduzioni passate e presenti, la circolazione mondiale delle riviste (alcune quasi centenarie!), la frequenza dei congressi e dei seminari, il gran numero delle monografie, la fiorente biblioteca formata dai manuali, provocano ammirazione e presentano senza dubbio un’immagine fortemente positiva dell’attività professionale degli storici del diritto. Anche se limitassimo l’analisi al movimento dell’ultimo mezzo secolo, qualsiasi intento descrittivo della bibliografia italiana risulterebbe un’impresa temeraria.
Per questi motivi ho ritenuto necessario concentrare l’osservazione sull’universo delle riviste giuridiche. Le riviste, infatti, pur presentando un punto di vista necessariamente parziale, offrono molteplici vantaggi. Questo tipo di testi non è solo un mezzo molto utile di comunicazione e produzione editoriale; si tratta – lo sappiamo fin da Friedrich Carl von Savigny (1779-1861) –, anche e soprattutto, di una componente costitutiva dell’esperienza giuridica moderna. D’altra parte le riviste funzionano come ‘istanza sintetica’ dell’output scientifico: possono essere considerate come delle piccole o grandi biblioteche che facilitano un avvicinamento diretto all’universo dei loro autori, dei loro libri preferiti, delle loro ‘fonti’. In quanto opere intellettuali collocate nel tempo, le riviste nascono, crescono, muoiono, cambiano di stato e di responsabili, contribuendo a fornire, nella varietà dei loro titoli, indizi preziosi sugli orientamenti metodologici e culturali prevalenti di una disciplina.
E sicuramente, dal nostro punto di vista, la seconda metà del Novecento sembra un’epoca felice per le riviste scientifiche. Una di esse, la prima, e tra l’altro per molti anni anche l’unica, continua a essere pubblicata («Rivista di storia del diritto italiano», dal 1928). Un’altra, importante ma fugace («Annali di storia del diritto», 1957-1973), ci offre la testimonianza di un personaggio unico, prematuramente scomparso ma la cui durevole influenza sarà dimostrata da una terza importante pubblicazione che vale la pena considerare («Rivista internazionale di diritto comune», dal 1990). Infine, altre due riviste, senza dubbio ‘d’autore’, rappresentano la linfa nuova, quell’innovazione di metodi e argomenti nella storiografia giuridica che promettono i loro titoli poco convenzionali: mi riferisco ai «Materiali per una storia della cultura giuridica» (dal 1971) e ai «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno» (dal 1972). Ovviamente ci sono altre pubblicazioni interessanti (i notevoli «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», dal 1975, avamposto nel Sud d’Europa della Begriffsgeschichte brunneriana che Pierangelo Schiera ha saputo introdurre in Italia; l’esemplare rivista specialistica «Storia amministrazione Costituzione», dal 1993; l’agile e sempre necessario «Giornale di storia costituzionale», dal 2003; infine, «Le carte e la storia», dal 1994, rivista di Guido Melis indispensabile per seguire l’evoluzione della storia istituzionale); tutti ottimi esempi delle ‘vittime’ che causerà questo processo, inevitabilmente troppo sommario.
L’ultimo mezzo secolo è stato fortemente contrassegnato dalla figura di Francesco Calasso.
Qualsiasi altro storico della sua epoca (penso a Carlo Guido Mor, Guido Astuti, Bruno Paradisi, Gian Piero Bognetti e, soprattutto, Giulio Vismara) presenterebbe probabilmente una produzione letteraria più ampia. E, nonostante questo, l’influenza di Calasso non ha eguali. Non si tratta solo del dominio – utile e eminente – che Medio Evo del diritto (1954) ha esercitato nella formazione di almeno un paio di generazioni di studenti; sotto forme e autori diversi (vengono subito in mente i testi universitari di Manlio Bellomo, L'Europa del diritto comune, 1988, e di Ennio Cortese, Il diritto nella storia moderna, 1995), il punto di vista di questo libro rinomato conserva tutta la sua validità in pieno 21° secolo. Per non parlare dell’eredità che Calasso lasciò a qualche collega straniero: sospetto che molte pagine del Manual de historia del derecho español di Román Riaza e Alfonso García-Gallo (1934), almeno nella versione definitiva del 1959 (dovuta al solo García-Gallo), siano state scritte con Medio Evo del diritto sul tavolo da lavoro. Il fatto è che, al di là di questo celeberrimo testo, Calasso, da quando divenne professore, lottò sempre per fornire di senso e metodo propri la storiografia giuridica. Ed è lì che risiede il suo grande contributo storiografico.
