Cultura cavalleresca
Nell'arco dei cent'anni che precedono gli inizi della Scuola poetica siciliana, un genere letterario del tutto nuovo ‒ il romanzo cortese-cavalleresco ‒ nasce, raggiunge la sua piena maturità e dall'area anglo-normanna e francese settentrionale, sue sedi originarie, si espande in tutta Europa. Nasce utilizzando sia materiali derivati dal folklore locale, bretone innanzitutto, sia materiali di origine classica, ma inserendo gli uni e gli altri in un quadro stilistico-formale, intellettuale e ideologico che è indubbia espressione delle idee e del sapere della classe dominante nell'Inghilterra e nella Francia del sec. XII: un'aristocrazia laica che si riconosce nei valori del feudalesimo e considera fondante il patrimonio di conoscenze e rappresentazioni mentali raccolto ed elaborato dalla coeva cultura clericale.
Su qualsiasi indagine volta a ricostruire i percorsi e le forme dell'espansione al di fuori dei confini anglo-francesi del romanzo medievale, e della cultura che esso veicola, pesa dunque ‒ e deve pesare ‒ il dato preliminare appena indicato, e cioè il fatto che i materiali che il romanzo cavalleresco elabora preesistono al genere; spesso dunque si pone la questione di capire se questi materiali abbiano circolato già inseriti nello specifico contesto ideologico-culturale che diventerà per loro caratteristico ovvero prima e/o autonomamente, sotto forma di leggenda diffusa attraverso racconti trasmessi oralmente (nel caso della materia bretone) o attraverso la tradizione scolastica (nel caso della materia antica).
Il dilemma si fa, in particolare, concreto quando le tracce di quest'espansione non consistono in rielaborazioni compiute, ma si riducono piuttosto a veloci allusioni a personaggi ed episodi etichettabili come 'romanzeschi'. Una tale situazione caratterizza proprio l'ambiente federiciano, che non ha praticamente prodotto opere d'ampio respiro riferibili al genere romanzesco ‒ con una o forse due eccezioni, assai particolari, sulle quali si tornerà più avanti ‒, ma che nei testi lirici, veicolo d'espressione privilegiato della sua cultura letteraria, non di rado indulge al tipo d'allusioni appena indicato. La maggior parte di queste allusioni non offre elementi sufficienti per dirimere la questione, ma qualche eccezione comunque esiste. Ad esempio, uno dei poeti più antichi della Scuola siciliana, Guido delle Colonne, ai vv. 35-36 della canzone La mia gran pena giudica la bellezza della sua dama ben superiore a quella che sarebbe apprezzabile nella fata Morgana, mitica sorella di re Artù, se mai questa decidesse di mostrarsi "infra la gente". La mancanza di qualsiasi valutazione sfavorevole nei confronti di un personaggio che, a partire almeno dal grande ciclo in prosa del Lancelot-Graal (composto fra il 1215 e il 1235), diventa invece una sorta di deus ex machina negativo delle vicende narrate, e, insieme, l'insistenza sull'improbabilità di un'apparizione "infra la gente" della fata, fanno pensare che Guido conservasse di Morgana un'immagine positiva, senz'altro arcaica: l'immagine della benefica e remota guaritrice che, secondo la più antica tradizione romanzesca (a partire quantomeno da Goffredo di Monmouth, e cioè dagli anni Trenta del XII sec.), avrebbe accolto Artù ferito nel regno oltremondano di cui era signora. Sulla collocazione di questo regno, che la tradizione bretone pone quasi unanimemente nell'isola di Avalon, l'ambiente siciliano offre, forse sin dall'epoca normanna ma di sicuro dal regno di Enrico VI, una proposta alternativa di notevole fascino: l'Etna. È infatti dentro il celebre vulcano che, stando a una piccola ma compatta serie di testimonianze databili a partire dagli ultimi anni del XII sec. (Graf, 20022), gli isolani avevano localizzato il rifugio offerto da Morgana al fratello, in attesa di quel ritorno redentore su cui i bretoni sembravano investire tante speranze. L'allusione di Guido delle Colonne pare dunque fondarsi su una variante locale della tradizione bretone, non necessariamente già elaboratasi in forme romanzesche: non a caso, l'unico testo narrativo in cui la leggenda di Morgana nell'Etna trova compiuto sviluppo, e cioè il romanzo di Floriant et Florete, è opera tardiva, probabilmente addirittura del XIV secolo.
