Culto e liturgia
L'origine di Venezia è - come ben si sa tutta avvolta nella leggenda, almeno fino all'invasione longobarda, anche se nella leggenda c'è sempre un fondo di verità che occorre cercare. E ciò vale non solo per l'origine di Venezia come città e come entità politica, sia pur legata a Bisanzio, ma come comunità cristiana con i suoi vescovi, i suoi santi, i loro culti (1).
Pochi dovevano essere gli abitanti delle numerose isole lagunari "a Grado usque ad Caput Aggeris" (da Grado a Cavarzere) in epoca romana, anche se floride città come Aquileia con l'appendice gradese, Concordia, Oderzo, Altino esistevano ai lembi della laguna. Pochi abitanti dediti alla marineria, alla pesca, alle saline come, con una qualche esagerazione, ce li descriverà, un paio di secoli dopo, Cassiodoro (2). Molto probabilmente, come accadeva anche nel resto dell'impero, il cristianesimo era predicato nelle città e ivi esistevano le comunità cristiane, se pur non si deve escludere che qualche famiglia cristiana, come esisteva nei "pagi", così esistesse nelle isole. Ci mancano però sia la documentazione storica che quella archeologica per poterlo affermare con sicurezza.
Fu soltanto verso il 250 che nelle principali città nacquero le prime comunità cristiane organizzate. Con i loro primi vescovi, come Ermagora ad Aquileia, e anche i loro martiri: lo stesso Ermagora, Felice, Fortunato, Crisogono, i Canziani, Proto, Ilario e Taziano ad Aquileia, Giustina a Padova, forse i martiri concordiesi Donato, Secondiano, Rutolo e compagni (3). E accanto ai loro corpi, collocati in luogo conveniente, quei primi cristiani delle città, e molto probabilmente anche delle isole perché il culto dei martiri locali si diffuse ben presto in laguna, come i fedeli di Smirne per san Policarpo, martirizzato nel 165, "per quanto possibile si radunavano nella gioia e nell'allegrezza, per celebrare il giorno natale del loro martirio" (4).
Il banchetto funerario, il pagano "refrigerium" diventato cristiano, le preghiere e soprattutto la celebrazione eucaristica costituivano l'essenza di quelle riunioni che talvolta si protraevano a lungo. Tomba e altare divennero così congiunti. I cristiani poi amavano essere seppelliti accanto ai loro martiri quasi per sentirsi più sicuri e protetti anche nell'altra vita. E, ancora, l'assumerne il nome nel battesimo significava mettersi sotto l'ala protettrice della divinità: di un santo vicino a preferenza o accanto alla divinità lontana, direbbe il Gureviã (5).
Come una località si trovava sotto la protezione di un determinato santo, così anche l'individuo vedeva un protettore nella persona del santo che gli era stato dato con il battesimo. Il nome non era una designazione neutrale; questo segno toccava in modo misterioso l'essere dell'uomo e tra l'eponimo celeste e il suo omonimo mortale s'instaurava un certo legame e anche così il culto dei santi diventava parte integrante della vita religiosa della società medievale. In tal modo una ricerca sui nomi diventa una ricerca sul culto e ne sta ad indicare diffusione e intensità, anche se, per quanto riguarda i martiri, l'assunzione di alcuni come Felice, Ilario, Giustina è piuttosto tarda. Accanto ai martiri locali sono i vescovi oggetto di una prima venerazione, santificati, si può dire quasi "ex officio" come i primi vescovi di Roma. Ciò avviene per i vescovi di Aquileia (Ermagora, Ilario, Crisogono, e qui si tratta di martiri, ma poi Valeriano, Cromazio, Paolino), di Oderzo (Taziano e Magno), di Altino (il celebre Eliodoro, lodato e contestato da Girolamo) e di altre città del retroterra quali Padova (Prosdocimo e Massimo) o Verona (Euprepio, Proculo, e il più celebre Zeno), per non parlare del trentino Vigilio, il cui culto si sarebbe discretamente esteso, come del resto quello di san Prosdocimo e di san Zeno, in tutta la regione. Anche per questi primi vescovi santi non abbiamo attestazioni di culto che risalgano con certezza ai primi secoli. Tra martiri da venerare e vescovi da salutare Venanzio Fortunato, scrivendo verso la metà del VI secolo, indicava a un amico che doveva transitare per la Venezia, i Canziani, Fortunato, Paolo, Agostino di Concordia, Felice, Giustina (6).
Ma se martiri e vescovi locali potevano costituire una peculiarità di una determinata zona, c'erano poi il culto degli apostoli, quello della Madonna, punti fermi del culto in genere (7), e talvolta più ancora l'arrivo di reliquie da luoghi vicini e lontani, che potevano anche scalzare o superare quello dei santi locali. Così per gli apostoli a Concordia cui verrà dedicata la basilica "duodecim apostolorum" per la consacrazione della quale Cromazio recitò la sua celebre omelia (8); ad Olivolo, nelle isole realtine, la cattedrale dedicata a s. Pietro (853) dopo la prima, forse dedicata ai santi bizantini Sergio e Bacco (e il mutamento di titolo potrebbe pure segnare un nuovo indirizzo politico), e così pure ad Eraclea, se accettiamo i dati delle cronache gradense e altinate recepiti senza esitazione dal Kehr (9), oltre a numerose altre chiese e monasteri (10). E si noti che il "titulus S. Petri", soprattutto nelle cattedrali, si connota pure di un significato politico-religioso, giacché esso acquista, soprattutto in età carolingia, un valore di fedeltà all'ortodossia romana.
Per quanto riguarda poi la Madonna, "regina omnium sanctorum", il suo culto è il più diffuso in questo periodo nella Venezia. Già subito dopo la pace costantiniana il patriarca Teodoro di Aquileia, ancor prima del concilio efesino, costruì e dedicò la basilica a Cristo e alla "Dei genitrix" Maria. Il rilancio efesino ha poi fatto dedicare a lei la basilica di Jesolo, quella di Malamocco, quella di Torcello, quella di Eraclea (se siamo dell'opinione di Cessi sulla nota iscrizione torcellana) (11) e pure quella di Caorle, secondo l'affermazione del Corner (12).
Con Maria, del resto, è collegata anche la prima leggenda sulla fondazione di Venezia città. In un giorno dedicato a Maria, infatti, il 25 marzo del 421, festa dell'annunciazione, fu fissata leggendariamente la fondazione di Venezia, non per spontanea iniziativa dei primi e pochi immigrati aggiuntisi agli isolani, ma attraverso un piatto procedimento burocratico (13). E da quel giorno, poi per opportunità spostato al primo del mese, coincidendo così con l'uso romano, Venezia iniziava i suoi anni e da Maria "origo" ci si aspettava sempre la "salus". Da dove è venuta l'origine (da Maria) è avvenuta anche la salvezza, si legge ancor oggi a grandi caratteri al centro della basilica di Santa Maria della Salute, eretta nel Seicento dopo la liberazione dalla peste.
E numerose sono state le chiese e i monasteri in onore della Vergine nell'area lagunare: da Santa Maria delle Grazie a Grado, a Santa Maria nascente, la chiesa battesimale di Caorle, a Santa Maria in Equilo, probabilmente Santa Maria di Altino, titolo poi trasferito a Torcello, Santa Maria Formosa e Santa Maria Mater Domini nelle isole realtine. Segni di devozione mariana così come gli splendidi mosaici absidali della Vergine di Torcello e di Santa Maria di Murano.
La temporanea conquista narsetiana durante la guerra greco-gotica avrebbe portato alla costruzione di due chiese e al culto di due santi orientali molto venerati successivamente: san Teodoro e san Menna. La fondazione della chiesa di San Teodoro sarebbe giustificata dal fatto che egli, soldato, era il protettore delle truppe imperiali. Era, tra l'altro, un santo veneratissimo in Oriente, originario di Amasea, sul Ponto e martirizzato il 9 novembre "sub Maximiano", e di cui già nel IV secolo san Gregorio Nisseno aveva pronunciato il panegirico, presente pure a Roma nel mosaico absidale dei Santi Cosma e Damiano nel VI secolo. Non deve però essere confuso con Teodoro, lo "stratelates", il comandante, o Teodoro di Eraclea, che soltanto nel secolo X appare quale patrono delle truppe bizantine accanto all'altro Teodoro. Forse sembrava troppo poco dignitoso che un soldato semplice, un "tiro" qual'era Teodoro di Amasea, fosse protettore di tutto l'esercito, compresi i capi, e lo sdoppiamento o confusione verificatisi potrebbero provenire dal fatto che entrambi risultavano sepolti ad Euchaita (14).
Quanto a san Menna soldato e martire egiziano, il cui culto era diffuso in Oriente e in Occidente e il cui santuario fu meta di continui pellegrinaggi (e lo è ancor oggi tanto da essere chiamato la Lourdes d'Egitto), era particolarmente venerato da Narsete che avrebbe costruito la chiesa in suo onore, tenendo forse anche conto che non era affatto sconosciuto in Occidente, dove, a Roma, esisteva una chiesa a lui dedicata proprio nel VI secolo e nella. cui festa il santo papa Gregorio Magno aveva pronunciato un'omelia in suo onore (15). La chiesa avrebbe potuto allora significare anche quell'unità di Occidente e Oriente cui aspirava Giustiniano.
La fuga nelle isole lagunari e la costruzione di chiese e cappelle, molte delle quali dedicate a santi bizantini, accompagnata da traslazione di reliquie, avvenne soprattutto in coincidenza con l'arrivo dei Longobardi, e ci fu anche una ragione di fede, essendo essi ariani e talora persecutori dei cattolici (anche nelle nostre lagune ci sarebbero stati dei martiri ad opera degli ariani quale san Teonisto) (16).
Le cronache ci hanno tramandato parecchie notizie su questi fatti, ma due avvenimenti ci sembrano particolarmente significativi, perché legati a visioni, fenomeno frequente in leggende successivamente create (17) ad impreziosire la fondazione di una chiesa e il culto del santo titolare.
Il primo riguarda il prete Mauro, fuggiasco da Altino, che ha una serie di visioni da lui rivelate per favorire la costruzione di chiese: ai due tribuni di Altino Aurio e al figlio Aratore. Nella prima gli erano apparsi i santi Ermete ed Erasmo che gli avevano imposto di erigere una chiesa in loro onore sul lido che già si denominava di Sant'Erasmo (non dimentichiamo che si trattava di un protettore di gente di mare, che successivamente ne modificò il nome nel più noto sant'Elmo). Nella seconda visione, da una nube bianchissima uscirono due raggi da cui risuonarono le voci di Gesù Salvatore e di sua madre Maria, chiedendo anch'essi l'edificazione della chiesa; nella terza visione gli erano apparsi san Pietro, in sembianza di vecchio dai capelli bianchissimi, e sant'Antonio (18); nella quarta, su un lido folto di vigneti, la martire padovana santa Giustina, e nell'ultima, una nube lucida su cui siedeva san Giovanni Battista. E ognuno richiede la propria chiesa (19).
Il secondo fatto si riferisce a san Magno, vescovo di Oderzo, passato poi, con molti dei suoi fedeli, sotto la pressione longobarda nell'isola chiamata, in onore dell'imperatore bizantino Eraclio, Cittanova Eracliana. In tempo imprecisato, ma attorno al 650, egli avrebbe fondato nella laguna, in seguito a visioni avute, otto chiese. Per primo gli appare san Pietro che gli ordina di fondare una chiesa in suo onore perché voleva essere il patrono della futura città (come per san Mauro si era trattato di Torcello e delle isole e lidi contigui, qui si tratta di Venezia) e il santo aggiunge: è volontà divina che nelle lagune veneziane si fondi una città. Il luogo avrebbe dovuto essere quello dove si fossero trovati tanti ovini e bovini al pascolo, con evidente allusione al comando di Gesù a Pietro di pascere il gregge. Per secondo gli si mostra l'arcangelo Raffaele: il luogo, in questo caso, avrebbe dovuto essere quello dove si fossero trovati assieme tanti uccelli, alla periferia, quindi, della città, mentre terzo, in ordine di apparizione, il Salvatore gli chiede l'erezione di una chiesa nel centro della città e, quarta, la Madonna "valde formosa" (Santa Maria Formosa si denominerà poi quella chiesa) vuole eretta la chiesa in suo onore dove si fosse arrestata una nube bianca. San Giovanni Battista ne chiede addirittura due: una per sé e una per il padre Zaccaria, mentre santa Giustina vuole eretto il proprio tempio dove si fosse trovata una vite colma di grappoli. Ultimi gli appaiono i dodici apostoli: la loro chiesa avrebbe dovuto sorgere dove si fossero fermate dodici gru. Ora, se il numero otto delle visioni rientra nella logica del genere letterario, dato il significato divino e perciò eterno collegato a tale numero, il fondatore della città è, nel racconto dell'anonimo estensore - probabilmente un monaco dell'undecimo secolo -, Dio stesso. È chiaro che la città di Venezia è stata edificata per volere divino (così si conclude il racconto) ed è Dio stesso che stabilisce i punti cardinali entro cui si svilupperà il tessuto urbano. Ad oriente la chiesa di San Pietro apostolo, all'opposto quella di San Raffaele arcangelo che protegge chi entra o esce per via di terraferma nel Dossoduro, al centro le due chiese del Salvatore e della Vergine, quasi cuore della città, al nord quella dedicata agli apostoli, al sud le due chiese del Battista e di San Zaccaria. Un'intrusa, in questo contesto, sembra Santa Giustina localizzata in zona di vigneti (San Marco "in vinca" e San Francesco della Vigna verranno edificate nello stesso luogo), a meno che la grande diffusione del suo culto e la sua origine padovana (e in questo caso anche con valenza politica) non ne siano giustificazione sufficiente (20). Anche se si tratta di tarda leggenda, è però evidente la volontà di fare di san Magno quasi il fondatore e l'organizzatore della Venezia ecclesiastica (nell'iconografia veneziana il santo sarà sempre raffigurato con una chiesa in mano) e forse anche, secondo alcuni, la riaffermazione di una Venezia filobizantina (21) anche se nel racconto i titoli poco avrebbero a che fare con la tradizione cultuale bizantina.
