Cultura araba
La cultura spirituale arabo-islamica in età federiciana è caratterizzata dagli effetti del revival del sunnismo, fenomeno che, iniziato nel sec. XI, condusse lungo il corso dei secc. XII e XIII (VI-VII dell'Egira) all'elaborazione di un pensiero teologico che è stato definito scolastico, in ricercato parallelismo con la contemporanea evoluzione della teologia cristiana.
Il sunnismo era in realtà la corrente maggioritaria dell'Islam fin dal primo grande scisma dell'anno 661 (40 dell'Egira), quando la sunna, ossia la 'via' ortodossa indicata dal profeta Muḥammad, fu opposta alla shi῾a ('partito', sc. 'di ῾Alī'), lo sciismo, ossia alle posizioni dei partigiani del cugino e genero di Muḥammad, che avrebbero generato una corrente dottrinaria eterodossa e messianica che si radicò soprattutto nelle regioni più periferiche del mondo islamico, in particolare nelle province iraniche, e fra gli strati più poveri della società musulmana.
Fra il sec. X e l'XI, lo sciismo, che aveva avuto un ruolo importante nel rovesciamento del califfato umayyade e nella fondazione di quello abbaside, si diffuse verso Occidente, grazie a una predicazione aggressiva, all'erosione dell'autorità califfale, ma soprattutto all'avvento di eserciti mercenari di stirpe iranica e di fede sciita, che sostituirono completamente le armate arabo-islamiche tradizionali. Dal 955, il califfato abbaside si trasformò in una diarchia dove al califfo legittimo, sunnita, si affiancava l'emiro buyide, capo supremo dell'esercito ‒ e reggente di fatto ‒ di fede sciita, come pure sciiti erano gran parte dei piccoli Regni autonomi che si affermarono in Siria, in Alta Mesopotamia, in Iraq e nella stessa penisola arabica.
Nello stesso secolo, una nuova dinastia dalle origini oscure, ma che si pretendeva discendente da ῾Alī, i Fatimidi, stabilì prima in Nordafrica, poi, dal 969, in Egitto, un Regno sciita ismaelita, che avrebbe minacciato direttamente il califfato di Baghdad e sarebbe stato, per circa due secoli, la principale potenza islamica mediterranea. Tale situazione di relativa egemonia sciita, sul piano politico più che su quello religioso, fu rovesciata dall'avvento delle diverse dinastie militari di origine turca, tutte, fin dai Selgiuchidi, padroni di Baghdad dal 1055, rigorosamente sunnite.
Grande impulso ne ricevette la rinascita del sunnismo e la sua codificazione, nonché la diffusione di una particolare istituzione, la madrasa, contraltare alle analoghe istituzioni scientifiche stabilite dall'Islam sciita nel suo periodo trionfante, destinata alla trasmissione dell'insegnamento religioso secondo l'una o l'altra delle quattro scuole giuridiche riconosciute nel mondo sunnita fin dal sec. IX.
Di queste scuole ‒ malikita, hanafita, shafiita e hanbalita ‒ fu soprattutto l'ultima a godere di una forte ripresa nell'Oriente islamico, in virtù del suo carattere rigorista e antidialettico, opposto all'inclinazione speculativa e filosofica della riflessione teologica precedente (il kalām), mentre l'Occidente conobbe l'affermazione definitiva della scuola malikita, antiscismatica e antimistica, nella penisola iberica (al-Andalus) e nel Magreb almohade, dove se ne promosse una versione ultrarigorista, e nel Nordafrica hafside, dove il malikismo assunse la configurazione dottrinale moderata e quietista che avrebbe mantenuto sostanzialmente fino a un'epoca recente. Nonostante il trionfo del malikismo, i secc. XII-XIII segnano anche l'inizio del radicamento del misticismo sunnita (noto come sufismo, in arabo taṣawwuf) nella società islamica.