Che del resto i miti bretoni fossero conosciuti per tradizione orale in tutta Italia, e probabilmente proprio grazie ai contatti fra normanni di Normandia (nonché, dopo il 1066, d'Inghilterra) e normanni di Sicilia ‒ che certo continuavano quantomeno a intendere il francese ‒, ancora prima che il successo del romanzo cortese ne condizionasse la definitiva espansione, è dimostrato da alcuni celebri reperti figurativi che sembrerebbero databili attorno alla prima crociata, come i rilievi di soggetto arturiano del portale della Pescheria del duomo di Modena o del trono di S. Nicola di Bari, o ancora da reperti, sempre figurativi, un poco più tardi ma comunque anteriori alla diffusione dei grandi romanzi in versi di Chrétien de Troyes (opere davvero fondanti, per il genere), come il rilievo della Ghirlandina di Modena e il mosaico pavimentale del duomo di Otranto, in entrambi i quali re Artù appare nell'atto di domare un animale favoloso, simile a un grosso caprone. Si è molto discusso sul significato di queste due immagini, ma l'interpretazione più ragionevole vedrebbe in esse l'allusione a un episodio che sembra risalire alle radici stesse della leggenda arturiana, ma che poco e abbastanza tardi sarebbe stato valorizzato dalla tradizione romanzesca (l'unico rapido accenno si trova nel provenzale ‒ ma scritto forse in Catalogna ‒ Jaufré, probabilmente duecentesco, nel quale, tra l'altro, la protettrice-rapitrice dell'eroe eponimo è la fata di Gibel: Gibilterra o piuttosto Mongibello, cioè Etna?).
Per tornare definitivamente al problema specifico della possibilità di valutare il peso della cultura cavalleresca in ambiente federiciano, bisogna tenere conto di un altro elemento che rischia di complicare ancor più l'indagine: non di rado è agevole dimostrare che le allusioni a personaggi o episodi legati alla materia bretone o alla materia antica presenti nei testi poetici della Scuola siciliana derivano da analoghe allusioni reperibili nei riconosciuti modelli dei testi in questione, cioè le canzoni dei trovatori provenzali; e dunque, quando in particolare il recupero è molto puntuale, non sarebbe nemmeno obbligatorio postulare una conoscenza diretta delle corrispondenti tradizioni (orali o scritte) da parte della Scuola. Precise, e talora molteplici, fonti trobadoriche sono in effetti state indicate (Fratta, 1996, passim, e Bianchini, 1996, pp. 18-19) per la menzione di Piramo e Tisbe in Pier della Vigna, Amore in cui disio ed ho speranza, vv. 14-15, che potrebbe provenire tanto da Raimbaut de Vaqueiras, Era.m requier sa costum'e son us, vv. 11-12, quanto da Guiraut de Salinhac, En atretal esperansa, vv. 26-28; per quella di Paride ed Elena in Rinaldo d'Aquino, In gioi mi tegno tutta la mia pena, v. 3, che deriverebbe da Guiraut de Bornelh, Car non ai, vv. 29-30; per quella di Tristano e Isotta in Giacomino Pugliese, La dolce ciera piacente, vv. 27-28 (ma l'attribuzione non è unanime), che riprenderebbe i vv. 14-15 di Pons de Capduelh, Astrucs es cel cui amors te jojos.
I due dati di fatto appena evocati ‒ circolazione di materiali romanzeschi anteriormente e indipendentemente rispetto alla circolazione di testi specifici, possibilità di una ripresa 'di seconda mano' dei materiali stessi, condensati già da altri (i trovatori, nella fattispecie) in forma di citazione allusiva ‒ se da un lato impediscono una valutazione rigorosa dei modi e dei tempi di penetrazione della cultura cavalleresca presso la Magna Curia, d'altro lato consentono però di ridimensionare un problema all'apparenza non poco imbarazzante: la totale impossibilità, almeno allo stato attuale delle ricerche, di identificare, pur nell'accertata penuria generale di testimoni antichi dei romanzi francesi in versi, dei manoscritti che possano aver circolato o addirittura esser stati confezionati in ambiente italiano prima della metà del XIII sec. e dai quali far concretamente dipendere le conoscenze in materia dei poeti siciliani.
