Cultura visiva e illustrazione anatomica nel Rinascimento
La storia dell’anatomia, tra la fine del Medioevo e l’età moderna, s’iscrive in modo perfettamente coerente nella più vasta storia intellettuale di questo periodo. Per molti versi, addirittura, verrebbe quasi da considerarla come un’espressione emblematica della cultura umanistica, fondata sulla riscoperta dell’antico e il recupero della tradizione classica ma nondimeno disposta ad accogliere novità e innovazioni, promossa da una serie di literati che operano sovente di converso attraverso una fitta rete di scambi culturali e di relazioni personali, segnata da una propensione a esplicarsi traendo frutto dall’incrocio tra la filologia, le arti e le scienze.
Come per la cultura umanista, la storia dell’anatomia rinascimentale si dipana su scala europea attraverso i viaggi dei protagonisti, la circolazione dei testi e le corrispondenze epistolari, toccando e radicandosi in quei centri in cui le corti, le tipografie e soprattutto le università offrono le condizioni per il suo sviluppo. Analogamente, e per questo, l’Italia centro-settentrionale è stata, nel Rinascimento, il principale teatro europeo di questa storia, e alcune città in cui tali condizioni erano particolarmente favorevoli, come Padova, Venezia, Bologna, Firenze e Roma, hanno costituito dei veri e propri centri d’irradiazione europea della cultura anatomica, tanto sul versante più tradizionale del lavoro filologico sulle fonti antiche, quanto su quello innovativo della riscrittura dell’anatomia sulla base della ricerca autoptica sul cadavere.
L’anno 1543 è concordemente indicato dagli storici come un momento di svolta nella storia dell’anatomia. La pubblicazione del De humani corporis fabrica (più noto come Fabrica) di Andrea Vesalio, corredato da magnifiche illustrazioni, a opera dell’editore Johann Herbst (Johannes Oporinus) di Basilea, costituisce, infatti, inequivocabilmente una rottura rispetto alla trattatistica anatomica precedente. Con questo libro, Vesalio propone una revisione e una riscrittura dell’anatomia galenica che aveva dominato nell’insegnamento di questa disciplina, tanto nell’Oriente cristiano e poi musulmano, quanto nell’Occidente latino.
Testi come il De juvamentis membrorum – un compendio medievale del De usu partium corporis humani di Galeno (129/130-200/216) –, il primo libro del Canon medicinae – versione latina del Kitāb al-qānūn fī ṭ-ṭibb (Libro del canone di medicina) del persiano Avicenna (980-1037 ca.) – e soprattutto l’Anothomia (1316) del bolognese Mondino dei Liuzzi (o Raimondino dei Liucci) – letti, studiati e memorizzati da intere generazioni di studenti dell’Europa tardomedievale e rinascimentale – erano tutti improntati su un modello anatomico desunto, in maniera più o meno diretta, dalle opere di Galeno.
Il De anatomicis administrationibus, l’opera specificamente dedicata all’anatomia che Galeno aveva scritto verso la fine del 2° sec., resta sostanzialmente sconosciuto in Europa sino alla traduzione latina della fine del 15° sec. di Demetrio Calcondila (ma stampata nel 1529), seguita nel 1531 da una nuova traduzione del medico e umanista tedesco Johann Winther (1487/ 1505-1574).
A partire da questo momento, si assiste a un appiattimento ancora più marcato della produzione relativa all’anatomia sulle descrizioni del corpo umano fornite da Galeno. Ne sono un esempio eloquente i manuali realizzati per gli studenti di medicina dal francese Jacques Dubois (Iacobus Sylvius, In Hippocratis et Galeni physiologiae partem anatomicam isagogae, 1542) e dallo stesso Winther (Joannes Guinterius Andernacus, Institutionum anatomicarum secundum Galeni sententiam ad candidatos medicinae libri quatuor, 1536), in cui l’opera anatomica di Galeno – considerata nel suo complesso, per lunghezza e struttura, poco adatta all’insegnamento – viene ridotta, semplificata e schematizzata per renderla più efficace nella didattica e nell’apprendimento.
Già Alessandro Benedetti, Iacopo Berengario (o Barigazzi, noto anche come Iacopo da Carpi), Alessandro Achillini, Niccolò Massa – solo per citare alcuni dei medici-anatomisti attivi tra la fine del 15° sec. e i primi decenni del 16° – si erano timidamente azzardati a proporre la correzione di alcuni errori riscontrati nelle descrizioni fornite da Galeno, e ciò a partire dalle osservazioni che avevano potuto compiere sul corpo umano nel corso di autopsie occasionali e di qualche dissezione.
Ma si deve indubbiamente a Vesalio la verifica puntigliosa e sistematica degli assunti dell’anatomia galenica. Partendo dal presupposto che Galeno non avesse mai operato dissezioni sul corpo umano e che il modello anatomico che proponeva fosse il risultato di osservazioni compiute soltanto sul corpo di animali, in particolare sulle scimmie, nella Fabrica Vesalio si prefigge l’obiettivo di correggere gli errori tramandati e accumulati da oltre un millennio dalla tradizione anatomica galenica. Strumenti principali di questa radicale revisione sono – secondo quanto egli stesso afferma nella Praefatio dell’opera (f. 3v) – la rediviva arte della dissezione e, insieme, una lettura meticolosa dei libri di Galeno.
Dissezione e lettura delle fonti classiche, tuttavia, sono strumenti d’indagine correntemente utilizzati dagli anatomisti sin dagli albori del 14° secolo. Se, infatti, la lettura e lo studio delle autorità classiche fondano la stessa legittimità del sapere (di ogni sapere), e ciò in modo particolarmente implacabile nella morsa dei curricula che si venivano istituendo nelle sorgenti università medievali, la pratica della dissezione è già attestata in Italia, e non solo, sin dai primi anni di quel secolo.