Quest'ultima invece sarebbe stata destinata a riprendere quando, dopo la perdita di Ravenna nel 754, il ducato veneziano sarebbe diventato il punto principale di riferimento e di controllo dell'Adriatico da parte dell'impero bizantino, da cui il ducato stesso dipendeva.
Devozione ai santi orientali che si manifesta soprattutto in tre direzioni: chiese erette in loro nome, reliquie preziose conquistate o acquistate e trasferite a Venezia, loro presenza tra i santi raffigurati nei mosaici marciani.
Diverse chiese veneziane sono dedicate a santi orientali, quali san Fantino, san Nicola, santa Caterina, san Giovanni Crisostomo, san Lazzaro, san Cosma eremita, sant'Antonino, san Biagio, san Giuliano (un discorso particolare meritano quelle che hanno come titolare un profeta), mentre sono state trasportate dall'Oriente le reliquie di san Zaccaria, regalate dall'imperatore Leone V l'Armeno nell'827 per essere collocate nella chiesa dell'omonimo monastero femminile, il più importante della città, e il corpo di san Saba, recato a Venezia, secondo il Sanudo, nel 979 da Pietro Centranico e riposto nella chiesa di Sant'Antonino dove furono poi dipinti gli episodi della vita del santo da Jacopo Palma il giovane, mentre il suo corpo fu recentemente, con spirito ecumenico, restituito ai suoi monaci in Palestina.
Ma fu soprattutto durante le crociate che i Veneziani si impadronirono, spesso con la forza, realmente rapinando e rubando, di corpi di santi e di reliquie insigni (22).
A cominciare da quello di san Nicola, trafugato a Mira dalla flotta veneziana comandata dal doge e assistita spiritualmente dal vescovo di Olivolo nel 1100 (23), a quello di santo Stefano trafugato da Costantinopoli nel 1110. Nel 1125 il doge Domenico Michiel, svernando con l'armata a Chio, risolveva di portare a Venezia, su consiglio del chierico Cerbano Cerbani cui si deve il racconto della "translatio", il corpo di sant'Isidoro, in onore del quale sarà poi eretta una cappella, decorata di preziosi mosaici che ne raccontano vita e martirio, nella basilica marciana (24). Fu però durante la quarta Crociata e durante tutto il periodo in cui i veneziani ebbero il patriarcato di Costantinopoli e parte dei territori dell'impero bizantino (I 204-1260) che molti e importanti corpi di santi giunsero a Venezia: ad occupare chiese già erette in loro onore, a farne erigere di nuove o anche semplicemente a ricevere culto e venerazione dai Veneziani. Così, nel 1249, vi giunse il corpo di san Giovanni Elemosinario, patriarca di Alessandria, in cui onore risulta già eretta, nel Mille, una chiesa e, nel 1206, quello di san Simeone profeta, che aveva pure una propria chiesa.
Nel 1240 arrivò nella città lagunare il corpo di san Paolo eremita, nel 1258 quello di san Barnaba, nel 1246 quello di sant'Eutichio, per fermarci ai più sicuri. E ritornarono, in quel tempo, in Occidente anche i corpi di sant'Elena (1211) e quello di santa Lucia (1204), due grandi sante già trasferite ad accrescere il prestigio di Costantinopoli e, in onore di entrambe, a Venezia furono erette due chiese.
Né il traffico, per così dire, delle reliquie si fermò a quel periodo di dominio veneziano. Per restare al secolo XIII, dovremmo ricordare il trasferimento a Venezia, nel 1267, ad opera di Marco Dauro del corpo di un vescovo Paolo (1266) (25).
Quanto ai santi orientali raffigurati nei mosaici marciani, si sa come la basilica sia, oltre che una testimonianza di pietà e il tempio civico dei Veneziani, quasi un libro aperto dove si possono leggere gli episodi più significativi e le tendenze più espressive della loro vita civile e religiosa. Ora può essere interessante osservare come più di un terzo dei santi raffigurati nei mosaici marciani siano orientali. È vero che tra essi ci sono pure quelli venerati in tutta la Chiesa, ma anch'essi hanno delle particolarità che, per così dire, li caratterizzano ancor di più come orientali; così, per quanto riguarda le iscrizioni, l'accostamento a santi orientali, le vesti e i simboli. Santa Giustina, ad esempio, è raffigurata in splendidi abiti orientali, quasi come un'imperatrice, e nella mano destra tiene una crocetta, simbolo, per gli orientali, del martirio. Così grandi dottori della Chiesa greca, come Gregorio Nazianzeno e Giovanni Crisostomo, sono effigiati nei più antichi mosaici bizantini, con un prezioso esempio di scrittura greca antica. Sant'Atanasio, vestito all'orientale con un cappuccio e un cartiglio, dove è riprodotto l'inizio del simbolo di fede che, sia pur erroneamente, da lui prende nome. San Basilio e san Giovanni Damasceno, l'ultimo dei grandi padri della Chiesa orientale, vissuto durante la dominazione araba, indicata probabilmente dal turbante recato in testa, tenace difensore del culto delle immagini. Sono invece raffigurati nell'atrio, luogo che nell'iconografia santorale marciana ha un significato tutto particolare, san Simone stilita, san Foca, i santi Cosma e Damiano, santa Caterina di Alessandria. All'interno troviamo, tra gli altri santa Barbara, i santi Sergio e Bacco - ai quali era dedicata la prima cattedrale di Olivolo -, santa Marina, le sante Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma, raffigurate in ricche vesti orientali, e che potrebbero essere segno anche della posizione presa dai Veneti al tempo dello scisma dei tre capitoli, san Metodio, patriarca di Costantinopoli e autore di opere anticonoclaste (il libro che porta in mano lo significa).
E si deve pure osservare come molti di questi santi, e anche altri, venissero festeggiati secondo il "dies liturgicus" orientale. Così san Zaccaria, la cui festa veniva celebrata il 6 novembre in coincidenza con il menologio basiliano, san Moisé, la cui festa ricorreva il 4 settembre, secondo i calendari bizantini; la stessa sant'Elena è ricordata, nei più antichi calendari veneziani, in maggio e non in agosto, secondo l'uso romano.
Tutto ciò, anche dal punto di vista religioso oltre che artistico e urbanistico, poteva far esclamare, ancora nel secolo XV, al card. Bessarione: "È nella vostra città che le nazioni di tutto il mondo s'incontrano; e soprattutto i Greci sbarcano a Venezia uniti a voi da uno speciale legame, perché, appena arrivano nella vostra città, hanno l'impressione di arrivare in una seconda Bisanzio" (26).
Un momento particolare e significativo dell'orientalità del culto a Venezia, e anche dell'antichità e dell'attaccamento alla tradizione, è quello della devozione ai santi dell'Antico Testamento. A differenza di quanto avvenne in Oriente, in Occidente il loro culto, e soprattutto quello dei profeti, non fu mai popolare, anche quando cominciarono a entrare nei martirologi al tempo delle crociate. Ciò fu dovuto, infatti, a criteri dotti, ad eccezione dell'Irlanda e di Venezia. Lo rilevava, ancora nel secolo XII, il teologo parigino Giovanni Beleth, meravigliandosi di trovarne il culto a Venezia come in Grecia, e, nel 1682, l'Onofri osserverà: "Niun'altra città contiene in sé chiese dedicate ai santi del Testamento Vecchio come ha Venezia; e sono 7: S. Geremia, S. Zaccaria, S. Moisè, S. Samuel, S. Daniel, S. Giob. e S. Simeon profeta" (27).
Occorre distinguere - a nostro avviso - (cosa che generalmente non vien fatta, mentre le antiche fonti lo suggeriscono) il culto di quei santi che sono in qualche modo legati al Nuovo Testamento, come Giovanni Battista e i suoi progenitori Zaccaria ed Elisabetta, i genitori di Maria, Gioachino e Anna, il vecchio Simeone e la profetessa Anna e Lazzaro, il mendicante. Il loro culto è infatti diffuso in tutto l'Occidente, anche se, eccettuato il Battista, non è facile trovare chiese ad essi dedicate come a Venezia. E così pure il culto verso gli arcangeli: Gabriele, l'angelo dell'Annunciazione, Raffaele, il salvatore di Tobi, e Michele, il vincitore di Lucifero. Per quest'ultimo basti pensare all'enorme diffusione del suo culto in ogni parte d'Europa, soprattutto a opera dei Longobardi, fino a farne quasi il loro santo nazionale (28). Dove invece si ha una caratteristica tipicamente veneziana è nel culto verso i profeti. Largamente presenti in Occidente nelle arti figurative quali precursori e annunciatori,del Messia, essi sono generalmente esclusi dal culto, mentre, nel citato calendario veneziano del Mille, vi compaiono già Daniele, Geremia, Isaia, Samuele, Abacuc, Ezechiele, Eliseo. Altri, come Giobbe, Giona, Mosè, vi furono introdotti in seguito. Quello poi che stupisce maggiormente è la dedicazione di chiese in loro onore. Vi troviamo infatti, tra quelli ancora esistenti e quelli scomparsi, edifici sacri dedicati a san Daniele, san Geremia, sant'Isaia, san Giobbe e san Moisè: quest'ultima dedicazione è poi un "unicum" perché non esiste né a Costantinopoli né in area esarcale.
I santi profeti sono diffusi anche nell'onomastica. Tra la più antica documentazione possiamo ricordare un testamento del 976 in cui compare un "Hieremias", uno del 1038 con "Moyses"; uno del 1073 in cui c'è un "Ysaias" (questo però non si trova più spesso nella dizione bizantina di "Esayas") e uno del 1090 con "Samuel".
Il problema è cercare di capire da dove sia arrivato questo culto dei santi dell'Antico Testamento e perché sia rimasto quasi solo a Venezia. Lo Jounel attribuisce la pur limitata diffusione in Occidente all'influsso delle crociate (29): ma a Venezia il culto è largamente praticato e cronologicamente precedente. Si tratta forse della persistenza di una vecchia tradizione dei primi tempi cristiani (e ciò spiegherebbe la sua contemporanea presenza in Irlanda, dove, come si sa, il cristianesimo primitivo è durato più a lungo), del collegamento tra Antico e Nuovo Testamento così presente pure nei mosaici marciani, anch'esso più vivo nell'antichità, e ad un maggior influsso dell'Oriente, di cui Venezia subì il fascino nei suoi primi secoli di vita (30).
Su tutti questi santi era però destinato a imporsene uno in particolare, che sarebbe diventato il santo veneziano per eccellenza, fin quasi ad identificarsi con la stessa città: l'evangelista san Marco.
Il suo culto aveva cominciato a propagarsi nelle lagune in conformità con il formarsi ad Aquileia della leggenda dell'evangelizzazione della città ad opera di san Marco. Il primo che ne parla è Paolo Diacono (secolo VIII), ma sappiamo che essa si era formata quando, dopo il concilio costantinopolitano II del 553 che aveva condannato tre scritti (i così detti tre capitoli) di Teodoreto di Ciro, Teodoro di Mopsuestia e Iba, giudicati filonestoriani, molta parte dei vescovi e lo stesso papa Vigilio considerarono anticalcedonese e quindi eretica questa condanna. Papa Vigilio fu poi costretto dall'imperatore a sottoscriverla dopo un lungo esilio, ma i vescovi dell'Italia settentrionale, guidati dai metropoliti di Milano e Aquileia, vi si opposero. Teoricamente diventavano degli scismatici, ma, pensando che tutta l'azione fosse dovuta a un arbitrio dell'imperatore e alla debolezza del papa, rimasero fermi in quella che consideravano la fede ortodossa: quella proclamata nel 451 al concilio di Calcedonia.
Diventava allora opportuno trovare un fondatore della Chiesa aquileiese che godesse di una grande autorità, quasi a giustificare un'autonomia, e si credette di averlo in san Marco, "discipulus et interpres" di Pietro e vescovo martire di Alessandria. In tal modo veniva ribadita l'alessandrinità della Chiesa aquileiese e ci si ricongiungeva a Pietro, il capo degli apostoli e di tutta la Chiesa. Come abbiamo detto, il primo che parli dell'evangelizzazione di san Marco ad Aquileia è Paolo Diacono nel contesto di un invio di discepoli di Pietro nelle principali città europee. E si noti che lo scrittore cividalese ha solo per Marco, in questa lista, un cenno particolare: per gli altri si accontenta del nome. "Marco [scrive>, che era ritenuto il principale dei suoi [di Pietro> discepoli, lo destinò ad Aquileia. Egli vi mise a capo il suo compagno Ermagora, ritornò a Roma e fu mandato poi ad Alessandria" (31). Ma Paolo Diacono era longobardo e apparteneva alla Chiesa aquileiese nel senso più concreto della parola e aveva, quindi, due buone ragioni per riaffermare, contro l'impero bizantino e contro le decisioni del concilio imperiale, la grandezza della sua Aquileia.
Soltanto due secoli dopo la sua formazione troviamo, quindi, formalizzata la leggenda marciana con un particolare che va sottolineato: san Marco consacra Ermagora vescovo di Aquileia ad Aquileia. Ulteriore segno di autonomia o scisma che dir si voglia.