Naturalmente, non poter esibire nessun reperto manoscritto riferibile all'ambiente italiano dei primi decenni del Duecento non significa che reperti di questo tipo non siano esistiti: abbiamo ad esempio la prova che, nel 1240, la Curia federiciana aveva acquisito una copia del Roman de Palamèdes, grande narrazione romanzesca in prosa, composta pochissimi anni prima, già appartenuta a un messinese "magister Iohannis romanzor" (da intendere maestro Giovanni 'romanzatore' ‒ e allora si potrebbe persino opinare che il manoscritto in sua mano fosse già un volgarizzamento italiano del romanzo francese ‒, o forse ‒ più verosimilmente? ‒, a patto di considerare la forma come un genitivo plurale 'fossile', abbastanza comune nel francese dell'epoca, maestro Giovanni 'dei romanzi', soprannome mirante a mettere in risalto la passione dell'invero misterioso personaggio per quel genere letterario). Oltre a ciò, qualche pur minimo tratto formale (ad esempio la rima equivoca "finise" ‒ che vale 'fenice' in un caso, 'finisce' nell'altro ‒ ai vv. 11 e 14 del sonetto Sì come 'l parpaglion ch'à tal natura del Notaro, coincidente con l'analogo gioco riscontrabile in una sorta di riassunto in versi del Cligès di Chrétien de Troyes di cui offre copia un manoscritto del sec. XIII; cf. Giacomo da Lentini, Poesie, a cura di R. Antonelli, I, Roma 1979, pp. 346-347) lascerebbe immaginare un'applicazione attenta e diretta su singoli testimoni di prodotti romanzeschi.
In qualche altro caso è la specificità dell'allusione contenuta in un testo poetico siciliano a obbligarci a pensare a fonti puntuali. Istruttivo l'esempio di una celebre 'canzonetta' di Giacomo da Lentini, Meravigliosa-mente, tutta imperniata sul tema della rappresentazione dell'immagine della donna amata. Nei versi d'apertura il testo punta su una similitudine d'ambito pittorico ("com'om che pone mente / in altro exemplo pinge / la simile pintura, / così, bella, facc'eo, / che 'nfra lo core meo / porto la tua figura", vv. 4-9) per recuperare un motivo in apparenza assai caro ai poeti provenzali, e in specie a Folquet de Marselha: quello della figura della dama 'annidata' nel cuore dell'innamorato. Un recupero originale, perché né in Folquet (En chantan m'aven a membrar) né in altri trovatori che già prima di lui avevano fatto ricorso al motivo in questione ‒ come Bernart de Ventadorn o Raimbaut d'Aurenga ‒ si parlava di immagine dipinta, bensì piuttosto di sembiante, fattezze, ricordo, o perfino corpo (miniaturizzato) dell'amata introiettati nel cuore. A un'immagine riprodotta nel cuore con più o meno miracolosi mezzi artistici avevano invece fuggevolmente accennato un anonimo carme mediolatino e il Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure (segnalati da Bianchini, 1996, p. 39) nonché, più di-stesamente, un trovatore di origine italiana e contemporaneo di Giacomo, Sordello da Goito, secondo il quale era stato proprio Amore a scolpire nella viva materia del suo muscolo cardiaco le fattezze dell'amata: "vostras faissos / m'entaillet per semblans / al cor, tranchans, / Amors" (Tant m'abellis lo terminis novels, vv. 73-76). Ma Giacomo rielabora la trovata di Benoît, se non di Sordello, con realistica cautela, sottolineando più che altro la straordinaria somiglianza con l'originale che contraddistingue l'immagine della donna impressa nel suo cuore, una somiglianza analoga a quella che deve appunto caratterizzare la "pintura" eseguita da un bravo artista rispetto al modello. Nella III stanza, però, il Notaro si stacca da questo motivo, di cui è difficile, come si è già accennato, decidere l'ascendenza, e procede dichiarandosi autore di un'altra "pintura", più verosimile perché, come lascerebbe credere il pur vago contesto, posta non già