La prima testimonianza certa si trova nella citata Anothomia di Mondino. L’autore ricorda senza particolare enfasi, e quindi come un fatto normale, di aver potuto aprire i cadaveri di due donne, rispettivamente nel gennaio e nel marzo del 1315. Nonostante il fatto che a partire da questa data, e specialmente nel corso dei primi decenni del 16° sec., si siano moltiplicate le occasioni per l’osservazione diretta dell’anatomia umana grazie alla pratica sempre più diffusa e regolare della dissezione, sembra che per due secoli – da Mondino a Vesalio – la forza dell’autorità, incarnata nei testi, abbia costretto e limitato la percezione dell’evidenza – materiale, visibile e tangibile – che emergeva dall’apertura dei cadaveri.
L’operazione compiuta da Vesalio nella Fabrica sembra pertanto costituire il culmine di un processo le cui premesse metodologiche e tecniche erano state poste almeno un paio di secoli prima, mentre costituisce davvero un’innovazione – per dirlo sinteticamente – l’inversione dell’ordine di priorità tra testo e dissezione, tra lettura e osservazione. Per averne una vivida rappresentazione è sufficiente comparare due immagini nelle quali è raffigurata la lezione di anatomia: quella che precede l’Anothomia di Mondino contenuta nel Fasciculus medicinae (1491) del tedesco Johannes de Ketham, e quella contenuta nel frontespizio della Fabrica.
La scena stampata nel Fasciculus mostra un lector che ex cathedra recita (o, in altre edizioni del frontespizio, legge) un testo: le fonti relative all’insegnamento dell’anatomia nelle università europee ci informano che si tratta di un testo rigorosamente di tradizione galenica. Il demonstrator, sulla destra, indica con una bacchetta – svolgendo sovente anche il ruolo di traduttore dal latino al volgare – dove il personaggio che brandisce il coltello, il sector, doveva tagliare il cadavere. In tal modo, le parti che erano descritte a voce dal lector nel corso della lezione potevano essere mostrate agli astanti indicandole sul corpo disteso sul tavolo settorio.
Nella Fabrica, questo modo di condurre la lezione di anatomia diventa oggetto di discussione, di polemica, addirittura di dileggio. Nella prefazione, infatti, Vesalio irride i suoi predecessori e, soprattutto, i colleghi suoi contemporanei che insegnano ripetendo a memoria quanto hanno letto nei libri altrui, senza mai curarsi di verificarne la veridicità o attingere conoscenze dall’esperienza diretta dell’anatomia umana.
Nel frontespizio della Fabrica, inoltre, Vesalio si fa rappresentare nell’atto di praticare con le proprie mani una dissezione – senza dunque la mediazione del sector e del demonstrator – e sul tavolo, accanto al corpo dissezionato, si notano un foglio di carta, una penna e un calamaio. Gli stessi oggetti ricorrono nel ritratto di Vesalio stampato nella Fabrica nell’intento di sottolineare e reiterare – anche iconograficamente – l’idea di un testo anatomico che si vuole generato dalla pratica della dissezione, dall’osservazione del cadavere, dall’esperienza sensibile dell’anatomia.
Tutto questo implica lo stravolgimento del valore e degli obiettivi assegnati alla pratica della dissezione. Se essa era inizialmente, a partire dal 14° sec., pensata e utilizzata come strumento destinato all’insegnamento e alla dimostrazione della veridicità del contenuto dei testi autoritativi d’ascendenza galenica, con Vesalio essa assurge in modo definitivo a una funzione precisamente investigativa, oltre che didattica: soltanto grazie all’apertura, alla manipolazione e all’osservazione del cadavere è possibile acquisire nuove conoscenze sul corpo e le sue parti; soltanto la dissezione permette di scrivere l’anatomia, correggendo le erronee descrizioni degli antichi a cui palesemente erano mancate le occasioni per studiarla in modo adeguato.
Al di là delle polemiche sugli obiettivi inerenti all’apertura dei cadaveri, più in generale si constata che, a partire dal momento in cui diventa lecito praticarla, la dissezione assume un ruolo decisivo nella comunicazione e nella produzione del sapere anatomico, tanto quando era usata unicamente a fini didattici e dimostrativi, quanto nel momento in cui diventa uno strumento indispensabile per la ricerca. Tale ruolo le è conferito dal fatto che si tratta di una tecnica fondata sull’esperienza visiva, a cui sono assegnati di volta in volta compiti specifici a seconda del contesto operativo in cui essa è praticata. La vista è convocata per fornire la convalida degli assunti e delle descrizioni testuali; conferisce statuto di prova alle puntigliose verifiche e alle indagini attuate nel corpo, ad es., da Vesalio; aiuta a comprendere aspetti dell’anatomia difficilmente traducibili in parole (la forma, la consistenza, il colore, la posizione di alcune parti del corpo); costituisce un indispensabile supporto per la memorizzazione delle conoscenze.
Le diverse valenze dell’esperienza visiva messe in atto dalla pratica della dissezione fanno sì che simili considerazioni sugli usi possibili di essa ricorrano nelle pagine degli anatomisti rinascimentali, accomunando così tanto i rappresentanti della più proterva tradizione galenica, quanto coloro che si presentavano come gli araldi della revisione e della correzione del paradigma anatomico classico. Concordemente, infatti, gli anatomisti rinascimentali hanno sottolineato il ruolo della percezione sensoriale nella produzione e nella comunicazione della conoscenza anatomica, in contrapposizione a un processo conoscitivo fondato esclusivamente sulla parola scritta o proferita. Chi è guidato dall’amore per la verità, ammonisce Vesalio nella prefazione alla Fabrica, «presti più fede ai propri occhi e ai ragionamenti non inutili, più che agli scritti di Galeno» (f. 3v).