Non essendo necessario ritornare ora su alcuni episodi ben conosciuti (F. Calasso, Storicità del diritto, 1966, pp. 3 e segg.; Paradisi 1973, pp. 105 e segg.; Mazzacane 1990, pp. 15 e segg.; Martínez Neira 2004, pp. 137 e segg.) è sufficiente ricordare come la vecchia storia del diritto italiano – l’opera pionieristica di Antonio Pertile, Francesco Schupfer, Giuseppe Salvioli: così militante, così positivista e così evoluzionista come esigeva l’epoca – si mosse sempre all’interno del terreno delimitato dalla tradizione accademica tedesca (Conte 2009, pp. 16 e segg.). Alla ricezione della linea sistematico-pandettistica della Historische Rechtsschule nei circoli della romanistica e della scienza del diritto civile corrispose, in effetti, una ricezione dell’orientamento storico di questa stessa scuola, in particolare della sua deriva germanistisch. Racchiusa tra queste coordinate, la storia giuridica italiana era concepita come la combinazione della tradizione romana e dei contributi germanici, procedendo secondo un metodo positivista o ‘naturalistico’ che aspirava, per dirla con Pietro Bonfante, a «desumere dalle viscere stesse degli istituti e dai relitti sopravviventi nelle epoche più tarde, l’origine loro e la storia del loro passato» (cit. in Checchini 1958, p. 50). Al contrario, l’idealismo crociano di Calasso si presentò come la gigantesca operazione intellettuale che inaugurò una «nuova pagina nella storia della nostra disciplina» (Paradisi 1973, p. 168; sulla ‘svolta’ calassiana cfr. anche Cortese 1981, p. 798):
le teorie dei giureconsulti non erano più esaminate […] dal solo punto di vista del diritto come argomento tecnico, ma come una manifestazione dello spirito medievale che aveva preso nel diritto la sua forma nella quale aveva riversato tutte le sue passioni politiche e religiose e le sue esigenze morali […] storia del diritto quale prodotto spirituale (Paradisi 1973, pp. 169-70).
Se il disprezzo del maestro di fronte alle critiche (penso ancora ad Aldo Cecchini: cfr. F. Calasso, Introduzione al diritto comune, 1951, p. XI) non ci mostra niente di buono sul suo noto talento come polemista (F. Calasso, Storicità del diritto, cit., pp. 93 e segg.), costituisce tuttavia un’eloquente testimonianza della sua adesione ai propri metodi e del suo veloce e prolungato successo tra gli storici più giovani. La sua fortuna fu tale e talmente palese che è d’obbligo in questa sede presentare in un paio di righe i suoi principali giudizi (Costa 1995, pp. 29 e segg.).
La disciplina storico-giuridica, nata come materia universitaria poco più di un secolo prima (F. Calasso, Storicità del diritto, cit., pp. 3 e segg.), si chiamava ufficialmente – dal 1885 – storia del diritto italiano, disponeva di manuali e monografie di indiscutibile livello, ma i venerabili founding fathers non seppero precisare l’oggetto della materia. Tale oggetto, sempre secondo Calasso, altro non sarebbe che lo ius commune, in particolare le sue fasi di formazione e sviluppo; un fenomeno così ‘nazionale’ che la suddetta storia raggiungerebbe lo status scientifico solo in quanto trasformata in storia del diritto comune:
tocca a noi italiani di sentire l’orgoglio, e soprattutto di sentire il dovere morale di non lasciar sepolto e ignorato quell’enorme tesoro di pensiero – pensiero non più romano, ma italiano: non morto, ma tuttora vivo e fecondo – che ci consentì un predominio spirituale in un’epoca triste di decadimento politico (Scritti di Francesco Calasso, «Annali di storia del diritto», 1965, p. 13).
Un «fatto centrale e fondamentale, nella cui storia si risolve […] quella che siamo soliti di considerare come storia del diritto italiano»; un «fenomeno schiettamente italiano», pertanto, «nel senso più spirituale dell’espressione» (Introduzione al diritto comune, cit., pp. 127, 129). Stabilita la delimitazione nazionale della storia giuridica insegnata nelle università – superato, detto tra parentesi, il problema dei confini accademici tra la ricerca storico-giuridica e le competenze professionali del romanista – rimaneva ancora da precisare la portata del termine di riferimento. Che cos’era, per Calasso, lo ius commune? Se mi fosse permesso racchiudere in una parola il suo complesso pensiero non avrei dubbi nel proporre il sostantivo unità.
In effetti, dal punto di vista della comprensione storica, il diritto comune calassiano si presenta come la realizzazione in ambito giuridico degli ideali di unità e universalità che contraddistinsero la cultura politica romano-cristiana: unum ius cum unum sit imperium, secondo il brano delle Quaestiones de iuris subtilitatibus (I, 16) che Calasso non si stancava mai di ricordare. D’altra parte, visto ora more italico, l’ammirevole ius commune interpretava «la sola unità veramente sentita nella vita giuridica di quell’Italia frantumata fino alla soglia dei tempi nostri» (Introduzione al diritto comune, cit., p. 136); un’autentica epifania del Risorgimento, potremmo quindi concludere.
Ma quel Medioevo che cercò tenacemente l’unità e che anticipò lo Stato risorgimentale fu anche un Medioevo feudale, germanico, imperiale, canonico, comunale. Di fronte all’inevitabile tensione tra l’unità ideale e la realtà multiforme del giuridico – appunto, «il problema storico del diritto comune» (p. 77) – l’autore propose due concetti che si rivelarono le chiavi della sua visione storiografica.
Il primo deriva dalla teoria istituzionale di Santi Romano e implicava la concezione del diritto come ordinamento, ovvero come formula di convivenza e ordine stabilita da un gruppo sociale per suo proprio governo. Applicata al Medioevo, questa proposta risultava di particolare importanza dal momento che, mentre offriva una risposta plausibile alla questione della creazione normativa, spiegava la dispersione giuridica medievale come il risultato della pluralità dei gruppi (istituzioni) e, quindi, degli ordinamenti in gioco: Gli ordinamenti giuridici del Rinascimento medievale (1948), precisamente, come recita il titolo di un'opera di Calasso.