in cuore bensì su uno degli usuali supporti dei dipinti, quali una tavola o una parete intonacata ("Avendo gran disio / dipinsi una pintura, / bella, voi simigliante, / e quando voi non vio / guardo 'n quella figura, / par ch'eo v'aggia davante", vv. 19-24). Se anche qui il riferimento di Giacomo è letterario, a differenza di prima esso risulta però ascrivibile a una fonte precisa. Tutti gli studiosi (cf. da ultimo Antonelli, 1995, pp. 329-330) vi hanno infatti riconosciuto un'evidente allusione a uno degli episodi più significativi di quella versione della leggenda di Tristano e Isotta che fa capo al Roman de Tristan di Thomas d'Angleterre (per la cui datazione si oscilla entro il ventennio 1150-1170): l'episodio della cosiddetta Salle aux images. Stando al racconto ‒ conservato integralmente dalla tardiva Tristansaga islandese e dal poema medio-inglese Sir Tristrem, ma purtroppo solo in parte dal poema di Thomas ‒, Tristano, addolorato per la separazione, che teme ormai definitiva, da Isotta, avrebbe allestito in una grotta sotterranea una sorta di sacrario memoriale della sua storia d'amore, con al centro una statua femminile che riproduceva perfettamente le fattezze dell'amata lontana. Tristano parla alla statua, le confida i suoi sentimenti, l'abbraccia e la bacia, "car ne sot vers cui descovrir / ne son voler, ne son desir", vv. 989-990 ('perché non sapeva a chi altro rivelare la sua volontà o il suo desiderio'); la trasforma insomma in un potente surrogato affettivo, esattamente come dice di fare Giacomo, cui la timidezza impedisce di manifestare il suo amore alla donna in carne e ossa.
Benché nei versi di Meravigliosa-mente non appaia nessun esplicito rinvio alla leggenda tristaniana, la loro dipendenza dall'episodio della Salle aux images piuttosto che da altri, più o meno simili, episodi di romanzi cavallereschi (in particolare dal lungo passo del cosiddetto Agravain, una delle sezioni in cui è convenzionalmente diviso il Lancelot in prosa, in cui si narra come Lancillotto, prigioniero della fata Morgana, avesse dipinto sulle pareti della sua cella le vicende della sua storia d'amore con Ginevra) sembra sicura sulla base del confronto con un altro passo dello stesso Giacomo. Nella VI stanza di Madonna mia, a voi mando, un testo per molti aspetti vicino a Meravigliosa-mente ‒ non ultimo la presenza, alla fine di entrambi, della 'firma' dell'autore ‒, il Notaro accosta la sua di nuovo evocata abilità d'artista ("In gran dilettanz'era, / madonna, in quello giorno / quando ti formai in cera / le bellezze d'intorno", vv. 41-44, dove "formai in cera" significa semplicemente 'ritrassi in immagine' e nulla dice sulla tipologia o sulla tecnica usata per quest'ulteriore ritratto) a un esplicito paragone fra la sua donna e la regina di Cornovaglia: "più bella mi parete / ca Isolda la bronda", vv. 45-46. L'unico elemento che potrebbe far pensare a un'interferenza dell'Agravain sulla fonte principale è costituito dal fatto che Giacomo si dice entrambe le volte autore in proprio del manufatto artistico, esattamente come Lancillotto e a differenza di Tristano, che invece aveva fatto eseguire le sue statue da scultori e orafi. Se davvero a questo particolare fosse possibile attribuire il valore di prova della conoscenza diretta, da parte di Giacomo, dell'Agravain oltre che del Tristan di Thomas, dovremmo pensare, come già nel caso sopra evocato del Roman de Palamèdes, che nell'ambiente siciliano quantomeno la curiosità nei confronti delle nuove forme del romanzo in prosa francese fosse piuttosto viva: la composizione dell'Agravain, infatti, viene collocata fra il 1220 e il 1225, dunque non molto prima che Giacomo iniziasse una carriera poetica che sappiamo non essere stata troppo longeva.