Rientrata, però, prima Grado, e poi anche Aquileia, nell'unità romana, la leggenda muta questo particolare di non poca importanza. Marco non consacra direttamente Ermagora ad Aquileia, ma lo porta con sé a Roma perché venga consacrato vescovo da san Pietro. E lo stesso principe degli apostoli lo consacra "protos Italiae pontifex", anche perché - sempre secondo la leggenda - da Aquileia e dalla predicazione di Marco ed Ermagora ci sarebbe stato l'"exordium christianitatis totius Italiae". Così si presenta modificata la leggenda alla sinodo mantovana dell'827, con evidente pretesa di supremazia non solo su Grado, ma, si potrebbe dire, su gran parte dell'Italia settentrionale e anche al di là delle Alpi (32). Entrambe le scene - consacrazione di Ermagora ad Aquileia da parte di san Marco e consacrazione di Ermagora a Roma da parte di san Pietro sono presenti nei mosaici marciani, quasi a significare che leggenda e storia potevano avere lo stesso valore quando si trattava di glorificare il patrono.
A quella stessa sinodo erano, però, pure presenti i delegati gradesi. Dopo il forzato trasferimento del patriarca di Aquileia, Paolo, a Grado nel 569 con le reliquie dei santi e dei tesori della Chiesa, e soprattutto dopo il rientro di Grado - posta in territorio bizantino a differenza di Aquileia sottoposta ai Longobardi - nell'ortodossia, quest'ultima si considerava erede legittima (e non solo sede provvisoria) di Aquileia che considerava scismatica e, quindi, degli onori e privilegi metropolitici (cf. la falsa bolla di papa Pelagio II al vescovo di Grado, Elia, nel 579, anch'essa riprodotta nei mosaici marciani) (33). Tanto più che a gratificarla l'imperatore Eraclio le aveva inviato, nel 630, la presunta cattedra marciana (34), contribuendo così a far nascere una leggenda marciana gradese in funzione antiaquileiese. Più tardi si parlerà di Grado come di una "nova Aquileia ", capo e metropoli di tutta la Venezia e l'Istria, e si affermerà: "come Aquileia è stata la metropoli dell'Antica Venezia, così questa nuova Aquileia [cioè Grado> sarà la metropoli della nuova Venezia" (35).
Il culto di san Marco era quindi, già nei secoli VII-IX, più o meno diffuso nelle lagune per influsso aquileiese o gradese, ma ai Veneziani non importavano tanto le dispute, quanto piuttosto avere un san Marco veneziano. E lo fecero in tre modi: trafugando il corpo del santo da Alessandria e trasferendolo a Venezia, costruendovi la basilica in suo onore, ampliando la leggenda in senso veneziano.
Tra questi tre fatti certamente il più importante e il più determinante fu il tra-sporto, o meglio il furto, operato dai Veneziani, del corpo di san Marco da Alessandria d'Egitto nell'828.
I protagonisti sono due marinai commercianti, Buono di Malamocco e Rustico di Torcello (e nell'ingenuo racconto le due località non sono state scelte a caso, rappresentando l'eredità delle antiche comunità di Padova e di Altino: la prima, tra l'altro, già sede del governo, la seconda illustrata dalla basilica del 639).
Le peripezie che dovettero subire furono molte e pure le trasgressioni commesse e le incertezze sull'accoglienza; ma, d'altra parte, ben conoscevano quanto "la presenza fisica del santo sia all'interno di una comunità particolare sia come possesso sugli individui fosse la massima benedizione di cui potesse godere un cristiano tardo antico" (36) e medievale. A comprenderne le ragioni è interessante rileggere il ragionamento che i due Veneziani fanno al monaco Staurazio e al prete Teodoro per persuaderli ad essere loro collaboratori nel furto. "È vero [dicono> che il santo ha evangelizzato la vostra città e vi ha subito il martirio, per cui sarebbe giusto che il suo corpo vi restasse, ma, date le circostanze e la necessità di metterlo in salvo dalle possibili ingiurie degli arabi, dovete pur ricordarvi che prima di Alessandria san Marco ha evangelizzato Aquileia e la regione veneta 'unde sumus primogeniti filii eius', i primogeniti e i prediletti" (37) per cui, in ultima analisi, non si tratterebbe che di un ritorno. "Noi siamo venuti da voi contrariamente alla nostra volontà, spinti dal Signore Iddio soltanto perché egli potesse restituirci il nostro santissimo padre nella fede" (38). Tale argomento non persuade, però, i due custodi alessandrini, che rispondono che i Veneziani avrebbero dovuto accontentarsi della cattedra che già possedevano e, solo dopo replicate insistenze e prospettati favori, riescono ad avere il corpo che trasferiscono sulla loro nave, ingannando i musulmani coprendo il tutto con carne di maiale. E, arrivati nelle lagune, devono superare le ultime difficoltà. Sia pur per portare a Venezia un corpo santo, quello del loro santo, hanno dovuto trasgredire ordini del doge e della Santa Sede. Ne valeva la pena? Possono sentirsi perdonati? Altrimenti sono disposti a portarlo altrove. La risposta di Giustiniano Partecipazio è non solo positiva, ma grata. Venezia ha finalmente il suo san Marco, un san Marco veneziano (39) .
L'autore della "translatio" parla di accoglienza fatta dal vescovo di Olivolo con i suoi preti e dal doge, ma per i suoi successori ciò sembra troppo poco. Ed ecco che nei mosaici marciani essi ampliano subito la scena. L'accoglienza viene fatta dal doge con il suo seguito (e il Demus ha osservato come la scena venga esemplata sul mosaico dell'imperatore Giustiniano di San Vitale a Ravenna) e dal patriarca di Grado attorniato dai sei vescovi lagunari, quelli di Caorle, Cittanova-Eraclea, Equilo-Iesolo, Malamocco, Olivolo, Torcello. È la comunità civile e religiosa (anche se molto probabilmente non tutti e sei gli episcopati lagunari esistevano nell'828) che lo accoglie e forma quasi un tutt'uno nel suo nome. Da allora san Marco non sarà più aquileiese o gradese, ma veneziano.
Il secondo fatto che renderà il santo sempre più veneziano è la costruzione della basilica in suo onore, o meglio della cappella accanto al palazzo ducale. Quando il corpo di san Marco arriva a Venezia viene infatti portato "ad ducis palatium" (ed avviene pure il miracolo che, nel salire le scale, non si senta il peso del suo corpo), in attesa di costruirvi una chiesa. A Giustiniano Partecipazio non fu dato di farlo, ma il suo testamento dell'829 dà le disposizioni precise per la costruzione (40). Ordina alla moglie Felicita di far costruire una basilica nel territorio di San Zaccaria, indicando anche le località dalle quali dovevano essere prese le pietre per la costruzione. E l'estensore della "translatio" ci dice che suo figlio Giovanni, successogli nel dogado, "costruì vicino al palazzo ducale una basilica di forma bellissima simile a quella del Santo Sepolcro che aveva visitato [...> e vi pose honore dignissimo il corpo dell'evangelista. Vi si fanno molte preghiere, vengono concesse ai fedeli molte grazie, molti sono quelli che vengono liberati dai demoni" (41). Naturalmente, i miracoli non potevano mancare: il testo non l'avrebbe scritto altrimenti un cristiano del Medioevo (42). Né potevano mancare, dato il valore di una "translatio", la festosa accoglienza e le decisioni successive, né l'entusiasmo, patriottico e religioso insieme, manifestato dal vescovo di Olivolo, Orso Partecipazio, nel suo testamento dell'853 (43).
Il terzo fatto è l'aggiunta, per così dire, veneziana alla leggenda. Ne è autore il doge cronista Andrea Dandolo. Ecco come ce la descrive (44).
L'evangelista, partito da Aquileia, sta navigando verso Roma con Ermagora, quando è sorpreso da una burrasca nella zona paludosa lagunare. La barca è costretta ad arrestarsi vicino a un isolotto "ubi Rivoaltina civitas constructa dignoscitur"; successivamente si crederà anche di poter identificare il luogo esatto e vi si costruirà una chiesetta, quella di San Marco "in vinea". Il santo si addormenta e un angelo in sogno gli annuncia: "Pax tibi Marce. Hic requiescet corpus tuum". Il "Pax tibi Marce evangelista meus", scolpito o dipinto nel libro aperto del leone marciano si trova originariamente nelle antiche "passiones" greche rivolto da Gesù o da un angelo in una visione a san Marco prigioniero ad Alessandria e sarà poi trasferito in bocca all'angelo nelle lagune. Il santo, di fronte a quella notizia di morte, crede ad un prossimo naufragio, ma viene così rassicurato dal divino messaggero: "Non temere, o evangelista di Dio; hai ancora molto da fare e patire per Cristo. Dopo il tuo martirio gli abitanti della vicina terraferma si raduneranno qui per evitare le distruzioni dei loro beni e delle loro vite e la persecuzione per la fede". Si noti come all'emigrazione nella laguna e alla fondazione di Venezia venga dato anche un valore religioso, la salvezza della propria fede di fronte ai barbari pagani o ariani; e ciò in tutte le antiche leggende dell'origine di Venezia, da quella padovana a quella attilana, a quella narsetiana. "E qui costruiranno una meravigliosa città [continua ancora l'angelo> e avranno l'onore di conservare il tuo corpo. E lo onoreranno molto e, con i loro meriti e le loro preghiere, otterranno con la tua intercessione molte grazie presso Dio". Particolari tutti che troviamo fissati nel ciclo iconografico marciano dell'attuale cappella Zen (mosaici del secolo XIII). L'arrivo del corpo dell'evangelista è raffigurato pure nella cappella di San Clemente (cantoria destra). Il significato politico è qui più evidente, data la vicinanza alla cappella di San Pietro.
Tutti e tre questi avvenimenti contribuirono a creare quello che era già nella volontà del doge e dei maggiorenti: costruire un san Marco veneziano, dare a Venezia e allo Stato un protettore potente. Da allora veramente i Veneziani si sentiranno figli di san Marco: "In quel giorno [come giustamente osserva la Fasoli> si iniziò il processo, razionale e arazionale al tempo stesso, che modellò le relazioni tra Venezia e san Marco su quelle della Chiesa cattolica e s. Pietro e fece tutt'una cosa della grandezza dell'una e della gloria dell'altro, predestinate entrambe 'ab aeterno'" (45).
Mancava, però, ancora, a completare la classica trilogia medievale di un santo, un terzo momento, oltre quello della evangelizzazione e della passione e quello della"translatio": l'"inventio", il ritrovamento. Ed ecco saltar fuori - anche qui le ipotesi vanno fra il reale e l'inventato - il racconto dell'"inventio". Stando ad esso, durante l'incendio del 976, a seguito di una rivolta popolare contro il doge Pietro Candiano IV, era stata distrutta anche la primitiva chiesa particiaca di San Marco e si era perduta ogni memoria circa il luogo dove era stato nascosto il sacro corpo, luogo che doveva essere molto sicuro e conosciuto a pochi, anche per paura di un eventuale furto (46). I Veneziani, e soprattutto le autorità politiche e religiose, erano perciò disperati, tanto più che era già stata ricostruita, durante il dogado di Domenico Contarini (1043-1071) e ornata di mosaici al tempo del doge Domenico Silvo (1071-1084), la terza fabbrica marciana, quella che nella sua sostanza noi ammiriamo anche oggi. Sarebbe stato veramente un peccato non potervi collocare il corpo di san Marco, in onore del quale essa era stata eretta e rifabbricata. Dopo inutili ricerche tra documenti scritti e testimonianze orali, il doge Vitale Falier promosse un digiuno di tre giorni e pubbliche preghiere. Alla fine il miracolo si compì. Le pietre di una colonna "caloprecia", cioè composta di vari pezzi tenuti assieme (il particolare è ricordato in varie versioni quasi a rendere più comprensibile il miracolo), a poco a poco si smossero e lasciarono apparire l'arca marmorea con il corpo di san Marco (47). Recenti studi e sondaggi hanno identificato quella colonna in una delle quattro che formano il pilastro sinistro della cappella di San Clemente; e una conferma potrebbe essere data da un manoscritto del secolo XII, di poco posteriore all'avvenimento, che precisa trattarsi di una delle poche colonne rimaste dell'antica chiesa particiaca.
Altri prodigi, a conferma dell'autenticità delle reliquie ritrovate, avrebbero accompagnato quel primo: un profumo meraviglioso sparso per la chiesa, un'indemoniata guarita al tocco dell'arca, alcuni marinai scampati a un sicuro naufragio. Addirittura tre mosaici rappresentano e ricordano questo avvenimento, di cui uno è particolarmente interessante, sia per ciò che descrive sia per il luogo in cui è collocato: nel transetto destro, ora accanto alla porta del tesoro, ma in origine luogo di passaggio verso l'esterno e il palazzo ducale. Il mosaico è grandioso, tipicamente occidentale sia nel suo linguaggio stilistico sia per le dimensioni, ed è una preziosa pagina di vita veneziana del secolo XIII, epoca della sua esecuzione. Lo è sia per i costumi liturgici (altare, abiti sacerdotali, ritratto del vescovo di Castello, Domenico Contarini), sia per quelli civili (il doge non sarebbe però Vitale Falier, ma Ranieri Zeno, colui che avrebbe fatto eseguire il mosaico; dei procuratori di San Marco, di nobili e di popolani), sia per la rappresentazione della basilica in ardito spaccato, con i due pulpiti, i matronei e le cupole interne a scodella, antecedenti, queste ultime, alle duecentesche cupole lignee esterne a lastre di piombo.