Oltre che un ordinamento, lo ius commune voleva essere (‘dogmaticamente’) un sistema. Non ci interessa qui insistere sull’ambiguità di Calasso nell’usare quest’altro, impegnativo concetto, perché si trattava semplicemente di trovare un registro adeguato per recuperare il messaggio di unità partendo dai molteplici ordini in vigore. E così, il diritto comune calassiano si (rap)presentò come superordinamento. Di più: come il sistema (l’unico sistema) in grado di conciliare gli ordinamenti esistenti (lo ius romanum e lo ius canonicum, i due diritti universali trasformati in utrumque ius dai maestri del Commentario; gli innumerevoli iura propria, diritti specifici per materia, professione o territorio e sempre sottomessi all’unica ratio iuris communis) formando una struttura perfettamente equilibrata. E il suo progetto sarebbe stata la missione storica che assolse la dottrina: «vulgariter loquendo», segnalò un tardo giurista (Giuseppe Lorenzo Maria Casaregi, Elucubrationes ac resolutiones, 1697, ed. 1740, p. 86): «per ius commune semper intelligitur quoque omnis Doctorum interpretatio».
Il programma metodologico descritto era presente nei corsi universitari, e a questo scopo Calasso contribuì con opere giustamente celebri, ma provocò anche la creazione di una nuova rivista storico-giuridica. La disciplina disponeva certo di un buon organo di espressione, ma la «Rivista di storia del diritto italiano», fondata da Nino Tamassia, Carlo Calisse e Francesco Brandileone con l’esplicito scopo di analizzare sul terreno giuridico l’«unità spirituale del popolo italiano» che avrebbe coronato l’unificazione politica dell’Italia (La Direzione, Programma, «Rivista», 1928, 5-6, p. 5), era un ambito sul piano teorico non specifico: semplice deposito di ricerche che serviva, con il famoso «Bollettino dell'Istituto di diritto romano 'Vittorio Scialoja'», da elemento di confronto, per inquadrare il panorama, troppo disperso, dei cultori della disciplina. E così,
una specifica rivista, come da tempo avveniva in Italia in altri settori e nel nostro campo all’estero […] concepita come ‘genericista’, ovvero costituita per consentire agli storici del diritto italiano di avere un generale e settoriale punto di riferimento (Pene Vidari 2009, p. 440)
non sarebbe mai potuta servire agli ambiziosi obiettivi del neofondatore della storia giuridica; Calasso, che aveva fatto a malapena mostra della sua presenza alla «Rivista» per anticipare i risultati della sua tesi sulla legislazione statuaria (La 'Dottrina degli Statuti' per l'Italia medioevale, «Rivista di storia del diritto italiano», 1928, pp. 483-517), concentrò i suoi sforzi nella terza serie (1947) della «Rivista italiana per le scienze giuridiche» (fondata nel 1886), fino a dar vita a un proprio foglio, gli «Annali di storia del diritto» (1957-1973).
È divertente notare come uno dei principali sostenitori dell’‘italianità’ della storia giuridica si rifiutasse di pubblicare un’altra rivista di storia del diritto italiano. Non solo non compariva questo aggettivo nel titolo del nuovo giornale; non solo si dava alla luce, come scritto nel sottotitolo, una «rassegna internazionale»: dotati di un comitato scientifico aperto a colleghi di altre lingue e nazioni (García-Gallo, Alamiro de Ávila, Gabriel Le Bras, Stephan Kuttner), gli «Annali» nacquero «senza confine di patrie», e in effetti, il cileno de Ávila, il francese Le Bras, l’austriaco Heinrich F. Schmid dividevano queste pagine pionieristiche con gli autori italiani. In realtà gli «Annali» costituivano un potente strumento al servizio della scuola calassiana – in senso accademico ma anche istituzionale: la rivista «nasce legata alla vita dell’Istituto di storia del diritto italiano» e a un’annessa «Scuola di perfezionamento nella storia del diritto medievale e moderno» (F. Calasso, Nota di presentazione, «Annali» , 1957, p. 1) – allo scopo di (di)mostrare, sia come impresa personale sia come sviluppo collettivo, la potenza di una storia del diritto italiano intesa come storia dello ius commune: ovvero, di un sistema di norme (romane, ma anche canoniche; un utrumque ius interpretato in maniera creativa dalla dottrina, in cui gli ordinamenti propri trovarono un posto perfetto) che realizzò l’ideale dell’unità giuridica in tutta la cristianità.
Questo causò ovviamente uno sbilanciamento: l’attenzione maggiore alla scienza giuridica medievale (Cortese, Bellomo, Romano, Filippo Liotta, Adriana Campitelli, Severino Caprioli ecc., non di rado risolta nella ricerca filologica delle fonti) trascurò apertamente lo studio dei secoli successivi (Aldo Mazzacane, Giuliana D’Amelio, Claudio Schwarzenberg), sino a far apparire un avvenimento straordinario l’interesse di Astuti per il Code Napoléon (Il "Code Napoléon" in Italia e la sua influenza sui codici degli Stati italiani successori, «Annali», 1970-1973, pp. 1-87).
