CULTURA
Teoria della cultura
di Giovanni Busino
sommario: 1. Degli usi della nozione. 2. Il rinnovamento del concetto. 3. Dalla cultura alle culture. 4. Identità, alterità, equivalenze culturali. 5. Differenzialismo e pluralismo culturali in una società democratica. □ Bibliografia.
1. Degli usi della nozione
L'importante nozione di cultura - ambigua e polisemica, ma correntemente utilizzata anche nel linguaggio ordinario (cultura della morte, cultura dell'odio, cultura aziendale, cultura dei migranti, cultura originale, cultura dei giovani, ecc.) - nelle scienze dell'uomo e della società è oggi divenuta quasi sinonimo di civiltà, con la quale talvolta è fusa o confusa. La storiografia, d'altro canto, sottolinea la funzione ideologica che tale nozione ha avuto nei dibattiti intellettuali (universalismo, particolarismo, relativismo, differenzialismo, decadenza della civiltà, fine della cultura, difesa della cultura, progresso, ruolo dell'Occidente, fine della storia, ecc.) e l'importante ruolo esercitato nella critica all'etnocentrismo e all'evoluzionismo, giudicati responsabili di ignorare o di sottovalutare le diversità culturali, di gerarchizzare le società, di trattare le forme e gli stati delle società come se fossero stadi dello sviluppo economico. Il 'paradigma culturalista' ha fornito alle teorie e alle ricerche una rappresentazione ideologica della società, la quale, nel corso degli anni, è stata estesa dall'ambiente fisico e sociale ai criteri per definire l'uomo stesso, criteri che astraggono dalle caratteristiche psicologiche invarianti comuni alle diverse culture. Rimandando a ciò che è creato e trasmesso dall'uomo - strutture, tecniche, istituzioni, norme, valori miti, ideologie -, ai suoi comportamenti, alle maniere di pensare, di sentire, d'agire, più o meno formalizzati, a ciò che non è dato dalla natura, dall'ereditarietà, da attributi panumani costanti, la nozione di cultura è servita altresì a refutare quella di natura umana universale, a denunciare i sogni del razionalismo, del metodo universale, del linguaggio perfetto, del sistema unitario della natura. Anche quando è stata depurata da tutte le sfumature normative e utilizzata unicamente in maniera descrittiva, questa nozione ha valorizzato una forma di determinismo secondo il quale l'individuo interiorizza la cultura e agisce conformemente ai suoi modelli normativi. Tra l'individuo e la sua cultura d'appartenenza esisterebbe, ovviamente, una certa armonia, mentre i conflitti sarebbero all'origine soprattutto di devianze. Perciò la struttura della personalità dipende dalla cultura specifica di una società e dal suo sistema di valori dominante. Ogni società è allora una totalità culturale originale. Società simili dal punto di vista economico possono essere diverse dal punto di vista culturale. La cultura diventa dunque un insieme di elementi coerenti e complementari. I giudizi, le valutazioni e le percezioni sono determinati dal sistema culturale d'appartenenza. Anche la conoscenza ordinaria è all'unisono col contesto culturale, al contrario della conoscenza scientifica prodotta dalla ragione. Persino chi ammette che nuovi elementi possano entrare a far parte di una cultura, rendendo obsoleti i vecchi elementi, e sostiene che i fattori produttivi siano le azioni degli uomini, proclama tuttavia che il sistema culturale, divenuto autonomo, esercita un'influenza determinante su tutti i livelli socio-culturali e su tutte le successive generazioni di individui (v. Archer, 1988).
Kroeber e Kluckhohn (v., 1952) hanno elencato 163 definizioni di cultura, raggruppate poi in sei categorie (descrittiva, storica, normativa, psicologica, genetica, strutturale). Dal canto suo, Murdock (v., 1949) ha catalogato in Human Relations Area Files (HRAF) i tratti di 250 culture ritenute separate tra di loro, benché supponga che delle analisi comparative potrebbero mettere in luce analogie spiegabili mediante categorie universali.
Dagli studi sulla cultura sono state alimentate altresì le dottrine che postulano l'obbligo, per il pensiero occidentale, di rinunciare all'idea d'una umanità unica, di riconoscere il diritto alla differenza e all'alterità. Insomma, la nozione di cultura - fondatrice del determinismo culturale, della visione relativistica della società, delle concezioni dell'uguaglianza assiologica, dell'incomparabilità e incommensurabilità delle culture - è stata utilizzata non soltanto per combattere il razzismo e le dottrine della mentalità primitiva, ma anche per contestare e ricusare i giudizi di valore sulla gerarchia delle società nonché l'universalismo e il razionalismo dell'Occidente.
I tentativi volti a spiegare le peculiarità della cultura in termini di soluzione di problemi logici, anziché in termini di soluzione di problemi d'adattamento ecologico e di funzionamento dei sistemi sociali, sono stati rari ed estemporanei (v. Lévi-Strauss, 1971 e 1981). La cultura concepita come un insieme di attività biologiche, di azioni tecniche ed espressive, come specchio delle intenzioni razionali degli individui, esterna a essi, rete di rapporti interpersonali, costruzione logica del ricercatore, messaggio, rete di comunicazione, coarcevo di rapporti di potere espressi nello scambio di merci e di servizi, la concezione della pluralità delle culture come il prodotto di permutazioni e di trasformazioni esistenti solo nella mente degli uomini non ha riscosso molto successo nel mondo della ricerca.
In breve, negli ultimi decenni del XX secolo le ricerche sulla cultura non si sono discostate molto dal 'paradigma Tylor-Boas-Malinowski', né da quello della corrente 'cultura e personalità' (Sapir, Benedict, Mead) e della variante 'personalità di base' (Linton, Kardiner). Grazie a queste variazioni sullo stesso paradigma si sono continuati ad approfondire i temi già elencati nel precedente articolo sull'argomento (v. cultura, vol. I, p. 1144), nonché a descrivere le innumerevoli istituzioni e pratiche culturali, sia individuali che collettive, nei loro aspetti razionali, nelle loro differenze e relazioni, nelle loro significazioni, funzioni e conseguenze sociali. I risultati finora prodotti non hanno modificato le conoscenze correnti (v. Kuper, 1999). Poiché gli uomini hanno la capacità di inventare, di trasmettere e di acquisire simboli culturali (credenze, comportamenti, patrimoni di cose e di idee), la cultura è anche strumento di comunicazione, è l'analogo del linguaggio. La simbolizzazione e l'universalità del processo simbolico diventano uno degli attributi della natura umana, mentre la cultura diviene un sistema simbolico che produce simbolizzazioni specifiche e variabili da un contesto all'altro. Non esiste un'universalità delle significazioni simboliche, benché la cultura sia, ovunque, la manifestazione visibile e l'espressione di un sistema sociale organizzato.
Le società umane esistono come insiemi discreti e le istituzioni sociali sono sistemi omeostatici. Se la cultura è un processo complesso fondato sullo scambio, sulla comunicazione, sulle interazioni, se consiste in tratti esistenti in sé, come segmentare questi tratti, come distinguere quelli rilevanti da quelli irrilevanti? Se poi essa indica una caratteristica unica condivisa dall'umanità intera, allora la nozione è puramente ridondante e la sua definizione è tautologica. Infatti la cultura sarebbe ciò che è umano, mentre l'umanità sarebbe ciò che è culturale. In più, se il comportamento è determinato dal contesto culturale, perché mai se ne valutano le conseguenze funzionali secondo criteri scientifici panumani?
Finora non è stata data una risposta a questi interrogativi. Lo scopo precipuo delle teorie diffusioniste è stato quello di illustrare i contatti e gli apporti culturali indotti dalla diffusione di tecniche e di oggetti materiali; le teorie funzionaliste, dal canto loro, sulla base di oggetti materiali a vocazione tecnica, essenziali per fabbricare altri oggetti, hanno cercato di valorizzare gli aspetti non simbolici delle attività produttive degli uomini, di richiamare l'attenzione sulla creatività umana, sullo spazio, sul tempo, sulla socialità degli oggetti, dei materiali e delle tecniche, sulle loro funzioni nelle creazioni socioculturali. Queste e altre teorie hanno prodotto proposizioni descrittive piuttosto che esplicative, si sono fondate sul truismo che qualsiasi esperienza è mediata da un sistema simbolico (il linguaggio, la scienza, ecc.) e hanno confuso il simbolico con l'immaginario, trasformando la cultura in un sistema proiettivo. In più, considerando l'universalismo come l'opposto del particolarismo e l'assolutismo come l'opposto del relativismo, hanno sottovalutato il fatto che la comparsa differenziata di un tipo di comportamento dipende da condizioni socioculturali differenziate, senza considerare che le caratteristiche psicologiche panumane sono il prodotto di caratteristiche biologiche filogeneticamente determinate (l'ereditarietà) e di esigenze funzionali peculiari a qualsiasi sistema sociale.
Le ricerche sul campo hanno mostrato che tutte le società sono complesse, anche le più piccole, che non hanno sistemi di valore comuni trasmessi mediante la socializzazione, ma hanno anche rivelato che la cultura è una razionalizzazione prodotta da attori sociali dotati di una natura umana strutturata da configurazioni sensoriali, radicata nei bisogni individuali percepiti attraverso le significazioni di simboli e i sistemi simbolici propri di una società specifica in un'epoca particolare. Certo, i processi di apprendimento sono complessi e dipendono dal variabile ambiente in cui si trovano a vivere gli individui; è vero che esistono molteplici sistemi di valori, alcuni propri di sottogruppi, altri di subculture locali o gruppi particolari. Sennonché, i sistemi culturali, che hanno un forte grado di coerenza quando sono formati da strutture sociali elementari, nelle società complesse palesano una grande eterogeneità, con caratteristiche ora compatibili ora incompatibili. Appunto perciò questi sistemi vanno analizzati nei loro peculiari processi storici e interpretati come soluzioni a problemi o risposte di attori sociali collocati in sistemi d'interazione con strutture diverse. I membri di una società non partecipano a una cultura comune, a un sistema di valori comuni. Anche supponendo che gli individui interiorizzino i valori e che poi questi regolino i loro comportamenti, la cultura è un prolungamento della natura, governa comportamenti quasi istintivi, talvolta sottratti allo stesso controllo del soggetto. I comportamenti non sono mai il prodotto di un condizionamento; sono la risultante di una intenzionalità. Di conseguenza, la socializzazione non è un semplice meccanismo d'interiorizzazione, non elabora l'habitus, è piuttosto un processo di adattamento a situazioni mutevoli e varie, un processo caratterizzato da decisioni e compromessi che il soggetto attua in funzione dei bisogni da soddisfare, delle norme che gli sono imposte, dei valori e delle credenze sottoscritti, degli interessi ponderati. Il culturalismo che fa delle disposizioni la matrice dello habitus e la principale variabile esplicativa del comportamento deve far ricorso alla petizione di principio secondo cui la cultura è la causa principale di queste stesse disposizioni (v. Douglas e Ney, 1998).
L'interiorizzazione completa della cultura di un gruppo è stata detta assimilazione; l'acculturazione sarebbe la trasformazione, ed eventualmente la creazione, di nuovi modelli culturali per effetto del contatto permanente con altri gruppi sociali; la deculturazione sarebbe lo sfilacciamento, il progressivo abbandono dell'originaria cultura d'appartenenza, la non ancora avvenuta assimilazione di una nuova cultura. In realtà questi concetti si sono dimostrati fragili. La conversione pura e semplice alla cultura dell'altro è una presupposizione gratuita, giacché ogni cultura seleziona, reinterpreta, trasforma secondo una logica propria gli elementi presi o ricevuti, non è mai passiva di fronte ai cambiamenti culturali esogeni. L'uniformizzazione resta un assunto ideologico e la mondializzazione culturale un mito. Solo l'etnocidio, lo sterminio volontario e programmato di un popolo, può mettere in pericolo la sua cultura, mai eliminarla definitivamente o modificarla profondamente (v. Amselle, 1990 e 1996).
2. Il rinnovamento del concetto
Le relazioni tra il sistema sociale e la personalità, a lungo considerate asimmetriche, sono da qualche anno ritenute simmetriche. Considerata come relativamente passiva, plasmata dal sistema sociale, priva di influenza su di lui, la personalità non era che l'aspetto soggettivo della cultura. I lavori recenti invece, pur riconoscendo che la personalità è influenzata dal sistema sociale, sostengono che quest'ultimo è a sua volta influenzato dalla personalità e che le relazioni di scambio tra i due sono molteplici e consistenti. Dalle ricerche sulle influenze dei sistemi sociali sullo sviluppo e sulla formazione della personalità, gli studi più recenti deducono le modalità mediante cui le personalità modificano il sistema sociale, individuando i processi che nel corso della socializzazione creano bisogni comuni e tipi di personalità, basi psicologiche equipollenti alle motivazioni culturali. Se i bisogni sono soddisfatti mercé ruoli assunti conformemente alle norme culturali, il funzionamento della società è assicurato. In questa prospettiva la personalità è lo strumento capitale per garantire il controllo sociale. Le sanzioni sono efficaci se la conformità alla norma diventa bisogno che motiva l'esecuzione del ruolo. Le norme culturali che prescrivono la conformità devono essere interiorizzate affinché la non conformità provochi ansietà. I fini prescritti, raggiunti con l'esecuzione di un ruolo, sono poi investiti e servono ai bisogni personali per motivare le ulteriori esecuzioni di ruoli numerosi e complessi.
Abbandonato il paradigma secondo cui la cultura è il determinante indifferenziato ed esclusivo della personalità e dei comportamenti grazie al processo di interiorizzazione (v. Spiro, 1987), gli studi più recenti ritengono che la personalità non sia consustanziale alla cultura né isomorfa ai comportamenti. Sistema di disposizioni cognitive, affettive, percettive e motivazionali, la cultura include patterns di comportamenti e tratti di personalità. La sua variabilità è associata alla variabilità della personalità. L'uomo è un organismo biologico, ma è anche un animale psicologico e sociale, produttore di processi consci e inconsci. La conoscenza di questi processi permette di comprendere i significati apparenti, le funzioni manifeste dei simboli culturali, nonché le loro significazioni profonde e funzioni latenti.
Questi tentativi di rifondare la nozione di cultura sono stati più o meno ispirati dall'approccio proprio delle scienze cognitive, per le quali, com'è noto, sia i sistemi naturali che quelli artificiali hanno in comune il percepire, il comprendere, il risolvere i problemi dell'azione. Secondo il punto di vista cognitivo sono importanti la struttura dell'informazione e le funzioni che permettono gli atti di conoscenza. Perciò i cognitivisti riservano un'attenzione particolare a processi mentali differenti (la percezione, la memoria, il linguaggio, il ragionamento, la coscienza, le emozioni, le rappresentazioni sociali) e alle strategie per la risoluzione dei problemi effettuate mediante moduli cognitivi specializzati, interagenti e cooperanti fra di loro (trattamento delle informazioni, in parallelo o in serie, cooperazione tra strutture biologiche e funzioni cognitive, pilotaggio centrale e autoregolazione).
Sin dagli anni ottanta, l'approccio connessionista di questo modello cognitivista ha analizzato le elaborazioni mentali in termini di reti neuronali, mettendo in evidenza il fatto che attraverso la percezione ricomponiamo e organizziamo i dati del mondo esterno, che la memoria filtra e ricompone il passato, anziché procedere per semplice accumulazione, che la ragione umana non è identica alla logica, ma utilizza procedure euristiche (miniprogrammi per la risoluzione dei problemi) e schemi mentali (rappresentazioni stabili che permettono di decodificare il reale). Il mondo è quello che i nostri sensi permettono di 'vedere', che le basi innate del linguaggio consentono di esprimere. La visione della società è modellata dalle rappresentazioni sociali che ci rendono sensibili a certi aspetti dell'ambiente e che sono strutturate secondo moduli stabili. Si sa che in tutti gli esseri umani l'emisfero sinistro del cervello presiede alle funzioni analitiche (linguaggio, ragionamento, calcolo), mentre l'emisfero destro regola le funzioni analogiche (mappe mentali dell'ambiente circostante, giudizi estetici, musicalità) nonché le manifestazioni esterne delle emozioni (piacere, dolore, rabbia, invidia, gelosia, ecc.).