Ma ci fu veramente l'"inventio"? o non fu anch'essa successivamente inventata? Il Cessi è propenso a scorgere nell'"inventio" un fatto molto naturale, avvenuto alla fine della costruzione della fabbrica contariniana. Ecco il testo di quel documento: "Il santissimo corpo dell'evangelista dal luogo dove, nella chiesa precedente, era stato collocato [scomparirebbero quindi l'ignoranza del luogo, la paura di non trovarlo, le preghiere fatte a tale scopo>, fu innalzato in mezzo alla nuova chiesa affinché tutti potessero vederlo. Ed era veramente integro ["integer" termine che compare pure nel racconto dell'"inventio"> e pronto come se dovesse cantar messa [e così ci appare anche nel catino della parte principale della basilica, eseguito nel 1545 dai fratelli Zuccato su cartone del Lotto o del Tiziano, addirittura in sostituzione del Cristo "pantocrator"> ". A tutti fu esposto per quasi "cinque mesi" (anche il racconto dell'"inventio" indica, sia pur con una maggiore precisione, dal 25 giugno all'8 ottobre, i quasi cinque mesi dell'esposizione). "E in questi mesi Dio ha operato molti miracoli per sua intercessione" (48). Anche nei fatti miracolosi, se pur non specificati, questo più semplice racconto concorda con quello dell'"inventio", per cui si potrebbe considerarlo come la narrazione del fatto realmente accaduto, attorno al quale sarebbe nata, e abbastanza presto, la leggenda dell'"inventio". E non solo per arricchire misteriosamente e miracolosamente la figura del santo, ma anche per completare, secondo i moduli del tempo, e sia pur con una inversione, la trilogia agiografica propria del Medio Evo per ogni santo importante: la "passio ", l'"inventio", la "translatio". Resta però quasi inspiegabile, a questo punto, volendo accettare la plausibile ipotesi di Cessi, quello che potremmo chiamare "l'oscuramento" del culto marciano dall'incendio della basilica del 976 all'"inventio" del 1054. Accanto alla possibile scomparsa o meglio mancato ritrovamento della salma si potrebbe ipotizzare pure la politica filo-ottoniana dei Candiano (sposalizio di Waldrada da parte di Pietro Candiano IV, i patti con Ottone I e Ottone II con variazioni peggiorative per i Veneziani, la politica di terraferma) propensi a legami con il sacro romano impero germanico (49). Anzi, proprio a rinsaldare questi legami, i Can diano avrebbero regalato all'abbazia di Reichenau, sul lago di Costanza, una insigne reliquia di san Marco, tuttora ivi conservata. Anche ciò avrebbe potuto essere una delle componenti della furia scatenatasi contro Pietro Candiano IV e culminata nell'uccisione sua e del figlio e nell'incendio della chiesa e del palazzo (50). A ciò sarebbe seguita o una ricerca più accanita della salma non più ritrovata, oppure un declino del culto verso quel santo che non era più il protettore della sola Venezia.
È stato più di una volta osservato come nel culto di san Marco a Venezia si possono notare tre momenti storici corrispondenti a tre gradi ascensionali di formazione dello Stato veneziano. Il primo, chiuso dalla sinodo di Mantova, coinciderebbe con i primi sintomi di indipendenza nei confronti di Bisanzio; il secondo, con la "translatio" ne inizierebbe l'ascesa; il terzo, infine, culminerebbe con il ritrovamento del corpo (1094), l'"inventio", che il Peyer chiama addirittura, e senza forzature, "miracolo statale" (51). Sarà infatti soprattutto da quel secolo XI che Venezia e san Marco resteranno sempre più legati tra loro nell'effettiva realtà storica, se pur sempre suffragata dalla leggenda. E non solo in quella ufficiale, ma pure in quella, molto più umile ma non meno significativa, della vita popolare.
Il culto di san Marco a Venezia ebbe tuttavia alcune particolarità. Non fu tanto il santo invocato da alcuni devoti (non molti furono, del resto, i Veneziani - come possiamo desumere dai testamenti - che dessero ai loro figli nel battesimo il nome di Marco), ma il santo di tutto il popolo, il santo di tutto lo Stato. "Come si espandeva necessariamente la chiesa di S. Marco (dalla prima costruzione partecipaziana a quella orseoliana, più o meno restauro o completo rinnovamento della prima, a quella contariniana della fine del secolo XI), così il patronato dell'Evangelista su Venezia lievitava in vera e propria ideologia dello Stato": così il Lebe (52). La stessa basilica, oltre che essere "capella ducalis palatii", è anche, nei suoi mosaici, una rappresentazione delle storie marciane, oltre e accanto alla "Biblia pauperum" delle scene dell'Antico e del Nuovo Testamento. Nelle cappelle di sinistra e di destra del presbiterio (mosaici della prima metà del XII secolo) sono raffigurati i principali avvenimenti della vita del santo (7 scene in quella di sinistra) e le vicende del suo trafugamento e dell'accoglienza a Venezia (7 scene in quella di destra), episodi in parte ripetuti nei mosaici della cappella Zen (ex atrio destro). Questi ultimi sono piuttosto "discorsivi e popolari" e insistono sul tema della "divina praedestinatio" del santo a patrono di Venezia (l'annuncio dell'angelo, san Pietro che consacra Ermagora vescovo di Aquileia, miracoli e martirio). Nel transetto destro, invece, in alcuni mosaici sono riprodotte le scene dell'"inventio". Anche qui, quindi, la "passio ", la "translatio ", l'"inventio". Più accentuatamente politico-religiosa è la rappresentazione del santo, accanto agli altri patroni di Venezia, ma in posizione centrale e vicino a san Pietro, al sommo dell'abside centrale del presbiterio, come pure quella del santo in "pendant" con la Vergine e, assieme a lei, in funzione di intercessore presso Cristo nella lunetta della "Deesis", sulla parete interna presso l'ingresso principale. E si tratta, in questi casi, dei mosaici più antichi della basilica, eseguiti all'alba del I loo. E, ancora con significato politico-religioso, è la sostituzione, avvenuta nel 1545 con probabile cartone di Lorenzo Lotto, del Cristo "Pantocrator" del catino della porta centrale con la figura del santo vestito in abiti pontificali, pronto a cantar messa, secondo il racconto dell'"inventio". Nell'entrare in basilica, ci si imbatte nella figura del santo patrono.
Anche i sei bassorilievi delle tribune inferiori, fiancheggianti il presbiterio, opera notevole di Jacopo Sansovino, rappresentano 6 episodi della vita di san Marco, e così pure I o degli smalti della pala d'oro e 14 scene del paliotto gotico del 1300.
Felice Alessandria che questo invitto martire di Cristo [san Marco> ha reso rosseggiante con il sangue del suo sacrificio, ma ancor più beata e felice Venezia, scelta da lui a custodire il prezioso tesoro del suo corpo. Da tutte le parti del mondo sono pervenute a te meravigliose ricchezze, ma questa gemma celeste, posta nella tua chiesa, ti innalza al di sopra di ogni dignità. Questo tesoro infatti non può neppure esser messo a confronto con i più preziosi metalli e supera ogni genere di ornamento (53).
Così nel suo terzo discorso in onore di san Marco si pronunzierà san Pier Damiani, raccogliendo il pensiero comune pur esaltandolo nel suo panegirico.
Culto di chiesa e di Stato contemporaneamente. Del resto - come osserva il Lebe - "già in quest'epoca [e siamo nei secoli XI-XII> la pietà dei veneziani era cosa affatto peculiare. Non che lo Stato lagunare, che nella sua genesi ebbe dapprima un'impronta bizantina e poi una occidentale-orientale, abbia assunto un'evoluzione ecclesiastico-religiosa del tutto diversa dal resto dell'Italia; elementi in comune ve ne furono a sufficienza. Ma certo già allora sono rilevabili tratti che fanno pensare a un principio che in seguito emergerà spiccatamente e che può essere sintetizzato nel motto 'prima Veneziani e poi cristiani'" (54). Anche se non si può essere del tutto d'accordo nella conclusione, è però certo che, pure nel culto di san Marco, si rivelò quella religiosità laica che fu una caratteristica della religione e della politica veneziane. L'anno 1000 Pietro Orseolo ricevette dal vescovo di Olivolo un "vexillum triumphale" con l'effigie di san Marco. Stava partendo per la conquista della Dalmazia e san Marco, da santo protettore difensivo quale era stato, cominciava a diventare patrono offensivo dello Stato; accanto al nome della nazione "Venecia", le monete riportano anche quello del patrono dello Stato, "Marcus" e, ben presto, anche se con lineamenti alquanto rozzi e grossolani, ne riprodurranno l'immagine (55).
Venezia avrebbe, infine, trovato il proprio posto definitivo nella storia come Repubblica di san Marco e il suo prosperare sarebbe stato una prova tangibile del costante favore del santo.
Sul molo in faccia al bacino, quasi a chiudere e a custodire la piazza e ad accogliere i naviganti al loro ritorno in patria, si levano due superbi monoliti di granito orientale rosso e bigio, coronati da capitelli di tipo veneto-bizantino su cui poggiano il leone di san Marco e la statua marmorea di san Teodoro: il Marco e Tòdaro dei Veneziani.
Ora, si discute se san Teodoro sia stato il primo patrono di Venezia, sostituito poi da san Marco, dopo l'arrivo nella città del corpo dell'evangelista e la scelta di Giustiniano Partecipazio. Dal Cattaneo al Saccardo e ai simpatizzanti dell'assoluto bizantinismo veneziano si sostiene che esistesse una chiesa di San Teodoro nell'area dell'attuale piazzetta dei leoncini (ufficialmente piazzetta Giovanni XXIII) in parte abbattuta e in parte inglobata nella fabbrica del primo San Marco (830) (56). Si deve però osservare come il noto testamento di Giustiniano Partecipazio così esatto nelle determinazioni topografiche dove avrebbe dovuto sorgere il primo San Marco, mantenga un assoluto silenzio in proposito e gli assaggi archeologici compiuti negli ultimi anni non suffraghino affatto l'ipotesi. Certamente esisteva un edificio sacro dedicato al santo, contiguo a San Marco; e Giovanni diacono, testimone oculare, lo vide bruciare nell'incendio del 976. Ma non sappiamo se si trattasse di una chiesa o di un semplice sacello, né tanto meno se esso fosse precedente, o - come è più probabile - posteriore al primo San Marco. Anche il cosiddetto "Kalendarium venetum" della seconda metà dell'XI secolo ne contiene la memoria alla data del 9 novembre secondo l'uso della Chiesa latina. Il santo di cui si tratta è però Teodoro di Amasea, confessore e non martire. Evidentemente si fa, ad un certo momento, una confusione con l'omonimo santo di Eraclea nel Ponto, soldato e martire (57), confusione che appare pure nei mosaici marciani. Esso si trova infatti rappresentato ben tre volte accanto a san Giorgio. Si tratta dei due grandi santi soldati vincitori del demonio, raffigurato nelle sembianze del dragone, e sono effigiati in vesti bizantine con un libro e una crocetta, simboli della fede cattolica professata con il martirio. San Teodoro, le cui spoglie sarebbero arrivate a Venezia nel 1100 assieme a quelle di san Nicola di Mira, è raffigurato pure sul battistero in un altorilievo del secolo XIV, nella cappella di San Pietro accanto ad altri patroni della città e nei più recenti mosaici della sacrestia (secolo XVI): qui in atto di uccidere il drago. Resta però il fatto che esso non figura tra i patroni ufficiali dello stato, san Pietro, san Marco, sant'Ermagora e san Nicola, effigiati nei mosaici dell'abside centrale risalenti al dogado di Domenico Silvo (1071-1085) con l'iscrizione "A questi quattro è affidata la cura e l'onore dei Veneti. Con questi protettori la repubblica sta salda, cresce e risplende in terra e in mare".
Ci sembra tra l'altro almeno strano per i sostenitori della priorità del patrocinio teodoriano su quello marciano che un culto ufficiale verso il santo venga fissato solo il 21 settembre 1450 in Pregadi su richiesta del vescovo di Castello, Lorenzo Giustiniani. Nella decisione di fissarne la festa il 9 novembre si dice: "Da tanto tempo san Teodoro fu protettore della nostra città con san Marco evangelista e dalla loro intercessione tutte le nostre vicende sono state felici per la clemenza divina". Si accenna, quindi, a una devozione antica, ma non a una priorità su san Marco e pure la richiesta del Giustiniani lo accomunava ad altri patroni: "tra gli altri protettori dell'alma città di Venezia fin dall'inizio il gloriosissimo santo martire Teodoro fu ritenuto uno dei principali e noi lo abbiamo venerato sempre con grande e particolare devozione" (58). Anche se si parlava di "ab initio", Flaminio Corner, riportando nelle sue Ecclesiae Venetae questo documento, dichiara come san Teodoro sia "exsurgentis urbis protector", fondandosi sulla leggenda narsetiana secondo la quale, durante la guerra greco-gotica, il condottiero bizantino avrebbe edificato una chiesa in onore di san Teodoro, protettore dell'esercito (59). L'origine della priorità del patrocinio teodoriano va, quindi, attribuita a quella leggenda, presente nei cronisti altinate e gradese (secolo XI). Il passaggio dalla leggenda alla coscienza nazionale sarebbe avvenuto al tempo della guerra di Chioggia (1377-1381), durante la quale, se stiamo al racconto del Sansovino, che riprende un tratto di un poema di Bernardo Zorzi, sarebbe stato inalberato il vessillo teodoriano e il santo considerato patrono delle armi veneziane (60).
Il culto a san Teodoro, che possiamo datare certamente al secolo X, sarebbe venuto da Bisanzio, dove esistevano ben sei chiese a lui dedicate, o da Ravenna, dove, nel 68o, l'esarca Teodoro aveva costruito una chiesa in suo onore. Il titolo è presente però pure a Roma e il "dies liturgicus" veneziano era quello romano (il 9 novembre).