Di nuovo alla leggenda tristaniana alludono due discordi ‒ testi lirici caratterizzati da strofe di tipo eterometrico ‒, forse non esenti da qualche intenzione amebea e attribuiti l'uno (Dal core mi vene) ancora a Giacomo da Lentini, l'altro (Donna, audite como) a un tuttora misterioso "Messer lo re Giovanni" ‒ così la rubrica dell'unico relatore, il ms. Vat. Lat. 3793: probabilmente Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme e suocero di Federico II. L'allusione di Donna, audite como (vv. 47-68) è lunga ma tutto sommato piuttosto generica. Solo il cenno all'ineluttabilità dell'amore dei due eroi ("e Tristan se ne godìa / de lo bel viso rosato / ch'Isaotta Blond'avia; / ancor che fosse peccato, / altro far non ne potìa, / c'a la nave li fui dato / onde ciò li dovenìa", vv. 58-64) potrebbe far pensare che Giovanni conoscesse la versione maggioritaria della leggenda, quella fatta propria da Thomas, che attribuisce al filtro durata eterna, facendone così l'emblema di un dramma sentimentale privo di vie d'uscita. Certo più interessante il riferimento del discordo di Giacomo se, al di là della topicità del paragone tra il suo amore, di necessità celato, e gli amori, clandestini per eccellenza, degli amanti di Cornovaglia ‒ un paragone probabilmente derivato da uno dei discordi composti dal trovatore Raimbaut de Vaqueiras ‒, esso contiene un'allusione a un preciso luogo della leggenda. I vv. 27-42 ("O potess'eo, / o amore meo, / como romeo / venire ascoso, / e disïoso / con voi mi vedesse, / non mi partisse / dal vostro dolzore. / Dal vostro lato / [sto] allungato; / be.ll'ò provato / mal che non salda: / Tristano Isalda / non amau sì forte; / ben mi par morte / non vedervi fiore"), in cui si parla di un innamorato che, come Tristano, visita in segreto la sua donna mascherato da pellegrino, rinviano senz'altro a una delle numerose avventure en travesti del nipote di re Marco. Non dovrebbe però trattarsi della più celebre di queste avventure, quella del cosiddetto serment ambigu così come la racconta di nuovo Thomas (e la riprenderanno la Saga, la versione tedesca di Goffredo di Strasburgo e la tarda rielaborazione italiana della Tavola Ritonda, ma non l'antico Béroul che, particolare per nulla irrilevante, fa camuffare Tristano da lebbroso), dato che in quel caso il fine del travestimento di Tristano è togliere d'impaccio Isotta evitandole il rischio di uno spergiuro, e non goderne le grazie. Più probabile un riferimento all'episodio ‒ presente tanto in Thomas quanto nel testo tedesco di Eilhart von Oberg, e dunque risalente alla versione primitiva della leggenda ‒ dell'ultimo viaggio di Tristano, con il cognato Kaherdin, in Inghilterra; in esso non solo Tristano si traveste da "penant" ('penitente' e dunque 'pellegrino', per un'estensione semantica frequente nel Medioevo, epoca in cui i pellegrinaggi spesso venivano intrapresi per espiare una colpa, cf. i vv. 789 ss. del frammento Douce, che corrispondono ai vv. 2057 ss. dell'edizione critica di J. Bédier), ma gode davvero dell'amore di Isotta, e anzi, dato particolarmente emblematico, ne gode per l'ultima volta, poco prima di ricevere la ferita che gli sarà fatale (un "mal che non salda", come quello cui allude Giacomo?).
Da queste ultime osservazioni si può forse azzardare una considerazione di carattere non del tutto episodico: presso alcuni almeno dei poeti della Scuola siciliana ‒ e presso Giacomo da Lentini, in particolare ‒ la leggenda di Tristano e Isotta non sembra aver semplicemente goduto della vaga e generica fama che ha coinvolto tutte le altre storie cavalleresche, ma sembra piuttosto esser stata fatta oggetto di un particolare interesse, che ha portato a recuperi puntuali, per di più, si direbbe, filtrati attraverso una precisa versione letteraria della leggenda stessa: la versione di Thomas d'Angleterre, non a caso considerata più 'cortese' della concorrente versione di Béroul, e comunque più attenta alla psicologia dei personaggi e alla fenomenologia del sentimento amoroso; dunque una versione più prossima ai gusti di un ambiente intellettualmente raffinato come quello federiciano.