Non sarà una sorpresa che l’accentuato medievalismo e l’alta erudizione degli «Annali» cospirassero contro una seconda caratteristica – l’accennata vocazione internazionale costituisce la prima – del piano editoriale progettato da Calasso. La sua rivista volle essere «terreno d’incontro» offerto «agli studiosi di storia del diritto – e perché non anche a tutti i cultori del diritto? –»: indubbiamente si trattava di quel «colloquio con i giuristi» che Calasso aveva indetto dopo l’esperienza del corso sul negozio giuridico (Storicità del diritto, cit., pp. 155 e segg.). Tuttavia, nonostante il potere di convinzione che va riconosciuto a Calasso, preside della facoltà romana di Giurisprudenza e per di più direttore dal 1958 dell’Enciclopedia del diritto, nonostante egli avesse ripudiato expressis verbis «il malefico influsso dell’empirica summa divisio di storici e giuristi» (Storicità del diritto, cit., p. 23), gli «Annali» andarono incontro da questo punto di vista a un completo fallimento: solo alcuni studiosi di diritto romano, infatti (il fedele Edoardo Volterra, ma anche Alberto Burdese, Antonio D’Emilia, Antonio Nicola De Robertis...) e qualche canonista (Vincenzo Del Giudice) frequentarono le sue pagine; né la sporadica presenza di Alessandro Baratta (La teoria dello scopo nel diritto penale, «Annali», 1963, pp. 249-60) modifica questa conclusione.
Estranea ai 'giuristi’, la rivista degli ‘storici’ riuscì almeno ad affermarsi come un organo propenso al dibattito storiografico – terza caratteristica di qualsiasi ricerca storico-giuridica progettata secondo il ‘codice Calasso'. Anche allora si pretendeva la novità: «sola fra tutte le discipline storiche», sottolineò uno degli storici più inquieti, «la storia del diritto ha mostrato una costante indifferenza per tale speculazione» (B. Paradisi, Considerazioni attuali sulla storiografica giuridica, «Annali», 1957, p. 43 e segg.); come reazione, per opera dello stesso Paradisi, di Giovanni Cassandro, di de Ávila e degli altri, gli «Annali» si confrontarono con il «ripensamento di […] problemi generali», a precisare il «significato dell’espressione storia del diritto italiano» e l’«individuazione degli elementi di continuità e di unità nella vicenda millenaria della nostra storia patria», in conclusione la «definizione dell’oggetto e del fine della nostra scienza», grandi questioni teoriche a cui Calasso si era sempre dedicato (Astuti 1965, pp. XIII e segg.).
Non ci vuole molto a immaginare la successiva evoluzione della disciplina. Indirizzata su questo cammino, si orientò principalmente allo studio delle fonti medievali dello ius commune, in particolare della letteratura giuridica: in vecchie edizioni e, ancora meglio, in impenetrabili manoscritti glossati si cercarono i segreti del pensiero giuridico (comune-nazionale). Il gusto per il diritto longobardo e le istituzioni dell’alto Medioevo in parte venne meno, anche se trovò un nobilissimo spazio nel Centro italiano di studi sull’alto Medioevo: un’istituzione di raro prestigio internazionale, fondata nel 1952 da un altro storico del diritto, Giuseppe Ermini, dove non sono mai mancati colleghi della disciplina (Mor, Grossi, Bognetti, Vismara, Enrico Besta, Pier Silverio Leicht, Pietro Vaccari, Antonio Padoa-Schioppa; cfr. Omaggio al Medioevo. I primi cinquanta anni del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo di Spoleto, a cura di E. Menestò, 2004). Senza analoghi apparati di sostegno i secoli moderni andarono incontro a un destino meno fortunato, nonostante tutto più lusinghiero di quello riservato al diritto dello Stato liberale: un mondo a parte nell’opera di Calasso, e non troppo frequentato neanche dai suoi discepoli.
Limiti oggettivi, a volte semplici questioni lasciate aperte da una morte inaspettata. Per esempio penso a questo punto alla centralità riconosciuta alla giurisprudenza dello ius commune («vulgariter loquendo»), il che tuttavia non gli impedì di attribuire a questo diritto un’anima statalista: si tratterebbe, ci insegna Calasso, di un sistema normativo dove
la posizione dommatica dell’attività del giurista o del giudice […] rimase sempre e esclusivamente quella di attività interpretativa […] quindi con tutte le norme e i limiti che ogni attività interpretativa può avere in un sistema legislativo (Introduzione al diritto comune, cit., pp. 128-29).
L’attenzione al momento genetico del sistema, oltre a rinchiudere la disciplina storico-giuridica nella gabbia – comoda ma pur sempre gabbia – del Medio Evo del diritto, ridusse la sua storia successiva alla strana condizione di un «diritto comune particolare»; in realtà l’ossimoro andava in un’altra direzione dato che, una volta esasperata l’indole nazionale dello ius commune (un «fenomeno schiettamente italiano», come sappiamo), la rilevanza culturale dell’esperienza finì per scomparire: rimasero fuori dal campo visivo le terre oltramontane, dove la scoperta ‘italiana’ sarebbe arrivata più tardi, dopo singolari episodi di ricezione (Storicità del diritto, cit., pp. 227 e segg.). E la coraggiosa denuncia dei «ceppi dell’erudizione filologica» (B. Paradisi, Considerazioni attuali, cit.) attribuiti alla vecchia storiografia finì per far nascere un’«erudizione filologica» di tipo diverso, attenta ai manoscritti giuridici in una deriva formalista che andava «attraverso un confronto tra testo e testo, tra norma e norma, e sopratutto attraverso un richiamo alle opinioni dei ‘dottori’ completamente sganciate dai loro referenti immediati, storici e culturali» (Mazzacane 1976, p. 14).
«Una storia giuridica del diritto», si è potuto dire. Orbene, il tentativo di superare i limiti precedenti – in particolar modo l’analisi del ‘sistema del diritto comune’ come un ordinamento dottrinale per le sue fonti, universale per la sua validità e infine moderno per la sua epoca – è stato il contributo principale della «Rivista internazionale di diritto comune». Un Calasso aggiornato.