Certamente, esso fu incrementato con l'arrivo delle reliquie del santo (1100) e avrebbe avuto il suo culmine durante la guerra di Chioggia, fatto che determinerà l'erezione della sua statua sul pilastro del molo (61), accanto al leone marciano sussistente sin dal 1293.
Alla bocca di porto del Lido i Veneziani avevano eretto, sin dal 1040 o almeno dal 1053, una chiesa in onore di san Nicola, patrono dei marinai, cui si era ben presto aggiunta la costruzione di un monastero benedettino (62). Da lì, nel 1099, una flotta, al comando del figlio del doge Michele Michiel e accompagnata dal vescovo di Castello, Enrico Contarini, era partita con l'obiettivo dichiarato di portar aiuto ai crociati, ma pure con quello di prevenire Genovesi, Pisani, Provenzali e Normanni nella conquista di nuove posizioni nel Mediterraneo. Dopo aver svernato a lungo a Rodi (dalla fine di ottobre del 1099 a metà luglio del 1100), la squadra navale veneziana, inspiegabilmente, deviò la rotta verso le coste della Licia per ancorarsi in prossimità di Mira. Come mai questa deviazione, visto che la probabile meta era Antiochia? Certamente ci saranno stati anche motivi politici e militari, ma l'anonimo estensore della Translatio Sancti Nicolai (63) giustifica la diversione con lo scopo di ricercare il corpo di san Nicola che risultava già patrono di Venezia (e si sa quanto nel Medioevo un patrocinio risultasse molto più efficace quando fosse accompagnato dalla presenza delle reliquie del patrono stesso), "come se tanto apparato militare fosse stato allestito per far collezione di nuove reliquie e accrescere il patrimonio cultuale popolare" (64). Fino a questo punto certamente no, ma, dato che si trovavano da quelle parti, ai Veneziani, che - non dimentichiamo - erano accompagnati dal vescovo di Castello, poteva far comodo trafugare una reliquia così preziosa per dei marinai. Ammesso che essa fosse ancora a Mira, perché i Baresi si vantavano di averlo già portato via nel 1071 o nel 1087 e di custodirlo nella sontuosa arca eretta in suo onore (65).
Di ciò si erano fatti forti i custodi del tempio di San Nicola a Mira, che avevano ammesso, dopo conveniente tortura, di aver solo il corpo di un altro san Nicola, zio del grande vescovo. Ma quando i Veneziani, certamente non molto soddisfatti di poter portar via il corpo dello zio, stavano per ripartire - stando sempre alle affermazioni dell'ingenuo narratore della "translatio" -, furono chiamati indietro da alcuni ritardatari che avevano notato uno straordinario profumo in un luogo riposto della chiesa di San Nicola. Evidentemente, nascondendolo, gli abitanti di Mira avrebbero beffato i Baresi e ora tentavano di beffare pure i Veneziani. Ma questi vollero andare più a fondo e ritrovarono il corpo del santo. Fu subito inviata una nave a recare il lieto annunzio a Venezia, mentre la flotta ritornava dopo aver conquistato Caifa, modesto porto commerciale (66); ma per l'agiografo il corpo di san Nicola costituiva il bottino più prezioso.
Le lagnanze del vescovo di Mira e la preghiera di quello di Castello, così come sono riferite nel racconto, ci danno la percezione del valore di quel corpo e di quel patrocinio. "O santissimo padre Nicola [recita il primo, che si vede privato del corpo del santo da parte dei Veneziani> perché vuoi lasciare la tua patria? Perché lasci le tue pecorelle prive del pastore? Perché lasci che costoro [i Veneziani> ti portino via con la forza? O ti è venuta meno la tua solita potenza [si noti anche qui il sia pur indiretto collegamento tra il possesso del corpo e il patrocinio> o hai valutato che i Veneziani ti siano più fedeli di altri? O crudeli Veneziani, perché ci avete fatto questo? Perché avete distrutto questo santo luogo, spezzati gli altari, portati via i patroni e con loro i patrocini? Sebbene i Turchi abbiano distrutta la città, ci hanno lasciato questa grande speranza di salvezza, e voi che siete cristiani avete voluto mortificare noi Miresi e tutta la Grecia". Ancora una volta vien qui richiamata nelle parole del vescovo di Mira la stretta connessione tra la presenza fisica del patrono e il patrocinio, per cui, tolto l'uno, viene necessariamente a mancare l'altro; si fa il confronto tra i "crudeles Venefici" e i Turchi, dal momento che questi ultimi avevano lasciato alla città conquistata "magnam spero salutis", cioè il corpo di san Nicola, mentre i Veneziani hanno distrutto chiesa e altari per scovarlo; e si avanza l'ipotesi di una maggiore devozione dei Veneziani stessi verso san Nicola. Ma, a proposito di quest'ultima affermazione, si tenga conto che si tratta di un veneto intenzionato a sostenere l'autenticità delle reliquie in possesso di Venezia nei confronti di quelle presenti a Bari (67). È proprio quella "magna spes salutis" che i Veneziani intendono acquistare con il trafugamento del corpo del santo; e la preghiera del vescovo Contarini è altrettanto ingenua quanto significativa in proposito. "Santissimo vescovo Nicola [egli così, a sua volta, prega> accogli i voti di noi tuoi fedeli. Degnati di visitare la tua Venezia [si noti quel "tuam" segno di devozione e patrocinio precedenti, ma, del resto, san Nicola poteva ritenersi protettore di tutte le città di mare> e l'Occidente. All'Oriente e ai Greci basti averti vescovo e dottore e aver custodito il tuo corpo per quasi settecento anni. Ora l'Occidente e i Latini si rallegrino della tua presenza, dei tuoi miracoli, dell'aiuto delle tue preghiere e dei tuoi meriti per raggiungere il cielo". Secondo il Contarini è l'ora dei Veneziani, che effettuano la "translatio" in funzione di un più sicuro patrocinio. Al leone (san Marco) si è aggiunto ora il nocchiero (san Nicola) e Venezia può procedere più tranquilla nei suoi commerci, nella sua espansione. "Beata Venezia [conclude l'autore della "translatio"> che possiedi il Leone che ti fa vittoriosa in guerra e hai il Nocchiero che non teme tempeste in ma re. Hai rapito il Leone con ingegnoso furto da Alessandria; hai strappato alla Grecia il Nocchiero con una grande forza".
Arrivato a Venezia il corpo del santo, e pure quello dell'omonimo zio, si accese una calorosa disputa sul luogo dove collocarlo, disputa in cui il Cessi vede affiorare un rilevante problema politico: quello della contrapposizione dei due poteri, il doge e il patriarca di Grado, ormai residente stabilmente a Venezia nel suo palazzo di San Silvestro. Vi era infatti chi voleva accordare a san Nicola asilo comune a quello dell'evangelista e collocarlo nella basilica marciana, chi dargli un domicilio proprio a fianco di San Marco e quasi in concorrenza con lui (tesi patriarcale), e chi, infine, voleva sistemarlo nella sua sede più naturale: la già esistente chiesa di San Nicolò di Lido. Prevalse quest'ultima tesi e il corpo del santo fu deposto nella chiesa che già portava il suo nome (68). Veniva così a cadere, con questa scelta, quella pericolosa contrapposizione che avrebbe potuto nascere tra l'autorità civile e quella ecclesiastica (69) (ma il vescovo di Castello era dalla parte del doge), in un periodo in cui, nelle sinodi romane del 1024 e del 1053, Grado aveva tentato di riproporre "la nostalgica dottrina" della "Nova Aquileia" (70). Anche se a Roma (e il severo richiamo di papa Pasquale, nel 1108, a vescovi e abati, al doge e al popolo stava a testimoniarlo) si era preoccupati di un certo qual disprezzo verso l'autorità metropolitica gradese, di cui anche la questione del sito per il corpo di san Nicola era stato un segno, disprezzo che ribadiva la concezione di una Chiesa in un certo senso indigena e profondamente legata col potere statale.
Ma non bisogna neppure dimenticare che quello era il tempo in cui, per usare un'espressione di Giorgio Cracco (71), i mercanti si preparavano alla riscossa. Verso la fine di quel secolo, alcuni messi veneziani si recheranno a Roma da papa Innocenzo III proprio per far ritirare le scomuniche a chi trafficava con i Saraceni. "La nostra città non vive di agricoltura, ma di marineria e di commerci" avevano affermato. Ma papa Innocenzo non si era lasciato commuovere e aveva soggiunto che andassero pure e con la sua benedizione in Egitto e Babilonia; ma aveva puntigliosamente indicato quali erano le merci il cui commercio era proibito e che dovevano restare tali.
Tale fatto può dimostrare come Venezia ormai, a quei tempi, fosse centro prevalentemente, anche se non soltanto, mercantile. Già al cadere del secolo IX il sistema commerciale si era organizzato: viaggi in gruppo, navi da guerra a protezione, traffico fluviale, luogo d'incontro fra le grandi aree monetarie del tempo, buoni rapporti con gli Arabi, accordi con gli Slavi, cerniera tra Oriente e Occidente, smistamento di prodotti. E più ancora nel commercio erano stati coinvolti con i loro capitali i membri dei ceti dominanti (lo "stans", il finanziatore che rimaneva in patria ad aspettare con ansia l'interesse del capitale investito) e che si erano uniti ai "procertantes", i mercanti nel vero senso della parola, coloro che viaggiavano, rischiavano e lottavano. Ciò aveva contribuito a creare la "mentalità del mercante" e pure la loro ascesa e la loro fortuna. Non ci sarebbe stato niente di strano, quindi, se anch'essi avessero cercato un loro protettore, anche per distinguerli meglio da chi mercante non era, e, in tal caso, dopo il trasporto del suo corpo a Venezia, diventava logica la scelta di san Nicola, protettore appunto dei mercanti (72).
Ma anche così una divisione tra mercanti e non, tra una classe ascendente e una già affermata, non avrebbe certo giovato alla tranquillità e al progresso della Repubblica. Da qui la decisione del governo, appoggiato dal vescovo, sia pur in contrasto con il patriarca, bisognoso a sua volta di appoggi per la sua lite con quello di Aquileia.
In san Nicola i Veneziani ravvisavano il patrono dei marinai e dei mercanti e dalla sua chiesa si partirà per il solenne sposalizio del mare nel giorno dell'Ascensione. La sua immagine ebbe immensa fortuna nella tradizione iconografica locale. A cominciare dalla basilica marciana dove, oltre che tra i principali patroni nel catino absidale, come abbiamo visto, è ritratto sulla facciata (anche qui tra i patroni, e addirittura due volte, ma la seconda è un'arbitraria sostituzione ottocentesca al posto di san Gerardo che, a sua volta, aveva sostituito sant'Apollinare) e in più luoghi nell'atrio e all'interno. Anche in altre chiese esso era venerato e raffigurato spesso sulle mura esterne, talvolta con san Cristoforo, in funzione difensiva dal pericolo dell'alta marea, fenomeno cui Venezia andava spesso soggetta, mentre nell'onomastica Nicola, fino alla caduta della Repubblica, fu tra i più diffusi nelle varianti Nicolò e Nicoletto in ogni genere di persone: nobili e popolani. A ricordo della conquista di Costantinopoli (1204) poi verrà costruita in suo onore una cappella nel palazzo ducale e, ogni anno, il 6 dicembre, festa del santo, il doge vi ascoltava la santa messa. Fu pure patrono di diverse scuole d'arti e mestieri, quali quella degli "spaderi", dei "corteleri", dei segatori, dei cimatori di panni, dei magazzinieri, dei pescivendoli, dei "barcaroli" e di quella della "nazione" greca.
Il "proprium" della liturgia veneziana ci sembra vada identificato in due direzioni: la formazione del calendario e il modo di celebrare le feste. Un capitolo a sé è poi costituito dalla liturgia civile della basilica marciana, di cui forniamo qui un esempio nell'intronizzazione del doge.
Circa la formazione del calendario il più antico tra i calendari riferentisi a Venezia deve ritenersi senz'altro il Kalendarium Venetum saeculi XI (73), L'epoca della composizione può essere ulteriormente precisata tra il 1054, contenendo la festa di san Leone papa (il san Lio dei Veneziani) morto e canonizzato in quell'anno, e il 1074, perché vi mancano i papi santi introdotti in quest'anno nel calendario da papa Gregorio VII per valorizzare ancor più il papato e la figura del papa.
Prima di quel tempo, infatti, ci pare non si possa parlare ancora di vero e proprio calendario veneziano, ma, se mai, aquileiese o gradese per l'influsso determinante di quelle metropoli e la mancanza di una tradizione religiosa locale accentuata, salvo il caso di san Marco, pur esso, del resto, aquileiese e gradese. Per il periodo precedente si dovrebbe, se mai, parlare di una preistoria più che di una storia: preistoria per quanto riguarda una tradizione indigena e storia della formazione di questa piattaforma iniziale da cui essa si svilupperà e del contributo che le varie fonti - Alessandria, Roma, Bisanzio attraverso Aquileia, Grado e Ravenna - hanno dato ad essa, per non parlare degli influssi africani o gallici. Verso il Mille poi, e ciò in concomitanza con il riordinamento ecclesiastico delle lagune e la costituzione dei sei episcopati attorno a Grado, con la diversa concezione giuridica nei confronti della stessa Grado, con il cadere degli ultimi legami politici con Bisanzio, tale tradizione si enuclea e si sviluppa.