Col superamento dell'opposizione tra la descrizione normativa e razionale del pensiero e la descrizione psicologica del pensare, il modello cognitivista offre una nuova teoria della natura umana. Dato che esiste un livello intermedio di rappresentazione o conoscenza tra il mondo fisico e cerebrale e quello comportamentale, non è più possibile derivare dai concetti mentali, posti all'origine, le proprietà dei loro contenuti, per poi caratterizzarli in termini puramente descrittivi e causali. Si riconosce così che le nostre capacità intellettuali sono basate parimenti su conoscenze tacite standard e su processi sub-personali o sub-individuali. Finora però non è stato possibile naturalizzare queste capacità, giacché non si è in grado di comprendere e spiegare se e in che maniera i contenuti del pensiero siano collegati da catene causali. Si tratta di un problema importante ma difficile, dato che il pensiero è fatto di una grande quantità di sottomeccanismi specializzati, di moduli constitutivi dell'equipaggiamento genetico stesso. Invero, in tutti i contesti culturali si acquisisce, in maniera spontanea e a un tempo particolare e simile, il concetto di specie biologica. Là dove uno o più moduli sono deteriorati o assenti, si constata un deficit cognitivo localizzato. Per molti psicologi connessionisti l'autismo può essere prodotto da un deficit della capacità di attribuire ad altri stati mentali, mentre talune lesioni cerebrali producono l'incapacità di denominare le piante o riconoscere i visi.
I fenomeni sociali hanno componenti diverse, ma esiste un legame causale che caratterizza il cervello e lo spirito, marcati ambedue dall'ambiente e quest'ultimo a sua volta marcato dall'attività degli altri esseri umani. Queste concatenazioni tra i processi interni del cervello e i processi esterni al livello delle popolazioni restano ancora tutti da elucidare.
La variabilità culturale dei comportamenti e delle personalità non prova che l'organismo (genotipo e fenotipo) è una scatola vuota, che non esistono caratteristiche invarianti panumane. Al di là delle specificità e delle differenze ambientali e storiche, tutti gli uomini, in qualsiasi società, hanno tratti biologici comuni e analoghi processi d'adattamento. Le caratteristiche biologiche, sociali e culturali alla base del processo di socializzazione (il controllo delle attività corporali e delle frustrazioni, la distinzione tra l'immaginario e il reale, ecc.), sono dappertutto le stesse e formano un insieme di costanti che in interazioni reciproche compongono la natura umana universale.
Le ricerche in corso stanno dunque abbandonando progressivamente la tesi dell'isomorfismo tra la cultura, il comportamento e la personalità che era alla base del modello dell'interiorizzazione della cultura, e indagano invece i rapporti complessi esistenti tra il genotipo e il fenotipo, tra la natura e la cultura, tra la personalità e i comportamenti, tra l'individuo e la sua società.
3. Dalla cultura alle culture
Poiché la cultura esiste grazie alle interazioni costanti tra gli individui, e poiché ogni contesto impone le sue proprie convenzioni e un sistema di attese, le ricerche sui processi interattivi che producono i sistemi culturali hanno avuto, in questi ultimi anni, un notevole sviluppo. Esse hanno rivelato l'eterogeneità e l'instabilità di tutte le culture e messo in evidenza le logiche dei comportamenti apparentemente contraddittori degli individui agenti in contesti diversi. Il tema tradizionale della gerarchia delle culture, della cultura dominante o egemonica e delle culture dominate o subalterne, le teorie oliste delle culture nazionali, regionali e micro-locali, hanno subito trasformazioni così radicali che ormai molti ricercatori li giudicano alla stregua di semplici metafore.
Un sistema culturale non può essere né superiore né inferiore a un altro. Tutti i sistemi hanno una propria peculiarità, non esistono gerarchie culturali. Il che non vuol dire che tutti i gruppi sociali sono eguali e tutte le culture equivalenti. Sono le ineguaglianze economico-sociali e politiche, i rapporti di forza a creare le gerarchie sociali, le quali poi tentano di valorizzare, in maniera più o meno arbitraria, un dato ordine culturale e di imporlo come egemonico. I subalterni dispongono di numerose possibilità sia per resistere sia per opporsi: possono, ad esempio, reinterpretare le produzioni culturali imposte e cosi facendo trasformarne i contenuti. I rapporti simbolici non funzionano secondo la stessa logica che governa i rapporti sociali. L'egemonia culturale è basata sul consenso, quindi non è mai né costante, né durevole. Deve essere continuamente ottenuta attraverso un'opera d'inculcazione, di persuasione, di convinzione. I risultati non sono né scontati né univoci, possono persino essere perversi rispetto alle attese dei dominanti. I rapporti di dominazione culturale non si confondono quasi mai coi rapporti di dominazione sociale, perché funzionano secondo una logica e una coerenza proprie, arrivando a conservare una certa autonomia relativa.
Le ricerche sulla cultura materiale, strettamente legata alla vita economica ma da essa distinta, lo studio degli oggetti, degli utensili, dei manufatti, ha fatto luce sui meccanismi dell'esistenza quotidiana - quella che assorbe gli atti e i pensieri degli esseri umani, quella che è indissociabile dal lavoro e dalla produzione - e ha inoltre circoscritto il terreno su cui opera l'economia, la materia che essa lavora, i livelli tecnici che ne costituiscono la base. Queste ricerche hanno avuto importanti ripercussioni anche sugli studi delle culture popolari.
Di queste ultime sono state esplicitate le logiche operative, le combinazioni di operazioni con cui elaborano le maniere di pensare, di rendere vivibili le condizioni oggettive di vita dei propri membri. Tutte le azioni sociali sono sempre legate a un dato momento storico e a un dato territorio, è la localizzazione delle azioni umane nello spazio sociale e nel tempo storico a configurare nel comportamento sociale tutto ciò che può essere compreso come un'azione peculiare (v. Grignon e Passeron, 1989; v. de Certeau, 1980 e 1993). La descrizione della democratizzazione culturale prodotta dalla scuola, l'analisi degli effetti dei prodotti delle industrie culturali, della mondializzazione, della perdita di legittimità della cultura intellettuale classica, hanno rivelato la fallacia del romanticismo populista, della visione essenzialista delle classi popolari (v. Lasch, 1981), e hanno dimostrato inoltre che la cultura popolare, quella della gente ordinaria, non è mai passiva, giacché dispone di una ampia autonomia nell'interpretazione e nell'accettazione, nella riappropriazione e nella trasformazione dei beni culturali prodotti e diffusi dal processo industriale di produzione o dalla classe egemonica. Le identità collettive popolari non sono assorbite o manipolate dai media, la cultura popolare non si fonde e non si confonde con la cultura di massa. I prodotti uniformi di questa cultura sono rielaborati, re-interpretati sino a dotarli di altri significati, a renderli incontrollabili e resistenti (v. Couldry, 2000; v. Storey, 20013).
Le ricerche di Richard Hoggart (v., 1957) hanno analizzato la cultura popolare come una strategia di resistenza agli effetti congiunti della cultura dominante e della cultura di massa. La descrizione degli oggetti culturali elaborati da quella cultura, delle 'maniere di fare e di essere' prodotte dalle esperienze della vita sociale, dall'adesione ai valori collettivi e dal rifiuto di quelli individualisti, dalla coerenza delle pratiche e dei comportamenti, hanno aperto la via alle ricerche, prima coordinate dal Center for contemporary cultural studies, creato a Birmingham nel 1963 da Richard Hoggart, e poi sviluppatesi negli Stati Uniti secondo altre prospettive e interessi, in difesa di ogni specie di minoranza. Questi ultimi lavori sono all'origine di forme nuove di radicalismo, del rifiuto delle gerarchie e dell'elitismo, della scienza universale, di difese, talora apologetiche, dei gruppi sociali minoritari, marginali. I cultural studies denunciano la dissoluzione della cultura popolare nella cultura di massa, la massificazione di tutte le pratiche culturali, l'ideologia scientista e sessista, l'influenza preminente dei mass media sulle abitudini, sui valori morali e sui processi di socializzazione (v. Willis, 1990). Mentre Hoggart e i suoi primi discepoli ritenevano che esistesse una maniera popolare di assorbire, anche intensamente, i prodotti dell'industria culturale, che le capacità di resistere ai cambiamenti, all'industrializzazione degli oggetti simbolici e culturali fossero considerevoli, gli studiosi americani, più radicali ed estremisti, partono dall'idea che viviamo una contemporaneità senza precedenti, la quale anticipa un futuro radicalmente diverso, fatto di dominazione e di disumanizzazione. Essi attribuiscono legittimità e validità a tutte le esperienze, a tutte le pratiche sociali, ritenute eguali, si oppongono alla divisione sessuale e razziale, e mirano a dare il potere (to empower, empowerment) ai gruppi sociali finora discriminati - giovani, donne, omosessuali, neri, ispanici, indios, ecc. (v. McRobbie, 1991) - e agli individui che esplorano nuove possibilità di vita e maniere di essere e di fare innovative. I movimenti anti-culturali hanno considerato i comportamenti di rigetto e di contestazione dei modelli vigenti come manifestazioni e avanguardia annunciatrice di una nuova cultura. Theodore Roszak (v., 1969) ne ha descritto i tratti più tipici: lo stile di pensiero mistico e olista che si oppone all'orientamento strettamente razionalistico e atomistico del pensiero scientifico; l'adozione di uno stile di vita anticonformista, edonista, antimaterialista, la ricerca di una società alternativa antiautoritaria, in armonia con la natura, liberata dall'etica del consumo e del lavoro; il rigetto dell'azione politica organizzata, ritenuta una forma di collaborazione con la cultura dominante. Da qualche anno, però, alcuni studiosi sono divenuti più cauti e riconoscono che gli hooligans, gli urban riots e i sauvageons non sono eroi ribelli o refrattari alle regole sociali, bensì piuttosto tirannelli oppressori e talvolta anche delinquenti (v. Campbell, 1993).
Anche gli studi sulla cultura di massa sono stati profondamente rimescolati da questi rinnovamenti concettuali. Le teorie di Theodore W. Adorno e di Herbert Marcuse, che hanno confuso la cultura per le masse con la cultura delle masse, le loro dottrine sull'alienazione culturale, sulla sterilizzazione delle capacità creative degli individui, sull'impossibilità di sottrarsi alla dittatura dei mass media, sul livellamento e sull'uniformizzazione operati dai mezzi di comunicazione di massa, si sono rivelate inconsistenti, per non dire fallaci. È vero che i messaggi mediatici sono standardizzati, uniformizzati, ma è altrettanto vero che essi non sono ricevuti in maniera analoga dai diversi tipi di pubblico cui si rivolgono. Le inchieste sociologiche, analizzando i discorsi e le immagini diffuse, hanno rivelato che la ricezione è diversa da un pubblico all'altro, da un contesto a un altro. Qui producono polemica o indignazione, là attenzione scettica o accettazione distratta, altrove atteggiamenti indifferenti, riletture pregne di riserve mentali, comprensioni parodistiche, sarcastiche o semplicemente indifferenti o ironizzanti. Per queste ragioni, abbandonate le grandi costruzioni teoriche, oggi si studia quello che i consumatori fanno di ciò che consumano e si comincia a capire perché la globalizzazione mass-mediatica non produca la mondializzazione intesa come omogeneizzazione di tutte le culture. Al contrario, lo stesso messaggio, ricevuto in diversi contesti, visto in determinate situazioni, produce effetti diversi, genera differenze sostanziali, reazioni contrastanti.
Tutti questi cambiamenti concettuali hanno ristretto la portata della vecchia nozione di cultura di classe, o meglio, le hanno dato nuove prospettive. Abbandonati i contenuti filosofici e ideologici di cui la tradizione marxista l'aveva dotata, la nozione rimanda oggi, innanzitutto, ai sistemi di valori, ai modelli di comportamento, alle pratiche quotidiane ordinarie (consumi, stili di alimentazione, tecniche corporali, ecc.) che si osservano in gruppi sociali aventi lo stesso livello di reddito, le stesse abitudini di spesa, la stessa concezione del mondo, la stessa adesione a sistemi di valori, lo stesso senso d'appartenenza a una comunità di vita e di destino, la stessa 'privatizzazione' dei modi di vita.
Analoghe trasformazioni concettuali si sono verificate negli usi della nozione di cultura politica. Essa ormai è alla base di ricerche che descrivono le opinioni relativamente stabili dei diversi gruppi sociali, i loro atteggiamenti nei riguardi del controllo sociale, nonché i loro modelli normativi, i valori che guidano le loro scelte politiche, la concezione che hanno della legittimità e degli stili di vita della classe politica di governo e d'opposizione.
4. Identità, alterità, equivalenze culturali
Sin dagli anni sessanta il tema delle identità culturali si è sviluppato senza tenere conto delle acquisizioni delle scienze sociali. I ricercatori di questo settore hanno tentato soprattutto di chiarire i problemi sollevati dall'integrazione sociale degli immigranti, di accertare le modifiche o gli sconvolgimenti da essi apportati alla composizione culturale della società civile, al mercato del lavoro, alla convivenza comunitaria, di valutare i risultati delle procedure di assimilazione, di descrivere, infine, le eventuali gerarchie socio-culturali in via di costituzione (v. Poutignat e Streiff-Fénart, 1995).
L'ipotesi allora dominante tra i ricercatori era che l'identità culturale, stabile e immutevole, determinerebbe le condotte individuali. Essa non dipenderebbe dal contesto delle interrelazioni poiché sarebbe il nocciolo duro dell'identità sociale stessa. Oltre all'attribuzione dell'identità di gruppo, alla categorizzazione della distinzione noi/essi, all'elaborazione di diverse differenziazioni contrapposte a quelle degli altri, l'identità culturale fisserebbe, quindi, l'appartenenza primordiale e definitiva dell'individuo a un determinato sistema sociale. Gli individui non sarebbero capaci, da soli, di autodefinirsi né di costruire la propria identità sulla base di criteri scelti e combinati poi liberamente in funzione delle soluzioni da dare ai problemi posti dalle interrelazioni e dai contesti in cui devono agire.
In verità, tutte queste ricerche sono state influenzate dalla logica dello Stato-nazione e dal presupposto che un gruppo sociale o una comunità selezioni, in maniera sovrana, le sue tradizioni, interpreti arbitrariamente la sua storia e il suo presente e fissi i modelli normativi dei comportamenti, fattori indispensabili per realizzare l'ordine sociale e per tenere unita la società. Lo Stato sarebbe l'artefice e il garante di questo processo mediante l'unione della cittadinanza con la nazionalità, grazie alla regolamentazione e al controllo di questa identità, divenuta riferimento esclusivo e assunta come la sola legittima. Ed è così che un'identità culturale può essere percepita come positiva, un'altra come negativa; ed è così che si creano le premesse per escludere le identità culturali differenti, per creare, in situazioni estreme, le condizioni che sboccano poi nelle 'pulizie' etniche.
L'insieme di queste ricerche può essere raggruppato, molto sommariamente, in tre principali tendenze. La prima dà un contenuto oggettivo all'identità culturale, la fonda geneticamente e naturalizza l'appartenenza culturale. L'identità è data dal gruppo d'appartenenza, che pre-esiste all'individuo, il quale la riceve più o meno passivamente e vi si deve sottomettere, pena la marginalità o lo sradicamento. Una tale identità non può evolvere perché è innata, iscritta nel patrimonio genetico. Il sentimento d'appartenenza è reputato innato e l'identità culturale diventa un prerequisito immanente che caratterizza e definisce, in maniera stabile e definitiva, l'individuo. Questa eredità culturale è trasmessa, consolidata e allargata dal processo di socializzazione, nel corso del quale i modelli culturali vengono interiorizzati. L'identità è, per conseguenza, consustanziale a una cultura particolare. Qui le emozioni e le solidarietà condivise strutturano l'identificazione con il gruppo e contribuiscono a rendere complessi i meccanismi di identificazione collettivi e individuali. I ricercatori di questa tendenza sono convinti che l'appartenenza a un gruppo etnico determini e condizioni l'appartenenza sociale. Perciò l'identità, configurata sulla base di criteri determinanti e oggettivi (l'eredità, le genealogia, la lingua, la personalità di base, il rapporto con un dato territorio, ecc.), è necessariamente una proprietà del gruppo ed è trasmessa indipendentemente da quelle degli altri gruppi etno-culturali e sociali. Un gruppo sprovvisto d'una lingua propria, senza un territorio, senza un fenotipo culturale, non costituisce una comunità etno-culturale e non può rivendicare un'identità culturale peculiare, autentica.
Gli esponenti della seconda tendenza hanno una visione più soggettivistica dell'identità. Questa non è data una volta per tutte, ma proviene piuttosto dal sentimento di appartenere a una collettività con la quale ci si identifica. Le rappresentazioni che gli individui si fanno della realtà sociale e delle sue divisioni contribuiscono a dare caratteristiche specifiche alle identità culturali, che di conseguenza sono variabili, effimere, dipendenti da scelte individuali operate in contesti relazionali e situazionali momentanei e peculiari. Studiate dalla psicologia, dall'antropologia, dalla sociologia e dalle scienze storiche, le identità culturali non sono altro che costruzioni-rappresentazioni di cui gli individui si servono per dare un senso al loro essere nel mondo.