Pubblicata a partire dal 1990 per iniziativa di Bellomo (Università di Catania), la «Rivista» conserva intatto il patrimonio ereditato dal vecchio fondatore, della cui figura si parla con frequenza nelle sue pagine (recentemente Conte 2006; anche, per es., M. Bellomo, Per Francesco Calasso: 'in memoriam', a trenta anni dal 10 febbraio 1965, «Rivista», 1996, pp. 371-73). E certe caratteristiche degli scomparsi «Annali» sono diventate tipiche anche della «Rivista»: penso ora alla vocazione internazionale, obiettivo che si persegue sia dal punto di vista tematico (M. Bellomo, I fondamenti ideali del diritto privato indiano nell’opera dei giuristi d’Antico Regime. Linee di un progetto, 2000, pp. 297-304; P. Bónis, 'Omnia fere iura Regni huius originaliter e pontifici caesareique iuris fontibus progressum habeant'. Diritto comune, diritto ungherese e il 'Tripartitum', 2002, pp. 271-94) sia da quello personale, in quest’ultimo caso grazie a pochi, fedelissimi collaboratori stranieri. O anche il gusto per la polemica e i problemi concettuali e di metodo (M. Bellomo: Parlando di ‘ius commune’, 1994, pp. 187-95, 197-210; Condividendo, rispondendo, aggiungendo. Riflessioni intorno al ‘ius commune’, 2000, pp. 287-96; Elogio dei ‘dogmata legum’. Memorie per una storia della storiografia giuridica, 2009, pp. 29-70). Ma l’eredità del maestro romano si mette all’opera a Catania in cerca di nuovi risultati.
Non rimangono tracce significative del «colloquio con i giuristi» (di cui abbiamo citato prima lo scarso successo) in questa pubblicazione, che sembra una rivista giuridica di storici per storici (non solo storici del diritto: «Manlio Bellomo […] has brought the ius commune to the attention of scholars residing far outside the boundaries of legal history», K. Pennington, The ‘ius commune’, suretyship and Magna Carta, 2000, p. 260); per questo la «Rivista» non disdegna i lavori di pura 'erudizione filologica' (una 'critica del testo come scienza giuridica'?; cfr. S. Caprioli, La critica del testo come scienza giuridica, ovvero Ecdotica more iuridico demonstrata, 2008, pp. 41-92). Non rimane neanche molto –almeno considerando il programma - di quel «sistema [di diritto comune] legislativo» dove l’interpretatio sarebbe confinata dentro limiti esterni e superiori alla dottrina; al contrario
al giurista si debbono riconoscere altre e più complesse funzioni e gli si deve assegnare un ruolo nel processo di comprensione e di interpretazione della realtà, al di là dei limiti costituiti dalle ‘leggi’ poste dallo Stato-legislatore, cioè al di là di quelle norme che si dicono di ‘diritto positivo’ (M. Bellomo, Ius commune, 1996, p. 205).
Lo stesso diremo rispetto al medievalismo di Calasso: senza dimenticarlo in alcun modo, rivolgiamo adesso l’attenzione alle tappe successive (per es., O. Condorelli, Norma giuridica e norma morale, giustizia e salus animarum secondo Diego de Covarrubias. Riflessioni a margine della Relectio super regula ‘Peccatum', 2008, pp. 163-202) –, anche se sempre con una certa cautela: come se fosse inevitabile far conoscere il capitolo moderno di una storia scritta (quasi) interamente nel Medioevo (M. Bellomo, Per una storia dei tractatus giuridici d’età moderna, 2008, pp. 243-61). Ma soprattutto: l’‘italianità’ dello ius commune (tema di fondo in molti articoli) ha ceduto ufficialmente il passo a un riconoscimento esplicito della dimensione europea, più precisamente occidentale (J. Barrientos Grandon, El sistema del ‘ius commune’ en las Indias occidentales, 1999, pp. 53-137; K. Pennington, The ‘ius commune’, cit., pp. 255-74), di questo ammirevole fenomeno:
l’Europa ha un passato giuridico straordinariamente fertile e variegato […] Ius proprium e ius commune, fortemente intrecciati […] si ripresentano ora all’attenzione della storiografia come i campi più adeguati per intendere la ricchezza della realtà giuridica europea dell’età intermedia e della prima età moderna […] La ‘Rivista’ vuol dare dunque un contributo al dibattito storiografico che coinvolge il presente e si proietta nel futuro della nuova Europa (Presentazione, 1990, p. 7).
Le righe precedenti, unico programma ufficiale della rivista di Catania, hanno sempre orientato il percorso della serie. Non è strano che vi si affrontino la common law, il cosiddetto diritto indiano (diritto ‘spagnolo’ per le Indie occidentali) o le fonti giuridiche dell’Europa dell’Est, a dimostrazione della serietà del progetto editoriale. Dopo mezzo secolo di esperienza eurocomunitaria e con lo Handbuch der Quellen und Literatur der neueren europäischen Privatrechtsgeschichte (3 voll., 8 tt., 1973-1988) come riferimento storiografico ancora recente, sarebbe stato difficile dare alla luce una rivista storiografico-giuridica che continuasse a rimanere prigioniera delle frontiere nazionali.
Inoltre, alcuni anni dopo la scomparsa di Calasso due insolite iniziative editoriali cambiarono il panorama della storiografia giuridica.