Sono probabilmente di nuovo i gusti, o meglio il particolare tipo di sensibilità culturale che caratterizza la cerchia federiciana ‒ interesse per la filosofia e, ancor più, per le scienze naturali, tendenza all'osservazione diretta della realtà e dei suoi fenomeni ‒, a render ragione di un'altra serie di recuperi di luoghi romanzeschi specifici, su cui è stata da ultimo attirata l'attenzione degli studiosi. Non si tratta, in questo caso, di allusioni a episodi particolari, bensì di variazioni e rimeditazioni attorno a due problemi teorici particolarmente sentiti da una cultura cortese che considerava il sentimento erotico come il motore principale dei comportamenti cavallereschi, due problemi che non a caso erano stati al centro dell'attenzione dei romanzieri francesi più sensibili, in primis Chrétien de Troyes: quello di una definizione 'ontologica' dell'amore e quello dell'origine del processo d'innamoramento. Non è ad esempio casuale che il primo dei due sonetti anonimi che costituiscono una breve tenzone relativa alla natura d'amore, trascritti dal Vat. Lat. 3793 immediatamente di seguito a un'altra celebre tenzone in sonetti imperniata sullo stesso tema (quella fra Giacomo da Lentini e l'Abate di Tivoli), si apra con un verso ‒ "non truovo chi mi dica chi sia amore" ‒ che è calco preciso dei vv. 7000-7001 del Roman d'Eneas, a loro volta clausola significativa nel dialogo fra Lavinia e la madre, in cui la regina appunto spiegava alla figlia che cosa fosse il sentimento che ella ormai aveva capito di provare per Enea (Antonelli, 1992). Tracce verbali e concettuali dello stesso episodio, meno esplicite ma non meno sicure, si ritrovano del resto ‒ già lo aveva notato il commento continiano (Poeti del Duecento, 1960, pp. 82 e 84) ‒ nei cinque sonetti dell'appena ricordata tenzone del Notaro con l'Abate di Tivoli.
Ma è soprattutto dal Cligès di Chrétien de Troyes, precisamente dalla sua prima sezione, in cui si narrano gli amori di Alexandre e Soredamor, genitori del protagonista (una sezione forse circolante, in Francia e fuori di Francia, in forma autonoma), che Giacomo da Lentini e, sulla sua scia, altri poeti siciliani e più tardi toscani riprendono e sviluppano, in termini straordinariamente vicini a quelli usati dal romanziere champenois, la teoria dell'"amorosa visione", cioè del procedere del coinvolgimento erotico dagli occhi dell'amante al suo cuore. Chrétien descrive la nascita dell'interesse per Soredamor da parte di Alexandre con l'aiuto di una serie di immagini topiche, puntualmente echeggiate dai poeti italiani (Bianchini, 1996, pp. 26-36): il dardo scoccato da Amore ‒ mezzo emblematico dell'innamoramento ‒ trapassa gli occhi dell'amante senza ferirli e colpisce invece il suo cuore, così come il raggio di sole trapassa il vetro senza romperlo e si diffonde al di là di questo (Cligès, vv. 695-696 e 719-720, ripresi, pur in ordine inverso, da Giacomo nelle quartine del sonetto Sì come il sol che manda la sua spera: "Sì come il sol che manda la sua spera / e passa per lo vetro e no lo parte, / […] / così l'Amore fere là ove spera / e mandavi lo dardo da sua parte: / fere in tal loco che l'omo non spera, / passa per li ochi e lo core diparte", e più tardi da Tommaso da Faenza ai vv. 21-28 della canzone Spesso di gioia nasce ed incomenza); sono poi gli stessi occhi dell'amante, agendo come una sorta d'obiettivo rovesciato di lanterna magica, a fissargli in cuore l'immagine della donna amata, e dunque a legarlo a lei in modo definitivo (Cligès, vv. 726-733, e Giacomo da Lentini, Amor è un‹o› desio che ven da core, vv. 9-11: "che li ochi rapresenta‹n› a lo core / d'onni cosa che veden bono e rio, / com'è formata natural‹e›mente").