Massa, nel Liber introductorius anatomiae (1536), cita letteralmente il De usu partium corporis humani di Galeno, ricordando che «quando qualcuno vuol farsi osservatore dell’opera della natura, non deve credere ai libri anatomici, bensì ai propri occhi» (f. 10r). Inoltre, nel capitolo introduttivo ritorna costantemente sulla necessità di un approccio all’anatomia attraverso i sensi: essi costituiscono, afferma, l’unica garanzia di verità in questa disciplina.
Da parte sua Berengario, nel suo lungo commento all’Anothomia di Mondino scrive, parafrasando Galeno:
e non si creda che si possa apprendere questa disciplina soltanto attraverso la viva voce (degli insegnanti) o la lettura, poiché qui sono necessari la vista e il tatto (Commentaria […] super “Anothomia” Mundini, 1521, f. 6v).
A questo coro si unisce anche Dubois, professore di medicina a Parigi nella prima metà del 16° sec. e maestro di Vesalio negli anni in cui questi aveva studiato nella capitale francese. Egli forse più di tutti ha incarnato il conservatorismo galenico, in opposizione alla ‘sacrilega’ e irriverente revisione dell’anatomia proposta nella Fabrica: nelle pagine infuocate del Vaesani cuiusdam calumniarum in Hippocratis Galenique rem anatomicam depulsio (1551), attacca violentemente il suo ex studente Vesalio senza mai nominarlo, designandolo come vaesanus (folle) ed empio dissacratore dell’autorità dei classici.
Tuttavia, nel citato testo del 1542 in cui aveva sintetizzato l’anatomia di Ippocrate e Galeno, Dubois non soltanto aveva sostenuto la maggiore incisività dell’esperienza acquisita «visu et tactu» rispetto a ciò che si può apprendere «auditu et lectione» (In Hippocratis, cit., f. 93v), ma si era spinto addirittura a dichiarare la propria sfiducia nelle parole, poco efficaci nel rendere conto dei fatti della natura. In questo testo Dubois giunge a porre il problema dello iato tra significato e significante e delle inevitabili confusioni da esso generate, poiché «i nomi non son altro che l’ombra delle cose stesse, sono delle immagini non espresse»: la sua aspirazione qui sembra, paradossalmente, quella di insegnare sine nominibus, assegnando all’esperienza sensoriale, agli occhi, alla visio, il compito di leggere direttamente il libro della natura (ff. 96v, 97r).
Nella Praefatio ad lectorem di un altro libro, il Commentarius in Claudii Galeni “De ossibus ad tyrones” libellum (1561), Dubois, poi, scandisce una gerarchia dei sensi implicati nell’apprendimento dell’anatomia, una gerarchia ordinata secondo il criterio della loro maggiore o minore affidabilità e credibilità: «sono più degni di fede gli occhi che le orecchie, e il tatto dell’uomo è certissimo».
Il ricorso al tatto è, però, una prerogativa di pochi, anzi di pochissimi. L’accesso diretto al cadavere e la manipolazione delle parti del corpo erano, infatti, generalmente limitati al sector, colui che materialmente operava la dissezione secondo il cerimoniale definito dagli statuti delle università; o a qualche medico-anatomista che, ispirato dall’insegnamento vesaliano, contestava la compostezza accademica delle lezioni pubbliche d’anatomia, quella «ridicola usanza delle scuole», quel «rito detestabile» (A. Vesalio, Praefatio alla Fabrica, cit., f. 3r) che imponeva l’assurda separazione del ruolo del barbiere e del chirurgo, che operano la sezione del cadavere, da quello del medico che, «come una cornacchia» (graculorum modo, f. 3r), descrive le parti del corpo ripetendo a memoria quanto altri hanno scritto. A queste occasioni pubbliche, celebrative, solenni, ma inevitabili, Vesalio contrappone le anatomie private:
non è in discussione a qual punto, infatti, sia da prediligere alla [anatomia] pubblica, la dissezione privata, dimostrata dinanzi a pochi [astanti] (Fabrica, cit., p. 457).
Solo in luoghi improvvisati, senza rituali e cerimonie, talvolta nel domicilio stesso dell’insegnante e spesso su cadaveri di dubbia provenienza, i corpi possono essere toccati, tagliati e scomposti.
Nonostante le dichiarazioni di principio degli anatomisti cinquecenteschi, agli studenti, ai filosofi, ai chirurghi, ai barbieri e a tutti i curiosi che popolavano i teatri anatomici dell’Europa moderna restavano innanzitutto la parola e la visio per essere iniziati alla conoscenza dell’anatomia umana. L’insufficienza e l’inadeguatezza della parola letta, proferita o stampata per la comunicazione (e l’apprendimento) di un sapere che si configura prevalentemente fondato sull’atto del vedere (per verificare, ricordare, localizzare, insegnare e imparare), costituisce il presupposto su cui poggiano non solo la pratica della dissezione e la sua esibizione nel teatro anatomico, ma anche l’uso delle immagini tanto nella didattica, quanto – con l’invenzione della stampa – nell’editoria anatomica.