La terza tendenza postula che l'identità si costruisca e si ricostruisca a seconda delle situazioni, mediante un susseguirsi di scambi sociali. Non esiste un'identità in sé: si tratta di un rapporto con altri che si forma mediante un sistema di relazioni e di strategie che si svolgono in contesti e situazioni specifici. Gli individui partecipano a diverse culture, fabbricano, con materiali diversi prodotti in situazioni specifiche, le loro identità personali, e le argomentano sincreticamente. In altri termini, l'identità è costruita e come tutte le costruzioni sociali prende la forma di una rappresentazione. Essa riflette la complessità sociale e i rapporti di forza del momento, le lotte per produrli, riprodurli o rovesciarli. È multidimensionale, dinamica, difficile da circoscrivere e da definire. Mezzo per raggiungere un fine, essa è mutevole e relativa, si presta a molteplici interpretazioni e anche a innumerevoli manipolazioni. La partecipazione a una cultura non implica automaticamente il possesso di un'identità particolare, giacché non esiste un'identità in sé e per sé. Persino l'identità etno-culturale utilizza solo alcuni elementi di una cultura, in nessun caso l'insieme delle componenti d'una stessa cultura. Quest'ultima può persino essere strumentalizzata differentemente e a seconda delle diverse strategie di identificazione. Donde la necessità di stabilire, di volta in volta, cosa significhi, in un dato momento, in un certo contesto, mantenere, difendere, proteggere o mettere in questione un'identità particolare. Questo riconoscimento del pluralismo delle identità, dei sistemi di valori soggiacenti, della partecipazione a diverse culture, ridefinisce l'identità universale in termini d'identità differenziata e proclama fallace il dibattito sul multiculturalismo relativista e sull'universalismo dell'esclusione. Il che conduce altresì a riconoscere l'uguale dignità di tutte le identità culturali, pur nella differenza e nella diversità, ad attribuire all'alterità valore e legittimità. La nozione di 'cultura societale' (v. Kymlicka, 1995) sottolinea che tutte le maniere di vivere sono significative se prodotte dalla storia, dai sistemi rappresentativi, dai saperi e dalle saggezze tacite nelle sfere d'attività comunitarie, per cui sono tutte meritevoli di garanzie che ne assicurino la riproduzione e ne favoriscano l'esercizio.
Queste ricerche sull'identità culturale hanno suscitato interrogativi e perplessità, alimentando un dibattito che è lontano dall'estinguersi. Se la teoria dell'esistenza di identità culturali naturalizzate, oggettivate, non suscita né nuove questioni né risposte convincenti e concordanti con lo stato delle conoscenze attuali, la corrente soggettivistica e quella dell'identità multipla sono, invece, all'origine di un dibattito animato quasi esclusivamente dai filosofi sociali e dagli scienziati della politica. B. Wilson (v., 1985), per esempio, è dell'avviso che la mondializzazione e la globalizzazione privino gli individui dei legami comunitari, sostituiti da rapporti sociali multipli e funzionali, insufficienti e inadatti a mobilitare gli individui, a individuare i valori ultimi. Ma se esistono tanti valori quante sono le comunità, allora i valori culturali hanno un solo fondamento, quello di essere il cemento comunitario. Dal canto suo U. Beck (v. Beck e Beck-Gernsheim, 1993) sostiene che l'individuo incontra oggi innumerevoli ostacoli nella costruzione del self, dato che tutte le sue decisioni sono prese sotto la pressione dell'ambiente. Sottomesso a costrizioni strutturali, la sua autonomia è ormai illusoria, le sue decisioni sono reazioni e non già scelte razionali. La mondializzazione ha prodotto il nichilismo. Il soggetto sociale non è più il depositario e la fonte dei valori, è niente altro che un semplice meccanismo delle strutture sociali. A. Giddens (v., 1999), a sua volta, aggiunge che gli effetti strutturali della mondializzazione hanno prodotto una società in rottura con le società del passato, caratterizzata da una discontinuità radicale rispetto alla società industriale moderna. I criteri che permettevano di attribuire valore positivo o negativo alle cose, che davano un contenuto all'identità culturale, sono adesso divenuti inconsistenti. Se il legame collettivo nasce quando gli individui fanno prova di virtù, di moderazione, di tolleranza, di ossequio alle leggi, di rispetto dell'autonomia degli altri, insomma di ciò che John Rawls (v., 1993) chiama reasonableness, vale a dire senso del ragionevole e del giusto, allora come conciliare i diritti culturali particolaristici con quelli generali, i diritti individuali con quelli collettivi, come evitare la formazione di comunità chiuse in se stesse e che talune minoranze pratichino l'esclusione al fine di preservare la propria integrità culturale?
Gli studiosi postmodernisti ritengono questa problematica non pertinente. La relativizzazione dei messaggi culturali nazionali, i modi di vita imposti dalle logiche mercantili, il rafforzamento dell'individualismo, la variazione dei modi di vita e l'ideologia dell'interiorità e della comunicazione hanno dimostrato la fallacia della definizione unitaria del vivere insieme, della società unificata, di identità culturali stabili. Le società postmoderne producono una reificazione definitiva delle identità, una codificazione di forme particolari di pluralità culturali, una forma illusoria di unità sociale e di equivalenza delle culture, con le quali si crede mascherare la tirannia di identità molteplici, sfuggenti, inafferrabili e inconsistenti.
Se la cultura è l'apprendistato delle libertà individuali e la democrazia quello della volontà generale, se la cultura è una configurazione dell'essere e la democrazia un'organizzazione dell'esistenza, se la prima è l'equilibrio invisibile delle cose che ci aiutano a vivere e la seconda è l'ordine visibile di quelle che ci governano e ci fanno interagire convenientemente, cosa bisogna intendere per culture equivalenti e per identità culturali multidimensionali e differenziate? Se l'individuo ha la capacità e il diritto di giudicare, di accettare e di rifiutare i valori, i progetti e le norme del suo ambiente sociale e culturale; se è l'artefice di identità e può creare all'infinito diversità e differenze, non si rischia di accordare lo stesso riconoscimento a qualsiasi rappresentazione, quali che siano i comportamenti e i valori praticati? Se la società è un insieme organico la cui coesione è garantita dall'esistenza di similitudini tra i suoi membri, dalla condivisione di valori comuni, da una stessa eredità storica, da un analogo conformismo dei comportamenti, se le differenze innumerevoli provocano pericolose frammentazioni sociali e un relativismo culturale caotico, accettare qualsiasi differenza, ascrittiva/ereditaria e acquisita, nella sfera pubblica e in quella privata, trattare gli individui portatori di valori e costruttori di identità specifiche, implica che bisogna ignorare il fatto che esistono valori ineguali, ma anche che le differenze espresse liberamente nella sfera pubblica possono ledere la libertà degli altri. Se non esiste una simmetria tra identità pubbliche e identità private, tra cultura a vocazione universale e cultura a vocazione particolaristica, in che modo possiamo allora garantire le specificità, le particolarità, le alterità, le pluralità culturali e le identità collettive e individuali in una società democratica a vocazione universalistica, che esiste e agisce perché le sue fondamenta poggiano su un principio di unità e di identità di cui, purtroppo, sono sprovvisti tanto la democrazia procedurale quanto il patriottismo costituzionale strutturato dall'adesione volontaria a valori astratti e formalizzati?
5. Differenzialismo e pluralismo culturali in una società democratica
Se la cultura non si trasmette geneticamente, ma è una costruzione sociale in stretta correlazione con il contesto sociale in cui si vive e si agisce, ne consegue che essa è fatta di facce multiple e varie, di pari o di analoga dignità. In questo caso tutte le identità culturali hanno diritto alla medesima eguaglianza di trattamento e tutte le culture sono equivalenti. Le loro rivendicazioni dell'uguaglianza economico-sociale, del riconoscimento delle differenze dei loro sistemi simbolici, non possono allora non trovare uno sbocco nel sistema politico.
Ma in che modo conciliare l'uguaglianza universale di tutti i cittadini con il riconoscimento di identità particolari, con le rivendicazioni particolaristiche di queste identità?
Le risposte a una tale questione sono state finora diverse. I liberali sostengono che esiste una sfera (società civile, vita privata) dove si esprimono liberamente orientamenti culturali differenti. Là si è liberi di accettare o di rifiutare i valori, i progetti e le norme degli altri, di valorizzare e praticare i propri ritenuti più pertinenti e validi. Nella sfera pubblica, invece, l'appartenenza, la cittadinanza, l'uguaglianza, l'autonomia, la sicurezza, la protezione delle libertà fondamentali restano preponderanti; qui hanno la preminenza la necessità e il diritto di regolamentare tutte le differenze, onde prevenire o impedire che esse ledano le libertà delle altre identità culturali (v. Holmes, 1993). Gli studiosi che si riconoscono nella tradizione repubblicana constatano che il potere è confiscato da politici di professione e da burocrati irresponsabili, che i cittadini sono passivi, indifferenti alla vita pubblica, egoisti, disobbedienti, con desideri e bisogni illimitati. Se la cittadinanza è partecipazione, amore della collettività e del bene comune, rifiuto della divisione del corpo sociale, allora bisogna formare dei cittadini, inculcare in essi l'amore della collettività e dell'uguaglianza, il senso dei limiti. Credere che tutti possano accedere autonomamente al sapere e alla razionalità, che la sfera privata e la sfera pubblica esistano indipendentemente dai rapporti di forza, non è che una maniera retorica di celebrare "the santification of ordinary life" (v. Taylor, 1989). Le interazioni sociali producono ineguaglianze (razzismo, sessismo, statuti inferiori, gerarchie di ogni tipo, discriminazioni linguistiche e di origine sociale, limitate opportunità sul mercato del lavoro e della politica, ecc.). Se lo Stato si astiene dall'intervenire, resta neutrale rispetto al funzionamento del sistema culturale (scuola, mass media, memorie e narrazioni storiche), queste ineguaglianze diventano sempre più consistenti. Al contrario, esso deve essere il promotore di programmi di riparazione, di "affirmative action", di "recognition"; deve favorire le espressioni degli orientamenti culturali di tutte le minoranze, riconoscere che le identità culturali minoritarie, anche quelle più colpite dai pregiudizi sociali, hanno pari dignità, costitutiva dell'essere umano nell'appartenenza alla società.
Molti studiosi considerano la neutralità culturale dello Stato un'ideologia elaborata per confortare le maggioranze culturali, il charter group. La cosiddetta 'cultura nazionale', che lo Stato dichiara essere il prodotto di una esperienza storica comune, di una condivisione permanente della stessa genealogia, è ritenuta 'una' interpretazione della storia e del presente, 'una' selezione arbitraria delle tradizioni, 'una' imposizione. Dal canto loro, i comunitari (v. MacIntyre, 1981) rigettano gli approcci liberali e repubblicani perché sarebbero costruiti su una concezione irrealistica e astorica che fa dell'individuo un essere razionale, capace di scelte ragionevoli e di strategie deliberate, di fabbricare la sua identità culturale e il suo essere al mondo come se non fossero la risultante di esperienze sociali collettive a lui anteriori. Il radicamento sociale e culturale in una comunità è costitutivo dell'essere umano. Il soggetto sociale non è autonomo, non esiste prima della collettività cui appartiene, le sue scelte sono condizionate da regole indipendenti dalla sua volontà. La sua identità si forma mediante interazioni individuali e collettive, nel presente e col passato, e non ha esistenza se gli altri non la riconoscono e non la confermano. È la comunità in cui è nato e in cui vive a procurargli valori e riferimenti, il senso di appartenenza a una collettività, le possibilità di attribuire e distribuire significazioni, darsi delle finalità, realizzare progetti con una certa autonomia.
Tutti questi studi sulle identità culturali hanno aperto un nuovo campo di ricerche sulla giustizia sociale, sui diritti alla protezione delle culture delle minoranze etniche, sessuali, dei Neri, degli Ispanici, degli immigrati e delle donne; essi sono all'origine di un vivacissimo dibattito sulla redistributive justice in contrapposizione alla reparative justice, sui programmi d'azione positiva in favore delle persone che subiscono forme di esclusione e di marginalizzazione.
Per alcuni, introdurre un trattamento speciale, cioè il riconoscimento e la protezione pubblici delle differenze degli orientamenti culturali individuali e collettivi, significa distorcere, se non distruggere il principio d'uguaglianza, introdurre una discriminazione pericolosa e lesiva della coesione sociale. In più, nessuno può definire in maniera generale e accettabile da tutti ciò che è 'la vita buona' e ciò che è il bene essenziale da rispettare per vivere in società. I criteri per definirli sono innumerevoli, variabili e negoziabili di caso in caso a seconda dei contesti e delle circostanze, mediante regole di funzionamento accettate consensualmente (v. Gray, 2001). La tolleranza e il rispetto, la libertà di espressione delle minoranze sono, certo, elementi costitutivi di una società libera e democratica. Tuttavia, una politica stabile orientata a proteggere e sostenere le minoranze non consoliderebbe né estenderebbe quegli elementi. Le discriminazioni positive non creano diritti culturali positivi, ma accrescono le differenze tra la minoranza e le altre minoranze e con la maggioranza.
Per altri, il riconoscimento del pluralismo culturale non dovrebbe porre problemi particolari alle società liberal-democratiche. Bisogna tuttavia essere coscienti che la genesi recente di molte identità culturali non si trova nel bisogno di identificazione con una cultura vissuta, bensì in motivazioni particolaristiche che si manifestano allorché i valori universalistici mettono in difficoltà gli interessi di un gruppo. Per queste ragioni, la cittadinanza deve essere il principio fondante e preponderante della democrazia, più importante e rilevante dell'identità culturale. Una società vive, le sue istituzioni sono legittime, se esistono interessi e scelte collettive, se la partecipazione alla vita politica e sociale è vivace, se gli individui si identificano con esse e se ne sentono responsabili. È stato sovente ripetuto (v. i contributi di Taylor) che il self e la modern identity si affermano allorché l'accettazione e la pratica della cultura della società in cui si vive non sono minacciate dal rifiuto o dal mancato rispetto della dignità di taluni. Da un altro versante (v. Walzer, 1980 e 1983) si è sostenuto che la libertà astratta non garantisce la vita in comune, la quale è possibile solo a condizione che i valori sociali, culturali, razziali, le identità specifiche siano riconosciuti e abbiano pari dignità e diritti. La giustizia è realizzabile a condizione che si rispettino e si prendano in considerazione positiva i diversi principî che una cultura impiega per dar senso a settori della vita socio-culturale - quali, ad esempio, la scuola, il mercato del lavoro - attraverso la solidarietà, l'onore, la lealtà, la gratitudine, ecc. Poiché non possiamo in nessun modo gerarchizzare gli universi culturali e dato che le sfere d'azione sono molteplici, la giustizia e l'equità obbligano a tenerle tutte in conto, ad aiutare con programmi ad hoc le identità culturali particolari, persino quelle etniche, a rispettare tutti i diritti e i significati specifici conferiti e valorizzati dalle minoranze culturali. Michael Walzer (v., 1995) sostiene che le autonomie locali, il federalismo e diverse forme di consociazionismo, sostenuti da una legislazione antidiscriminatoria, da intense procedure democratiche e dall'educazione interculturale, bastano a garantire la vita, il rispetto e la riproduzione delle culture minoritarie. I più scettici ritengono che là dove i meccanismi di integrazione sociale sono troppo elastici, i rischi di 'etnificazione', di razzismo, di comportamenti illiberali, di odi culturali, di chiusure etniche, sono inevitabili. Ammettere che tutte le identità culturali sono equivalenti implica la frammentazione del tessuto sociale, l'isolamento degli individui, divisioni irrimediabili. Anziché valorizzare ciò che differenzia le diverse componenti della società, è più saggio e opportuno celebrare ciò che le avvicina, le integra e le può tenere unite. Il legame sociale riposa su regole che ci diamo, che reggono i nostri rapporti, che ci permettono di gestire situazioni conflittuali e di rendere possibile la cooperazione quando gli attori hanno interessi divergenti o anche antagonistici. Per ottenere un sistema di aspettative tra persone con comportamenti differenti bisogna disporre di procedure che permettano la coordinazione delle divergenze, di regole che diventino abitudini, common knowledge, culture, ed è ciò precisamente che fonda il sociale. Gli accordi tra le persone sono i prodotti di queste regole, di mediazioni e di convenzioni. Soltanto la politica in quanto razionalità del valore dei fini, in quanto trascendenza di identità particolari, di interessi settoriali, può sovvenire a tali necessità, al vivere nell'incertezza, può garantire strutture di vita ragionevoli e adattabili, assicurare a tutti modalità di accesso alle risorse e all'informazione, la possibilità per ognuno di re-investire le esperienze sociali e i progetti in un rapporto proficuo con il mondo e con le cose. Le ricerche sulla cultura, sulla pluralità delle culture, sulle identità personali e collettive sono, nel corso degli ultimi decenni, sboccate nel campo della filosofia politica, dando luogo a vivaci dibattiti sull'universalismo, sull'uguaglianza, sul rapporto cittadinanza-nazionalità, sull'estensione dei diritti alle persone in quanto tali. Le prospettive future non sono però chiare. Nondimeno un'idea sembra intravedersi, distaccarsi con più nettezza, ed è quella che soltanto la democrazia e la cittadinanza costituzionale sono i fondamenti solidi e legittimi di identificazioni non esclusive, limitative e controproducenti (v. Schnapper, 1994 e 1998).