Se è dai versi del Cligès che emerge, in tutta la sua sottigliezza, la spiegazione 'scientifica' di quel processo d'innamoramento che tanto affascina i poeti cortesi (e i Siciliani in primissimo luogo), è in un altro romanzo francese che gli stessi Siciliani hanno probabilmente rinvenuto (già vi si è fatto cenno più sopra) la prima attestazione del motivo, che può essere visto come una sorta di fissazione emblematica di tutto questo processo: il motivo dell'immagine della donna amata dipinta nel cuore del suo spasimante. Nel Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure è Achille, legato a Polissena da un sentimento destinato a un futuro tragico, a recare "escrite e peinte" nel proprio cuore la "semblance" della fanciulla (vv. 18081-18082): non si può escludere che proprio la tragica problematicità del rapporto che legava l'eroe troiano alla figlia di Priamo abbia richiamato l'interesse dei poeti federiciani e li abbia spinti a rilevare il forte valore simbolico che, in quel contesto, il motivo in questione veniva ad assumere. La 'fagocitazione' dell'immagine di Polissena operata da Achille vivo sembra infatti preludere alla ben più drammatica appropriazione del corpo di lei messa in atto dallo spettro di Achille morto, quando ne esigerà il sacrificio sul proprio sepolcro.
Queste considerazioni presuppongono ancora una volta la presenza concreta di un manoscritto. Ma che un esemplare del Roman de Troie circolasse presso la Magna Curia appare cosa ben più che plausibile, tenuto conto non solo del grande successo dell'opera di Benoît in tutta Europa e nella stessa Italia (almeno otto codici conservati sono di provenienza italiana), ma anche della stesura, pur databile al periodo 1272-1287, e cioè ad anni posteriori alla morte di Federico, dell'Historia destructionis Troiae, fedele latinizzazione dell'originale francese in versi ‒ se non di una sua precoce prosificazione ‒ da attribuire a un "Guido delle Colonne" che con buona probabilità può essere identificato con l'omonimo rimatore, giudice di Messina (Dionisotti, 1965).
Corre però l'obbligo di notare che l'Historia destructionis, di fatto unico rifacimento conservato di materia romanzesca ascrivibile alla Sicilia sveva, si propone come una vera e propria negazione della 'forma' romanzo cavalleresco: già la scelta del latino in luogo del volgare appare assai indicativa; altrettanto indicativa è l'eliminazione o la riduzione degli episodi più marcatamente erotici; in più, Guido non solo occulta i suoi debiti nei confronti di Benoît, ma assume anche un atteggiamento fortemente critico verso la grande tradizione letteraria della leggenda troiana: Omero, Virgilio e Ovidio vengono infatti condannati in quanto mistificatori di una verità storica che il giudice messinese sembra voler perseguire a tutti i costi, e per il ristabilimento della quale si affida invece, nel suo ingenuo razionalismo, alle pseudotestimonianze de visu di Ditti Cretese e Darete Frigio, fonti tardoantiche di tutta l'elaborazione leggendaria medievale sull'argomento (Bruni, 1987, pp. 110-115).
Come spiegare quest'atteggiamento, tanto più curioso se il Guido dell'Historia è davvero il Guido rimatore? Più che un'individuale questione anagrafica, e cioè di 'conversione' senile di Guido da rimatore mondano affascinato dalle tematiche cortesi (non dimentichiamo che nei versi d'apertura di una delle sue canzoni, Amor, che lungiamente m'hai menato, sembra alludere diffusamente all'episodio di Aristotele cavalcato per amore, reso da poco celebre dal Lai d'Aristote di Henri d'Andeli) a serioso storico dell'antichità, credo si tratti di un atteggiamento comune a tutto l'ambiente federiciano. Si potrebbe infatti dire, riprendendo una celebre distinzione di Chrétien de Troyes, che dei romanzi o racconti cortesi all'entourage di Federico interessano la "matiere", ossia i temi e i personaggi variamente utilizzabili in funzione allusivo-esemplare, nonché il "sen", cioè il significato ideologico ‒ e il conseguente valore comportamentale ‒ ricavabile dalle vicende narrate (esemplare in proposito il sopra discusso recupero delle riflessioni relative al processo d'innamoramento), mentre non fa presa la "conjointure", cioè il complesso sviluppo della trama: insomma, la sequenza di quelle avventure che invece Dante definirà, con evidente entusiasmo, "ambages pulcerrime". Non fa presa, e il dato merita di essere sottolineato, proprio l'elemento strutturale che rende distinguibile il romanzo cortese rispetto agli altri tipi contemporanei di narrazione.