La prima fu davvero originale, perché arrivava da ‘fuori’. Nel 1971, con il sostegno dell’Istituto di filosofia del diritto dell’Università di Genova, iniziarono il loro percorso i «Materiali per una storia della cultura giuridica». Iniziativa all’apparenza modesta, si presentavano come un organo di pubblicazione e dibattiti di un «seminario di storia delle dottrine giuridiche», con la continuità propria del lavoro stesso del seminario. In effetti, a parte la presenza circostanziale del suo fondatore, il filosofo del diritto Giovanni Tarello (1934-1987), alla stesura dei primi numeri parteciparono giovani studenti e studiosi, dagli interessi più vari: la fisiocrazia, il realismo giuridico scandinavo, la teoria sovietica del diritto, il lessico del Karl Marx pre-Manifesto, l’istituzionalismo statunitense. Un ricco insieme di tematiche che continua fino a oggi, coerente con la nozione di «cultura giuridica» che annuncia la rivista: senza una definizione esplicita il concetto equivaleva a ‘dottrina (giuridica)’, con una spiccata preferenza per la modernità e l’apertura alle correnti di pensiero delle principali tradizioni occidentali. In seguito ci ritorneremo.
Progetto di un poliedrico giurista – rarissima combinazione di un filosofo analitico e di uno storico sensibile – i «Materiali» nascevano all’interno di una vivace facoltà dove insegnavano alcuni dei nomi più importanti del panorama accademico italiano. La scoperta del valore politico del lavoro tecnico e del ruolo dei giuristi nel percorso dell’organizzazione sociale si tradussero nella presa di coscienza della storicità del diritto come dimensione interna alla propria attività, ovviamente anche per gli esperti di diritto positivo (Cavanna 1983, p. 33). Era arrivato, infine, «il momento della storiografia» (Tarello): il momento perfetto per i «Materiali». E fin dall’inizio le sue pagine accolsero studiosi di diritto romano ed eminenti civilisti (Franca De Marini Avonzo, Guido Alpa, Riccardo Orestano, Carlo Augusto Cannata, Stefano Rodotà). Furono presenti anche colleghi di altre specializzazioni (Sabino Cassese, Michele Taruffo) e, ovviamente, i teorici del diritto (Mario G. Losano, Genaro R. Carrió, Giorgio Rebuffa) e gli storici più vicini (Vito Piergiovanni, Rodolfo Savelli, Mario Da Passano), così che in breve tempo la rivista annoverava una lista di autori tanto nutrita che bisognò pubblicare due volumi all’anno. Infine, il consolidamento dell’impresa portò ai fascicoli monografici: Idee e atteggiamenti sulla repressione penale (1975, vol. 5º), Momenti e figure della teoria generale del diritto (1978, vol. 8º), Bioetica e diritto (1994, vol. 24º).
Insomma, né storia 'del diritto’, né tantomeno storia del ‘diritto italiano’: a Genova e nell’ambiente di Tarello «la ricerca storica sul diritto non coincide con la storiografia giuridica» (L’opera di Giovanni Tarello nella cultura giuridica contemporanea, a cura di S. Castignore, 1989, p. 276). Caso davvero unico nella letteratura scientifica comparata, i «Materiali» costituiscono dunque un’importante biblioteca, che di fatto è storico-giuridica, anche se non ha – e si potrebbe aggiungere ‘per fortuna’– i limiti propri di questa disciplina. Per questo motivo diventa possibile l’agognato, e prima di allora mai del tutto riuscito, ‘colloquio con i giuristi’ senza bisogno di imporsi quell’obiettivo: convinti, gli amici di Tarello, della natura storica del proprio oggetto di studio, riescono a produrre una rivista fatta da giuristi per i giuristi senza soffermarsi su questo o quell’altro aspetto della cultura giuridica. Anche per questo i «Materiali» riescono a oltrepassare ‘verso l’alto’ la barriera del Medioevo con notevoli contributi romanistici (arrivando al poco frequentato alto Medioevo), mentre ‘verso il basso’ saltano senza problemi il confine che nella storiografia tradizionale separava la codificazione e le norme dello Stato, argomenti che adesso vengono considerati propri di un ambito di lavoro privilegiato. Ma soprattutto: l'annunciata storia della cultura giuridica intesa nel senso sviluppato da Tarello, ovvero con il doppio e complementare significato di storia dei giuristi e delle loro tecniche e storia dei rapporti tra un potere normativo centralizzato e la tutela delle posizioni giuridiche individuali, permette di delineare una strategia di studio descritta in maniera brillante con la metafora della partita di caccia.
Oggetto dell’attività venatoria dello storico diventa allora innanzitutto la selvaggina delle ideologie. Lo sguardo lucido sulla storicità della sua disciplina e lo scrupolo critico del giurista, che sa di essere l’esecutore di una specifica, mai del tutto assente, politica del diritto consentivano un esercizio di lettura che aspirava a svelare i segreti del potere nascosto dei (nei) testi: «un programma scientifico volto a censurare omnipresenti implicazioni politico-propagandistiche del linguaggio e dei concetti giuridici in genere» (Cavanna 1983, p. 43). E a questo scopo non è importante la distanza che intercorre tra i testi e il lettore: se i codici illuministi sono adatti a mostrare «le ideologie della codificazione» (come recita il titolo del manuale di Tarello Le ideologie della codificazione nel secolo XVIII, 1971), la ‘corporazione’ dei giuslavoristi può sicuramente fornire all’interprete un eccellente laboratorio dove dimostrare la sorte della Costituzione repubblicana lasciata nelle mani della dottrina (G. Tarello, Teorie e ideologie nel diritto sindacale: l'esperienza italiana dopo la Costituzione, 1967; cfr. L’opera di Giovanni Tarello, cit., pp. 191 e segg.).