Complesso ed eterogeneo, scarsamente riconducibile all'accezione cristiano-occidentale del termine, il misticismo musulmano di quest'epoca raggiunse il suo apice nell'insegnamento di Muḥyī al-Dīn Ibn al-῾Arabī, al-shaykh al-akbar ('il supremo maestro', m. 1240), probabilmente il più noto e il maggiore dei mistici musulmani di tutti i tempi, culmine di una tradizione specificamente andalusa che avrebbe contato, in una stessa epoca, Abū Madyan, al-Shādhilī e Ibn Sab῾īn. Senza presumere di definire in poche frasi i caratteri di tale movimento, e facendo astrazione dai suoi esiti ulteriori, si potrà qui notare come esso sia stato, all'epoca che ci riguarda, il tramite della penetrazione di tematiche filosofiche neoplatoniche, ma anche aristotelizzanti, nella riflessione teologica, nel momento in cui la filosofia islamica razionalista d'ispirazione greca era sottoposta alla censura più aspra: si pensi ad Averroè ‒ Ibn Rushd in arabo (m. 1198) ‒ che subì un processo e la distruzione delle sue opere per istigazione dell'élite malikita cordovana, della quale egli era stato peraltro, fino ad allora, autorevolissimo esponente. I grandi maestri mistici occidentali si spostavano verso Oriente, trascinando folle di fedeli e attirando sempre nuovi discepoli, in un movimento affine alla pratica del 'viaggio per acquisire la conoscenza della tradizione profetica' che generalizzava e diffondeva, in questa stessa epoca, l'insegnamento religioso sunnita. Studiosi provenienti da ogni regione del mondo islamico si spostavano infatti verso i grandi centri del sapere, perlopiù in occasione del pellegrinaggio nei Luoghi Santi obbligatorio per ogni musulmano (ma anche, in qualche caso, per fini commerciali), dove sostavano per ricevere l'insegnamento dei grandi maestri dell'epoca, riportandolo poi nei propri luoghi di origine. Al centro di tale pratica vi era, in entrambi i contesti, il rapporto privilegiato fra discepoli e maestro, guida spirituale e via di accesso all'esperienza del divino per i mistici, mentre in ambito sunnita erano il principio di autorità e il consenso della classe giuridico-religiosa che autorizzavano maestri riconosciuti a trasmettere oralmente nei propri circoli intellettuali le opere da essi composte o ricevute, recitandole ai propri allievi e autorizzandoli a trasmetterle a loro volta, in un processo che richiedeva ad entrambe le parti capacità mnemoniche straordinarie. La trasmissione orale, assicurata dalla stabilità di una catena di garanti che permetteva in teoria di risalire fino al profeta Muḥammad e ai suoi primi compagni, era giudicata infatti superiore all'autorità dei testi scritti, e l'ininterrotta trasmissione delle tradizioni profetiche e la loro interpretazione erano oggetto di un apposito genere bio-bibliografico, volto a stabilire veracità e stabilità della trasmissione. Questo genere ricevette una sostanziale definizione nei secc. XII-XIV, quando divenne consuetudine repertoriare i maestri dai quali si era appreso in dizionari di autorità, che giungevano a contare centinaia e in qualche caso migliaia di nomi. La fissazione definitiva della tradizione profetica sunnita, compiutasi intorno al sec. X, condusse alla redazione delle grandi summae e dei commentari che configurano i confini dell'ortodossia sunnita, indicandone gli interpreti riconosciuti e i saperi accettati, nonché alla compilazione di strumenti più tecnici: repertori, glosse, raccolte di appunti presi durante le letture.