Diversi fattori vi contribuirono e non tutti facilmente identificabili, ma possiamo indicarne chiaramente tre: l'intensificarsi della costruzione di nuove chiese, che, tra l'altro, è contemporaneamente effetto e causa di nuovo o più accentuato culto; l'arrivo di reliquie soprattutto dall'Oriente (e più di una volta è in questa circostanza che va constatato l'influsso orientale piuttosto che in tradizioni antichissime: ad esempio per san Saba, san Paolo eremita, santa Marina, san Giovanni Elemosinario, sant'Antonio abate); il ringraziamento dovuto al santo o alla santa nel cui giorno festivo era accaduto qualche avvenimento politico, civile o militare, favorevole alla Serenissima (i santi Vito e Modesto per la vittoria sulla congiura di Baiamonte Tiepolo nel 1310, santa Marina per la conquista di Padova, santa Giustina per la vittoria di Lepanto del 1571, ecc.). Anche se ciò avviene piuttosto tardi, ma qui va segnalato come mentalità.
Le prime sinodi provinciali gradesi o diocesane castellane di cui abbiamo memoria (quella gradese del 1296 e quelle castellane del 1250 e del 1276) ordinano in proposito di celebrare le feste dei santi titolari di chiese e quelle dei corpi in esse conservati (e per il Medioevo "corpus" era una qualsiasi reliquia consistente), di commemorare al mattutino e al vespero i santi patroni Ermagora, Fortunato e Marco (nella diocesi castellana l'ordine però è invertito: Marco, Ermagora, Fortunato), di pregare per il papa, il vescovo "et pro duce nostro et pro bono statu Venetiarum" (74). Messali, lezionari, evangeliari e breviari ci permettono di seguire l'evoluzione del ciclo santorale e pure di quello riguardante l'anno liturgico (qui la romanizzazione è più forte) (75). In genere, vi si notano persistenze orientali, soprattutto nel "dies liturgicus" (cioè il giorno della celebrazione della festa), e forti accumuli indigeni dovuti a fatti politici o militari o all'arrivo di reliquie.
Il patriarca Matteo Contarini però, nel 1456, anche in relazione al trasferimento del titolo patriarcale a Venezia e della conseguente fine di quello gradese, chiederà a papa Callisto III di adottare nel patriarcato e nelle diocesi suffraganee il rito romano, provocando la scomparsa di cerimonie liturgiche e pure di alcune feste. Resteranno il modo di cantare, la così detta musica patriarchina che non differisce granché dal canto gregoriano (76), e alcune consuetudini sia nel rituale che nella devozione paraliturgica e popolare (celebri, tra l'altro, le speciali litanie mariane).
Conserverà invece il rito patriarchino, detto da allora anche "marcolino ", la basilica di San Marco fino al 19 ottobre 1807, quando un decreto del regno italico vi trasferirà la cattedrale da San Pietro di Castello.
Dall'ordine del primicerio Matteo Venier di rivedere il rituale e ripristinare l'antica purezza, dai cerimoniali antichi conservati nell'Archivio dei consultori "in iure", dagli scritti di Pace e di Macchietta veniamo a conoscerne alcune caratteristiche, quali l'uso della "Itala vetus" a preferenza della Volgata nei testi liturgici, il bacio delle reliquie prima dell'offertorio, la copertura dei crocefissi e delle immagini sacre durante tutta la quaresima, nove unzioni per il rito dei moribondi, l'anello all'anulare destro nella celebrazione del matrimonio. Il cerimoniale del Pace contiene anche un Index rerum obsoletarum quae non sunt in usu: si tratta di una cinquantina di particolari di poca importanza quali il canto del "Passio" il Venerdì Santo da parte del diacono e non dei cantori, o il bacio dato al doge dal primicerio il giorno di Pasqua dopo il "Surrexit Christus" (ora sarebbe assurdo farlo, nota il Pace nel 1679) (77).
Un cenno meritano pure le funzioni "ducali" che si svolgevano nella basilica di San Marco, la quale - ricordiamolo - era la cappella del doge. Il doge aveva non pochi privilegi cerimoniali, tra cui quello di tener coperto il capo, anche durante la messa, col camauro, probabile influsso dell'Oriente, dove tener il capo coperto era, ed è tuttora, segno di rispetto; veniva poi incensato, baciava il vangelo e riceveva la pace prima del celebrante ed era assistito da sei canonici in piviale che con lui recitavano il Kyrie, il Gloria, il Credo e l'Agnus Dei. San Marco era poi il luogo della solenne incoronazione del nuovo doge; egli vi scendeva, mentre i canonici salivano ad incontrarlo, nell'anniversario dell'incoronazione e in altre particolari solennità, accompagnato da uno sfarzoso corteo. Precedevano i così detti trionfi, e cioè otto stendardi (due bianchi, due paonazzi, due rossi e due turchini), otto trombe d'argento, l'ombrello, la mantellina, il vestito di ermellino e sei pifferi portati da nobili sfarzosamente vestiti. Seguivano il cancelliere e un chierico con un cero acceso, sei canonici in piviale, due gastaldi, sei segretari ducali, il cappellano del doge, due cancellieri, il cancellier grande, il ballottino, due armigeri portanti la sedia e il cuscino su cui, durante la celebrazione, il doge si sarebbe seduto e inginocchiato, il doge accompagnato dagli ambasciatori presenti, tra cui il Nunzio papale. Lo seguivano quattro camerieri sorreggenti il corno ducale, e un patrizio con lo stocco, il giudice di proprio, i consiglieri, i tre capi delle Quarantie, i tre Avogadori di Comun e i tre capi del Consiglio dei Dieci e, infine, i senatori a due a due (78).
Un segno, anche questo, non soltanto di sfarzo ducale, ma pure di onore a sanMarco (79).
Alla fine di questa breve sintesi sui culti e la liturgia veneziana dalle origini al 1200 crediamo di poter trarre alcune conclusioni: anzitutto la venerazione iniziale per i martiri e vescovi locali e inoltre per la Madonna e san Pietro. Segno della volontà di rimanere attaccati alle origini, a quel "sanguis martyrum semen christianorum", e ai primi evangelizzatori. Il culto poi si estende a santi bizantini per influenze politiche o a santi come Giustina, il cui culto si diffonde anche per i miracoli operati in tutta la Venezia, con intenzioni devozionali e forse pure di protettrice delle vigne (80). Arrivò poi san Marco che da una leggenda aquileiese e poi gradese, con il trasferimento del suo corpo a Venezia nell'828 e l'arricchimento della "passio" in funzione veneziana, diventa il santo veneziano per eccellenza: il patrono che viene quasi a identificarsi con la città.
Abbiamo cercato di indagare le motivazioni religiose, politiche (il Grégoire, e non a torto, parlerebbe di "sfruttamento politico" del santo) (81) che hanno portato alla decisione del furto del suo corpo, del collocamento in "capella nostri palatii", ché tale fu sempre considerata fino alla caduta della Repubblica la basilica. Sono molteplici le ragioni che si intrecciano e che creano anche verso il santo, effigiato nel vessillo e nelle monete, quasi un tipo di "religiosità laica". Anche quando si vorranno contrastare i pretesi diritti del papa (politici o religiosi che siano) lo si farà nel nome di san Marco.
Infondata la sua contrapposizione a san Teodoro, facilmente superata quella a san Nicola, autorità religiosa e civile, soldati e mercanti, nobili e popolari troveranno nell'interesse supremo dello Stato veneziano la loro unità nel santo evangelista, fino a farlo sostituire (e non sarà solo un caso) al Cristo "pantocrator" della porta orientale d'entrata. Non quasi volessero renderlo preminente al Cristo, ma perché a Lui volevano arrivare attraverso san Marco, il grande intercessore, l'unico vero patrono. La particolare liturgia ne riporterà il culto alle origini aquileiesi, mentre la sua immagine in bandiere e monete segnerà la strada dell'avvenire. Una strada lunga e gloriosa, ma anche ardua e difficile, seminata da vittorie ma anche da dure sconfitte terrestri e navali. Ma sempre nel nome di san Marco Venezia supererà le difficoltà e si imporrà quale uno dei maggiori stati d'Italia e d'Europa.
1. Cf. Silvio Tramontin, Origini cristiane, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 102-123 e ora Giorgio Fedalto, Il cristianesimo nelle Venezie. Studi storici sulle origini, Padova 1988.
2. La lettera di Cassiodoro va datata circa il 537-538, è edita in Cassiodorus, Variae, XII, 24 e in Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, a cura di Roberto Cessi, I, Secoli V-IX, Padova 19422, pp. 2-4 e pure in M.G.H., Auctores antiquissimi, a cura di Theodor Mommsen, XII, 1894, pp. 379-381.
3. Lo scarso numero di martiri locali è una prova dell'arrivo piuttosto tardo del cristianesimo nelle città marittime e dell'entroterra. Cf. Francesco Lanzoni, Le diocesi d'Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), II, Faenza 1927, pp. 866-944.
4. Cf. Martirio di Policarpo, 18, in I Padri apostolici, II, a cura di Guido Bosio, Torino 1942, p. 240.
5. Cf. Aron J. Gurevic̆, Contadini e santi. Problemi della cultura popolare nel Medioevo, Torino 1986, p. 67.
6. Il testo è dal De vita Sancti Martini, IV, vv. 630-679, riprodotto in M.G.H., Auctores antiquissimi, IV, I, a cura di Friedrich Leo, 1881, pp. 368-369 e P.L., 88, col. 424.
7. Sui problemi del culto dei santi in genere cf. le due ottime sintesi di Pierre Jounel, Il culto dei santi, nel vol. IV, La liturgia e il tempo, in Aimé-Georges Martimort, La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, ed. rinnovata, Roma 1984, pp. 133-135 e la omonima voce dello stesso in Nuovo dizionario di liturgia, a cura di Domenico Sartore e Achille Triacca, Roma 1984, pp. 1338-1355; i volumi di Peter Brown, Il culto dei santi. L'origine e la diffusione di una nuova religiosità, Torino 1983; A.J. Gurevic̆, Contadini e santi; la raccolta di saggi di André Vauchez, Religion et société dans l'Occident médiéval, Torino 1980; e la più recente Histoire des saints et de la saintété chrétienne, a cura di Francesco Chiovaro in corso di pubblicazione a Parigi dal 1986 e Réginald Gregoire, Manuale di agiologia. Introduzione alla letteratura agiografica, Fabriano 1987.
8. Vedere il testo in Cromace D'aquilée, Sermons, a cura di Joseph Lemarié, Paris 1969, pp. 92-101 e la traduzione italiana in Cromazio Di Aquileia, Catechesi al popolo. Sermoni, a cura di Giuseppe Cuscito, Roma 1979, pp. 173-178.
9. Cf. Paul F. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum, Italia pontificia, VII/II, Venetia et Histria, Berlin 1925, p. 78.
10. Cf. Vittorio Piva, Il patriarcato di Venezia e le sue origini, I, Venezia 1938; II, a cura di Silvio Tramontin, Venezia 1960.
11. Sono note le discussioni antiche e recenti sull'appartenenza alla cattedrale di Eraclea o a quella di Torcello dell'iscrizione del 639 che hanno per principali sostenitori della prima ipotesi il Cessi, della seconda il Pertusi. Si vedano le opinioni pro e contro riferite alle pp. 33-34 del saggio di Agostino Pertusi, L'iscrizione torcellana dei tempi di Eraclio, "Bollettino dell'Istituto di storia della società e dello stato veneziano", 4, 1962, pp. 9-38.
12. Cf. Flaminio Corner, Apparitionum et celebriorum imaginarum Deiparae Virginis Mariae in civitate et dominio Venetiarum enarrationes historicae, Venezia 1760, p. 52.
13. Cf. il documento nel Museo Civico di Padova, Archivio, Liber partium Consilii magnificae comunitatis Paduae, c. 165v, riprodotto pure in Documenti relativi, I, pp. 1-2, e sul documento stesso Vittorio Lallarini, Il preteso documento della fondazione di Venezia e la cronaca del medico Jacopo Dondi, in Id., Scritti di paleografia e diplomatica, Padova 19692, pp. 99-116.
14. La questione dei due Teodori è piuttosto complessa. È certo che, mentre nella Chiesa greca sussistono già da tempi remoti (ma non oltre il secolo IX) tutti e due i Teodori, lo stratelates appare però solo nei menologi del secolo X. Non risulta neppure nel Kalendarium Venetum saeculi XI ex codice manuscripto membranaceo bibliotheca S. Salvatoris Bononiae, edito da Stefano Borgia, Roma 1773, che si fa risalire alla metà del Mille. Teodoro da Amasea godeva invece di grande culto pure in Occidente e tutti i martirologi storici ne registrano la festa il 9 novembre, come pure il citato Kalendarium Venetum. Il suo corpo sarebbe stato trasportato a Venezia nel 1096 assieme a quello di san Nicola, ma il racconto della "translatio" lo dice confessore. Forse si trattò di un errore commesso dai Veneziani nella fretta, visto che il corpo del santo soldato martire sarebbe stato trasportato al tempo delle crociate a Brindisi, dove tuttora si conserva e si onora. Il corpo di san Teodoro di Eraclea (o presunto tale) fu trasferito invece a Venezia nel 1267 da Marco Dauro e collocato nella chiesa del Salvatore, traslazione accompagnata, secondo il consueto genere letterario, da tutta una serie di fatti miracolosi. Per la presenza dei miracoli nelle passiones cf. testo cit. in n. 7. Sulla questione del san Teodoro primo patrono di Venezia cf. qui sopra all'altezza della n. 56.