La tensione tra il ragionamento giuridico e l’ideologia ha messo in luce la funzione prescrittiva (il dover essere) dell’interpretatio iuris, appena nascosta sotto forma di semplice descrizione (l’essere) del diritto: la stessa ‘scuola dell’Esegesi’ non sarebbe in realtà un’interpretazione letterale della regola legislativa, bensì una prescrizione del rampante individualismo giuridico (L’opera di Giovanni Tarello, cit., p. 256). Ed è questo il punto di vista che assumono i «Materiali» nell’affrontare lo studio dei ‘classici’ moderni (da Alberto Gandino e Sinibaldo de’ Fieschi a Jean Bodin, Georg W.F. Hegel, John S. Mill, Ronald Dworkin, Norberto Bobbio ecc., con particolare attenzione ai ‘grandi’ del 18° sec.). Orbene, ci si avvicina alle dottrine dei classici come a degli autentici ‘oggetti culturali’ che devono essere ancora analizzati alla caccia dei luoghi comuni: nei testi giuridici affrontati, ha scritto un autore della rivista,
diventano […] particolarmente rilevanti l’ordine e la gerarchia delle materie, i criteri di classificazione, le giustapposizioni e le contrapposizioni, i concetti ordinatori, le tipologie e le loro connessioni, la presenza o l’assenza di ‘sistema’, la logica interna del contesto (M. Taruffo, Giovanni Tarello e la storia della cultura giuridica, in L’opera di Giovanni Tarello, cit., pp. 254-55).
Storicità del diritto, sensibilità politica, realismo storiografico, modernità di tempi e figure, contesti del discorso, argomenti nuovi o poco affrontati:
raccolta di materiali nel senso di notizie e di studi che possono gettare luce e favorire la comprensione delle vicende della cultura giuridica antica e moderna, italiana e straniera, in un continuum che non conosce partizioni rigide e che risponde unicamente al criterio di esaminare la funzione e lo scopo delle varie teorie e prospettive sulla giustizia e sul diritto (S. Cassese, Nota di presentazione, «Materiali», 1997, p. 3).
Un progetto personale, trasmesso a una scuola e indubbiamente ben realizzato, che non lasciò indifferenti gli ambienti accademici coinvolti.
Ambienti legati agli orizzonti che delineava Calasso. «Sento […] l’opera storiografica di Tarello come un oggettivo rimprovero verso la corporazione degli storici del diritto. Lui ha fatto quanto avremmo dovuto fare noi» (P. Grossi, Apertura, in L'opera di Giovani Tarello, cit., p. 242). Probabilmente tutti, eccetto Grossi, potrebbero intonare il mea culpa ricordando la rivista di Tarello, perché nessuno ha lavorato con una sintonia così evidente con quest'ultimo come Grossi, famoso giurista fiorentino impegnato nella causa della storiografia giuridica. In realtà, la stima di Grossi verso il fondatore dei «Materiali» nasceva soprattutto dal secondo progetto editoriale prima citato. Mi riferisco ai «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno» (dal 1972).
Sembra ridicolo riassumere anche solo le linee principali di questa pubblicazione, arrivata nel 2012 ai quaranta numeri, la maggior parte dei quali sotto la direzione del suo fondatore. Sarebbe anche poco utile, visto che i «Quaderni» hanno oltrepassato le frontiere della disciplina storico-giuridica e sono diventati un punto di riferimento a livello internazionale che riguarda tutta l’università (non solo la facoltà di Giurisprudenza). D’altra parte, visto che presenta un programma esplicito, sempre tenuto a mente e continuamente messo in pratica, basterà leggere la prima Pagina introduttiva di Grossi (1972, pp. 1-6) per capire la sua importanza storiografica.
In parte reverente e in parte critico, Grossi evocava in quella sede Calasso e il suo noto tentativo di dialogare con i giuristi. Ma nei «Quaderni» egli si propone una tesi che spiega il suo insuccesso: l’offerta calassiana racchiuderebbe un delicato problema di definizione professionale – di obiettivi e di contenuti della disciplina, se si preferisce – dello storico del diritto. Solo ribadendo la propria identità come giurista si avrebbe lo spazio per un dialogo tra colleghi che condividono uno stesso lavoro: un dialogo non con, ma tra giuristi. Mera differenza di preposizione? Certamente no. Perché solo tra giuristi ha senso l’accenno al ‘moderno’ che è incluso nel titolo dei «Quaderni», alla scommessa di una conoscenza comune dell’esperienza giuridica senza dover differenziare tra un ‘passato’, competenza dello storico, e un ‘presente’ che si lascia agli specialisti di diritto positivo; anzi, al contrario: è moderno – senza limiti cronologici, esterni all’oggetto di studio – tutto quello che risulta rilevante per la comprensione dei fenomeni giuridici (Cavanna 1983, pp. 23-24). Ed è ovvio che non si esclude il Medioevo: proprio per inaugurare i «Quaderni» lo stesso Grossi studiò il pauperismo francescano (argomento molto consono al gusto di Tarello), dal quale sarebbe nata, anche se in chiave negativa, la concezione astratta e assoluta del diritto di proprietà che trionfò alcuni secoli dopo sotto la spinta della borghesia.