La regolarizzazione della pratica della dissezione nelle università italiane e di altri Paesi europei, così come il parallelo proliferare di immagini del corpo umano a cui si assiste nel corso del 16° sec. vanno entrambi ricondotti al fatto che proprio in questo periodo si vengono a creare le condizioni culturali, istituzionali e tecniche che consentono il definitivo instaurarsi di una cultura visiva dell’anatomia, la cui esigenza era tuttavia già viva e manifesta prima che si potessero aprire cadaveri e prima che si diffondesse l’uso delle immagini a stampa.
Infatti, che l’anatomia fosse un sapere che poteva essere appreso e comunicato innanzitutto attraverso immagini, schemi e diagrammi, era ben chiaro anche molti secoli prima del periodo qui in esame. Se Galeno aveva insistito sull’importanza del costante esercizio dell’occhio nell’osservazione diretta dei corpi, prima di lui Aristotele nelle sue opere biologiche – in particolare la Historia animalium e il De partibus animalium – aveva segnalato a più riprese l’impossibilità di chiarire con l’ausilio del solo ragionamento e della sola descrizione verbale alcuni aspetti relativi all’anatomia umana e animale, rinviando, per maggiori precisioni e per una esposizione sintetica ed efficace, alle Tavole anatomiche: una collezione di illustrazioni e diagrammi, perduta sin dall’antichità, che probabilmente accompagnava la Historia animalium e che Aristotele utilizzava durante le lezioni.
Dissezione e illustrazione sono esplicitamente poste sullo stesso piano come possibili alternative per la comunicazione delle conoscenze anatomiche da Guido da Vigevano, quando, rivolgendosi ai suoi colleghi parigini, nella sua Anathomia Philippi septimi (contenuta nel Liber notabilium illustrissimi principis Philippi septimi […], 1345) scrive:
Poiché la Chiesa proibisce di fare l’anatomia del corpo umano, io dimostrerò l’anatomia dell’uomo manifestamente e visibilmente attraverso delle figure dipinte in modo corretto (cit. in L’“Anatomie” de Guide de Vigevano, médecin de la reine Jeanne de Bourgogne, 1345, éd. E. Wickersheimer, «Archiv für Geschichte der Medizin», 1913, 1, p. 1).
Un secolo più tardi, Leonardo da Vinci ricorda, a proposito dell’anatomia umana, le virtù esplicative e descrittive dell’immagine in contrapposizione alle parole, spesso oscure e insufficienti per rendere la complessità del corpo umano:
E tu, che vogli con parole dimostrare la figura dell’omo con tutti li aspetti della sua membrificazione, removi da te tale oppenione, perché, quanto più minutamente descriverai, tanto più confonderai la mente del lettore e più lo removerai dalla cognizione della cosa descritta (Windsor Castle, Royal library, ms. A, f. 19013v).
Questa constatazione induce Leonardo a sfidare chiunque voglia cimentarsi con la trasposizione scritta dell’anatomia umana:
scrittore, con quali lettere scriverai tu con tal perfezione la intera figurazione, qual fa qui il disegno? (Windsor Castle, Royal library, ms. C, f. 19071r).
Già alcuni manoscritti medievali su temi anatomici e chirurgici, come quello del Musée Condé (ms. 334, già 569) della citata Anothomia di Guido da Vigevano o quello della Bibliothèque nationale di Parigi (ms. fr. 2030) della Cyrurgia (scritta in latino tra il 1306 e il 1320) del francese Henri de Mondeville, contengono illustrazioni miniate realizzate allo scopo di agevolare la descrizione delle parti del corpo umano e facilitare la comprensione del suo funzionamento.
Ma è certamente con l’avvento della stampa e in coincidenza cronologica con la regolarizzazione della pratica della dissezione nelle maggiori università europee, che le illustrazioni anatomiche si moltiplicano e iniziano a svolgere quel ruolo di indispensabile complemento della parola indicato da Aristotele, Guido da Vigevano e Leonardo. D’altronde, grazie alla stampa, la moltiplicazione degli esemplari e l’estensiva circolazione dei libri consentiva, in misura maggiore rispetto ai manoscritti, il confronto, la correzione e l’affinamento, non solo dei testi, ma anche delle varie forme di comunicazione grafica adottate nelle rappresentazioni del corpo umano, delle tecniche di rinvio e dell’integrazione tra testo e immagine.
Nel 1491, il citato Fasciculus di Johannes de Ketham, silloge di testi medici per l’insegnamento universitario, contiene soltanto poche illustrazioni, di cui solo alcune di carattere didattico e informativo: una figura dell’apparato riproduttivo femminile, un uomo zodiacale e una figura umana in cui sono rappresentate le ferite inferte dalle armi. Queste immagini restano tuttavia completamente separate dal testo.
Per un primo passo verso l’integrazione dell’immagine nel testo anatomico bisogna attendere il 1521, con la pubblicazione del citato commento all’Anothomia di Mondino scritto da Berengario, e soprattutto il 1522, con la pubblicazione delle Isagogae breves perlucidae ac uberrimae in anatomiam humani corporis dello stesso Berengario. Quest’ultimo testo è un breve manuale di anatomia che nelle intenzioni dell’autore doveva soppiantare il testo di Mondino, allora utilizzato come guida testuale all’insegnamento universitario dell’anatomia tanto a Bologna e a Padova quanto in altre università italiane ed europee.
In entrambe le opere di Berengario, nelle descrizioni anatomiche fornite dal testo non si fa mai riferimento alle illustrazioni, né tantomeno queste ultime recano alcun sistema di segni che rimandi al testo o viceversa. Alcuni capitoli dei due libri, tuttavia, si concludono con poche parole che suggeriscono di consultare l’illustrazione per una più facile comprensione di quanto è esposto, e accanto ad alcune figure è stampata una brevissima legenda in cui si enunciano il soggetto e qualche riflessione generale sulle parti rappresentate.