15. Per san Menna cf. le varie redazioni della passio in Bibliotheca Hagiographica Latina, II, Bruxelles 1900-1901, pp. 864-865, nrr. 5921-5924; Pio Franchi De' Cavalieri, Osservazioni sulle leggende dei santi martiri Mena e Trifone, Roma 1908; Karl Maria Kaufmann, Zur Ikonographie der Menas Ampullen, Il Cairo 1910. I continui e diretti rapporti con l'Oriente ne hanno trasferito culto e immagini soprattutto nelle regioni venete. Lo troviamo più volte rappresentato nei mosaici marciani e una targa d'avorio del VI secolo che lo rappresenta come cavaliere (forse una "contaminatio" fra le "passiones" che lo facevano soldato e quelle che lo indicavano come semplice cammelliere) faceva parte della cattedra di san Marco a Grado: ora si trova nel Museo Sforzesco di Milano. Narsete avrebbe collegato al titolo di san Menna quello di san Geminiano, l'abate modenese che godeva di culto in vari luoghi, compresa Costantinopoli, e che troviamo onnipresente in molte vicende tardo antiche di popoli oppressi da barbari invasori. Per Venezia basti ricordare la sua intromissione, per così dire, nella leggenda attilana e nella morte di Totila operata nell'Origo e nel Chronicon Altinate: cf. Antonio Carile, La formazione del ducato veneziano, in Antonio Carile - Giorgio Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, pp. 61 e 80.
16. Cf. per san Teonisto martire Silvio Tramontin, San Teonisto martire ad Altino e i suoi compagni, in AA.VV., Culto dei santi nella terraferma veneziana, Venezia 1967, pp. 237-252 dove è riprodotto pure il testo della "passio" e Antonio Niero, Santi di Torcello e di Eraclea tra storia e leggenda, in AA.VV., Le origini della Chiesa veneziana, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 49-51 (pp. 31-76). A san Teonisto è possibile aggiungere forse anche i santi Tabra e Tabrata.
17. Sulle visioni abbondantemente presenti nelle leggende agiografiche cf. le opere generali citate in n. 7 e, in particolare, il Gureviè e il Brown.
18. Si tratta probabilmente del santo martire di Apamea in Siria, che nella basilica di Piacenza appare in coppia con santa Giustina. La devozione liturgica reale e non leggendaria andrebbe allora collocata nel secolo X, quando le relazioni tra le lagune venete e i centri fluviali padani erano piuttosto frequenti.
19. Per le citazioni puntuali delle visioni del prete Mauro tratte dal Chronicon Venetum e dal Chronicon Gradense cf. Giorgio Fedalto, Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa nella Venetia Maritima, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, pp. 395-396.
20. Ad una visione di san Magno accenna anche Andrea Dandolo, Chronica per extensum descripta, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1938, p. 95. Il racconto della leggenda è in Flaminio Corner, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis illustratae, VI, Venezia 1749, pp. 419-422. Nella posteriore edizione riassuntiva in italiano Flaminio Corner, Notizie storiche sulle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, Padova 1758, pp. 250-251 precisava che essa era contenuta in un Breviarium redatto verso il secolo XI e conservato nella biblioteca dell'eremo di Camaldoli. Il Maschietto (Angelo Maschietto, S. Magno. La sua vita, i suoi tempi secolo VII, Oderzo 1933) asseriva (pp. 8-9) di non averlo più trovato a Camaldoli, nonostante minuziose ricerche. Si notino le affinità tra le visioni del prete Mauro e quelle del vescovo Magno che potrebbero derivare quindi da un'unica leggenda anteriore.
21. O meglio, dell'incipiente bizantinismo di ritorno, quando Venezia stava intrecciando rapporti sempre più intensi con la dinastia imperiale comnena. Le visioni di san Magno sono collocate infatti in Eraclea, città bizantina, dove poco dopo, secondo un altro racconto costruito posteriormente, sarebbe stato eletto il primo "dux" o doge Paoluccio Anafesto. Il santo, inoltre, proveniva da Altino, di stirpe romana come dal nome, suddito bizantino. Facendolo risultare, per volontà di Dio, come fondatore della Chiesa veneziana, si ricollegavano in Venezia la vecchia e la nuova Roma.
22. Cf. per i "furti sacri" Patrick J. Geary, Furta sacra. Thefts of Relics in the Centrai Middle Ages, Princeton 1978, e per i commerci con i Turchi, anche se più tardivi, Franz Babinger, Reliquienschacher am Osmanenhof in XV. Jarhundert, Mnchen 1959, perché, se il Quattrocento fu il grande secolo di questo commercio, se ne verificarono anche in precedenza.
23. Per la "translatio" di san Nicola cf. qui sopra all'altezza della n. 63.
24. Per la "translatio" cf. Cerbanus Cerbanus, Translatio mirifici martyris Isidori a Chio insula in civitatem Venetam, in Recueil des historiens des Croisades, Historiens occidentaux, V, Paris 1895, pp. 321-334. Sulla cappella cf. la recente ed arricchita ristampa di Pietro Saccardo, La cappella di S. Isidoro nella Basilica di San Marco, Venezia 1987. Alcune originali intuizioni sulla vita del santo, sul suo martirio e sulla decorazione musiva sono state proposte in una tesi di laurea (La cappella di San Isidoro a San Marco, Università di Venezia, a.a. 1986-1987) da Marino Marinoni.
25. Per i trasferimenti di corpi di santi e reliquie da Costantinopoli a Venezia si veda Paul E.D. Riant, Exuviae sacrae constantinopolitanae, II, De reliquiis in Italiam advectis, Genève 1877, dove adduce la testimonianza delle fonti e il calendario delle feste che ne commemorano la "translatio", e il saggio di Antonio Niero, Reliquie e corpi di santi, in AA.VV., Culto dei santi a Venezia, Venezia 1965, pp. 181-208.
26. La citazione del Bessarione è in Cento codici bessarionei. Catalogo di mostra, a cura di Tullia Gasparini Leporace - Elpidio Mioni, Venezia 1968, p. 102. Cf. pure per i santi orientali venerati a Venezia: Silvio Tramontin, Influsso orientale nel culto dei santi a Venezia fino al secolo XV, in AA.VV., Venezia e il Levante fino al secolo XV, Firenze 1973, pp. 801-820 e Id., I santi nei mosaici marciani e Il Kalendarium Venetum, in AA.VV., Culto dei santi a Venezia, Venezia 1965, rispettivamente a pp. 133-154 e 275-327.
27. L'opera di Johannes Beleth, Rationale divinorum officiorum è in P.L., 202, coll. 14-166: la citazione è a col. 134. Quella dell'Onofri è in Fedele Onofri, Cronologia Veneta, Venezia 1682, p. 239.
28. Sul culto di san Michele cf. Maria Grazia Mara, Michele, arcangelo santo in Bibliotheca sanctorum, IX, Roma 1967, coll. 410-446 con la bibliografia ivi citata e Millénaire monastique du Mont Saint-Michel, III, Culte de saint Michel et pèlerinages au Nord, a cura di Marcel Baudot, Paris 1971, soprattutto il saggio di Armando Petrucci, Origine e diffusione del culto di San Michele nell'Italia medievale, pp. 339-352. Per i loca intitolati a san Michele in area veneta cf. Antonio Niero, Culto dei santi militari nel Veneto, in AA.VV., Armi e cultura nel Bresciano : 1420-1870, Brescia 1981, pp. 249,
252, 259 (pp. 225-272).
29. Cf. A. G. Martimort, La Chiesa in preghiera, p. 135.
30. Per il culto dei santi veterotestamentari cf. Bernard Botte, Les saints de l'Ancien Testament, "La Maison-Dieu", 1957, pp. 108-120 con i precedenti suoi saggi citati in bibliografia ed ora Théodule Rey-Mermet, Les saints de l'Ancien Testament, in Histoire des saints et de la saintété chrétienne, I, La nuée des témoins, a cura di Francesco Chiovaro, Paris 1986, pp. 104-193. Il saggio più completo sul culto dei santi veterotestamentari a Venezia è senz'altro quello di Antonio Niero, Culto dei santi dell'Antico Testamento, in AA.VV., Culto dei santi a Venezia, Venezia 1965, pp. 155-180, che però unisce pure quello per gli angeli e i santi ricordati nel Nuovo Testamento. Trattano della questione anche le due brevi note di Giuseppe Fiocco, Tradizioni orientali nella pietà veneziana, in AA.VV., Venezia e l'Oriente fra tardo Medioevo e Rinascimento, Firenze 1966, pp. 117-124 e Il culto dei profeti a Venezia, in AA.VV., L'Oriente cristiano nella storia della civiltà, Roma 1964, pp. 715-717.
31. Cf. Paolo Diacono, De ordine episcoporum Mettensium, in P.L., 95, coll. 699 e 71 I.
32. Gli atti della sinodo di Mantova dell'827 sono editi in Documenti relativi, I, pp. 83-90.
33. Per la risposta di Pelagio ad Elia cf. ibid., pp. 9-10.
34. Sulla cattedra marciana cf. sia il saggio pp. Sergio Tavano, La cattedra di S. Marco e la stauroteca di Grado, Grado 1975, sia la scheda di Danielle Gaborit-Chopin, Trono reliquiario detto sedia di san Marco, in AA.VV., Il tesoro di San Marco, Milano 1986, pp. 106-113 e l'introduzione di Sergio Bettini al catalogo della mostra Venezia e Bisanzio, Venezia 1974, p. 46 (pp. 15-88).
35. Tale concezione è già presente nelle interpolazioni fatte nella sinodo di Grado del 579 (per il testo e le interpolazioni che il Cessi giudica avvenute nell'827 e nella sinodo romana del 1024 e in quella del 1054, cf. Documenti relativi, I, pp. 7-13) e la rivendicazione metropolitica gradese di Elia con la falsa bolla di papa Pelagio II raffigurata pure nei mosaici marciani e in posto già di per sé significativo: l'arco della cappella di San Pietro. Per l'origine e gli sviluppi della leggenda cf. Silvio Tramontin, Origini e sviluppi della leggenda marcianti, in AA.VV., Le origini della Chiesa veneziana, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 167-186 e dello stesso Realtà e leggenda nei racconti marciani veneti, "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 35-58.
36. Cf. P. Brown, Il culto dei santi, p. 124. Egli inoltreosserva: "Traslazioni - il muovere delle reliquieverso il popolo - e i pellegrinaggi - il muovere del popolo verso le reliquie - occupano il centro della scena nella pietà tardo-antica ed alto-medievale. Un febbrile commercio di reliquie, accompagnato da furti frequenti di esse, è uno degli aspetti più drammatici, per non dire picareschi, del cristianesimo occidentale nel medioevo".
37. Veramente non tutte le "passiones" sono d'accordo su questo. Secondo alcuni racconti, infatti, san Marco da Roma sarebbe andato ad Alessandria e poi di ritorno sarebbe stato inviato da san Pietro ad Aquileia e, infine, ancora ad Alessandria per subirvi il martirio. Secondo altri, invece, ci sarebbero state solo due missioni: la prima ad Aquileia, la seconda ad Alessandria.
38. Ci sembrano qui molto pertinenti le osservazioni del Brown: "Studi recenti sui contesti sociali e politici delle traslazioni di reliquie hanno messo in luce i rapporti e le motivazioni dei protagonisti umani coinvolti in esse con una minuziosità talmente compiaciuta e persino pregiudizievole che non dovremmo dimenticare il primo donatore di questi beni, il quale era considerato dagli uomini tardo-antichi al di sopra della storia dei traffici collegati alla scoperta, al trasferimento, all'accumulazione e a volte addirittura al furto sfacciato del sacro. Dio aveva donato le reliquie, innanzitutto permettendo che fossero scoperte e poi consentendone la traslazione [...>. Tali racconti sono infatti pervasi da un senso del miracolo compiuto dalla misericordia divina nel consentire che una cosa così preziosa come la 'praesentia' del santo defunto diventasse accessibile alle comunità cristiane nei luoghi e nei tempi loro propri"; P. Brown, Il culto dei santi, p. 127.
39. Il testo fondamentale della "translatio", ricostruito da vari manoscritti, correggendo sviste ed errori dei bollandisti, resta quello riprodotto da Nelson Mccleary, Note storiche ed archeologiche del testo della " Translatio Sancti Marci", "Memorie storiche forogiuliesi", 27-29, 1931-1933, pp. 223-264 (il testo è da p. 238 a p. 264). Da vari indizi l'autore deduce che il testo debba essere stato steso intorno alla metà del secolo IX o agli inizi del X. Baudouin de Gaiffier ("Analecta Bollandiana", 76, 1958, p. 445) segnala un codice della biblioteca di Orléans del secolo X che lo contiene. A confermare l'antichità del testo si potrebbe aggiungere anche l'indicazione del 2 gennaio come data della dedicazione della chiesa di San Marco, mentre nel secolo XI la si celebrava già il 28 ottobre, e quella della forma di "martyrion" a pianta centrale per la chiesa partecipaziana, confermata da recenti scavi del prof. Forlati.
40. Cf. il testo del testamento in Documenti relativi, I, pp. 93-99.
41. Cf. il testo cit. della Translatio (v. qui sopra la n. 39) a p. 263.
42. Per la presenza del miracoloso, soprattutto la guarigione degli ossessi cf. A.J. Gureviã, Contadini e santi, pp. 310-314. Giustamente egli definisce alcuni di tali racconti "grotteschi" e "comici ".
43. V. Documenti relativi, I, pp. 114-118.
44. L'episodio del sonno e dell'annuncio è riferito da A. Dandolo, Chronica, pp. 9-10. È da notare come il doge cronista cominci il suo racconto recente proprio con l'arrivo di san Marco da Alessandria e la successiva sia pur ritoccata e ampliata leggenda, ponendo così san Marco all'inizio della storia veneziana.
45. Cf. Gina Fasoli, Nascita di un mito, in AA.VV., Studi storici in onore di Gioacchino Volpe, I, Firenze 1958, pp. 451-452 (pp. 447-479).