Da questo riassetto dottrinale del sunnismo in senso ortodosso sarebbero state progressivamente escluse le scienze profane, ossia, nella definizione prevalente, 'straniere', nate all'esterno dell'episteme arabo-islamica, la cui appartenenza al canone scientifico, da sempre controversa, subì attacchi sempre più decisi da parte dei pensatori sunniti in nome della loro 'inutilità' rispetto alla pratica ortodossa e della sostanziale riduzione di tutte le discipline scientifiche (in arabo, gli ῾ulūm, sing. ῾ilm) al sapere teologico e giuridico-religioso. Si trattava essenzialmente della filosofia, della medicina, delle scienze matematiche e fisiche e della musica, che non trovarono posto nel riassetto dell'insegnamento canonico religioso e seguitarono a essere trasmesse e praticate in ambiti più ristretti, soprattutto nei circoli intellettuali e di corte promossi dai vari sovrani dell'epoca, beneficiando del loro mecenatismo più o meno interessato. Ciò nonostante, le scienze profane subirono nel complesso un'eclissi graduale, inversamente proporzionale alla loro penetrazione nella cultura occidentale in seguito al movimento delle traduzioni, del quale si dirà oltre. Ciò è soprattutto vero, in questo periodo, per la filosofia ‒ falsafa in arabo, termine usato spesso in un'accezione negativa ‒, considerata peraltro da subito un sapere estraneo e praticato da pensatori eterodossi in sospetto di sciismo, soprattutto nella variante neoplatonica prevalente nell'Oriente islamico e nel pensiero mistico. Contro di essa si scagliò, alla fine del sec. XI, al-Ghazālī, uno dei massimi pensatori sunniti, nella sua famosa opera L'incoerenza dei filosofi (1095), dove le posizioni dei 'filosofi' musulmani grecizzanti e mistici sono passate al vaglio della dottrina sunnita, ma anche della logica aristotelica, divenuta sorprendentemente, attraverso la mediazione della teologia ash'arita, la forma canonica dell'argomentazione intellettuale nel mondo islamico. La tradizione aristotelica trovò peraltro i suoi maggiori esponenti in al-Andalus, in pensatori quali Ibn Baǧǧa (Avempace), Ibn Tufayl e Averroè, i quali si sforzarono, fra i secc. XII e XIII, di ricondurre alla rivelazione islamica i dati della filosofia razionale aristotelica, che cercarono di sottrarre alle critiche di al-Ghazālī e dei suoi successori. Questo sforzo imponente segnò l'apice dell'influenza della filosofia greca sul pensiero islamico, e reciprocamente della filosofia islamica sul pensiero occidentale contemporaneo, ma anche l'inizio del declino della filosofia islamica come tale, e della sua fase scolastica, nel senso della ripetizione e della sistemazione di un pensiero la cui elaborazione è definitivamente conclusa.
Quanto alla medicina, passata l'epoca delle grandi traduzioni dal greco, essa divenne una pratica ampiamente applicata nei grandi ospedali (bīmāristān) fondati, con intenti caritatevoli, dai signori regionali, come i sultani d'Egitto. Delle sue numerose branche conobbero un grande sviluppo, fra il sec. XII e il XIII, soprattutto l'oftalmologia, con la redazione di numerosi trattati tanto nell'Oriente che nell'Occidente islamico, e la farmacologia, scienza alla quale i sapienti islamici apportarono un contributo originale, includendovi una quantità di nuovi medicamenti e sostanze sconosciuti al mondo classico e nuovi strumenti, che sarebbero giunti nell'Occidente cristiano grazie agli scambi commerciali e alle crociate.
Il mecenatismo dei sovrani ebbe pure un ruolo fondamentale nei riguardi dell'astronomia, ugualmente introdotta attraverso le traduzioni dal greco dei secc. VIII e IX in risposta a istanze pratiche specifiche del mondo islamico (fissazione dei calendari lunare e solare, orientamento della preghiera rispetto alla qibla, la direzione della Mecca, orientamento della navigazione), il cui grande sviluppo fu dovuto alla sua minore dipendenza da pregiudizi cosmologici di natura teologica rispetto al mondo cristiano. Notevolissimo è che essa continuasse ad essere praticata e che conoscesse anzi un nuovo impulso fra i secc. XII e XIII, nonostante le discontinuità culturali e i rivolgimenti politici, soprattutto nelle regioni iraniche di fede sciita travolte dall'avanzata mongola. Fu anzi proprio il capo mongolo Hūlāgū che nel 1259, un anno dopo aver conquistato Baghdad, impresa nel corso della quale furono distrutti monumenti e documenti fondamentali della cultura abbaside, fondò il grande osservatorio di Marāgha, al quale collaborarono i più grandi astronomi del tempo, come Nāṣir al-Dīn Ṭūsī ('il terzo maestro' del canone scientifico arabo-islamico, dopo Aristotele e al-Fārābī) e Quṭb al-Dīn Shīrāzī, e dove furono sostanzialmente rinnovati i dati dell'osservazione astronomica.