Ma riconoscere le differenze è conciliabile col principio di non discriminazione, che impone di non considerare le differenze generiche, etniche, culturali e di trattare tutti gli esseri umani come eguali, in maniera identica? Negare le differenze, d'altro canto, conduce a trattare in modo omogeneo individui eterogenei. Si potrebbero allora considerare esclusivamente le differenze costitutive della capacità di formare e di definire l'identità individuale e culturale: ma sulla base di quali criteri? Come rispettare diritti fondamentali, universali, quali quelli della libertà, della giustizia e dell'uguaglianza? (v. Bell, 1993).
Su questi temi la riflessione filosofica e politica ha preso il posto che gli studi antropologici e sociologici hanno avuto lungo tutto il XX secolo nelle ricerche sulla cultura.
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Sociologia della cultura
di Sergio Belardinelli
sommario: 1. Introduzione. 2. Natura, cultura e civilizzazione. 3. Cultura e società. 4. I prodotti e le istituzioni culturali. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Preparata dall'entusiasmo illuministico per il progresso, per la 'civiltà' e la 'civilizzazione', nonché dalla riflessione hegeliana sullo 'spirito oggettivo', l'applicazione esplicita del termine cultura alle faccende umane, alla società e alla storia, è un evento che possiamo far risalire al XIX secolo, allorché Gustav Klemm, nel 1843, pubblicò il primo volume della sua Allgemeine Culturgeschichte der Menschheit, con l'intento dichiarato di rappresentare il graduale sviluppo dell'umanità nel suo insieme. Fino ad allora con la parola 'cultura' (dal latino colere) ci si riferiva principalmente alla coltivazione della terra, all'allevamento del bestiame o alla coltivazione dello spirito, nel senso di diventare appunto uomini 'colti'. Invece, da quel momento in poi, quando si parlerà di cultura, non ci si riferirà più soltanto all'educazione, alla formazione - a quanto cioè viene espresso con la parola tedesca Bildung - ma a qualcosa di multiforme che riguarda l'intera società e del quale possono essere descritte sia le componenti particolari, sia lo sviluppo generale. Si passa, in altre parole, da una concezione della cultura di tipo umanistico-classico a una concezione di tipo socio-antropologico, da una concezione ottimistica e in ultimo normativa, fondata sulla fiducia di poter elevare, raffinare l'uomo, liberandolo progressivamente dall'ignoranza e dalla superstizione, a una concezione neutrale, descrittiva, tendente a identificare la cultura con la totalità di una società o di una civiltà. Nel celeberrimo Primitive culture di Edward Burnett Tylor, del 1871, troviamo una sintetica definizione di questa nuova concezione, al centro della quale non sta più il singolo individuo, bensì l'intera civiltà, considerata come "quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società".
La cultura non è più, o non è più principalmente, un ideale verso il quale gli individui tendono, bensì ciò che essi hanno acquisito in quanto membri di una società; diventa, in altre parole, un concetto onnicomprensivo tendente a inglobare l'intera vita sociale. Depurato della connotazione storico-evolutiva presente in Tylor, questo concetto verrà fatto proprio e sviluppato soprattutto da Franz Boas, il fondatore della Scuola americana di antropologia culturale. In The mind of primitive man, Boas (v., 1911) riconduce la cultura a due caratteristiche fondamentali: il fatto di essere acquisita socialmente, di trasmettersi cioè per apprendimento, e la sua irriducibilità a condizioni extraculturali. Un fenomeno culturale si spiega cioè soltanto ricorrendo ad altri fenomeni culturali. Quanto all'uomo, la sua specificità non è di tipo genetico o razziale, bensì culturale. Sarà proprio sulla base di questi presupposti antropologico-culturali che si svilupperà, sempre in America, una delle scuole sociologiche più interessanti riguardo allo studio della cultura: la ben nota Scuola di Chicago. William Thomas, Florian Znaniecki, Robert Park, tanto per fare qualche nome, sono tra i principali esponenti di questa Scuola, famosi per aver avviato una serie di studi sugli immigrati in America, tendenti soprattutto a mostrare il ruolo della cultura nelle dinamiche di formazione e di trasformazione dell'identità degli individui e delle comunità. Tutti temi, questi, che troveranno una sorta di consacrazione nell'opera di George Herbert Mead, il fondatore del cosiddetto 'interazionismo simbolico', una delle prospettive più vive e vitali della sociologia della cultura contemporanea.
Ma mentre l'antropologia e la sociologia americane intraprendevano la strada che faceva della cultura una sorta di elemento unificante e identificante per gli individui e per le comunità, la riflessione sulla cultura da parte della filosofia e della sociologia europea di fine Ottocento-inizio Novecento - si pensi soltanto allo storicismo tedesco e alla sociologia della cultura che ne scaturì - si cimentava invece con distinzioni ritenute irriducibili, tra le quali spiccavano quelle tra natura e cultura e tra cultura e civilizzazione.
2. Natura, cultura e civilizzazione
La celebre affermazione di Wilhelm Dilthey (v., 1883), secondo la quale le scienze della natura "spiegano" e quelle dello spirito "comprendono", rappresenta la base epistemologica di una considerazione del mondo della cultura, quindi della storia e della società, in netta antitesi con il mondo della natura. Se il positivismo di autori come Auguste Comte in Francia o Herbert Spencer in Inghilterra aveva subordinato le scienze storico-sociali a quelle naturali, lo storicismo tedesco che fa capo a Dilthey, Windelband e Rickert rivendica invece una netta separazione tra i due tipi di scienza, ognuno dei quali rappresenta un mondo a sé stante. Il mondo della natura viene fatto coincidere con il mondo delle leggi generali, in base alle quali esso può essere appunto "spiegato"; il mondo della cultura, in quanto mondo umano per eccellenza, diventa invece il mondo dei fenomeni individuali, i quali, sfuggendo a qualsiasi legge generale, possono essere soltanto "compresi". Come dirà Max Weber - certamente uno dei classici della sociologia che, insieme a Georg Simmel, risente maggiormente di questa disputa e cerca per certi versi di superarla - la cultura non è altro se non "una sezione finita dell'infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell'uomo" (v. Weber, Gesammelte ..., 1922; tr. it., p. 96). E tuttavia per Weber il mondo umano, il mondo storico-sociale, non coincide con la cultura. Esiste una struttura sociale, fatta di rapporti economici e politici, che non è riducibile a cultura, così come non è riducibile a cultura l'idea di civiltà. Si tratta piuttosto di sfere differenziate che tendono a svilupparsi contestualmente ma secondo una logica propria, che è creativa nel caso della cultura e cumulativa negli altri due. Quasi in contemporanea con l'opposizione tra natura e cultura si annuncia quindi un'altra opposizione, destinata a segnare profondamente la cultura occidentale d'inizio Novecento: quella tra cultura e civilizzazione, tra i valori dello spirito libero e creativo e quelli di uno spirito che si 'impietrisce' nei suoi prodotti (la scienza, la tecnica, il mercato capitalistico), diventandone schiavo.
L'autore che tematizza con grande lucidità entrambe queste opposizioni è Georg Simmel. In due brevi saggi, rispettivamente del 1908 e del 1911, dal titolo Vom Wesen der Kultur e Der Begriff und die Tragödie der Kultur, egli muove dal grande dualismo tra cultura e natura, tra soggetto e oggetto, per descrivere la lotta attraverso la quale l'uomo riesce a vincere la natura, a imporle i suoi fini. Come sapevano benissimo anche Aristotele e Hegel, la fame, la sete, il freddo sono per l'uomo una 'natura' che egli può vincere soltanto fabbricando 'strumenti', erigendo cioè tra sé e la natura un mondo umano, all'interno del quale nulla è più semplicemente un evento naturale. È questa la grande 'astuzia' in virtù della quale l'oggetto viene assoggettato dallo spirito umano e, in un certo senso, tutto diventa cultura. Ma secondo Simmel il dualismo di cui stiamo parlando presenta anche una seconda istanza all'interno dello spirito stesso: infatti, dal dualismo soggetto-oggetto - che si esprime nel confronto dell'uomo con la natura e dal quale nasce la cultura - si sviluppa anche il dualismo tra il soggetto e i suoi oggetti culturali, i quali, una volta prodotti, sembra che, quasi per una sorta di destino, gli si debbano parare davanti in forma estranea e nemica.
Secondo Simmel questa è un po' la tragedia e il paradosso della cultura: sapere cioè che la vita soggettiva può realizzarsi non in se stessa, ma soltanto passando attraverso le forme (culturali) della propria estraniazione. Una volta infatti che la spontaneità dell'uomo ha dato vita alle più diverse forme culturali - dall'arte al diritto, alla scienza e via di seguito - queste forme acquistano autonomia, diventano una sorta di condizione e quindi di condizionamento della vita umana, tanto incuranti delle specifiche esigenze della nostra personalità, quanto lo sono le forze fisiche e le loro leggi. La cultura, insomma, sembra diventare, hegelianamente, una sorta di seconda natura che, in quanto tale, ha anch'essa una sua necessità, generando così uno squilibrio di fondo tra soggetto e oggetto, forse più difficile da neutralizzare di quanto fosse quello generato dal rapporto con la prima natura. E Simmel mostra come questo squilibrio, queste dissonanze della vita moderna siano da imputare alla differenziazione sempre più marcata tra le prestazioni culturali creative e la situazione culturale degli individui, cioè al fatto che, in virtù soprattutto del progresso tecnico, le cose del mondo che ci circonda diventano sempre più 'coltivate', ma gli uomini faticano sempre di più a far sì che alla crescente perfezione degli oggetti corrisponda una crescente perfezione della vita soggettiva.
Su analoghe 'dissonanze', seppure diversamente interpretate, avevano già richiamato l'attenzione Marx e Nietzsche: il primo, come vedremo, imputandole al modo di produzione capitalistico e il secondo alla 'religione nichilistica', cioè al cristianesimo. In ogni caso è proprio attraverso queste dissonanze che prende corpo in Germania la netta opposizione tra Kultur e Zivilisation, tra cultura e civilizzazione, ossia tra le attività soggettive - la religione, la filosofia, l'arte - intrinsecamente variabili e libere (cultura) e le attività oggettive, burocratiche, tecnico-economiche, il cui carattere è dato dalla continua accumulazione e dalla irreversibilità (civilizzazione). Da Max Weber a Tönnies, da Scheler a Simmel, da Spengler ad Alfred Weber, da Troeltsch a Meinecke, tanto per fare qualche nome, ovunque ritroviamo, seppure in diverse varianti, l'eco di tale opposizione, il timore cioè che in Occidente, come dirà Spengler in Der Untergang des Abendlandes (1914-1918), "il corpo vivo di un'anima" (la Kultur) stia ormai per lasciare il posto alla sua "mummia" (la Zivilisation): un'eco, questa, che, attraverso la mistagogia heideggeriana e la 'critica della ragione strumentale' elaborata dagli autori della Scuola di Francoforte, si fa sentire ancora oggi in certe forme di ostilità di principio nei riguardi della tecnica e di sterile e decadente pessimismo culturale.
3. Cultura e società
Comunque la si voglia interpretare, la cultura abbraccia la totalità dei prodotti dell'uomo; essa è all'opera sia allorché l'uomo coltiva la terra, sia allorché costruisce l'aratro per coltivarla o inventa un grande poema per cantarne la bellezza. Qualsiasi attività umana - spirituale o materiale non fa differenza - proprio perché umana, esprime una 'forma culturale', la quale, intrecciata con le altre forme culturali, va a costituire quello che potremmo definire il mondo culturale umano. Quest'ultimo però - ed è un aspetto che non può essere trascurato - è sempre anche una realtà sociale; è in società, non da soli, che gli uomini costruiscono il loro variegato mondo, incluse le innumerevoli istituzioni sociali. Da un lato, quindi, possiamo dire che la stessa società rappresenta una sorta di costruzione culturale; dall'altro, ci rendiamo conto che la società costituisce anche una condizione necessaria della cultura, il luogo dove vengono concretamente articolati e tramandati i suoi valori - si pensi al cosiddetto processo di socializzazione. La realtà umana si configura insomma come una realtà socio-culturale, tale per cui soltanto analiticamente possiamo distinguere il sociale dal culturale. Sulla scia di Max Weber e di alcuni suoi epigoni, quali Friedrich Tenbruck, potremmo affermare che tutta la cultura è intrisa di strutture sociali, così come ogni struttura sociale è intrisa di cultura. Cultura e società vengono a configurarsi come distinzioni necessarie di una realtà complessa in cui entrambe si condizionano e si compenetrano continuamente: da un lato, c'è propriamente cultura soltanto dove c'è società, dove cioè gli uomini vivono insieme; dall'altro, essendo l'uomo un animale culturale, anche le strutture e le relazioni sociali debbono diventare in qualche modo cultura, sviluppando 'significati' e 'simboli' che ne sostengano il dispiegamento.
È appena il caso di far notare che questo modo, diciamo così, 'weberiano' di intendere il rapporto tra cultura e società rappresenta per molti versi una sorta di alternativa al riduzionismo di tipo marxista, che tanto influsso ha esercitato sulla sociologia, secondo il quale la cultura altro non sarebbe se non un elemento 'sovrastrutturale' della società e, più precisamente, dell'economia. Come si legge nella celebre Einführung a Zur Kritik der politischen Ökonomie (1859), secondo Marx "non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza". Arte, religione, politica, diritto - in una parola, l'intero patrimonio culturale di una società e la stessa coscienza individuale - non sono altro se non epifenomeni di determinati 'rapporti di produzione'. L'economia è il vero elemento strutturale della società. La cultura non è altro che un fenomeno sociale di classe, che, grazie alla lotta del proletariato, potrà essere smascherato nel suo carattere di copertura 'ideologica' di interessi inconfessabili e realizzato invece nella sua verità.
Rispetto al monismo che caratterizza la dialettica marxiana tra struttura e sovrastruttura, la posizione weberiana, cui abbiamo fatto cenno precedentemente, tende a mantenere cultura e società come due livelli coestensivi e che si condizionano reciprocamente, quindi non riconducibili in toto l'uno all'altro, né nel senso di chi vuol spiegare la cultura in termini puramente economici, alla Marx, né nel senso di chi vuol spiegare l'economia in termini puramente culturali, ideali. Tuttavia, come in parte abbiamo già accennato, non è facile tenere in equilibrio questi due mondi. Se infatti il marxismo tende a ridurli a uno, altri autori, soprattutto in nome della diatriba che all'inizio del Novecento oppone la Kultur alla Zivilisation, tendono a separarli troppo nettamente. Emblematica, in proposito, la Kultursoziologie di Alfred Weber, per il quale il mondo creativo ed emozionale della cultura incomincia esattamente dove finisce quello dei rapporti sociali obiettivi creato dall'intelletto. In ogni caso, per quanto si tratti di un modo di pensare che tenderà a condizionare pesantemente un'intera generazione di studiosi, ci sono anche pregevoli eccezioni. Di Max Weber, certamente non del tutto immune dall'influsso del suddetto modo di pensare, abbiamo già detto. Altra eccezione significativa è rappresentata dalla Wissenssoziologie di Max Scheler. L'idea scheleriana secondo la quale ogni forma di sapere è condizionata dalla società e capace, al tempo stesso, di condizionarla, come pure la famosa dialettica tra 'fattori ideali' e 'fattori reali', alla quale egli riconduce in ultimo il processo storico nel suo insieme, consentono all'autore dei Probleme einer Soziologie des Wissens (1924) di diventare una sorta di padre spirituale di una sociologia della cultura preoccupata di evitare sia le secche del riduzionismo marxista, sia quelle del cosiddetto pensiero 'puro'.
Analoga preoccupazione ritroviamo in uno dei sociologi più importanti del XX secolo: l'americano Talcott Parsons. Dopo un confronto serrato con i classici del pensiero sociologico - Pareto, Durkheim e Weber - condotto in The structure of social action (1937), nel 1951 Parsons pubblica The social system, un'opera nella quale l'azione sociale, ossia il problema parsonsiano per eccellenza, viene ricondotta sostanzialmente a quattro sistemi, interagenti tra loro e solo analiticamente distinguibili l'uno dall'altro: l'organismo biologico, la personalità, il sistema sociale e la cultura. Ogni azione sociale presuppone, secondo Parsons, una messa in funzione di tutti e quattro questi sistemi, ciascuno dei quali svolge una funzione particolare, secondo il ben noto e complicato schema AGIL. L'organismo biologico svolge la funzione dell'adattamento (A, adaption); la personalità, mobilitando le energie psichiche necessarie, svolge la funzione del conseguimento di certi obiettivi (G, goal attainment); il sistema sociale svolge la funzione dell'integrazione (I, integration); la cultura svolge infine la funzione della latenza o del "mantenimento del modello", nel senso che l'attore attinge in essa tutte le norme e i valori che fanno da sfondo motivazionale dell'agire e che sono stati appresi durante il processo di socializzazione (L, latency, latent pattern maintenance).