Più che spiegare e chiarire il contenuto del testo, queste figure costituiscono innanzitutto un ornamento tipografico, tanto che alcune paiono quasi esercizi artistici, in cui si indugia più sulle metafore evocate dal tema del corpo e della morte che sulla rappresentazione anatomica in quanto tale. Così, le figure in cui è rappresentata la muscolatura anteriore e posteriore del corpo (11 delle 21 complessive contenute nei Commentaria) sembrano realizzate non tanto per medici e studenti di medicina, quanto piuttosto per chi è interessato innanzitutto alla morfologia superficiale; inoltre, nella breve legenda a una delle figure dorsali delle Isagogae, Berengario precisa: «e queste figure giovano anche ai pittori nella delineazione delle membra» (f. 61v).
Le illustrazioni dei libri di Berengario rimangono al margine del testo, offrono una visione schematica e generale di alcune parti dell’anatomia umana (muscoli, scheletro, apparato genitale femminile, cuore) e costituiscono, al tempo stesso, un ornamento che coinvolge il lettore sospingendo l’informazione anatomica al di là dell’ambito strettamente scientifico. La comunicazione del sapere anatomico si coniuga qui, infatti, con un discorso metaforico sul corpo e sulla morte attraverso la mediazione estetica. Questo carattere metaforico, estetico e polisemico dell’iconografia anatomica a stampa, che fa capolino nei libri di Berengario, è una delle caratteristiche principali della cultura visiva che, affermatasi con l’avvento della riproduzione meccanica delle immagini e dei testi, culmina nell’opera di Vesalio e diventa la forma espressiva propria dell’anatomia figurata almeno sino alla fine del 18° secolo.
Il carattere più ornamentale che didattico dell’apparato iconografico dei libri di Berengario viene criticato da Dubois, che lo definisce senza alcuna reticenza come un assemblaggio splendido ma assolutamente inutile (cfr. C.E. Kellett, Perino del Vaga et les illustrations pour l’“Anatomie” d’Estienne, «Aesculape», 1955, p. 76). Dubois, come ricorda un suo contemporaneo, utilizzava regolarmente figure e illustrazioni durante le lezioni «pour plus ample declaration de sa leçon» (N. du Fail, Les contes et discours d’Eutrapel, 1586, ed. 1598, p. 232), ma certamente senza alcuna concessione all’estetica e avanzando comunque molte riserve sull’efficacia didattica dell’immagine in generale, considerata sempre e comunque inferiore rispetto a quanto si poteva invece apprendere attraverso la dissezione.
È proprio a partire da tali considerazioni che sono rigorosamente senza figure tutti i libri pubblicati da Dubois, che nel citato Commentarius al De ossibus di Galeno scrive:
In verità, non volli qui la figura stampata delle ossa con i loro nomi, poiché preferisco che oggi le ossa stesse siano viste, esaminate, giudicate e saggiate da tutti nella palesissima realtà della natura: non so come si possa apprendere in modo tanto stupido e laborioso da linee che non riproducono nessuna vera proporzione e ancora meno dalle ombre (come le chiamano) che tante cose nascondono [con il chiaroscuro] (p. 54).
La posizione di Dubois rispetto all’uso delle immagini nella trasmissione del sapere anatomico resta tuttavia isolata e marginale. Nell’età della stampa e della dissezione, il ricorso all’illustrazione è un’esigenza generalmente condivisa da tutti gli autori ed editori di testi anatomici, consci del potere esplicativo e comunicativo delle figure, specialmente in un campo disciplinare il cui fondamento risiede ormai nell’atto del vedere e nell’osservazione.
Charles Estienne, anch’egli come Vesalio un allievo di Dubois e un assiduo frequentatore degli ambienti umanistici italiani e francesi, è l’autore del De dissectione partium corporis humani libri tres, un volume in-folio pubblicato a Parigi nel 1545, ma redatto qualche anno prima e completo dell’apparato illustrativo già nel 1539. Qui Estienne retoricamente si interroga sull’opportunità dell’uso delle figure e sulla loro funzione in un libro di anatomia, esplicitando il modo in cui egli concepisce il rapporto tra testo scritto e immagini:
Se queste immagini soddisfano l’animo e l’ingegno, esse, in verità, mostrano anche agli occhi l’apparenza e la forma delle cose descritte. Le cose scritte parlano; le immagini, benché mute, mettono dinanzi agli occhi le singole cose in modo tale che nessun ulteriore discorso sia necessario (p. 8).
Si delineano così due modalità di comunicazione complementari: la parola è indirizzata all’intelletto per spiegare e descrivere; l’immagine mostra ciò che la parola non può dire. Di conseguenza, il libro illustrato è per Estienne un prontuario da usare per vivificare la memoria in mancanza di un cadavere da osservare direttamente o per sciogliere dubbi e incertezze: lì dove il testo non è sufficiente interviene l’immagine, concepita come un rapido, facile ed efficace mezzo attraverso cui comunicare il sapere anatomico.
Il libro di Estienne – stando a quanto egli stesso precisa nell’introduzione – non si rivolge, tuttavia, esclusivamente agli studenti di medicina, e non vuole essere in alcun modo un trattato gravissimus e prolisso. Al contrario, egli sceglie di privilegiare invece un’esposizione breve, affinché «possa essere […] facilmente compresa» (p. 1). L’autore si rivolge ai lettori come a degli amici che con lui condividono interessi culturali e valori morali. A costoro vuole offrire non soltanto un libro di scienza, bensì un’opera che dia conto «della bellezza delle cose stesse che sono state create dalla divina provvidenza», invitandoli ad ammirare «la straordinaria solerzia della Natura» e a lodare Dio «che nulla creò nel corpo che sia inutile, nulla senza una ragione, nulla che sia superfluo» (p. 2).