Nelle stesse regioni proseguì pure la fioritura del sapere matematico, i cui trattati più antichi, come quello di al-Khwārizmī ‒ il fondatore dell'algebra ‒ e Ibn al-Haytham, l'Alhazen latino, furono oggetto di traduzioni in ebraico e in latino nel sec. XII; in questo campo si distinsero, oltre al già nominato Nāṣir al-Dīn, Sharaf al-Dīn al-Ṭūsī e ῾Umar Khayyām, questi ultimi due sapienti di scuola avicenniana e autori di importanti scoperte in campo matematico e astronomico.
Si noterà infine il persistente favore di cui godettero alchimia e astrologia, nonostante la decisa e articolata condanna di cui furono fatte oggetto, non solo da parte della tradizione razionalista, da al-Fārābī ad Averroè, ma anche della teologia sunnita, e in particolare di al-Ghazālī, in quanto, se l'una pretendeva di contendere a Dio il monopolio della creazione, l'altra cercava di conoscerne i decreti imperscrutabili e incoraggiava il fatalismo del credente. Questo non impedì all'astrologia di essere un importante ausilio dei sovrani nella pratica di governo e del popolo nella vita quotidiana, mentre l'alchimia proseguì la sua evoluzione, di fatto indissociabile da quella della mineralogia, anch'essa oggetto all'epoca di grandi raccolte enciclopediche, e della medicina, di cui l'alchimia condivideva alcuni postulati di fondo sulla natura della materia vivente; allo stesso tempo, l'atto di creazione alchemico ispirò filosofi e pensatori provenienti da altri settori, soprattutto i mistici, che videro in essa il modo di giungere alla comprensione sintetica dell'agire divino.
Come si è più volte accennato, l'enciclopedismo caratterizzò l'attività scientifica e intellettuale di questo periodo, fino a diventarne, nei secoli successivi, il tratto dominante. Enciclopedica sarà la letteratura geografica di fronte alla frammentazione e alle grandi devastazioni del dominio musulmano, negli ampi repertori e nelle summae come quelli di Yāqūt e di al-῾Umarī, redatti attingendo a documenti scritti e resoconti. L'osservazione personale e il resoconto scientifico continuarono tuttavia a essere praticati, come testimonia il celebre Libro di Ruggero di al-Idrīsī (1154), dedicato al re normanno Ruggero II, nel quale l'autore elabora le proprie osservazioni di viaggio, accompagnandole con carte geografiche e un planisfero; perfino nelle regioni più orientali, l'invasione mongola offrì ai geografi locali l'occasione di nuove osservazioni e acquisizioni documentarie. Un genere caratteristico dell'epoca è quello della letteratura di viaggio occasionata dalla riḥla, il viaggio devoto a scopo di pellegrinaggio, che forniva l'occasione di percorrere da un confine all'altro l'orbe musulmano, in quello che si offriva come un vero e proprio Grand tour ai letterati curiosi del mondo: ne sono esempio i racconti di viaggio di Ibn Ǧubayr (m. 1217), dalla penisola iberica all'arabica, e soprattutto quelli di Ibn Baṭṭūṭa, che fra 1325 e 1353 compì una serie di viaggi dall'Africa al Medio Oriente all'India alla Cina (quest'ultimo, almeno, di dubbia veridicità), il cui racconto egli avrebbe poi dettato a uno scrivano, il sapiente Ibn Ǧuzayy, per conto del sovrano marinide del tempo. Enciclopedico fu il movimento ispiratore delle grandi storie scritte nel sec. XIII, come lo Specchio del tempo di Sibṭ Ibn al-Ǧawzī e la Storia universale dello storico zengide Ibn al-Athīr, e, reciprocamente, la storia ebbe larga parte nei progetti enciclopedici dell'epoca mamelucca, come quello di al-Nuwayrī, autore del Fine supremo, enciclopedia in trentuno volumi, ventuno dei quali occupati da resoconti storici. Inversamente, la stessa epoca conobbe un grande sviluppo di storie locali, storie di città e di dinastie, giustificato dall'estrema frammentazione politica e dalle ambizioni dinastiche dei vari signori, che patrocinarono volentieri simili imprese agiografiche. Va pure ricordato lo statuto ambiguo della storia nel canone scientifico islamico, che le riconosce un'utilità unicamente come storia della tradizione religiosa e dei suoi interpreti (per cui molte opere storiche sono in realtà repertori biografici di sapienti di una determinata epoca) e comunque sempre all'interno di