46. Cf. Bernardo Giustinian, De divi Marci vita, translatione et sepulturae locis, Venezia 1492, cc. 18 n.n., considera il furto quasi come una pena del contrappasso: noi l'abbiamo rubato, altri potrebbero rubarcelo: "ut quem aliunde sustulimus is furtim fuerit a nobis ablatus".
47. V. per il racconto dell'"inventio" l'importante contributo di Giovanni Monticolo, L'apparitio Sancti Marci e i suoi manoscritti, "Nuovo Archivio Veneto", 5, 1895, pp. 111 - 1I7.
48. Questo è affermato da Roberto Cessi, L'apparitio sancii Marci del 1094, "Archivio Veneto", 75, 1964, pp. 113-115. Reinhard Lebe, Quando San Marco approdò a Venezia. Il culto dell'evangelista e il miracolo politico della Repubblica di Venezia, Roma 1981, pensa, ma non sappiamo con quale fondamento, che il corpo di san Marco sia stato bruciato nell'incendio del 976 e sostituito poi nel 1094 con un altro cadavere per far cessare l'angoscia del popolo veneziano che si vedeva senza il proprio patrono (p. 86).
49. Per la politica filo-ottoniana di Candiano cf. Gherardo Ortalli, Venezia dalle origini a Pietro II Orseolo, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, I, Longobardi e Bizantini, Torino 1980, pp. 405-476.
50. Per il trasferimento delle reliquie di san Marco a Reichenau cf. Translatio in Augiam anno 830 et miracula (dove l'anno va corretto) in M.G.H., Scriptores, IV, a cura di Georg Waitz, 1841, pp. 449-452. A Reichenau è conservato un reliquiario del secolo XIV a forma di cassetta rettangolare con scene della vita di Cristo e due episodi relativi alla storia delle reliquie di san Marco e della loro traslazione a Reichenau.
51. Cf. Hans Conrad Peyer, Stadt und Stadtpatron im mittelalterlichen Italien, Züzrich 1955, pp. 8-24. Per la concezione del patrono rimandiamo, inoltre, all'introduzione di Sofia Boesch Gajano, Agiografia altomedievale, Bologna 1976 e al saggio da lei citato di Alba Orselli, Spirito cittadino e temi politico culturali nel culto di S. Petronio, in AA.VV., La coscienza cittadina nei comuni italiani del Ducento, Todi 1972, pp. 285-343. Della stessa Orselli cf. L'immaginario religioso nella città medievale, Ravenna 1985, una raccolta di saggi sul patrono e sul patrocinio.
52. Cf. R. Lebe, Quando San Marco approdò a Venezia, p. 78.
53. È il terzo dei sermoni del Damiani in onore di san Marco. V. pure gli altri due: coll. 572-580 e 580-583 dove pure è costante l'ammirazione e l'elogio del santo con molti particolari riferiti a Venezia, forse anche al di là dell'intenzione dei Veneziani, come l'affermazione "Ubi Marcus, ibi Petrus" (col. 575) non troppo consona ai rapporti della Repubblica con la Santa Sede già nel secolo XI. Per le raffigurazioni marciane della basilica cf. Antonio Niero, I cicli iconografici marciani, in AA.VV., I mosaici di San Marco. Iconografia dell'Antico e del Nuovo Testamento, Milano 1987, pp. 11-16 e Silvio Tramontin, San Marco, in AA.VV., Culto dei santi a Venezia, Venezia 1965, pp. 65-70. Petri Damiani Sermones, in P.L., 144, coll. 584-585.
54. Cf. R. Lebe, Quando San Marco approdò a Venezia, pp. 81-82.
55. Nota argutamente il Lebe (ibid., p. 84): "Al mercato di Rialto si pagava con monete di San Marco: in quell'epoca il santo era diventato un po' il Mercurio dei Veneziani". Sulle monete "marciane" cf. Nicolò Papadopoli, Il leone di San Marco. Pensieri ed osservazioni di un numismatico, Venezia 1921.
56. Per i problemi archeologici di una chiesa teodoriana preesistente a quella di San Marco cf. Ferdinando Forlati, Da Rialto a S. Ilario, in AA.VV., Storia di Venezia, edita a cura del Centro internazionale delle arti e del costume, II, Venezia 1958, pp. 626-632. La definisce "enigma" Roberto Cessi, Alcune osservazioni sulla basilica di S. Maria di Torcello e sulla chiesa di S. Teodoro di Rialto, "Atti dell'Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 120, 1960-1961, pp. 665-674, mentre tra i difensori della priorità ricordiamo Agostino Pertusi, Venezia e Bisanzio nel secolo X, in AA.VV., La Venezia del Mille, Firenze 1965, pp. 119 e 146 (pp. 117-160) ("un santo perfettamente bizantino" lo definisce il Pertusi, credendolo Teodoro Stratelate, sostituito da san Marco, opinione condivisa anche da G. Ortalli, Venezia dalle origini, p. 388), e recentemente Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, II, Milano 1983, pp. 545 s., che ne pone l'edificazione agli inizi del secolo IX, considerandola cappella ducale al pari di San Marco. Il più accanito negatore della tesi della priorità è Antonio Niero, I santi patroni, in AA.VV., Culto dei santi a Venezia, Venezia 1965, pp. 91-95
57. Sulla confusione dei due Teodori cf. la n. 14.
La richiesta del Giustiniani e il decreto dei Pregali si possono leggere in F. Corner, Ecclesiae Venetae, XIII, pp. 339-340.
58. Cf. qui sopra all'altezza della n. 14.
60. Cf. A. Niero, I santi patroni, p. 94.
61. La statua di san Teodoro, visibile sull'alta colonna del molo, è una copia dell'originale, ora in palazzo ducale per una ripulitura e un restauro, oltre che per proteggerla dalle intemperie. L'originale è una statua composita e la testa in marmo pario sarebbe un bellissimo ritratto di Mitridate, il torso un pezzo d'arte romana adrianea, completata dal drago e dalle parti mancanti a Venezia nel secolo XV.
62. Sulla chiesa di San Nicolò del Lido, con cenni sugli scavi iniziati e ancora in corso, cf. F. Forlati, Da Rialto a S. Ilario, pp. 339-341; Mario Guiotto, L'antica chiesa di S. Nicolò del Lido di Venezia, "Atti dell'Istituto veneto di Scienze Lettere ed Arti", 107, 1947-1948, pp. 175-193; Mario Hellmann, S. Nicolò del Lido nella storia, nella cronaca, nell'arte, Venezia 1968 e Ligia Fabbiani, La fondazione monastica di San Nicolò del Lido (1053-1628), Venezia 1990.
63. Per il testo della Translatio Sancti Nicolai cf. Recueil des historiens des Croisades. Historiens Occidentaux, V, Paris 1895, pp. 253-292 (le lagnanze del vescovo di Mira sono a p. 258, la preghiera del vescovo di Castello alle pp. 262-263, il cenno alla "translatio" di san Teodoro a p. 280). È stata riprodotta pure in F. Corner, Ecclesiae Venetae, IX, pp. 6-39. Per una prima discussione sulla "translatio" Giuseppe Cappelletti, Storia della Chiesa di Venezia, III, Venezia 1853, pp. 302-308, e S. Tramontin, Influsso orientale, pp. 80 1-820. Interessante è la comparazione con la "translatio" di san Nicola a Bari scritta dal monaco Niceforo e pubblicata da Francesco Nitti Di Vito, La traslazione delle reliquie di san Nicola, "Iapigia", n. ser., 8, 1937, pp. 336-356 (pp. 295-411), dove sono molte le analogie con il racconto veneziano. V. abbreviato e parzialmente riportato in Charles W. Jones, San Nicola. Biografia di una leggenda, Bari, 1983, pp. 156-201.
64. Cf. Roberto Cessi, Politica, economia, religione, in AA.VV., Storia di Venezia, II, Dalle origini del ducato alla IV crociata, Venezia 1958, p. 339 (pp. 67-476).
65. Sul trafugamento delle spoglie di san Nicola da parte dei Baresi cf. Gerardo Cioffari, S. Nicola nella critica storica, Bari 1987; Pietro Corsi, Le fonti della traslazione di S. Nicola, Bari 1987; C.W. Jones, San Nicola; Gerardo Cioffari, San Nicola di Bari, Milano 1988.
66. L'osservazione è di Giorgio Cracco, Un "altro mondo". Venezia nel Medioevo dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986, p. 37.
67. Cf. Agostino Pertusi, Ai confini tra religione e politica : la contesa per le reliquie di S. Nicola tra Bari, Venezia e Genova, "Quaderni medievali", 3, 1978, pp. 6-56.
68. Per i contrasti sorti circa la deposizione del santo e la contrapposizione dei due patroni cf. R. Cessi, Politica, economia, pp. 338-341 e Id., Venezia Ducale, II/ 1, Comune Venetiarum, Venezia 1965, pp. 174-188. Egli pensa pure al pericolo che il dualismo tra doge e patriarca avrebbe molto probabilmente provocato, con la duplicazione dei simboli, la frattura fra l'interesse politico e quello marittimo.
69. Sul fatto del doppio patrocinio, uno religioso e l'altro politico, non del tutto ignoto in Occidente, cf. Alba Orselli, L'idea del culto del santo patrono cittadino nella letteratura latina cristiana, Bologna 1965, in parte riprodotto alle pp. 85-105 di S. Boesch Gajano, Agiografia altomedievale, e in A. Niero, Santi di Torcello, p. 69. Anzi egli giudica distinzione tipicamente medievale il doppio patrono della città, distinzione evidentemente non applicabile a Venezia.
70. Cf. R. Cessi, Politica, economia, pp. 286-287.
71. Cf. G. Cracco, Un "altro mondo", p. 56.
72. Cf. G. CioFFARI, San Nicola di Bari e Vito Maurogiovanni, S. Nicola nel mondo, Bari 1987. C.W. Jones, San Nicola, p. 90, scrive: "Con san Marco, missionario e marinaio, come loro patrono i Veneziani avevano solo un interesse secondario per N. Ma i mercanti non sono mai troppo sicuri e tranquilli. La crescente boria e arroganza della Venezia che custodiva il corpo di san Marco stavano producendo la loro logica conseguenza nel mondo [...>. La prova di un culto marinaro di N. a Venezia, oltre a quello di san Marco, è concreta: nel 1044 il doge Domenico Contarini eresse San Nicolò del Lido, quando la repubblica di San Marco era all'apogeo della sua gloria civile e militare". R. Lebe, Quando San Marco approdò a Venezia, p. 104, prospetta un'altra ipotesi: san Nicola "controfigura" e "assistente" di san Marco. "Ora dunque, San Marco aveva un assistente davvero prezioso nei viaggi di mare: la controfigura di san Nicola di Bari non dava troppo fastidio", osservazione che non ci sembra troppo pertinente.
73. Cf. la n. 14.
74. V. in Giuseppe Cappelletti, Storia della Chiesa, VI, Venezia 1853, pp. 158-290.
75. Essi si trovano numerosi alla Biblioteca Nazionale Marciana, all'Archivio di Stato di Venezia nel fondo della Mensa patriarcale e pure dispersi in varie biblioteche italiane e straniere.
76. Sulla "musica patriarchina" cf. un particolare numero speciale (anno 1973) di "Jucunda laudatio", Tradizione musicale aquileiese-patriarchina, a cura di padre Pellegrino Ernetti, O.S.B.
77. Cf. Giovanni Battista Pace, Cerimoniale magnum sine raccolta universale di tutte le cerimonie spettanti alla ducale regia cappella di san Marco, Venezia 1679. Alcuni cenni sono in Antonio Pasini, Rito antico e il cerimoniale della Basilica di S. Marco, in AA.VV., La Basilica di San Marco in Venezia illustrata nella storia e nell'arte da scrittori veneziani, Venezia 1888, pp. 65-71, stampato anche in opuscolo (Venezia 1888). Cf. pure Anton Baumstark, La liturgia romana e la liturgia dell'esarcato. Il rito detto in seguito patriarchino e le origini del Canon Missae romano, Roma 1904 e Alfonso Codaghenco, Il rito patriarchino e consuetudini della Chiesa di Aquileia in vigore nella diocesi di Como sino alla fine del secolo XVI, "Memorie storiche forogiuliesi", 44, 1960-61, pp. 25-51 (si ricordi che fino al riordinamento di Pio VII la diocesi di Como era suffraganea di Aquileia).
78. Per un'altra cerimonia d'incoronazione dogale con la quale i dogi veneziani venivano insediati in nome del patrono cf. R. Lebe, Quando San Marco approdò a Venezia, pp. 83-84. Il doge è Domenico Silvo e chi descrive la cerimonia Domenico Tino.
79. Salvo l'ormai superato volume di Giovanni Diclich, Rito veneto antico detto patriarchino, Venezia 18232, non abbiamo studi recenti sulla liturgia patriarchina eccetto due brevi sintesi comparse in Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976: una di Vittorio Peri, Chiesa e cultura religiosa (pp. 166-214; in modo particolare il IV par. Una propria liturgia, pp. 186-191) e l'altra di Michel Huglo, Liturgia e musica sacra aquileiese, (pp. 312-325). Una minuziosa bibliografia sull'argomento è stata compilata con la solita diligenza dal dott. Giorgio E. Ferrari, già direttore della Biblioteca Nazionale Marciana e circola in alcuni esemplari dattiloscritti o fotocopiati. Uno è reperibile presso il Centro di studi marciani della Procuratoria di San Marco.
80. Così almeno ipotizza A. Niero, Santi di Torcello, pp. 58 e 62.
81. Cf. R. Grégoire, Manuale di agiologia, p. 376.