Senza voler entrare troppo dettagliatamente nel merito del complesso schema parsonsiano, sembra importante sottolineare l'autonomia che in esso viene riconosciuta alla cultura, ma anche l'inscindibile connessione di quest'ultima con il sistema sociale. In sostanza, per Parsons la funzione principale della cultura è quella di favorire l'integrazione sociale. Tramite il processo di socializzazione, il sistema dei valori permea la personalità degli individui e determina un comportamento conforme alle aspettative della società. Di qui una certa tendenza da parte dell'autore a considerare più la statica che la dinamica del sistema culturale, più i suoi aspetti, diciamo così, organici e funzionali al mantenimento dell'ordine sociale che quelli pluralistici e conflittuali. In ogni caso Parsons rappresenta una sorta di crocevia obbligato per le principali correnti della sociologia della cultura contemporanea. Per quanto criticamente, è a lui che fa riferimento la famosa Theorie des kommunikativen Handelns (1981) di Jürgen Habermas, quale articolazione di una dialettica sociale dove la logica 'funzionale' di certi sistemi sociali, come l'economia o l'apparato scientifico-tecnologico, va sempre ricondotta a quella 'comunicativa' del cosiddetto 'mondo della vita'. Da un punto di vista di sociologia della cultura si tratta di una posizione tale per cui il patrimonio culturale-comunicativo di una comunità si sviluppa marxianamente come risposta a quanto avviene sul piano funzionale del lavoro, ma, analogamente a quanto sosteneva Parsons, nel farlo segue una logica propria.
Sempre a Parsons si riferiscono più o meno esplicitamente coloro che, come ad esempio Margaret Archer, intendono superare il 'mito dell'integrazione culturale', e coloro che, al contrario, come ad esempio Niklas Luhmann, appiattiscono la cultura a semplice risorsa semantica, buona semplicemente per assecondare il cambiamento sociale. In Culture and agency (1988), la Archer cerca di mostrare come la funzione integrativa della cultura sia da considerarsi non tanto come una sorta di prestazione universale, quanto piuttosto come l'esito di una particolare e rara congiuntura storico-sociale, tipica in genere delle società primitive, dove, in mancanza di conflitti sia a livello strutturale della società (cioè a livello di istituzioni e gruppi di interesse politico-economici), sia a livello culturale, si registra una specie di sovrapposizione tra struttura sociale e cultura. Per usare la terminologia della Archer, abbiamo una "morfostasi" quasi perfetta. Ma anche in questo caso si tratta in realtà di un momento transitorio, poiché le forze "morfogenetiche" sempre all'opera in entrambi i livelli finiscono, prima o poi, per produrre il cambiamento, il quale, secondo la Archer, può essere originato sia da fattori materiali che da fattori ideali. Ma la sociologa inglese - e qui sta l'originalità del suo contributo - non si accontenta di proclamare la reciproca influenza tra cultura e struttura; vuole anche approfondire le modalità della loro reciproca interazione, mostrando come e perché in certi casi la struttura è più influente della cultura e in altri, viceversa, la cultura è più influente della struttura. Ne scaturisce una teoria sociale nella quale la cultura può svolgere certo anche una funzione integrativa, più o meno come pensava Parsons, ma non è riducibile a questa soltanto. In particolare, viene rafforzata un'idea di cultura meno compatta di quanto emergesse dal sistema parsonsiano e soprattutto più 'attiva', se così si può dire, capace cioè di fare non soltanto da cassa di risonanza, ma anche da battistrada al cambiamento sociale.
Diverso è il discorso che viene sviluppato da un altro importante sociologo contemporaneo, certamente debitore del pensiero parsonsiano, ma assai più radicale nella sua impostazione funzionalista: Niklas Luhmann. Contrariamente a quanto pensava Parsons, la 'semantica', ossia il patrimonio culturale della società, per Luhmann non è un sistema autonomo; è semplicemente un deposito di significati sempre pronti per essere utilizzati, e quindi attualizzati, nella comunicazione, ossia nel processo di 'autopoiesi' dei vari sistemi sociali che, a suo avviso, è un processo selettivo tendente a ridurre la complessità. Da questo punto di vista i significati culturali rappresentano, allo stesso tempo, la premessa dell'operazione sistemica (infatti nessuna operazione avviene, se così si può dire, in un vuoto di senso) e il suo poter essere altrimenti (la consapevolezza cioè che si è comunque operata una selezione rispetto a una pluralità di alternative possibili), attestando così la radicale contingenza di tutto ciò che è. Se il marxismo e, in genere, le teorie evoluzionistiche del XIX secolo erano ancora interessati al problema delle cause, delle leggi, del fine dello sviluppo, la teoria sistemica luhmanniana concepisce invece l'evoluzione sociale come una forma di costruzione e di destrutturazione di determinati sistemi rispetto al loro ambiente. Come si può leggere in Gesellschaftsstruktur und Semantik. Studien zur Wissenssoziologie der modernen Gesellschaft (1980), la società non si sviluppa verso certi 'stati anticipati' che si cerca di raggiungere, bensì soltanto in reazione allo sviluppo stesso, ossia in reazione alla crescente complessità. Da questo punto di vista la costante produzione di qualcos'altro diventa non a caso l'unica legge, l'unica forma di 'irreversibilità' sistemicamente possibile. Per Luhmann non ha quindi alcun senso porre limiti normativi, razionali o d'altro tipo alla differenziazione sistemica; lo stesso problema se siano fattori culturali o piuttosto fattori materiali a fare da battistrada allo sviluppo della società diventa inconsistente; la 'semantica', ossia il patrimonio storico-culturale di una società, deve semplicemente adattarsi alla struttura funzionale della società stessa in modo da poter immagazzinare, ordinare e mantenere accessibili esperienze di senso sempre più contingenti. Pur orientando la comunicazione, sensibilizzandola su certi contenuti piuttosto che su altri, su certe tipizzazioni di senso piuttosto che su altre, su certe aspettative piuttosto che su altre, la semantica è sempre in ritardo rispetto ai mutamenti che si verificano nella struttura sociale e sempre inadeguata rispetto alla ricchezza di quanto in quest'ultima si produce; essa non fa altro che elaborare concetti rispetto all'eccedenza di simboli che si produce nella società. È come se a ogni stadio dello sviluppo funzionale della società fossero disponibili innumerevoli correlativi semantici; avranno il sopravvento quelli che funzioneranno meglio, quelli che più saranno all'altezza del livello di differenziazione e di complessità raggiunto dalla società.
Riferendosi a Parsons e alla sua idea secondo la quale il sistema sociale deve prestare attenzione soprattutto ai modelli culturali in grado di garantire un minimo di ordine, una ventina d'anni fa Friedrich Tenbruck denunciava il rischio che la sociologia potesse diventare una sorta di 'marxismo generalizzato' che usa la teoria della sovrastruttura senza confessarlo. A nostro avviso ciò vale certamente anche per Luhmann. Il suo funzionalismo non ha ovviamente nulla a che vedere con le istanze rivoluzionarie del marxismo, ma sembra condividerne uno dei principali motivi ispiratori, ossia l'idea che la cultura abbia solo incidentalmente a che fare con l'uomo, relegato nell'ambiente di un sistema sociale che funziona come se egli non esistesse, e dipenda invece strutturalmente dalle dinamiche materiali presenti nella società.
Le ragioni di questa forma di riduzionismo, indifferente e comunque incapace di comprendere il gioco di autonomia-interferenza in cui costantemente si trovano cultura e strutture sociali - su cui tanto insistono, ad esempio, la Archer e tutto quello che potremmo definire il filone della sociologia relazionale -, sono da imputare probabilmente a un difetto nella comprensione dell'uomo, in particolare all'incapacità di vedere come l'uomo, pur essendo un animale socio-culturale, non sia mai riducibile a questa sua natura socio-culturale, in quanto la trascende continuamente. In altre parole, ognuno di noi è certamente plasmato dalla cultura e dalle istituzioni della società in cui nasce e vive; queste, come ha ben sottolineato Ernest Gellner in The conditions of liberty (1994), rappresentano per noi un vero e proprio 'destino', qualcosa che, a rigore, si sottrae alle nostre scelte. È altrettanto vero, però, che i pensieri e le azioni degli uomini non sono mai il semplice 'riflesso' o il semplice 'correlato' della realtà socio-culturale nella quale essi nascono e vivono, né quando la accettano, né, tanto meno, quando la contestano o la rifiutano. Per quanto il mondo nel quale siamo nati rappresenti per noi un destino che ci rende inevitabilmente degli esseri socialmente e culturalmente condizionati, la relazione che instauriamo con esso è tuttavia sempre più o meno creativa, proprio perché, in quanto uomini, trascendiamo costantemente noi stessi e quindi anche le condizioni socio-culturali della nostra esistenza.
È proprio per via di questa trascendenza dell'uomo che bisogna fare i conti, da un lato, con il gioco imprevedibile di autonomia-interferenza tra cultura e società e, dall'altro, con la pluralità delle culture. Quest'ultimo problema, la pluralità delle culture, è oggi diventato assai scottante, a seguito soprattutto della cosiddetta globalizzazione, la quale, lo si voglia o meno, genera contiguità e commistioni mai viste prima. Oltretutto sono entrati progressivamente in crisi anche certi infausti schemi ottocenteschi, secondo i quali esisteva una sorta di primato indiscutibile da parte della cultura occidentale su tutte le altre, le quali andavano semplicemente 'civilizzate'. Siamo quindi costretti a ripensare il problema, sapendo che certamente non riusciremo a padroneggiarlo utilizzando la logica colonialista dell'assimilazione, alla quale ci siamo affidati fino a ieri, ma sapendo anche che non ci riusciremo nemmeno affidandoci a quella logica dell'indifferenza, così cara a tanto pensiero cosiddetto postmoderno, secondo la quale tutte le culture valgono allo stesso modo e possono convivere tranquillamente senza conflitti. Quest'ultima logica è stata scossa tragicamente dal terribile attentato terroristico alle Twin Towers di New York dell'11 settembre 2001. Resta il fatto che in un clima di persistente relativismo socio-culturale è difficile trovare le giuste ragioni per affermare, da un lato, la dignità di tutte le culture e quindi la possibilità o addirittura la necessità del dialogo, e, dall'altro, il diritto di ciascuna cultura, anche di quella occidentale, alla propria identità. A meno che non si torni a riflettere seriamente sulla dignità e sulla trascendenza dell'uomo, cosa che per noi occidentali significa poi ritornare a riflettere sulle nostre radici ebraico-cristiane e illuministiche.
4. I prodotti e le istituzioni culturali
Fino a ora abbiamo usato il termine 'cultura' per indicare principalmente le norme, i valori, i simboli, con i quali siamo soliti conferire un senso e un significato alla nostra vita individuale e sociale. Ebbene, se questo poteva indurci, in passato, a tirare in ballo i 'prodotti' più elevati dell'attività umana (la pittura, la scultura, la letteratura, la musica, le varie scienze e via di seguito), nonché le 'istituzioni' più prestigiose (le università, le accademie, i circoli culturali, i centri di studio in genere), oggi il contesto socio-culturale si presenta radicalmente mutato. Con l'avvento della cosiddetta 'industria culturale' tendono a mutare sostanzialmente sia i prodotti che le istituzioni culturali. I primi diventano prodotti 'di massa', caratterizzati tra l'altro da una crescente natura multimediale, dove il verbale, il visivo e l'acustico si fondono in forme sempre nuove; quanto alle seconde, esse finiscono per configurarsi sempre di più come aziende - che si parli di case editrici o reti televisive, ma anche di università - nelle quali assume sempre maggiore importanza l'apparato che viene a interporsi tra i creatori e i consumatori di cultura. A questo proposito va segnalata la particolare attenzione che soprattutto la sociologia americana contemporanea dedica ai meccanismi di produzione e riproduzione, alle diverse tecniche di commercializzazione del prodotto culturale, nonché alle diverse modalità di 'ricezione' del prodotto stesso. Due autori valgano per tutti: Diana Crane e Wendy Griswold. Ciò che emerge dai lavori di queste due studiose è un quadro dell'industria culturale e della cultura di massa complessivamente assai più articolato e complesso di quello delineato dalla Scuola di Francoforte, certamente egemone negli anni sessanta-settanta e a tutt'oggi ancora piuttosto influente. Già nel 1950, nel suo The lonely crowd, David Riesman aveva messo in evidenza i pericoli dell'uomo 'eterodiretto', ma in effetti la sociologia americana ha sempre avuto una particolare sensibilità per le ambivalenze della cosiddetta cultura di massa e del suo medium per eccellenza: la televisione. I lavori condotti da Paul Lazarsfeld nell'immediato secondo dopoguerra sulla selettività dell'influenza dei media sui diversi individui e i diversi gruppi sociali sono da questo punto di vista assai indicativi; la stessa cosa può essere detta, tanto per fare qualche esempio significativo, del modo in cui Edward Shils interpreta la cultura di massa o dell'opera di Marshall McLuhan e di come egli cerca di descrivere il passaggio dalla galassia Gutenberg a quella telematica. Tutti questi studi, seppure diversamente orientati, mostrano come l''arena culturale' prodotta dalla televisione non sia necessariamente il luogo della omologazione e della manipolazione, il segno dell'avvento di una cultura di massa come degradazione della cosiddetta 'cultura alta'. Può certo diventarlo e, in alcuni casi, sembra proprio che lo sia diventata. Ma, contrariamente a quanto pensavano i 'francofortesi', non c'è alcun nesso interno che debba necessariamente condurre a questo esito. Tanto è vero che su questo punto la sociologia della cultura tende ormai a prendere decisamente le distanze sia dal loro approccio 'critico-negativo', secondo il quale i media manipolerebbero la realtà secondo gli interessi delle élites sociali dominanti, sia da un certo approccio rigidamente funzionalista, secondo il quale i vari media sarebbero invece di per sé 'neutrali'. L'impatto dei media viene ormai concepito prevalentemente come la risultante dell'interazione tra i media stessi e i loro diversi tipi di pubblico. Gli spettatori interpretano i materiali televisivi in modi differenti a seconda della posizione sociale che occupano. Dietro l'apparente standardizzazione del messaggio si produce quindi una grande pluralità e una complessità che giustificano l'atteggiamento ambivalente nei riguardi di quello che la Crane, nel suo libro The production of culture, definisce il "paradigma della cultura mediale" (v. Crane, 1992). Se poi a tutto questo aggiungiamo il grande dibattito che si è aperto in questi ultimissimi anni sul significato di Internet e della cosiddetta rivoluzione digitale, credo che abbiamo qualche ragione in più per persistere in questa ambivalenza. Le nuove tecnologie di comunicazione sembrano aprire per gli individui e per le comunità scenari sempre più ampi e incoraggianti per lo sviluppo della loro autonomia e libertà, ma al tempo stesso sempre più preoccupanti riguardo alle possibilità di nuove e più insidiose forme di controllo sociale. La sociologia della cultura si fa carico oggi di questi problemi sia sul piano della riflessione teorica che su quello della ricerca empirica. Un suo compito non trascurabile, vista la posta in gioco, potrebbe essere quello di contribuire a tenere sempre viva nella società la memoria della natura e della dignità inviolabile dell'uomo, che costituisce in ultimo il suo oggetto.
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Economia della cultura
di Maria Chiara Turci
sommario: 1. Cultura/economia. 2. Contributi teorici: a) il pensiero economico; b) la 'malattia da costo'; c) l'economia della cultura, una disciplina del secondo Novecento. 3. Un altro presente: mutamenti dell'azione politico-sociale per i beni e le attività culturali in Italia e nell'Unione Europea. a) Azione privata e azione pubblica. b) Europa e cultura. 4. Le attività culturali e i 'conti degli Italiani': un conto satellite possibile. 5. L'azione culturale oltre il 2000. □ Bibliografia.