Una conferma di questo dato di fatto ci viene anche dal particolare trattamento della versione francese delle Prophetie Merlini di Goffredo di Monmouth, capitolo centrale dell'Historia Regum Britanniae, che testimonianze coeve (Les Prophécies, 1926-1927, I, pp. 76-77; II, pp. 328-329) attribuiscono a Federico II: estrapolate dal quadro narrativo in cui Goffredo le aveva inserite, per ordine dell'imperatore le Prophécies de Merlin sarebbero state tradotte in arabo per essere inviate al sultano d'Egitto al-Kāmil, in cambio dell'originale del Sidrach, grande enciclopedia del sapere comune dell'epoca. Dunque considerate non già come un quadro di riferimento e di 'inveramento' del mondo arturiano, bensì come un possibile tipo d'approccio alla conoscenza del mondo, complementare a quello offerto da qualsiasi altra compilazione enciclopedica.
Un'ultima considerazione: questa sostanziale indifferenza della cultura federiciana nei confronti delle narrazioni di carattere romanzesco sembra riguardare gli ambienti italiani e non quelli tedeschi, o comunque germanofoni, dell'Impero. Sappiamo in effetti che la fortuna della narrativa cortese oitanica in Germania fu precoce e profonda: come nel resto dell'Europa (Italia centrosettentrionale compresa), e anzi ancor prima che altrove, le storie arturiane e tristaniane non solo si diffusero in originale e in traduzione, ma fornirono materia per nuove narrazioni, prestandosi anzi a inusitati esperimenti diegetici. Basti, a riprova, il caso del Frauendienst di Ulrich von Liechtenstein, curiosa autobiografia fantastica in forma di prosimetro in cui il protagonista si presenta nelle vesti non solo del poeta che canta le lodi della sua dama, ma anche del cavaliere errante che passa di torneo in torneo combattendo, come Lancillotto e tanti altri eroi bretoni, per la gloria di quella stessa dama. L'esperimento di Ulrich data 1255 ed è dunque perfettamente contemporaneo agli esercizi dei poeti federiciani; ma, sia per spirito sia per risultati, sarebbe difficile trovare qualcosa di più lontano del Frauendienst dalle liriche della nostra prima Scuola.
fonti e bibliografia
Chrétien de Troyes, Cligès, a cura di W. Foerster, Halle 1884.
Thomas, Le Roman de Tristan, a cura di J. Bédier, Paris 1902.
Benoît de Sainte-Maure, Le Roman de Troie, a cura di L. Constans, I-VI, ivi 1904-1912.
Les Prophécies de Merlin, a cura di L.A. Paton, I-II, New York-London 1926-1927.
Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, I, Milano-Napoli 1960.
Giacomo da Lentini, Poesie, a cura di R. Antonelli, I, Roma 1979.
Giovanni (di Brienne?), Donna, audite como, in B. Panvini, Poeti italiani della corte di Federico II, Napoli 1994.
J. Stiennon-R. Lejeune, La légende arthurienne dans la sculpture de la cathédrale de Modène, "Cahiers de Civilisation Médiévale", 6, 1963, pp. 281-296.
C. Dionisotti, Proposta per Guido Giudice, "Rivista di Cultura Classica e Medioevale", 7, 1965, pp. 453-466.
F. Bruni, Boncompagno da Signa, Guido delle Colonne, Jean de Meung: metamorfosi dei classici nel Duecento, "Medioevo Romanzo", 12, 1987, pp. 103-128.
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