uno schema profetico e provvidenziale. Questa tradizione negativa non avrebbe impedito tuttavia, nel sec. XIV e nella Tunisia hafside, l'apparizione della splendida riflessione di Ibn Khaldūn (1332-1406), il più grande storico islamico classico, il quale, propostosi di scrivere una storia universale sul 'profondo significato' (è il titolo che egli assegna alla sua opera, solo parzialmente condotta a termine) della storia, vi premette una Introduzione (Muqaddima) di assoluto valore, nella quale s'interroga in modo spassionato e lucido sulle leggi autentiche che regolano l'agire umano. Ibn Khaldūn era, come gran parte degli autori musulmani di opere di argomento profano, un funzionario di corte e un letterato, binomio inscindibile in un'epoca in cui la letteratura esisteva essenzialmente come espressione aulica in una lingua elitaria, qual è l'arabo classico, padroneggiata pressoché esclusivamente da un ceto semiprofessionale di segretari e poeti, che se ne serviva tanto nella pratica amministrativa quanto nella composizione artistica, entrambe svolte al servizio di un sovrano. L'emergere di nuove dinastie di etnia turca e di lingua turca o persiana, a partire dai Selgiuchidi, alterò tuttavia profondamente tanto i modi quanto il pubblico della produzione letteraria: in un movimento analogo al declino del primato etnico arabo (ma con tempi diversi), l'arabo letterario perse gradualmente il primato linguistico e si affiancò, a un livello più alto di formalizzazione, alle altre lingue letterarie del dominio islamico, irrigidendosi in un modello di ornato poetico e prosastico dove la difficoltà estrema diventa convenzione fine a se stessa e il peso delle auctoritates è preponderante. Tale convenzione fu proposta e continuamente rilanciata dalle grandi raccolte letterarie che, da Oriente a Occidente, assecondando lo spirito scolastico dell'epoca, selezionavano e commentavano gli autori e le opere proposti all'imitazione dei letterati professionali, perseguendo un modello di eccellenza sempre più rigido e formalistico.
Prima che tale processo giungesse a compimento, il sec. XII fu tuttavia testimone dell'ultima grande stagione creativa della letteratura araba classica, la cui tradizione alta si aprì a temi e forme della cultura popolare e alla riflessione soggettiva: fra i molti esempi, il canzoniere del poeta cordovano di epoca almoravide Ibn Quzmān (m. 1160), culmine di una tradizione specificamente andalusa nella quale la forma poetica tradizionale si combina con ritmi e lessico tratti dalla poesia popolare; le Sessioni (Maqāmāt) dell'iracheno al-Ḥarīrī (m. 1122), esempio maggiore del genere omonimo in prosa rimata, che, apprezzatissime nella loro epoca per i pirotecnici effetti stilistici, sono oggi interessanti per le informazioni che racchiudono sulla vita quotidiana in Oriente all'epoca della prima crociata; l'autobiografia del nobile siriano e funzionario zengide ῾Usāma b. Munqidh (m. 1188), osservatore acuto del suo tempo dalla prospettiva dell'etica e dello stile di vita dell'élite araba orientale. Nel secolo successivo, il XIII, sarebbero state nuove forme, ancora più prossime alla letteratura popolare, a dominare la scena letteraria e i gusti del pubblico: fra tutte, il filone dei romanzi e delle saghe popolari circolanti da secoli nell'Oriente islamico ‒ come le Mille e una notte, il cui nucleo, iranico, era già costituito nel sec. X ‒, che furono allora messi per iscritto, principalmente nell'Egitto mamelucco (che avrebbe dato vita a sua volta, nei secoli successivi, alla prodigiosa saga centrata sull'eroe dinastico, il Romanzo di Baybars). Il bilancio che si è tentato di delineare non può fare a meno, in conclusione, di accennare alla questione della conoscenza del mondo islamico da parte dell'Occidente cristiano. Di fronte alla grande ricchezza e varietà della cultura islamica fra il sec. XII e il XIII e alla sua persistente vitalità, è in realtà notevole l'indifferenza relativa dell'Occidente cristiano contemporaneo, al di là della contrapposizione militare e religiosa (più comprensibile appare l'atteggiamento reciproco dei musulmani, data l'asimmetria del rispettivo peso geopolitico e culturale).