In seconda istanza, la modernità dei «Quaderni» grossiani voleva rimediare a una profonda insoddisfazione causata dalla mancanza di riflessione sulla scienza e gli strumenti a disposizione del giurista – peccato mortale dei tecnici-servitori dello Stato. Il fatto che non si tratti di un ingrediente calassiano presente nell’assunto di base della rivista fiorentina verrebbe dimostrato dallo stretto margine – il limite legale – che Calasso assegnò alla vecchia interpretatio iuris. Senza trascurare le coincidenze derivanti da una medesima tradizione culturale (come la teoria istituzionale di Romano, presente in Grossi così come in Calasso), avviciniamoci a una rivista scientifica che, destinata a insegnare la storicità del diritto, vuole guadagnarsi la fiducia del giurista contemporaneo.
L’affascinante proposta venne subito accolta molto bene: è di Grossi il notevole merito di aver posto la storiografia giuridica al centro del dibattito giuridico, e non solo in Italia. I colleghi più sensibili accettarono la proposta e iniziarono ad analizzare i problemi:
Manca sino a oggi un'opera storiografica che ricostruisca, non sul terreno dell'astratto ideologico, ma su quello delle soluzioni tecniche e della scelta di metodo il rapporto tra dottrina civilistica e vicende politiche del nostro paese. [...] Indagini come quelle qui avviate sono necessariamente preliminari, anzi provvisorie. Mancano altri studi, biografie, note erudite, regesti (S. Cassese, Ipotesi sulla formazione de 'L’ordinamento giuridico' di S. Romano, «Quaderni», 1972, pp. 241, 243).
Si noti che la mancanza di ricerche e di fonti faceva riferimento a due classici contemporanei (Romano, Francesco Ferrara); soltanto due generazioni dopo, la fortuna della comune disciplina dipendeva dal recupero della loro memoria.
Ovviamente il dialogo creato ha implicato molto di più che una porta aperta alla collaborazione interdisciplinare. L’immagine del suo oggetto – il pensiero giuridico, mai estraneo alla scienza e alla pratica – configurata nei «Quaderni» passa attraverso il recupero di un sapere – l’interpretatio iuris – che nel corso del 19º sec. aveva perduto la sua antica centralità – con la complicità, o quanto meno la passività, dei giuristi. Una situazione paradossale, visto che la perdita dello status scientifico si sarebbe prodotta proprio quando venne messo in risalto, grazie alla borghesia in ascesa, l’immenso potenziale politico delle regole giuridiche. Così facendo, i «Quaderni» ci insegnano che lo studio del diritto può essere considerato scientifico solo se i giuristi si adoperano per l’identificazione e lo sviluppo di un filone unitario: obiettivo finale del dialogo che vuole stabilire Grossi. Non c’è bisogno di specificare che l’unità dell’oggetto non impedisce un approccio differenziato: l’essenziale unità della scienza del diritto non deve per forza implicare la perdita dell’identità professionale.
«Un banco comune di lavoro». Accentuando la sua vocazione strumentale, il termine quaderno viene a significare nonrivista. Né il rigore cronologico di un annuario, tutto sommato circostanziale, né l’utilità metascientifica di una rivista, fornivano la descrizione adatta all’impresa. Ma i «Quaderni» non solo non sono una rivista; non vogliono essere neanche una rivista di storia del diritto: nel momento d’oro del ‘codice Calasso’ questo rifiuto implicava la ricerca di altri contenuti. Per contrasto viene in mente il caso di un’altra pubblicazione, «Zeitschrift für neuere Rechtsgeschichte», di poco successiva (1979) ai «Quaderni», che tuttavia rappresentava proprio quello che questi rifiutavano: una rivista, quindi vincolata alla storia giuridica accademica, con la garanzia – ma anche i limiti – che implica questo vincolo; una rivista storico-giuridica dove la modernità viene intesa in senso superficiale, cronologico, escludendo tutto quello che viene prima del 16° secolo. E il fatto è che questa stimabile «Zeitschrift» è diventata una rivista tra le tante dei colleghi di lingua tedesca.
Inoltre i «Quaderni» sono fiorentini, ovvero non sono italiani. Come Grossi ci insegna, quello fiorentino è innanzitutto uno stile e un coerente gruppo di ricercatori; una condizione locale che diventa possibilità universale, così come sono universali i palazzi di Firenze. Da questo punto di vista, i «Quaderni», che hanno rinunciato a essere una ‘rivista di storia del diritto’, ancor meno vorrebbero diventare una rivista di storia del diritto italiano. E così, infine, si spiega un ‘marchio di fabbrica’ della pubblicazione in questione, ovvero la sua capacità di richiamare specialisti da ogni parte del mondo: non soltanto i giuristi e gli storici europei e le lingue delle grandi tradizioni scientifiche; non soltanto la presa in considerazione dei problemi e degli argomenti propri di queste tradizioni scientifiche. Non essendo 'italiani', i «Quaderni» hanno a disposizione anche l’Asia e l’America, rivelandosi oggi un giornale che, anche se prodotto a Firenze, gode tuttavia di una diffusione internazionale.
Questo elemento, proprio anche dei vicini «Materiali» di Genova, spinge a concludere. Cosa può esserci di meglio per una ‘cultura giuridica’ (nazionale) che trasformarsi in ‘scienza’, ovvero in un sapere che ragiona – per il suo interesse per lo studio dei classici, per la sua vocazione al dibattito (persino i dibattiti più attuali), per la sua visione generale delle sfide giuridiche – con categorie che sono universali?
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