Il testo e l’immagine così associati ambiscono pertanto a favorire una lettura spirituale, morale e persino religiosa dell’anatomia. Appaiono quasi accantonate – almeno formalmente – le preoccupazioni di carattere strettamente didattico e la conoscenza del corpo umano è sviluppata in un discorso intellettuale più ampio, il cui interesse e valore non può né deve ridursi alla medicina, ai suoi usi e a ciò che oggi intendiamo con il termine scienza.
Nell’introduzione, perciò, Estienne insiste sul piacere generato dalla conoscenza anatomica: l’anatomia scritta e l’anatomia dipinta, insieme, sono concepite per dilettare e deliziare (pascere e oblectere) tanto l’animo quanto gli occhi. In tal modo, l’uso delle immagini accanto al testo si spiega non soltanto come strumento di trasmissione di conoscenze difficilmente traducibili in parole, né a esse è assegnata unicamente una funzione mnemonica o sintetica come si farebbe in un libro a destinazione didattica o accademica. Nel suo libro, le illustrazioni vanno oltre queste funzioni, di per sé importanti ma più o meno scontate. Le figure, infatti, sono pensate e realizzate come il mezzo attraverso cui il lettore può coniugare l’appagamento intellettuale della conoscenza con il piacere della fruizione estetica. Elementi ornamentali e paesaggistici, strutture architettoniche e antiche vestigia, attributi e gestualità delle figure, iscrizioni e cartigli – già in qualche caso riscontrabili nell’apparto iconografico dei trattati di Berengario – fanno da cornice significativa all’iconografia propriamente anatomica, al punto che ogni figura racconta una storia che, inevitabilmente, non è più soltanto scientifica né puramente descrittiva. Non si tratta di elementi decorativi e di contorno, ma di artifici iconografici utilizzati per favorire la godibilità e la stessa leggibilità del contenuto anatomico: si tratta insomma di un modo attraverso il quale si effettua la trasmissione del sapere e dei significati.
A questo proposito, di particolare interesse sono le illustrazioni relative agli organi di riproduzione femminili contenute nel terzo libro del De dissectione. Esse sono frutto di una curiosa collaborazione: le figure sono state intagliate dall’artista François Jollat, mentre il disegno degli innesti silografici in cui è rappresentata l’anatomia della matrice sono opera di un chirurgo, Estienne Rivière.
Otto di queste immagini ginecologiche sono un riadattamento di figure femminili tratte da una serie di stampe erotiche note con il titolo Gli amori degli dei, disegnate da Perin del Vaga e da Rosso Fiorentino e poi intagliate da Giovanni Jacopo Caraglio poco prima del Sacco di Roma (1527), che ebbero un discreto successo editoriale nel corso della prima metà del 16° secolo. La scelta di questo modello per la realizzazione delle figure femminili non è casuale: fa appello, appunto, a una fruizione del sapere anatomico che è al tempo stesso estetica e didattica. Ciò è esplicitato tanto dal fatto di utilizzare modelli iconografici presi a prestito dalla produzione artistica coeva – un’operazione già in parte compiuta da Berengario e che sarà adottata in seguito anche da altri anatomisti –, quanto, specificamente, dal ricorso a stampe riconoscibili per il contenuto erotico come struttura iconografica in cui inscrivere gli organi femminili della generazione.
Questa concezione della comunicazione visiva che si manifesta nella cultura anatomica rinascimentale giunge a completa maturazione nell’opera di Vesalio: nella Fabrica egli proclama la necessità di figurare l’anatomia, utilizza immagini programmaticamente concepite per favorire la ricezione estetica delle conoscenze relative al corpo umano, pensa alle immagini come a uno strumento per ampliare il circuito di diffusione del sapere anatomico anche al di fuori della cerchia dei medici e del mondo universitario. Qui l’insieme delle intuizioni, delle suggestioni e dei propositi enunciati nella letteratura precedente, da Aristotele a Estienne, sono messi a frutto nella realizzazione delle figure, all’interno di un progetto editoriale che comprende, oltre alla Fabrica, la pubblicazione contemporanea dell’Epitome: un compendio in cui i sette lunghi libri della Fabrica sono riassunti in dodici pagine di testo e dodici illustrazioni; un libro concepito per una rapida consultazione, che vuol essere uno strumento efficace per la memorizzazione dell’anatomia e per raggiungere un pubblico più vasto rispetto a quello dei lettori potenziali del suo opus magnum.
Nella dedica della Fabrica all’imperatore Carlo V, Vesalio afferma di aver progettato il suo libro non solo come un’utile esposizione per coloro che hanno assistito alle dissezioni, ma anche come uno strumento semplice e accurato per apprendere la composizione del corpo umano destinato a coloro che non hanno mai avuto la possibilità di assistervi. Da un lato, le descrizioni testuali permettono di farsi un’idea della morfologia e della funzione delle singole parti e dei loro rapporti reciproci; dall’altro, le illustrazioni – in questo caso efficacemente articolate al testo attraverso un complesso sistema di rinvii e legende – consentono di porre dinanzi agli occhi «l’insieme delle opere della natura come se si trattasse di un corpo sezionato» (f. 3v). Questo, naturalmente, non significa, per Vesalio, scoraggiare la pratica della dissezione e l’osservazione diretta delle parti sul cadavere: al contrario, egli è convinto che la bellezza e l’uso dell’immagine possano costituire uno sprone alla pratica delle dissezioni propriis manibus. Inoltre, concordemente a quanto sostenuto da Leonardo, le immagini sono dotate, scrive Vesalio, di una virtù esplicativa e descrittiva che può rendere con evidenza ed esattezza ciò che nessun discorso – anche il più particolareggiato e retoricamente compiuto – potrebbe mai comunicare (f. 4r).