L'incontro principale fra i due universi, che si verificò infine, proprio fra i secc. XII e XIII con il movimento delle traduzioni dall'arabo in latino, riguardò quasi esclusivamente, e in modo strumentale, l'ambito delle scienze indicate precedentemente come 'straniere', derivate cioè agli arabi dalle traduzioni dal greco e dal siriaco, delle quali il sapere occidentale si sarebbe riappropriato per rifondare le proprie basi intellettuali e scientifiche dopo l'eclissi altomedievale della tradizione classica. Va sottolineato come tale riappropriazione avvenne non in seguito alle crociate (che importarono piuttosto conoscenze materiali e tecnologiche), bensì, nel sec. XII, in un ambito geografico specifico, quello della Spagna ex musulmana occupata dai sovrani iberici e in particolare nella città di Toledo, per mezzo di 'stranieri' ad entrambi i mondi, i traduttori ebrei e, in minore misura, mozarabi (ossia cristiani di rito visigoto nati in territorio musulmano) al servizio dei chierici cristiani. Mentre le prime traduzioni, nel secolo precedente, si erano limitate al corpus medico introdotto in Italia dal semileggendario Costantino l'Africano, che avrebbe così decretato il primato scientifico della Scuola salernitana, le traduzioni del sec. XII riguardarono essenzialmente la filosofia aristotelica, filtrata attraverso l'interpretazione di Avicenna e Averroè, i trattati di astronomia tolemaica tradotti in arabo, le opere di matematici come al-Khwārizmī, i trattati di ottica e perfino il Corano, la cui prima traduzione fu commissionata da Pietro il Venerabile per scopi apologetici. Benché le particolari circostanze storiche e geografiche della conquista cristiana avessero permesso la presenza contemporanea a Toledo di un gruppo numeroso di traduttori, non si può parlare di 'Scuola di Toledo', nel senso di un'impresa intellettuale unitaria e organizzata; le stesse traduzioni non seguivano un piano preciso ma erano dettate dalle richieste di quanti accorrevano da tutta Europa nell'antica capitale visigota per farsi tradurre particolari opere. Viceversa, di scuola, o meglio di un'impresa scientificamente orientata, si può parlare, nel secolo successivo, per gli altri due grandi centri di traduzioni all'interno dei quali avvenne un'autentica trasmissione di cultura dal mondo arabo a quello cristiano: la corte sveva (e angioina, in minore misura), dominata dalla figura di Michele Scoto, insieme a una miriade di traduttori soprattutto ebrei, e quella contemporanea di Alfonso X il Saggio re di Castiglia, dove furono tradotte, su richiesta dei sovrani, opere filosofiche e scientifiche arabe anche contemporanee, nella consapevolezza della superiorità intellettuale di quella tradizione e nel tentativo di emularla, adottandone non solo il lessico ma anche il paradigma conoscitivo e gli interrogativi fondamentali.
fonti e bibliografia
La sintesi più comprensiva e la messa a punto bibliografica in États, sociétés et cultures du monde musulman médiéval, a cura di J.-Cl. Garcin, I-II, Paris 2000, in partic. Bibliographie, pp. LIX-LXIX; cap. X (C. Gilliot, La transmission des sciences religieuses), pp. 327-351; cap. XII (P. Lory-H. Bellosta, Philosophes et savants), pp. 371-398; cap. XIII (F. Micheau, Les traductions médiévales de l'arabe au latin), pp. 399-419.
Encyclopédie de l'Islam, Leiden 19682, s.v.Falsafa (R. Arnaldez); Ibn Rushd (Id.); Madrasa (R. Hillenbrand); Sunna (G.H.A. Juynboll); Taṣawwuf (J.O. Hunwick et al.); Ṭibb (E. Savage-Smith); Ta'rīkh (R.S. Humphreys et al.); ῾Ulamā' (C. Gilliot et al.).