1. Cultura/economia
La relazione cultura/economia è indagata dall'economia della cultura, che ne analizza l'origine e le modificazioni, oltre a studiare l'incontro tra offerta e domanda di beni e/o servizi culturali. L'ambito di indagine dell'economia della cultura è parzialmente diverso nel pensiero anglosassone, che si occupa prevalentemente di economia delle arti, e in quello continentale, che spazia dal patrimonio storico-artistico allo spettacolo dal vivo, tenendo conto della centralità delle industrie culturali. Da questa impostazione, e sulla base dei principî dell'economia del benessere, deriva l'inserimento della cultura nei processi di sviluppo e il tentativo di dare una nuova e diversa definizione del prodotto interno lordo di un dato sistema economico, posto che i beni e/o i servizi culturali sono riconosciuti come necessari dalla stessa collettività e danno luogo a una domanda sia individuale, sia collettiva.
Le attività che rendono disponibili i beni e/o i servizi richiesti sono di natura commerciale (profit) e non (not for profit), e i servizi cui danno luogo possono essere vendibili o non vendibili. Alla quantità o modalità domandata deve o dovrebbe corrispondere una quantità offerta, che è possibile definire mediante l'analisi della struttura produttiva, dalla quale si ricava il 'percorso produttivo', in genere centrato su attività manifatturiere o di servizio. La specificazione e la complessità della struttura produttiva, realizzata dalla collettività, dà conto dell'effettivo ruolo ricoperto dalla cultura nella società in esame. Si osserva una coesistenza di 'unità di produzione' di dimensioni assai differenziate (piccole, grandi e anche a carattere sopranazionale) e una pluralità di realtà associative. La disparità evolutiva delle tecniche di produzione si accompagna a una gamma di beni e servizi altrettanto variata. Inoltre, molteplici produzioni non sono orientate al mercato.
Il 'percorso economico' mette in rilievo due aggregati di riferimento: quello dei produttori e quello dei consumatori; i flussi che da essi originano danno luogo al mercato, che dispiega i suoi effetti con l'uso di strumenti quali la comunicazione e il prezzo.
Vi sono particolarità nella generazione dell'offerta di cultura, peraltro definita scarsa, cui si deve prestare attenzione; ad esempio, il ruolo della critica d'arte tende a generare un valore economico per alcuni beni culturali con apprezzabili o dichiarate caratteristiche. È inoltre da considerare che nel caso dei beni culturali non si ha una relazione da cui scaturisce il prezzo, dato che di molti di questi beni non si ha un uso esclusivo. Si ha invece la definizione di un prezzo del servizio che esclude quei fruitori per i quali il rapporto tra l'utilità del servizio e il prezzo è più basso di quello di altri fruitori. Tuttavia, i beni culturali sono in molti casi 'appropriabili', nel senso che possono essere esclusi dalla fruizione di coloro che non ne sono proprietari: per essi esiste un 'mercato attivo' dove si formano prezzi, aspettative e specializzazioni relative tanto alla valutazione quanto al commercio. Una volta ammessa tale proprietà, si genera una domanda cui si contrappone un'offerta e si definisce un prezzo.
Nel mercato, la domanda culturale si relaziona con l'offerta sulla base di rapporti di utilità e di scarsità; la cultura si distribuisce tra gli individui in base ai rapporti di 'utilità/prezzo' e 'utilità/reddito'. Altrettanto avviene per la 'domanda di appropriazione'.
I fattori di benessere che sostengono la domanda sono riconducibili a una migliore distribuzione del reddito, a un generale innalzamento del livello di istruzione, a maggiore longevità e benessere fisico, all'aumentata disponibilità di tempo libero, a una più ampia diffusione dei consumi di livello superiore, a un primato dell'informazione e dei consumi immateriali, nonché a una sempre più generalizzata richiesta di miglioramento della qualità della vita e a un'attribuzione di priorità ai valori ambientali e culturali.
Il valore economico della cultura è messo in evidenza dal fatto che esistono molteplici bisogni che concorrono a determinare un campo di domanda caratterizzata da specificità e rilevanza sociale, da varietà e diffusione territoriale. Ma se si considera la cultura un bene collettivo, e per di più un bene necessario alla convivenza civile, si origina un'offerta particolare, poiché lo Stato si appropria dei beni culturali e li offre a servizio della domanda collettiva. Si delinea così un rilevante dilemma tra la natura collettiva e la natura di mercato dei beni, dal quale scaturisce un conflitto i cui effetti, in genere, alterano l'equilibrio del mercato stesso. Se, infatti, l'autorità pubblica restringe l'ambito di mercato, si determina un aumento di prezzo dei beni e una loro maggiore distribuzione in funzione della ricchezza disponibile. Inoltre, quanto maggiore è la quota di beni culturali che lo Stato sottrae alla fruizione, tanto più elevato è il costo economico della sottrazione medesima. Si pone, pertanto, il problema della scelta politica in funzione della soddisfazione dei diversi bisogni collettivi. Quali possono essere le vie d'uscita da questo dilemma? I sentieri finora percorsi per ricomporre il dilemma sono due. "Nei paesi dove prevale il mercato, lo Stato stimola il privato a trasformare il proprio desiderio di appropriazione in una funzione di servizio al pubblico: pur accrescendo così la natura pubblica (non escludibilità) del bene culturale, non se ne accresce necessariamente la natura collettiva: la produzione di cultura resta pur sempre affidata al mercato. Nei paesi dove prevale il Leviatano, lo Stato assegna ai beni culturali un obiettivo di altra natura (strategico, di prestigio) sostenendo così la domanda collettiva di cultura rispetto alle altre domande collettive: rischiando che il mercato renda i beni culturali requisiti irrilevanti, e lasciando a questo la funzione di creare nuova cultura" (v. Leon, 1991, p. 29).
Varie possono essere le soluzioni di compromesso tra mercato e collettività per non cristallizzare il dilemma tra Stato e mercato. Infatti, dato che nel caso della cultura il confronto è fra una domanda, per definizione illimitata, e un'offerta che può essere opportunamente gestita, tenendo conto che si ha un eccesso di capacità, è pertanto possibile soddisfare la domanda senza costi aggiuntivi. Se, invece, si punta sul progresso tecnico, si possono perseguire obiettivi di offerta più ampi a costi più contenuti. Ma a chi spetta l'azione? "Nella situazione presente è difficile affermare che questo compito spetti soltanto allo Stato: non cosciente della necessità di superare il trade off, lo Stato tende o a isolarsi dal mercato o a reprimere con la propria autorità bisogni insopprimibili di mercato. Il compito di richiamare i duellanti alle aspettative della collettività, che si compongono pur sempre di domanda culturale privata e di domanda culturale collettiva, spetta a chi ne è cosciente: tra gli altri a chi si occupa di economia della cultura" (ibid., p. 31).
2. Contributi teorici
Solitamente l'avvio della riflessione economica sull'arte e sulle molteplici attività culturali viene collocato nel Novecento, anche se un'attenzione alla funzione politico-sociale della cultura si può rinvenire fin dal Quattrocento, quando si concretizzarono forme di mecenatismo che miravano a privilegiare le arti e la creatività per sostenere e 'illuminare' la guida di un determinato territorio e della sua gente. Faremo pertanto riferimento alla cultura concepita come 'sviluppo' verso uno Stato sociale più complesso, ossia come insieme di eventi caratterizzanti la vicenda storica del genere umano o di una sua determinata parte. Tuttavia, si è trattato di riflessioni frammentarie che a fatica hanno condotto a delineare una teoria sul ruolo, le funzioni e le potenzialità dei segni più pregnanti del vissuto umano. Non è, quindi, così facile addivenire a una definizione dell'economia della cultura, quale disciplina che individua e analizza il campo di rilevanza di esiti economici correlati alle funzioni e ai 'precipitati' determinati dalla cultura.
Le riflessioni economiche sulla cultura vennero limitate per lungo tempo al campo dell'arte, secondo la tradizione anglosassone, ma attualmente l'economia della cultura è intesa come la disciplina che analizza i paradigmi dei molteplici comparti della cultura: dal patrimonio culturale - considerato nel senso più ampio, fino a includere i beni librari e i manufatti urbani - allo spettacolo dal vivo, dalle arti visive ai mezzi di comunicazione e alle industrie culturali. Si può infatti osservare che i legami tra le industrie culturali, le arti dal vivo e le arti figurative sono molto più forti di quello che normalmente si ritiene. Libro, disco, cinema, radio e televisione e, più in generale, l'insieme dei media sono comparti che entrano a pieno titolo nel campo dell'economia della cultura, ovvero si tratta di un insieme di attività di mercato e non. Negli Stati Uniti, invece, la televisione viene fatta rientrare nel campo dell'economia della comunicazione.
Inoltre, come ha giustamente osservato Leon, "la cultura è definita sempre a posteriori: mentre viviamo e agiamo, produciamo cultura, ma il nostro scopo è vivere ed agire, non produrre cultura. [...] D'altra parte, la cultura si sostanzia in oggetti - paesaggi, monumenti, dipinti, libri, spartiti, macchine - si materializza in beni che, per sentieri complessi, diventano la rappresentazione della cultura; e di questi beni abbiamo bisogno perché essi ci richiamano alla mente l'essere. Si tratta, per noi, di beni necessari - non meno necessari dell'acqua e del cibo - perché costituiscono la nostra capacità di riconoscerci. Ma se esiste un bisogno di beni culturali, allora esiste una domanda ed un'offerta di quei beni: e l'economia della cultura è uno dei modi di osservare come nascono, come si modificano e come si incontrano la domanda e l'offerta di beni culturali" (v. Leon, 1991, p. 24).
Questa complessità non favorisce l'enunciazione incontrastata di concetti di base e apre a una dicotomia di definizioni, come rileva Walter Santagata: "Sono infatti necessari due tipi di definizioni: la prima concerne l'essenza di un bene culturale, la seconda serve a determinare l'area dell'attività economica in cui si creano, producono, distribuiscono e consumano tali beni [...]. C'è chi considera i beni artistici come beni anomali, non riconducibili al proprio modello teorico (D. Ricardo), c'è chi li considera come pure merci alla stregua di qualsiasi altro bene manifatturiero (W. Grampp, D. Throsby), c'è chi sottolinea l'esigenza di tener conto della componente estetica (G. Mossetto, W. Pommerehme e J. M. Granica), c'è chi li considera beni di informazione collegati a un supporto materiale o immateriale (M. Hutter), c'è chi li considera semplicemente beni pubblici, c'è poi chi mette in primo piano il carattere duale dei beni artistici: beni semiofori, a un tempo 'segno e oggetto', 'simbolo e merce' (E. Panofsky, W. Santagata)" (v. Santagata, 1997, pp. 24-25).
a) Il pensiero economico
La letteratura economica sull'arte e la cultura appartiene in larga parte alla seconda metà del Novecento. Precedentemente pochi economisti si sono interessati all'arte o alla cultura, se non con fugaci riflessioni che hanno contribuito però a tracciare un sentiero di sviluppo dell'approccio economico. Tanto Adam Smith (v., 1776) quanto David Ricardo (v., 1817) consideravano improduttiva la spesa per le arti, poiché rivolta alle attività del tempo libero. Smith, infatti, delinea la cultura come l'ambito naturale del lavoro non produttivo: "Come la declamazione dell'attore, l'arringa dell'oratore, la melodia del musicista, l'opera di tutti loro si esaurisce nel medesimo istante in cui viene compiuta" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 326). Egli osserva tuttavia che il lavoro artistico è caratterizzato da investimenti di lungo periodo molto costosi, dato che "l'istruzione nelle arti dell'ingegno e nelle libere professioni è ancora più faticosa e dispendiosa. Perciò la retribuzione dei pittori e degli scultori, degli avvocati e dei medici, dovrebbe essere molto più generosa, come di fatto è" (ibid., p. 101); ovvero, la remunerazione dell'artista è più elevata poiché comprende anche il costo di formazione. Inoltre Smith sembra riconoscere, seppure implicitamente, alcuni effetti indiretti (o esternalità) delle attività culturali: "Dando un incoraggiamento, cioè concedendo completa libertà a tutti coloro che, per interesse proprio, cercassero senza scandalo o indecenza, di allietare e divertire la gente con la pittura, la poesia, la musica e la danza, e ogni specie di rappresentazioni e spettacoli, lo Stato dissiperebbe facilmente nella maggior parte del popolo la malinconia e l'umor tetro che sono quasi sempre alla base della superstizione e del fanatismo popolari" (ibid., pp. 784-785).
Anche Alfred Marshall nel 1890 dibatte nei Principii di economia sulla natura e il valore dei 'beni culturali', osservando che "la possibilità di viaggiare, di frequentare i luoghi ameni della natura, i musei, ecc. sono un complesso di beni materiali esterni rispetto all'uomo, benché la facoltà di apprezzarli sia interna e personale". E aggiunge che "i beni non materiali dell'uomo appartengono a due categorie. Una consiste delle sue proprie qualità e capacità di azione e di godimento, quali, ad esempio, l'abilità negli affari, il talento professionale o la capacità di trarre ricreazione dalla letteratura o dalla musica. Queste qualità e capacità risiedono nell'uomo stesso e vengono chiamate interne. Quelle della seconda categoria vengono chiamate esterne poiché consistono in rapporti vantaggiosi per lui e per il prossimo" (v. Marshall, 1890; tr. it., p. 54). Inoltre Marshall sostiene che l'analisi dei consumi culturali dà luogo a una condizione implicita all'interno della teoria dell'utilità marginale, osservando che "noi non supponiamo che sia lasciato il tempo per qualsiasi mutamento del carattere e dei gusti dell'uomo stesso. Non costituisce quindi eccezione alla legge che quanto più buona musica un uomo ascolta, tanto più forte diverrà presumibilmente il suo gusto per quell'arte" (ibid., pp. 91-92).
Quanto alle considerazioni intorno all'arte espresse da Keynes nel 1936, esse non possono essere ricondotte a un incipit di analisi economica, ma dimostrano come l'economista inglese propendesse per il mecenatismo. "Se è difficile per lo Stato incoraggiare espressamente le arti private e personali, fortunatamente esse ne hanno meno bisogno, dal momento che non richiedono quella struttura, quelle dimensioni e quelle spese che soltanto una comunità organizzata è capace di fornire. Ma rimane un'attività che è necessariamente pubblica e per questa ragione è caduta in conseguenza della dottrina succitata in una desuetudine quasi assoluta, ossia gli spettacoli e le cerimonie pubbliche [...]. A qualunque costo l'esistenza di opportunità idonee a soddisfare questo bisogno umano quasi universale dovrebbe avere un posto importante nell'arte di governare: e un sistema sociale che indebitamente lo trascuri può accorgersi di averlo fatto a proprio rischio" (v. Keynes, 1936; tr. it., pp. 29-30). Di questa sua profonda convinzione è prova certa la sua partecipazione alla costituzione di un fondo per il sussidio a quegli artisti la cui fama, ancora fragile, non può assicurare la loro sussistenza.
Anche se non si è ancora di fronte a un'analisi compiuta del settore culturale, nella disamina teorica condotta sin qui è possibile rilevare l'emergere progressivo di concetti di base per l'economia della cultura, come 'investimenti di lungo periodo', 'richiamo al sostegno sia pubblico che privato', 'remunerazione con un forte grado di incer-tezza', 'utilità marginale crescente', 'esternalità'.
La teoria classica del valore-lavoro concentra l'attenzione sui beni riproducibili e di conseguenza esclude, in modo esplicito, dal suo campo d'interesse i beni artistici e culturali che, per definizione, non sono riproducibili. "La difficoltà di applicare la teoria classica alla produzione artistica e culturale deriva anche dal fatto che questa teoria, da David Ricardo a Piero Sraffa passando per Karl Marx, si fonda sul concetto di lavoro 'semplice' e sulla possibilità di ridurre il lavoro qualificato a lavoro 'semplice'. E questa operazione, come scrive anche Paul M. Sweezy, è certamente impossibile quando si tratta del lavoro di un artista o del lavoro culturale. Per giunta la distinzione, propria del pensiero classico, tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, contribuisce in misura decisiva a emarginare dal campo economico la riflessione sui beni artistici e culturali" (v. Finoia, 1997, p. 28).
Nell'ambito del pensiero marginalista non si hanno invece difficoltà a considerare le attività culturali come attività economiche. Già Lionel Robbins, agli inizi degli anni trenta, definendo possibili gli obiettivi delle attività economiche solo mediante un uso razionale, ovvero efficiente, delle risorse, sempre limitate e suscettibili di impieghi alternativi, non esclude nessun rapporto che si possa instaurare tra produttore e consumatore, in quanto soggetti razionali, e quindi neppure il rapporto tra artista e 'acquirente'.