Le illustrazioni della Fabrica, che si annoverano tra le realizzazioni più alte della silografia cinquecentesca, sono in effetti estremamente efficaci dal punto di vista scientifico, ma sono anche notevoli da quello artistico. Sulla loro attribuzione il dibattito è ancora oggi aperto: Giorgio Vasari le attribuiva nel 1568 a Johann Stephen van Calcar, un artista fiammingo attivo a Venezia in quegli anni (Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori, a cura di G. Milanesi, 1906, riproduzione facs. 1981, t. 8, pp. 460-61); per alcuni autorevoli studiosi contemporanei l’autore è Tiziano Vecellio (M. Muraro, D. Rosand, Tiziano e la silografia veneziana del Cinquecento, catalogo della mostra, 1976, in partic. pp. 123-26).
Resta il fatto che esse furono certamente preparate a Venezia e che Vesalio, per realizzarle, scelse di fare appello, tanto per il disegno quanto per l’incisione su legno, ad artisti di indiscutibile abilità e competenza. Vesalio, infatti, afferma di aver voluto produrre delle immagini belle e memorabili, tali da essere non soltanto utili, ma anche «di gran diletto» per il lettore. Ciò permette di dar conto della «sapienza illimitata del Creatore di tutte le cose» attraverso una completa trattazione grafica che esalta la bellezza del corpo umano; per altro, se ciò consente di rivolgersi a un pubblico ampio di lettori colti e raffinati, ha anche l’ambizione e il merito di stuzzicare la curiosità in un pubblico meno avvertito (Fabrica, cit., f. 4r).
Vesalio sapeva bene che l’anatomia, nella cultura cinquecentesca, era una disciplina che suscitava interesse ben al di là del novero di coloro che di essa ne facevano un uso professionale, come medici e chirurghi. Filosofi, artisti, umanisti, teologi, principi, gentiluomini e prelati curiosi costituiscono per tutta l’età moderna tanto il pubblico delle dissezioni, quanto quello dei lettori dei trattati d’anatomia. Pertanto, le illustrazioni delle Fabrica, come quelle contenute nei libri di Berengario, nel De dissectione di Estienne e poi nei trattati anatomici pubblicati nella seconda metà del secolo (ad es., dallo spagnolo Juan Amusco de Valverde), sono concepite in funzione di questo ampio spettro di lettori intrigati dal tema dell’anatomia umana. L’associazione del contenuto scientifico a elementi metaforici, complementari e paralleli all’enunciato strettamente anatomico, diventa così il leitmotiv del lessico visivo attraverso cui il discorso dell’anatomia si esprime.
L’insieme delle figure a piena pagina dei primi due libri della Fabrica – quelli consacrati all’osteologia e alla miologia – forniscono, in tal senso, una straordinaria galleria d’immagini in cui l’illustrazione dell’anatomia sconfina nella meditazione sulla morte e sul senso della vita, evocando toni e atmosfere analoghi a quelli di alcuni quadri dell’epoca, ad es. l’Allocuzione di Alfonso d’Avalos (1540-41) di Tiziano (oggi al Museo del Prado di Madrid). Tutto questo, tra piante e rovine disseminate in una cornice amena in cui si riconosce il paesaggio dei colli Euganei, mentre alcune figure più piccole, stampate all’interno dei capitoli tra le fitte righe del testo, offrono materia per altri sconfinamenti artistici, com’è, ad es., il caso della figura in cui l’apparto urogenitale maschile è mostrato ‘dissezionando’ il Torso del Belvedere, una scultura del 1° sec. a.C. allora da poco scoperta (1503), particolarmente cara a Michelangelo Buonarroti e assurta a simbolo della perizia scultorea degli antichi nella rappresentazione del corpo.
Tanto dal punto di vista tipografico quanto da quello più generale della concezione stessa dell’oggetto stampato, l’Epitome ha un precedente significativo nella stessa produzione editoriale di Vesalio. Nel 1538 egli aveva pubblicato a Venezia presso Bernardo Vitali le Tabulae anatomicae sex, un prodotto tipografico frutto della medesima esigenza di figurare l’anatomia, di cartografare il corpo umano e di fornire – grazie all’uso dell’immagine – uno strumento didattico di rapida ed efficace consultazione.
Le Tabulae, come recita lo stesso titolo, constano di sei fogli sciolti, ciascuno dei quali contiene una silografia e un testo disposto al di sopra e ai lati dell’illustrazione. Le prime tre figure, disegnate dallo stesso Vesalio, sono più diagrammi anatomo-fisiologici che immagini anatomiche in senso stretto, e rappresentano il fegato con la vena porta e l’apparato riproduttivo maschile e femminile, il percorso della vena cava, il cuore con l’arteria magna (aorta) e le sue ramificazioni. Le altre tre tavole, invece, furono disegnate da van Calcar, che aveva copiato dal vero uno scheletro ricostruito da Vesalio nel gennaio 1537.