Lo stesso Oskar Lange, fondatore della teoria economica del socialismo, ha applicato all'esecuzione musicale il principio di razionalità economica, osservando che "il modo razionale di suonare il piano è quello in base al quale il pianista ottiene il massimo effetto con un dato impiego di tempo (oppure un dato effetto con il minimo impiego di tempo)" (v. Lange, 1959). È comunque William D. Grampp che, redigendo un trattato sulla pittura e sul comportamento dei pittori, sistematizza la teoria sull'arte e sugli artisti, partendo dall'approccio marginalista (v. Grampp, Pricing ..., 1989). Il pensiero di Grampp si sviluppa intorno al ruolo e al significato dell'arte e ne mette in luce aspetti positivi e negativi: "L'assistenza governativa all'arte è un trasferimento involontario di risorse dalla collettività alle organizzazioni artistiche e al loro pubblico. Il trasferimento non trova opposizione in quanto il costo per coloro che ci perdono è ridotto ed essi sono numerosi, mentre i destinatari sono pochi e ne beneficiano sostanziosamente" (v. Grampp, Rent-seeking ..., 1989; tr. it., p. 179). Il risultato è il perseguimento di 'rendite di posizione' che viene a costituire una ragione importante del sostegno governativo nei confronti dell'arte.
b) La 'malattia da costo'
L'espressione 'economia delle arti' fu coniata da William Baumol già all'inizio degli anni sessanta, quando affrontò il problema del fondamento teorico del finanziamento pubblico delle arti dello spettacolo (v. Baumol e Bowen, 1966). Baumol, come egli stesso racconta, lavorò al problema "spassionatamente, come se si avesse a che fare con l'economia della più banale delle merci" (v. Baumol, 1989), e lavorò sia con gli strumenti dell'analisi economica, sia mediante indagini dirette sulla fruizione degli spettacoli, nonché sui dati dei bilanci di molti teatri e di diverse compagnie teatrali. Da queste analisi empiriche trasse elementi per elaborare il 'modello di malattia da costo', che successivamente è stato impiegato anche nell'analisi di altri settori, come, ad esempio, l'istruzione. "Un quartetto di Boccherini - osserva Baumol - composto nel diciottesimo secolo e che ha un tempo di esecuzione di mezz'ora, richiedeva due ore-persona di esecuzione a quell'epoca e richiede esattamente la stessa quantità di tempo oggi" (ibid.). L'ipotesi verificata dal modello è che la produzione di opere, commedie, concerti, balletti non può giovarsi del progresso tecnico e, quindi, conseguire aumenti di produttività, che consentano una riduzione dei costi. Finoia induce a considerare come il 'morbo di Baumol', in tempi di elevato progresso tecnico, abbia effetti esplosivi sulla produzione di concerti e spettacoli. "Il loro costo di produzione aumenta relativamente al costo dei prodotti posti in essere con 'dosi' crescenti di progresso tecnico. Il risultato per i concerti e gli spettacoli è la perdita di competitività e la loro scomparsa dal mercato a vantaggio di beni succedanei quali il disco, il cinema, la televisione" (v. Finoia, 1997, p. 29). Ma è lo stesso Baumol a rilevare che se un tipico manufatto di un secolo fa poteva costare all'incirca quanto la produzione di un concerto o di un balletto, oggi, grazie al crescente differenziale della produttività, ne costa soltanto circa un ventesimo; tale osservazione lo induce ad affermare che, se sul piano politico si ritiene che le attività dello spettacolo non debbano scomparire, queste non solo andranno finanziate a spese del contribuente, ma dovranno giovarsi di finanziamenti crescenti. La 'malattia da costo', comporta, pertanto, che "la costanza dei contributi finanziari in termini reali è semplicemente insufficiente [...] se si vuole che le attività artistiche non scompaiano" (v. Baumol, 1989).
c) L'economia della cultura, una disciplina del secondo Novecento
Nel mondo anglosassone sono, dapprima, alcuni teorici economici dedicatisi allo studio delle istituzioni economiche, come John Kenneth Galbraith (v., 1973) e Kenneth Boulding (v., 1978), a cercare di definire la rilevanza delle arti nell'economia. Il primo prevede che le arti assumeranno un ruolo economico crescente e ritiene opportuno che la loro gestione sia affidata non tanto agli intermediari finanziari, quanto ai conservatori che hanno dato prova di minor imprudenza. Ovvero, le decisioni a favore dell'arte non debbono essere prese da persone estranee al mondo dell'arte (v. Galbraith, 1983).
L'approfondimento teorico riceve contributi determinanti particolarmente con gli studi di Baumol e Bowen (v., 1966) sullo spettacolo dal vivo, quelli di Gary Becker sull'arte come "bene economico esperienza" (v. Becker, 1965) e sul consumo di beni (v. Becker e Stigler, 1977), il cui piacere di fruizione aumenta con il tempo, e quelli di Alan T. Peacock e della scuola di public choice che, dal 1969 a oggi, si spingono a tracciare le linee della futura economia della cultura.
Le conclusioni di questi studiosi sono nettamente divergenti. "Mentre Baumol e Bowen dimostrano con successo che l'economia della cultura è tributaria delle sovvenzioni pubbliche, i secondi cercano di riavvicinarsi ai paradigmi tradizionali dell'economia politica: Becker sostiene che i comportamenti culturali restano razionali e massimizzanti anche in materia di consumo, e gli ultimi dimostrano che la stessa razionalità spinge le amministrazioni ad appropriarsi delle rendite, mentre i gruppi di pressione si appropriano dei risultati dell'intervento pubblico" (v. Benhamou, 2000; tr. it., p. 17).
In Inghilterra è soprattutto il lavoro di John Myerscough (v., 1988) che ha avuto notevole effetto nell'appoggiare la richiesta di un maggior sostegno dello Stato alle attività culturali avanzata dall'Arts Council.
L'economia della cultura ha acquisito diritto di cittadinanza tra le discipline economiche negli anni novanta. Il riconoscimento istituzionale viene testimoniato dall'analisi di David Throsby, pubblicata nel "Journal of economic literature" (v. Throsby, 1994). La disciplina ha sviluppato un proprio campo e dei suoi metodi. "A questo riconoscimento hanno contribuito tre fattori: lo sviluppo della propensione a generare flussi di reddito e di occupazione, il bisogno di valutare decisioni in materia di cultura e, sul piano teorico, l'applicazione dell'economia politica a nuovi settori (economia delle attività ricreative, revisione del supporto di razionalità, economia delle organizzazioni, economia dell'informazione e dell'incertezza)" (v. Benhamou, 2000; tr. it., p. 17).
Nei primi anni novanta, inoltre, Baumol ha proposto un aggiornamento del suo modello di comportamento economico, basandosi sull'osservazione che la produttività globale è crescente e ciò consente - nonostante le difficoltà finanziarie delle amministrazioni - di indirizzare maggiori risorse verso settori come la cultura, la sanità o la formazione.
La possibilità di raggiungere tali finalità sta nella convinzione che siano sufficienti semplici modificazioni nelle proporzioni di reddito da dedicare ai diversi prodotti. L'idea che i consumatori non possano permettersi di far fronte a costi crescenti dell'istruzione, della sanità o della stessa cultura è un mero abbaglio fiscale e in un paese dove le risorse sono abbondanti tutto dipende dai programmi di spesa sottoscritti dai cittadini mediante le scelte politiche (v. Baumol, 1976).
"Punto fondamentale è se il sistema politico agisce anche approssimativamente in modo analogo a un mercato perfettamente competitivo o meno. [...] L'analogia tra il processo politico e il mercato è utile e non induce a mettere in discussione l'assunto che le istituzioni politiche potrebbero essere strutturate in modo da riflettere maggiormente i desideri dei consumatori/elettori svolgendo al meglio il loro ruolo di guardiani platonici delle preferenze. Ciò che viene messo in discussione è se nelle istituzioni politiche esistenti ci si avvicini a una concorrenza 'gestibile' [...] non essendo [politici e funzionari pubblici] incentivati a sviluppare indicatori dei risultati [; essi perciò] godono di una notevole discrezionalità nell'attribuzione delle risorse [...]. Non intendo accreditare l'idea che una maggior trasparenza nelle politiche artistiche e nei criteri di finanziamento porterebbe necessariamente a una pressione dei consumatori/elettori a fare le cose in modo diverso" (v. Peacock, 1997, pp. 17-18).
Le problematiche e gli esiti delle attività culturali alimentano l'economia della cultura che diventa terreno privilegiato per la verifica di nuove idee. Mark Blaug ha affermato che "l'economia dell'arte costituisce una sorta di terreno di sperimentazione sull'adeguatezza dei fondamentali concetti economici" (v. Blaug, 1976, p. 13), ed è intuitivo associare questo paradigma di lettura a quello definito dalla 'nuova microeconomia'.
Throsby (v., 2001, p. 164) approfondisce tale osservazione, rilevando come l'economia della cultura possa contribuire a una migliore definizione del modello di sviluppo sostenibile perseguito dalla comunità internazionale mediante un 'nuovo paradigma di sviluppo' centrato sui modi di essere della collettività (identità) e prefigurando la totalità dei suoi bisogni materiali e immateriali, in modo da diminuire o annullare la collisione degli interessi intergenerazionali.
3. Un altro presente: mutamenti dell'azione politico-sociale per i beni e le attività culturali in Italia e nell'Unione Europea
Per apprezzare i caratteri maggiormente distintivi dei mutamenti intervenuti in Italia nell'azione politico-sociale a favore dei beni e delle attività culturali è parso opportuno volgere lo sguardo all'ultimo decennio del Novecento, un decennio in cui sono stati fatti passi significativi verso una concezione dei beni culturali non tanto e non solo come patrimonio, ma anche, e soprattutto, come risorsa. Una visione, questa, che trova riscontro tanto nella realtà pubblica, quanto in quella privata.
Cronologicamente il sorgere di tale nuova concezione può collocarsi intorno al 1975, anno in cui viene istituito il Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, al quale sono trasferite tutte le competenze in materia di beni culturali fino ad allora affidate al Ministero della Pubblica Istruzione. In questa prima fase, tuttavia, è soprattutto l'attività di tutela che ha maggior respiro, mentre sarà soprattutto l'irrobustimento della domanda per servizi culturali, durante gli anni ottanta, che porterà a focalizzare l'attenzione sulle problematiche connesse alla valutazione e alla fruizione.
A questo proposito non va dimenticata la contradictio in adiecto rilevata da Giuseppe Galasso a proposito della definizione di 'beni' per le cose che, contemporaneamente, vengono definite 'culturali', dato che "si tratta di un bene che può rispondere, paradossalmente, alla logica della domanda e dell'offerta, ma non a quella dei bisogni e dell'utilità, a cui risponde ogni bene economico; che può rispondere alla logica della rarità e, addirittura, dell'unicità, ma non a quella di una naturale commerciabilità, neppure nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" (v. Galasso, 1991, p. 14). Lo studioso argomenta l'eccezione rilevata precisando che "non contraddice affatto, a quanto si è osservato, l'affermazione che i beni culturali sono, tuttavia, anche una risorsa economica, e non delle minori [...]. Non contraddice sia perché un aspetto mercantile è ravvisato fin troppo chiaramente, nella circolazione dei beni culturali, sia, ancor più, perché i beni culturali formano l'oggetto notorio e riconosciuto di attività e istituti (gallerie, musei, manifestazioni, mostre, ecc.) passibile di una gestione più o meno strettamente imprenditoriale e quindi più o meno legata a una prospettiva di profitto" (ibid., pp. 15-16).
Nel corso degli anni ottanta la caratterizzazione dell'azione politico-sociale per i beni culturali è dovuta preminentemente alle politiche di intervento del Fondo per gli Investimenti e l'Occupazione (FIO), tese a stimolare una presenza attiva dell'investimento pubblico mediante una programmazione policentrica di mercato ispirata a un sistema di valori socio-economici determinato a livello centrale. A livello periferico, invece, si realizzano progetti intesi come insieme coordinato di azioni per il raggiungimento di un obiettivo economico e sociale.
La sfera di attività dell'azione pubblica è assai ampia e va dalla conservazione al recupero, dalla tutela alla valorizzazione, implicando sempre più momenti di gestione fattiva e richiedendo un'organizzazione ad hoc. La complessità dell'azione pubblica ha caratterizzato gli anni novanta, nel corso dei quali si sono prospettate alcune importanti iniziative per la gestione e valorizzazione dei beni culturali su base federalista e anche con il coinvolgimento di soggetti privati.
a) Azione privata e azione pubblica
L'analisi delle sovvenzioni alla produzione, ovvero della politica culturale all'interno dello Stato sociale, ruota attorno al problema di una giusta attenzione ai 'diritti culturali', respingendo sia le pretese di uno Stato del tutto patrocinante, sia tagli indifferenziati e regressivi dell'intervento pubblico. I cittadini devono contribuire ai costi dei servizi, anche quelli culturali, in misura corrispondente al loro reddito. Valutare le politiche culturali, individuando criteri e parametri di misura, significa disporre di un quadro di riferimento in cui soggetti, finalità, strategie e mezzi tendono ad armonizzarsi. Questo quadro non può prescindere da un'interpretazione del ruolo dello Stato e del mercato. Indirizzare la scelta politica, condizionata da vincoli economici, verso un'equilibrata commistione di azione pubblica e azione privata, è quanto viene continuamente ridiscusso dai fautori dell'una e dell'altra parte, sospinti da interessi specifici, da preoccupazioni politiche e sociali, da cooperativismi. La presenza e l'iniziativa del privato, del pubblico non statale e dell'associazionismo nei campi della tutela, promozione e sostegno alle attività culturali e ai beni a esse connessi sono divenuti un elemento strutturale in un paese come l'Italia, dove l'abbondanza e la precarietà di tali beni culturali, l'inefficienza delle gestioni, la complessità e farraginosità burocratiche hanno condotto, naturaliter, a una incentivazione dell'apporto privato.
È, questa, una scelta collaudata nei paesi anglosassoni, dove tuttavia la presenza pubblica nella cultura è occasionale e per singoli punti di eccellenza. Nell'Europa continentale, dove invece la tradizione assegna al settore pubblico la responsabilità della conservazione e della gestione della generalità dei beni culturali, l'introduzione di interessi e influenze non statali è più difficile da realizzare, sia per l'atteggiamento del settore pubblico, sia per il ruolo che il settore privato si autoassegna.
Il punto di partenza della discussione sulle sovvenzioni è stato lo studio delle reazioni delle "istituzioni e delle imprese culturali all'offerta alternativa di sovvenzioni forfetarie o legate alla 'produzione'" (v. Throsby e Withers, 1979; v. West, 1985). In particolare, l'attenzione si è concentrata sul confronto delle reazioni delle imprese profit e not for profit, come preliminare alla valutazione dell'effetto benessere in entrambi i casi. L'analisi mostra che la produzione è maggiore e il prezzo inferiore nel caso dell'impresa not for profit. Ne segue che, sia nel caso di una sovvenzione forfetaria, sia in quello di una sovvenzione commisurata alla produzione, l'impresa not for profit aumenta maggiormente la produzione, mentre quella con fini di lucro, sebbene abbia un incentivo ad aumentare la produzione, lo farà solo nella misura in cui ciò è compatibile con la massimizzazione del profitto. Se l'obiettivo di una politica è quello di ridurre al minimo l'entità delle sovvenzioni, allora la sovvenzione dovrebbe essere concessa solo alle imprese not for profit.
"Come si è visto, beni e attività culturali non sono solo 'beni di merito', ma anche beni che soddisfano la domanda individuale [...]. Poiché la natura delle utilità derivate è doppia, chiunque si occupi di gestire i beni culturali deve operare efficacemente per massimizzare il ricavo dalla domanda pagante, anche allo scopo di evitare che l'intervento pubblico per la natura meritoria dei beni e delle attività finisca per sussidiare la domanda individuale. È vero che, in un sistema fiscale progressivo, il prezzo in termini di imposta pagato da chi esprime una domanda individuale è probabilmente sotteso all'imposizione progressiva: tuttavia, non vi è ragione di pensare che i consumatori di beni e attività culturali siano solo i ricchi, che appunto pagherebbero l'imposta progressiva e, per questa via, anche la parte individuale dell'utilità. Inoltre, il sistema fiscale complessivo non è propriamente progressivo [...]. Ora, se l'intervento pubblico è giustificato dalla natura di merito dei beni, ma questi hanno anche natura di beni di mercato, la struttura dell'offerta dovrà tenerne conto, e misurare i conflitti che ne nascono" (v. Leon, 1999, pp. 143-144).
A questo proposito si distinguono gli obiettivi della struttura centrale di tutela dagli obiettivi di valorizzazione. Questi ultimi ricomprendono le risposte sia alla domanda collettiva che a quella individuale. "Se la struttura centrale si occupa della tutela, e la valorizzazione è vista come risultato secondario e facoltativo, allora non sarà possibile assicurare una gestione efficiente ed efficace dei beni e delle attività. Se, invece, la struttura centrale si occupa soltanto della tutela, allora la valorizzazione può essere affidata sia agli enti locali sia al settore privato (di mercato o terzo settore)" (ibid., p. 144).
In Italia, sono le azioni normative (d. l. 112/98 e 368/98) predisposte a valle della legge 59/97, relativa ai provvedimenti di riforma della pubblica amministrazione del ministro Bassanini, che indirizzano attualmente il rapporto tra Stato, Regioni ed Enti locali nell'ambito dei beni e attività culturali. Gli elementi innovativi del rapporto, secondo una sintetica evidenziazione di Pietro Petraroia, possono essere ricondotti a: 1) l'adozione da parte delle Regioni di un'imponente serie di norme sui beni e i servizi culturali, nonché sullo spettacolo dal vivo e sulla produzione cineaudiovisuale (l'entrata in vigore di ciascuna legge regionale, implica di fatto e di diritto l'inclusione della normativa regionale nell'ambito delle fonti normative del paese); 2) il rafforzamento istituzionale e formale del rapporto fra Stato e Chiesa cattolica sui temi della conservazione e dell'uso dei beni culturali ecclesiastici, attraverso l'intesa sottoscritta nel 1996, in attuazione dell'art. 12 del Concordato del 1984. È la prima volta che, con il d. l. 112/98, artt. 154 e 155, la Chiesa cattolica è ufficialmente 'titolata' a concorrere alle attività di programmazione a livello regionale; 3) il conferimento, da parte della legge 142/90, di spazi di autonomia organizzativa, soprattutto a Comuni e istituti culturali; 4) l'affidamento a soggetti economici privati della gestione di alcuni servizi e funzioni, detti 'aggiuntivi' dalla legge 4/93: il processo innescato è rilevante, dato che proprio questo provvedimento è - culturalmente, se non giuridicamente - all'origine della domanda crescente e insistente di privatizzazione; 5) l'invenzione della programmazione negoziata: il sistema normativo che la definisce comincia, infatti, a essere in grado di finalizzare e governare organicamente l'impiego razionale di risorse rese disponibili dai governi nazionali, territoriali, locali e da altri soggetti aderenti - anche non pubblici - verso specifici obiettivi attentamente valutati, condivisi e sviluppati in termini di pianificazione operativa; 6) l'apparizione nella normativa italiana del concetto di 'standard minimi' di gestione: si tratta di una vera novità, che il d. l. 1112/98 (art. 150, comma 6°) applica a musei e altri beni culturali statali la cui gestione venga trasferita "secondo il principio di sussidiarietà, alle Regioni, alle Province o ai Comuni". Recentemente il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, l'ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), l'UPI (Unione delle Province Italiane), il Comitato italiano dell'ICOM (International Council of Museums) e l'ANMLI (Associazione Nazionale dei Musei di Enti Locali e Istituzionali) hanno cominciato a lavorare in modo fattivo benché informale, sedendo insieme a un unico tavolo promosso dal Coordinamento degli assessori regionali con delega per i beni culturali. È la prima volta che un lavoro di questo tipo viene affrontato in Italia con un approccio sistematico, a livello 'nazionale' (che non equivale solo a 'statale') e inter-istituzionale; 7) l'avvio sperimentale di sistemi innovativi di gestione degli istituti statali di antichità e d'arte, come l'abolizione della tassa d'ingresso e la sua sostituzione con una tariffa; oppure l'attribuzione alla Soprintendenza di Pompei (per effetto della l. 352/96) di una sorta di autonomia gestionale. Cominciano a esservi, finalmente, elementi concreti per i primi bilanci dei tentativi condotti dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti locali per creare all'interno della propria compagine modalità innovative di gestione; 8) l'inedita possibilità per il Ministero per i Beni e le Attività Culturali di costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società: l'innovazione, disposta dall'art. 10 del d. l. 368/98, può essere di grande interesse se collegata a progetti di recupero strutturale e funzionale di grandi complessi immobiliari di pregio monumentale. Lo studio di fattibilità funzionale e la definizione del modello di gestione vengono così a precedere, logicamente e cronologicamente, sia la progettazione del restauro, sia la definizione della forma giuridica del soggetto cui si prevede di affidare la responsabilità della gestione globale del complesso o di parti significative di esso durante o dopo l'intervento, come ad esempio i servizi e le strutture comuni (v. Petraroia, 1999, pp. 149-152).
Inoltre, per anni si è atteso che il legislatore istituzionalizzasse gli strumenti per l'interazione pubblico/privato nella cultura e utilizzasse la leva fiscale per incentivare la partecipazione dei privati al processo di valorizzazione del settore, richiamando con intenti migliorativi e soprattutto applicativi la legge 512/82 relativa al regime fiscale dei beni d'arte, la quale avrebbe potuto trasformare il cittadino interessato in un 'mecenate'. I recenti provvedimenti legislativi (art. 59, comma 3°, della legge finanziaria del 2001, art. 38 della legge 342/2000) hanno dato spazio a un proficuo incontro tra Stato e organismi privati come Confindustria, ABI (Associazione Bancaria Italiana), ANIA (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici) e Assolombarda (tutti membri del Comitato propositivo per l'impresa culturale). Gli strumenti con cui operare sono riconducibili, da un lato, ad accordi o costituzione di associazioni, fondazioni o società, oppure alla totale deducibilità dal reddito di impresa di erogazioni liberali a favore di soggetti operanti nel settore dei beni culturali e dello spettacolo. Quest'ultima misura è tuttora la più avanzata in Europa. Quanto alle 'fondazioni di partecipazione', la legge finanziaria del 2002 prevede che le amministrazioni pubbliche possano affidare la gestione dei servizi culturali e del tempo libero a fondazioni partecipate dalle medesime amministrazioni.
Da questa breve e incompleta rassegna delle nuove condizioni di operatività emerge un quadro delle politiche culturali assai modificato rispetto a quello di riferimento in Italia negli anni settanta. Viene infatti a essere del tutto innovato il ruolo degli Enti locali in funzione di una migliore interpretazione dell'articolazione dei pubblici poteri in senso federalista, ovvero si tende a un "policentrismo per pluralismo" (v. Leon, 2002, p. 82).
"Alla luce del trattato di Maastricht, occorre individuare le vie attraverso le quali la gestione dei beni culturali, anche nei comuni più piccoli, può divenire realmente un fattore di sviluppo civile [...]. Applicando quelle prescrizioni del d. l. 112/98 al patrimonio culturale e allo spettacolo, emerge chiaramente l'esigenza di una prioritaria azione promozionale di interventi sistemici, capaci cioè di sviluppare forme di gestione a rete non soltanto dei servizi al pubblico ma anche delle prestazioni, per così dire, di back-office [...]. Le quote regionali di finanziamenti del Fondo sociale europeo, se correttamente finalizzate e rigorosamente gestite, potrebbero essere un volano importante proprio della riforma della pubblica amministrazione secondo principi di sussidiarietà [...] e [...] potrebbero essere sostenute politiche di aggiornamento del personale degli Enti locali, nonché azioni di promozione di nuova imprenditorialità, secondo criteri di efficacia ed efficienza, per lo sviluppo e la gestione di sistemi integrati di beni e servizi culturali" (v. Petraroia, 1999, pp. 153-155).
b) Europa e cultura
In ambito europeo, la cultura ha trovato spazio e attenzione. La riflessione delle istituzioni europee ha privilegiato i fenomeni di decentramento e di partecipazione nel corso degli anni settanta, mentre gli aspetti economici e la managerialità hanno guidato la riflessione sulla politica culturale da delineare nel corso degli anni ottanta. Economia e managerialità, decentramento e partecipazione hanno avuto un ruolo centrale anche nel corso degli anni novanta. L'inserimento a pieno titolo della cultura fra le competenze dell'Unione Europea, sancita per la prima volta dall'art. 128 del Trattato di Maastricht nel 1992, rafforza tale ruolo. "Semmai l'esperienza degli anni ottanta - dove abbiamo assistito non all'invasione del mercato da parte della cultura, ma della cultura da parte del mercato - ci ha reso oggi più saggi, più attenti, più volontaristici nello sforzo di ripristino del ruolo della cultura nella società europea post-moderna", affermava Gabriele Mazza, responsabile delle Politiche e Azioni culturali del Consiglio d'Europa nei primi anni novanta, e continuava: "si tratta di un impegno non puramente difensivo, ma che richiede pensiero positivo e azione efficace [...]. Occorre altresì una riapertura del dibattito sui diritti culturali come diritti dell'uomo; una riconsiderazione delle responsabilità nel settore culturale; un approfondimento del discorso nelle identità culturali; infine un integrale ripensamento del ruolo dell'educazione in relazione alla cultura" (cit. in Bodo, 1992, pp. 34-35).
Cultura e istruzione dovranno non solo darsi il cambio e completarsi reciprocamente, ma anche agire di concerto, con le altre politiche comunitarie e con i mezzi ad hoc rappresentati da un 'arsenale di programmi' culturali, nel contesto più ampio dell''Europa dei cittadini'. Il riferimento è a un ambito di difficile realizzazione "se non ponendo il concetto di prossimità al primo rango dell'insieme delle politiche comuni" (v. Reding, 2000, p. 10).
Da questa breve analisi sugli orientamenti della politica culturale nell'Unione Europea risulta che "alcuni dei fattori che più influiscono sulla definizione delle priorità politiche sono: la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica ed informatica, la ricerca di nuovi posti di lavoro, la proiezione dell'immagine internazionale, l'esigenza di un maggior coordinamento in ambito governativo, il riconoscimento delle sinergie fra la cultura e gli altri settori, l'esigenza che i finanziamenti pubblici alla cultura siano messi in relazione alla creazione di valore aggiunto" (v. Fisher, 2002, pp. 79-80). A essi si riconnettono le problematiche che investono l'azione culturale in ambito europeo.
4. Le attività culturali e i 'conti degli Italiani': un conto satellite possibile
Data la complessità dell'area economico-sociale che fa riferimento alle attività culturali, la costruzione di un conto satellite relativo alle attività culturali rappresenta lo strumento più adatto per delimitare e quantificare in termini statistici l'area culturale, per isolare i soggetti, le transazioni, i processi produttivi significativi e, infine, per collocare tutti questi elementi nell'ambito di un sistema di contabilità più ampio. Il conto satellite delle attività culturali si presenta come un quadro di sintesi statistica, finalizzato alla programmazione economica, mediante la conoscenza e la valorizzazione di quel settore culturale che costituisce una ricchezza distintiva dell'Italia. Dalla costruzione di un conto satellite (v. Turci, 1998) si possono far derivare: a) analisi territoriali appropriate di domanda e offerta di beni e/o servizi culturali, che permettano l'individuazione di fasce potenziali di consumatori che ancora manifestano diffidenza o scarso interesse nei confronti della cultura; b) analisi occupazionali che indichino interessanti aree da prendere in considerazione per non lasciare sfuggire occasioni di sviluppo legate, ad esempio, alle tecnologie applicate all'industria culturale; c) quantificazioni del settore cultura a livello macroeconomico ed elaborazione di misure della situazione attuale e/o territoriale mediante opportuni indicatori (propensione al consumo di beni e servizi culturali, quota di consumo finale destinata ai beni culturali, indici di localizzazione, indice di servizio, indice di fruizione della qualità territoriale, ecc.).
Il conto satellite della cultura può tradurre i flussi di scambio che si realizzano all'interno del settore culturale in entità valutabili in termini economici. Esso rappresenta, pertanto, una quantificazione economica dell'attività culturale e attraverso la stima di alcuni aggregati dà conto della consistenza economica del settore in termini di consumi, produzione, occupazione e spesa pubblica. Permette, quindi, di individuare aree di stimolo non solo per la produzione, ma anche per i consumi, e di valutare il contributo al reddito. Infine, si può pervenire a una stima del peso del settore culturale rispetto al totale del sistema produttivo, ovvero si può disporre di una misura del grado di apporto che l'insieme delle attività culturali fornisce allo sviluppo economico del sistema (intorno al 5% nella seconda metà degli anni novanta).
Ma le forti potenzialità di questo strumento contabile sono affievolite tanto da problemi attinenti al processo di definizione della cultura come settore statistico-economico, quanto dalla indisponibilità di un'opportuna informazione sulla pluralità delle attività culturali, nonché dalle lacune e inadeguatezze delle fonti statistiche attualmente disponibili, oltre a una generica insufficienza di dettaglio. Tale carenza, a sua volta, ha ostacolato la formazione di un aggregato statistico nei conti nazionali capace di misurare in modo completo la struttura complessa del settore. Nel sistema di contabilità SEC (Sistema Europeo dei Conti economici) ai beni e alle attività culturali non è intestata alcuna branca di attività nella quale classificare le unità di produzione omogenee relative ai beni o servizi culturali prodotti. Sulla base degli esiti del processo di armonizzazione a livello comunitario anche per le statistiche culturali, si è operata una ricognizione delle informazioni quantitative disponibili per la realtà economica italiana. Infatti le sue componenti si disperdono nelle statistiche ufficiali in voci residuali e, comunque, fortemente disomogenee. Alcuni servizi culturali rientrano nella nuova classificazione delle attività economiche ATECO '91, utilizzata per il Censimento dell'Industria e dei Servizi (CIS), come altri servizi pubblici, sociali e personali. Altre attività, inerenti soprattutto allo spettacolo riprodotto e all'industria culturale, sono comprese nel settore manifatturiero.
Quanto all'analisi dei principali aggregati economici del settore, dati pressoché grezzi sono forniti dalle statistiche culturali dell'ISTAT (Istituto Centrale di Statistica) e in particolare nei bilanci degli Enti locali, o da statistiche di fonti non ufficiali. Solo per la spesa culturale in alcuni comparti disponiamo di una serie di dati, così come per la misura della partecipazione del pubblico. Infatti dati disaggregati per lo spettacolo dal vivo e per l'editoria sono forniti in modo accurato dalla SIAE (Società Italiana degli Autori ed Editori) e rielaborati dall'ISTAT, che cura anche particolari statistiche sulla fruizione museale.
Il problema della esigua disponibilità, e in alcuni casi della totale mancanza, di informazioni statistiche è inoltre rilevante per avviare un'approfondita analisi sia della spesa pubblica che di quella privata.
5. L'azione culturale oltre il 2000
"La cultura conta: i finanziamenti, le risorse e l'economia della cultura per uno sviluppo sostenibile" è il tema del Convegno di Firenze, promosso nell'ottobre del 1999 dalla Banca Mondiale, dall'UNESCO e dal governo italiano. L'evento ha rappresentato il momento del riconoscimento e della consacrazione ufficiale da parte delle più importanti autorità politiche ed economiche - alle soglie del terzo millennio - del ruolo determinante della cultura nell'ambito di una strategia mondiale tesa a coniugare sviluppo economico e sviluppo sociale.
Per favorire e assicurare una condizione di operatività alle politiche e alle attività culturali è, pertanto, fondamentale saper promuovere le dinamiche economiche e sociali. Due criteri risultano fondamentali. In primo luogo, all'azione culturale deve essere assicurata l'accessibilità - per consentire la comprensione e il godimento dei frutti della cultura - e il dibattito pubblico e democratico, dato che la cultura coinvolge direttamente l'etica dell'uguaglianza e l'etica del pluralismo. In secondo luogo, l'azione in campo culturale non può limitarsi solo alla messa a disposizione di risorse finanziarie per specifici progetti: è preliminare la costruzione di adeguate infrastrutture giuridiche e amministrative.
Il lavoro di institutional building deve partire dalle tradizioni di ciascun paese, dato che sono molti e diversi i modelli istituzionali nel campo delle politiche per il sostegno della cultura. I soggetti che muovono l'azione sono quattro - lo Stato, gli Enti locali, il settore not for profit e il settore privato - e ciascun paese presenta una combinazione variabile di interazione. Inoltre, poiché la cultura presenta componenti pubbliche, componenti meritorie e componenti private, essa viene definita, da un punto di vista economico, un 'bene misto'. Questa caratteristica va tenuta presente sia nel lavoro di costruzione istituzionale, sia in quello di organizzazione dei progetti di intervento.
La natura mista dei beni e delle attività culturali e l'obiettivo del pluralismo modulano l'intervento a favore della cultura, coinvolgendo soggetti assai diversi e imponendo il metodo del cofinanziamento.
L'attenzione deve essere portata a tutti i comparti culturali, nonché alla creatività culturale stessa e deve essere contrastata ogni tendenza alla marginalizzazione delle culture locali.
La promozione dell'espressione artistica di ciascun paese, favorendo nel contempo la formazione degli operatori e le ricadute industriali e produttive, non dovrebbe essere disgiunta dalla valutazione e dal controllo dell'impatto culturale delle politiche di aggiustamento e di modernizzazione strutturale, ovvero si dovrebbe portare attenzione agli eventuali effetti negativi sulla cultura determinati dalle diverse politiche di sviluppo approntate. Il sentiero da percorrere è quello tratteggiato da alcune esperienze di 'distretti culturali' entro cui è possibile rinvenire creatività, organizzazione, tutela ed effetti diffusivi a livello economico-sociale.
bibliografia
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