Sebbene l’intaglio – il cui autore resta sconosciuto – sia molto chiaro e consenta una facile lettura dell’immagine, dal punto di vista estetico le Tabulae non hanno alcun merito. Il disegno, tanto nelle figure disegnate da Vesalio quanto negli scheletri di van Calcar, forniscono una rappresentazione schematica delle parti. Siamo ben lungi da quello straordinario equilibrio tra invenzione artistica, realismo crudo e comunicazione di contenuti scientifici che caratterizzano le illustrazioni che corredano la Fabrica.
Per quanto concerne il contenuto scientifico, le Tabulae restano saldamente ancorate all’anatomia tradizionale di ascendenza galenica: le prime tre costituiscono anzi una sintesi grafica dell’anatomo-fisiologia galenica. In esse è facile reperire innumerevoli interpretazioni o errori propri delle descrizioni del corpo umano fornite da Galeno e dai suoi epigoni rinascimentali e, presumibilmente, esse erano state pensate da Vesalio come un sussidio grafico per il citato manuale Institutionum anatomicarum libri di Winther, un testo di notevole diffusione nella prima metà del 16° sec., soprattutto in Francia, di cui lo stesso Vesalio aveva curato un’edizione veneziana proprio nel 1538. Tutte le figure contenute nei fogli delle Tabulae sono costellate di lettere che rinviano al testo disposto in colonna su uno dei lati del foglio, dove Vesalio si limita a dare il nome, in latino, greco, ebraico e arabo delle parti indicate con le lettere nella figura.
L’epistola dedicatoria, stampata nella parte superiore del primo foglio, fornisce alcune informazioni relative all’ideazione, la preparazione e la funzione delle Tabulae. Vesalio vi racconta che, discutendo a Padova in una delle sue lezioni di chirurgia della terapia da adottare nelle infiammazioni, fece un disegno delle vene in maniera tale da rendere più semplice e comprensibile un’operazione descritta da Ippocrate, e aggiunge:
In verità quel disegno delle vene tanto piacque ai professori di medicina e a tutti gli studenti, che con ostinazione mi chiesero anche una descrizione [grafica] delle vene e dei nervi (tab. 1).
Per venire incontro alla richiesta, Vesalio decise dunque di preparare delle figure che, a suo dire, avrebbero potuto essere di grande utilità soprattutto per coloro che volevano seguire le dimostrazioni anatomiche sul cadavere, in modo da poter verificare l’assoluta rispondenza al vero di quanto è rappresentato nelle figure. Naturalmente – egli precisa – esse non costituiscono in alcun modo un sostituto dell’osservazione diretta della pratica anatomica, né attraverso simili figure, schemi e diagrammi sarà mai possibile acquisire una reale conoscenza delle parti del corpo. Funzione specifica di queste immagini è «prima di tutto quella di rinforzare la memoria delle cose» (tab. 1).
Le Tabulae e, per certi versi, l’Epitome sono riconducibili a un genere tipografico minore che ebbe larga fortuna in Europa nel corso dell’età moderna: quello dei fogli volanti anatomici. A partire dal 1538, vengono pubblicate in Germania, in Francia, in Svizzera, in Italia, nei Paesi Bassi alcune curiose silografie, generalmente stampate su due fogli in cui sono rappresentati il corpo maschile e quello femminile, spesso identificati con quelli di Adamo ed Eva e con precisi riferimenti iconografici al peccato originale. Sono a volte colorate, recano inciso intorno un breve testo e le figure sono costituite da una serie di lembi di carta sovrapposti: sollevandoli si scoprono le parti interne del corpo umano.
Questi fogli erano evidentemente destinati a un consumo non necessariamente professionale del sapere anatomico. Infatti, come le Tabulae, se da un lato hanno l’intento dichiarato di sintetizzare in un’immagine e con un artificio tipografico le nozioni principali dell’anatomia, dall’altro sono concepite come strumenti mnemonici e, rafforzati da una metafora iconografica, iscrivono l’anatomia tutta in un più ampio discorso di edificazione morale e religiosa. Non a caso molti fogli volanti recano iscritto l’apoftegma Nosce teipsum e dei brevi testi che configurano l’anatomia – un sapere destinato a tutti i lettori – come veicolo per la conoscenza di sé, della fragilità del destino umano e dell’onnipotenza del Creatore.
Queste figure, sovente di fattura rudimentale, come ciascuna delle figure utilizzate nei grandi trattati anatomici di questo periodo, infatti, sono – grazie all’ausilio degli artisti e artigiani coinvolti nella loro produzione – delle immagini concepite, come precisano concordemente tutti gli autori di trattati e fogli d’anatomia, per essere memorabili. Esse svolgono una funzione di carattere didattico per medici, chirurghi e studenti. Ma sono state realizzate per imprimere nella memoria le informazioni relative al corpo rappresentato tanto nella mente di coloro che possono aver assistito alla dissezione, quanto di quelli che non hanno mai avuto una tale opportunità, né potranno o vorranno mai averla. Sono, insomma, concepite come imagines agentes, come figure costruite secondo le regole dell’arte della memoria che tanta fortuna aveva ancora nel Cinquecento.
Il poligrafo veneziano Ludovico Dolce, ad es., ricorda, in un’opera dedicata alla mnemotecnica che egli pubblica per la prima volta nel 1562, che «qualche famigliarità e contezza» con le opere dei pittori è indispensabile se si vogliono «formare figure memorabili»: immagini che dilettano, eccitano e, perciò, s’imprimono nella memoria (Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere et conservar la memoria, 1562, ed. 1583, f. 86r). È una lezione che molti anatomisti e disegnatori di figure anatomiche hanno accolto e, più o meno consapevolmente, hanno applicato per realizzare un’iconografia che parli del corpo, luogo incarnato del piacere e della sofferenza, dell’identità e dell’essere, della vita e della morte.
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